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Autore: _wtf    31/12/2016    1 recensioni
Avrebbe avuto così tante cose da dirgli, così tante scuse da fargli, ma stette in silenzio, versando lacrime amare senza sosta, ma che fossero per la disperazione o per la rabbia che teneva ancora in corpo, lui non lo sapeva.
[...]
E sentì infine la voce dentro la sua testa che tentava invano di fermare il mannaro che era diventato, di impedirgli di far del male ad uno dei suoi migliori amici, mentre ormai il lupo prendeva il sopravvento, cancellando l’ultimo briciolo di razionalità che gli era rimasta, appartenente all'umano che, in fin dei conti, era davvero.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: I Malandrini, Lily Evans | Coppie: Remus/Sirius
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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Quella sera un vento leggero di fine Novembre increspava leggermente la superficie del Lago nero e le alghe sulla riva oscillavano avanti e indietro, chinandosi inesorabilmente al volere di quella brezza autunnale; le foglie degli alberi vicini si sollevavano in piccoli vortici, per poi ricadere inermi sul terreno ancora umido a causa della pioggia caduta poco prima. La luna si stagliava alta nel cielo e i suoi raggi illuminavano il parco che circondava il castello, ogni tanto oscurati da qualche nuvola di passaggio. Quell’aura di tranquillità e quiete che aleggiava sul parco di Hogwarts non avrebbe destato sospetti né negli studenti che sbirciavano fuori dalle finestre delle Sale Comuni, né tantomeno negli insegnanti che, rintanati nei loro uffici, godevano di quei pochi momenti di pace all’interno del castello.
Nessuno di loro si sarebbe dunque accorto di quei piedi che, velocemente, si allontanavano dal portone di ingresso diretti verso la Foresta proibita. 
Dannazione James, te l’avevo detto che avresti dovuto comprare un mantello più grande, i nostri piedi sono scoperti!” -quel sussurro leggermente irato sarebbe stato udibile solamente se qualcuno si fosse avvicinato alla fonte del rumore.
Sir, non posso farci nulla se nel giro di qualche anno siamo cresciuti in altezza. E poi lo sai, questo mantello è unico nel suo genere, non ne troverei uno uguale da nessuna parte. –il ragazzo accanto alzò gli occhi al cielo in segno di protesta silenziosa- Ad ogni modo, è un bene che Peter si sia trasformato prima di uscire dal castello, altrimenti sarebbe stato davvero impossibile stare tutti e tre sotto il mantello senza farci vedere dal custode all’ingresso.” –un ghigno divertito si fece largo sul viso del ragazzo con gli occhiali a luna, che nel frattempo si avviava con passo svelto trascinando il suo compagno verso quella che, da lontano, sembrava una grande quercia.
Il Platano Picchiatore fu  piantato l’anno del loro arrivo a Hogwarts dall’attuale preside della scuola, e adesso occupava gran parte della visuale; i rami oscillavano minacciosi sopra le teste dei ragazzi, sferzando l’aria e qualsiasi sfortunato animale osasse avvicinarsi quel che bastava per finire sulla loro traiettoria. Il tronco si attorcigliava e ripiegava su se stesso, per poi inclinarsi pericolosamente verso il suolo e rialzarsi con altrettanta velocità.
Dopo essersi posti a debita distanza, i ragazzi si sfilarono il mantello di dosso, ripiegandolo e infilandolo con cura in una delle tasche del mantello.
Si guardarono di sfuggita, sorridendo beffardi, per poi volgere i loro sguardi verso l’incombente pianta; nel giro di qualche secondo, al loro posto si trovavano un enorme cervo marrone e un cane nero delle stesse dimensioni di un lupo.
Senza alcuna esitazione i due animali si avvicinarono all’enorme albero, e quando diedero il segnale, un topo delle stesse dimensioni di una tazzina da caffè sfrecciò tra le radici, schivò un colpo particolarmente violento e si gettò di peso su un nodo vicino al tronco.
Come se il tempo si fosse fermato, i rami del Platano si immobilizzarono a mezz’aria, sospesi in un istante di quiete quasi innaturale che tuttavia durò  ben poco, giusto il tempo per permettere ai tre animali di scivolare dentro un’apertura, quasi invisibile, ai piedi dell’albero.
Poi, come se qualcuno avesse schiacciato la modalità veloce, il tronco si abbatté con violenza al suolo.
 
Se qualcuno avesse udito quei rumori provenienti dalla casa diroccata in cima alla collina, avrebbero certamente pensato che fosse infestata da un gran numero di spettri, forse la maggior parte di quelli presenti in Gran Bretagna.
Circa una volta al mese, infatti, urla, stridii, grida disperate e rumori di sedie infrante potevano essere uditi durante la notte e fino alle prime luci del mattino; non a caso col passare del tempo gli abitanti di Hogsmeade cominciarono a chiamare quell’abitazione con il termine di Stramberga Strillante e nessuno aveva, fino ad allora, osato avvicinarsi all’edificio.
Man mano che i tre Animagi si facevano lentamente spazio tra i mobili infranti e le pietre cadute dal soffitto di quel tunnel sotterraneo, i rumori si facevano sempre più intensi, finché un grido da far rizzare i capelli dietro la nuca non li costrinse a fermarsi di botto.
Il cervo si voltò verso il cane nero al suo fianco, gli occhi colmi di apprensione e un briciolo di paura.
In risposta, Felpato distolse lo sguardo e continuò a camminare, ora in testa al gruppo; quando furono davanti la porta che dava l’accesso ad una delle numerose stanze della Stramberga, spinse con il muso in modo da aprirla e, per quanto fosse possibile, indietreggiò verso i suoi compagni.
Un enorme mannaro era addossato sulla parete difronte loro, i canini affilati martoriavano la pelle su uno dei propri arti inferiori; tutto intorno, numerose serie in mille pezzi erano accasciate lungo le mura di quella stanza e il baldacchino era stato spostato di qualche metro, proprio sotto la finestra.
Quando li udì Lunastorta alzò il muso verso di loro, scoprendo i denti affilati ed emettendo un ringhio alquanto sinistro; fece qualche passo in direzione di Felpato che, invece, rimase immobile, le orecchie ritte sulla testa e la coda tra le zampe.
Non era la prima volta che i tre Animagi si recassero alla Stramberga Strillante per tener compagnia al loro amico durante le notti di luna piena, e di solito serviva qualche minuto prima che il mannaro si rendesse conto che fossero loro e che dunque non era necessario attaccarli.
Quella volta, tuttavia, successe tutto nel giro di qualche secondo; il lupo si catapultò verso il cane, conficcandogli gli artigli sul fianco sinistro e sollevandolo di peso, mordendogli ripetutamente la zampa.
Lo sguardo allarmato dei suoi compagni non era nulla in confronto a quello di Sirius, inerme e vacuo, mentre si abbandonava al volere del mannaro, che lo trascinava con la zampa tra i denti.
No, quello non poteva essere Remus.
Quella frase rimbombava nella mente del ragazzo, mentre il dolore al fianco raggiungeva il picco e tutto intorno gli oggetti si facevano più sfocati.
Questo non è il Remus che conosco.
Fu l’ultimo pensiero concreto che riuscì a formulare, prima che il mannaro, ormai soddisfatto del suo lavoro, lo lanciasse con forza contro una delle pareti della stanza, mandando in frantumi una serie di soprammobili appoggiati sul tavolino.

Le luci dell’infermeria del castello vennero accese di colpo, uno scalpitio e l’affrettarsi di passi attirarono l’attenzione di uno dei ragazzi sdraiati sul letto.
Remus continuava a tenere gli occhi chiusi, le coperte fin sopra la testa, cercando di origliare un minimo della conversazione.
Nonostante si sforzasse da un paio d’ore, della notte precedente non riusciva a ricordare nulla, e il fatto che i suoi tre amici non fossero accanto a lui adesso lo allarmava parecchio.
“Ragazzi, quante volte devo ancora ripetervelo? Non siamo in orario di visite, quindi cortesemente accomodatevi fuori dall’infermeria prima che sia costretta a chiamare il Preside!” –la voce di Madama Chips giunse acuta e con una nota di isteria alle orecchie del ragazzo.
“Non ce ne sarà bisogno, mia cara Poppy. I ragazzi si trovano qui sotto mia stretta autorizzazione, quindi li lasci entrare.
Inoltre, ritengo che il signor Lupin sia abbastanza sveglio da aver origliato metà dell’attuale conversazione e che, al momento, non abbia bisogno di ulteriore riposo.”
–le gote del giovane si tinsero di un vivace color porpora nell’udire il preside, e barcollando si mise seduto sul letto, guardandosi attorno.
Ebbe giusto il tempo di vedere Silente e Madama Chips chiudersi all’interno dell’ufficio dell’infermeria, coinvolti in una fitta conversazione, quando si ritrovò due dei suoi compagni ai piedi del letto, gli sguardi preoccupati e nervosi che correvano da una parte all’altra dell’enorme stanza.
“Remus come stai?”
“Abbiamo tentato di arrivare il prima possibile ma Madam..”

“Ragazzi, sto bene, davvero. Non è la prima volta che mi portano in infermeria dopo una nottata del genere, quindi perché vi allarmate tanto?” –il giovane sorrise cordialmente ai suoi amici, che in risposta si scambiarono uno sguardo allibito.
“Rem, tu non ricordi davvero nulla di ieri notte, è così?” –l’aria attorno al ragazzo si fece un po’ più pesante, mentre si guardava attorno e sul suo viso compariva un’espressione sconcertata.
“No ragazzi, perché? Cosa dovrei ricordare?” –lo sguardo di Remus si spostava sui suoi compagni, in attesa di una risposta.
“James? Peter? Dov’è Sirius?” –quelle parole uscirono dalle sue labbra senza che potesse frenarle, mentre una nuova, terribile consapevolezza si faceva largo nella mente del licantropo.

Uno. Due. Tre. Quattro.
Il rumore delle nocche che sbattevano contro il muro ricordava vagamente quello di un legnetto che si spezza a metà sotto il peso di un corpo; echeggiava all’interno del bagno dei prefetti al quinto piano, rimbalzava sulle pareti e ritornava infine alle orecchie del ragazzo che adesso stava disteso per terra, la schiena contro le tubature di uno dei numerosi lavandini e la testa poggiata sulle ginocchia.
Il suo corpo era scosso dai tremiti, ma dai suoi occhi non usciva nessuna lacrima; dalle mani, strette in pugni lungo i fianchi, cadevano piccole gocce di sangue, fortemente in contrasto con il pavimento bianco perlaceo.
Remus non ricordava da quanto tempo fosse chiuso lì dentro, né sapeva se qualcuno lo stesse cercando; quella mattina, dopo aver saputo del ricovero al San Mungo del suo amico, il ragazzo era corso fuori dall’infermeria, la vista offuscata dalle lacrime, e si era fermato solamente quando le voci dei suoi amici erano ormai troppo distanti per essere udite.
Si era rifugiato nel bagno dei prefetti, il quale solitamente non veniva usato se non di rado il sabato mattina, e aveva cominciato a scagliare contro il muro tutto ciò che gli capitava a tiro, imprecando a voce alta nella sua mente.
Avrebbe dovuto saperlo che era da sciocchi consentire a quei tre di diventare Animagi, due anni prima, solamente per tenergli compagnia durante le notti di luna piena; era stato da stupidi non avvisarli che lo stress accumulato in quella settimana sarebbe sfociato in rabbia dopo la sua trasformazione e che sarebbe stato pericoloso stargli accanto quella notte.
Ma era ancora più da stupidi non aver avuto il coraggio di confessare almeno a sé stesso che tutto quello stress, l’ansia e la frustrazione potevano essere ricondotti ad una sola persona, e invece aveva preferito far finta di nulla, eclissare i suoi sentimenti convincendosi che fosse semplicemente lo stress di inizio anno e la consapevolezza dei G.U.F.O.

Era così immerso nei suoi pensieri che non si rese conto che la porta del bagno si era aperta e che qualcuno lo fissava, fermo sull’uscio; solamente qualche minuto dopo, udendo un formicolio dietro la nuca, alzò la testa dalle ginocchia, rivelando un viso solcato da profonde occhiaie.
“Lily, che cosa ci fai qui?” –il tono di voce fu più duro e aspro di quanto realmente volesse.
“James mi ha detto che eri scappato ed ho pensato che probabilmente avrei potuto trovarti qui.” –la ragazza dai lunghi capelli rossi fece qualche passo in avanti, esitando, per poi sedersi al suo fianco, lo sguardo rivolto verso le proprie scarpe.
“Beh, dovresti dire a James che potrebbe farsi i fatti suoi, per una dannatissima volta.” –sbottò lui, chinando di nuovo il viso e pentendosi immediatamente delle parole che aveva pronunciato.
“Senti Remus, so che sei frustrato, incazzato, nervoso e che vorresti affogarti dentro la piscina o tuffarti di netto dal trampolino senza nemmeno riempirla d’acqua, ma adesso devi stare a sentirmi. –la ragazza alzò lo sguardo, incatenando i suoi occhi verde smeraldo con quelli ambrati dell’amico– Non è stata assolutamente colpa tua, non eri in te l’altra notte e non avresti potuto controllare o fermare in nessun modo quello che gli stavi facendo. E sono certa che anche lui lo sappia.”
Ma avrei potuto impedirgli di venire! Avrei potuto benissimo dire ai ragazzi che non era il caso di venire alla Stramberga, quella volta, e che sarei stato in grado di cavarmela da solo! E invece no, la mia solitudine e le mie stupidissime paure mi hanno portato a questo, e adesso…guarda che cosa ho combinato adesso!” -urlò lui, il viso bagnato dalle lacrime che ormai non tentava nemmeno di frenare.
Lily non rispose, ma abbassò lo sguardo e prese le mani dell’amico tra le sue, sfiorando leggermente i tagli sulle nocche.
“Loro ti vogliono molto bene, Rem, non dimenticarlo –sussurrò infine dopo qualche minuto di silenzio. Gli rivolse un ultimo sguardo, per poi alzarsi ed incamminarsi lentamente verso la porta- Comunque Silente mi ha detto di dirti che ti aspetta nel suo ufficio tra dieci minuti, e che questa settimana gli andrebbe molto di assaggiare delle Caramelle Mou.”
Quando il giovane alzò lo sguardo, la porta del bagno dei prefetti al quinto piano si era già chiusa.
 
L’ufficio del preside emanava un’aura particolarmente suggestiva: gli oggetti, collocati in modo casuale all’interno della stanza, sibilavano senza sosta da dentro l’armadio, da sopra il tavolino o dall’interno di un cassetto della scrivania.
I numerosi quadri, che occupavano ogni angolo delle pareti, ospitavano i vecchi presidi della scuola, che in quel momento chiacchieravano animatamente tra di loro, spostandosi da una cornice all’altra senza sosta.
Dopo essersi chiuso la porta alle spalle, il ragazzo si guardo attorno curioso; era la prima volta che entrava nell’ufficio di Silente, e non poté fare a meno di spostare lo sguardo da una parte all’altra ammirato.
Buonasera, signor Lupin, prego si accomodi.” –la voce del preside fece sobbalzare il ragazzo, che timidamente si fece avanti, prendendo posto sulla poltrona difronte la scrivania.
“Ho sentito, mio malgrado, del piccolo inconveniente avvenuto ieri notte e me ne rammarico moltissimo. Non ho proprio idea di come il giovane Black si possa essere trovato in quel luogo –e, nel dire ciò, lo guardò in maniera torva- ma sono sicuro che sia stata solamente una sfortunata coincidenza.”
“Professore, le giuro che non era affatto mia intenzione…” –Remus tentò di giustificarsi, ma fu costretto a tacere ed abbassare il capo subito dopo, giocando distrattamente con il lembi del proprio maglione, ormai sgualcito.
“Sono fermamente convinto, signor Lupin, che non fosse assolutamente sua intenzione condurre Black con lei durante l’ultima notte di luna piena, e ritengo dunque che lei non abbia alcun motivo di lasciarsi sopraffare dall’ansia o dai sensi di colpa.
Piuttosto, mi piacerebbe che mi accompagnasse in un una visita di cortesia, se sempre non ha nulla da fare in questa bellissima domenica mattina.”
–a quelle parole il giovane volse lo sguardo verso il preside, guardandolo in maniera interrogativa; annuì, infine, mettendosi in piedi ed avviandosi verso la porta.
Si fermò, tuttavia, quando vide Silente volgersi verso la parte opposta, afferrando una piuma d’oca. La posò infine sulla scrivania, agitando la bacchetta sopra di essa in un movimento fluido e lineare, muovendo appena le labbra in un incanto silenzioso; lo strano oggetto si illuminò di un azzurro brillante, tremò leggermente, per poi cadere di nuovo sul freddo legno.
“Prego, dopo di lei –allo sguardo incerto del ragazzo il preside si mise in piedi- oh certo, che sciocco. Deve toccare la piuma, signor Lupin.”
Remus fece come gli era stato detto: sentì uno strappo in un punto poco sopra l’ombelico, ed ebbe la sensazione che i suoi piedi si staccassero dal pavimento dell’ufficio del preside.
All’improvviso una forte luce bianca gli colpì gli occhi, mentre alle sue orecchie giungevano numerose voci. Quando riaprì gli occhi, si guardò attorno scombussolato, ritrovandosi in un enorme atrio; diverse poltrone erano addossate alle pareti, intervallate da alcuni tavolini su cui erano posate un paio di riviste babbane.
Si sentì spingere da una mano posata sulla sua spalla lungo un corridoio stretto e malamente illuminato, sulle cui mura si affacciavano alcune cornici ritraenti uomini e donne in un camice verde limone.
I due si infilarono in un ascensore, e di sfuggita vide il preside schiacciare il pulsante che li avrebbe condotti al primo piano, prima che le porte si chiudessero e la cabina si muovesse, cigolando in maniera sinistra.
Risvegliatosi da uno stato di trans, Remus si ritrovò a percorrere l’ennesimo corridoio al seguito del preside; la consapevolezza di ciò che stava effettivamente facendo lo assalì solamente quando urtò contro la schiena dell’uomo che stava difronte a lui, fermatosi di fronte la stanza 756C.
Silente spinse piano la porta, e quando il ragazzo vide ciò che vi era al suo interno, un improvviso perso gli cadde sullo stomaco, impedendogli di respirare, e qualsiasi parola avesse in mente di proferire gli morì istantaneamente in gola.

Quattro letti erano collocati in due file parallele, e accanto ad ognuno stavano dei piccoli comodini; solamente un letto, tuttavia, era effettivamente occupato. Le tende delle finestre erano state tirate leggermente, lasciando intravedere un cielo di un grigio opaco al di fuori dell’edificio.
L’Ospedale San Mungo si trovava nel centro di Londra, in corrispondenza del grande magazzino abbandonato “Purge & Dowse Ltd”, e da quella stanza era possibile osservare i passanti che frettolosamente attraversavano la strada, senza nemmeno notare quella struttura ormai in rovina.
Solamente dopo aver accostato lentamente la porta, Remus si rese conto che il preside non era più al suo fianco.
Non curandosene, si avviò barcollando verso l’unico letto occupato, le gambe improvvisamente rigide come delle tavole di legno e le mani strette in pugno talmente tanto da far impallidire le nocche, su cui trasparivano ancora le ferite risalenti a qualche ora prima.
Stette fermo per qualche istante, osservando attentamente la figura addormentata sotto le coperte: due lunghi tagli squarciavano il petto coperto da una semplice veste azzurra, e un altro giungeva dalla spalla fino alla schiena, anche se non era visibile. Alle braccia, abbandonate sul materasso, erano collegati alcuni tubicini che trasportavano un liquido denso e rosso a partire da un sacchetto che levitava sopra la testa del ragazzo disteso: sangue.
I capelli del giovane, di un nero corvino, erano sparsi sul cuscino, e le palpebre cadevano pesanti coprendo un paio di occhi, che Remus conosceva bene, grigi come le nuvole che oscuravano il cielo quella mattina: nonostante tutto, il ragazzo che ora stava in piedi, pallido come un fantasma, non poté fare a meno di pensare che, anche in quelle condizioni, la bellezza di Sirius Black era disarmante.
Si avvicinò al letto, facendo comparire una poltrona dal nulla e vi si sedette di sopra, scorrendo con lo sguardo il corpo dell’amico; dopo qualche istante di silenzio, il ragazzo si prese la testa tra le mani, scoppiando in un pianto silenzioso.
Le lacrime calde cadevano dal suo viso, formando delle piccole chiazze sul lenzuolo verde pallido del letto sul quale, ormai stremato, poggiò la testa.
Avrebbe avuto così tante cose da dirgli, così tante scuse da fargli, ma stette in silenzio, versando lacrime amare senza sosta, ma che fossero per la disperazione o per la rabbia che teneva ancora in corpo, lui non lo sapeva.
All’improvviso, le scene della notte precedente investirono la sua mente: vide il modo in cui aveva afferrato tra i denti la zampa dell’amico, tirandolo verso di sé, e come lo aveva graffiato, strattonato e lanciato contro il muro. Vide Felpato rimanere immobile senza opporre resistenza, abbandonandosi al suo volere, il suo sguardo ferito e poi subito dopo vuoto, le orecchie abbassate e la coda ancora tra le zampe quando lo usava come se fosse una bambola di pezza.
E sentì infine la voce dentro la sua testa che tentava invano di fermare il mannaro che era diventato, di impedirgli di far del male ad uno dei suoi migliori amici, mentre ormai il lupo prendeva il sopravvento, cancellando l’ultimo briciolo di razionalità che gli era rimasta, appartenente all’umano che, in fin dei conti, era davvero.

Il senso di nausea lo colpì, ma non gli diede peso, pensando che qualsiasi dolore non sarebbe mai stato come quello che gli aveva afferrato il cuore, stringendolo in una morsa tanto forte da impedirgli di respirare; alla fine si addormentò, il viso a qualche centimetro di distanza dalle dita dell’amico, mentre le lacrime continuavano imperterrite a scivolargli via dagli occhi.
 
Remus Lupin andò ogni giorno, per una sei giorni, a trovare il suo amico nell’Ospedale per ferite e malattie magiche a Londra, sempre alla stessa ora del pomeriggio, lasciando sul comodino alcune riviste sulle motociclette babbane e sul Quidditch.
Ogni volta trovava il suo amico immerso in un sonno profondo, nonostante i guaritori gli avessero detto che durante il giorno si svegliava, almeno per qualche ora, ma che fino a quel momento non aveva proferito alcuna parola né aveva chiesto di vedere nessuno.
Ogni giorno Remus prendeva appunti durante le lezioni che seguiva con gli altri due amici, e li trascriveva durante l’ora di pranzo in una seconda pergamena, che puntualmente lasciava sul letto al baldacchino del compagno di stanza, vuoto ormai da un po’.
Ogni giorno Remus non faceva altro che ripetersi quanto fosse stato idiota a permettere tutto ciò, e le ferite sulle mani che nel corso della notte si rimarginavano, venivano riaperte ogni volta. I suoi amici, puntualmente, gli ricordavano che non aveva alcuna colpa dell’accaduto, e che presto Sirius sarebbe tornato ad Hogwarts.
In quel periodo Lily gli si era avvicinata maggiormente, trascorrevano i pomeriggi liberi a studiare per il giorno dopo, passeggiavano insieme per il parco della scuola e si sedevano sempre sotto lo stesso faggio in riva al lago; fu la sola a cui Remus raccontava i propri pensieri, e di quella voce che tentava di fermarlo durante la notte di luna piena.
Ogni giorno, ai piedi del letto del proprio amico, il giovane licantropo sussurrava infinite scuse, ripetendo quanto si sentisse in colpa per quello che era accaduto, nonostante sapesse che il ragazzo non potesse sentirlo.
Le immagini di quella notte non lasciavano per un momento la sua mente, e prendevano forma in qualsiasi istante in cui non fosse concentrato nel fare qualcos’altro; camminava per i corridoi della scuola con sguardo basso, correndo talvolta verso i dormitori e infilando la testa sotto il cuscino, sperando di riuscire a frenare, anche solo per un momento, quei pensieri che lo schiacciavano come se un pose gli fosse stato posto sul diaframma.
Domenica mattina, esattamente una settimana dopo, Remus si ritrovò sul divano della Sala Comune, il libro di Trasfigurazione ancora aperto sul petto e i resti del fuoco della sera precedente nel camino; era l’alba, e dai dormitori in cima alle scale si udivano ancora i respiri pesanti degli altri Grifondoro.
Constatando che non sarebbe riuscito più ad addormentarsi, il ragazzo si alzò dal divano, prese il mantello ed uscì attraverso il ritratto della Signora Grassa, che continuò ad urlargli contro per averla svegliata in un orario così indecente anche quando ebbe svoltato l’angolo, ritrovandosi di fronte il portone di ingresso. Lo oltrepassò, incamminandosi lungo il parco, ancora immerso nella penombra, e si sedette sotto il solito albero in riva a lago, bagnandosi i pantaloni per la rugiada che ancora imperlava i fili d’erba.
Volse il suo sguardo verso la superficie increspata dell’enorme superficie nera, e si immerse nei suoi soliti pensieri, giocando distrattamente con una pietra che aveva raccolto poco prima; non seppe quanto tempo rimase lì, immobile, mentre il vento gli scompigliava i capelli color nocciola e agitava il suo mantello, causandogli dei brividi di freddo lungo tutta la schiena.
Il sole si alzava lentamente al disopra delle cime delle montagne sull’orizzonte, si poteva udire il cinguettio di alcuni uccelli e il fruscio degli alberi proveniente dalla Foresta Proibita, ancora immersa nel buio.
Quando si destò, il sole era ormai alto nel cielo, in una delle poche giornate soleggiate di fine Novembre, e i ragazzi scorrazzavano allegramente nel parco, ingaggiando brevi battaglie o volando qua e là a cavallo delle loro scope; si alzò, tolse la terra dai propri vestiti e si incamminò nuovamente verso il castello; era talmente immerso nei suoi pensieri che non si rese conto di aver oltrepassato il ritratto della Signora Grassa qualche minuto dopo e delle numerosi voci che provenivano da dentro la Sala Comune.
Fu solo quando vide una massa di capelli rossi corrergli incontro oscurandogli la visuale che si rese conto di dove si trovasse, prima che un viso sorridente e un paio di occhi verde smeraldo gli si piazzassero di fronte.
“Remus, Sirius è appena tornato.”

Quella mattina Remus scomparve dalla circolazione; quando ebbe saputo del rientro del suo amico, era corso fuori dalla Sala Comune, senza fermarsi per un istante, nemmeno quando i suoi compagni cominciarono ad urlargli dietro di ritornare indietro: nessuno di loro sapeva cosa gli fosse preso o dove si trovasse.
Non si presentò in Sala Grande all’ora di pranzo, né in Sala Comune durante il corso del pomeriggio; non era nel parco, né nel bagno dei prefetti o a casa di Hagrid, e nemmeno in biblioteca: sembrava essere scomparso nel nulla. Verso ora di cena, quando il giovane non comparve nemmeno per l’ultimo dei pasti, i suoi amici cominciarono a preoccuparsi seriamente. Erano seduti tutti e quattro al tavolo di Grifondoro, e confabulavano tra di loro a bassa voce.
Pensate sia il caso di andare a parlare con la professoressa McGranitt? Magari lei saprà darci una mano.” –propose Peter mentre addentava un pezzo di pane.
“Tu sei fuori di senno! Sai cosa significherebbe? Allarmeremo tutta una scuola e i suoi genitori, mentre sono sicuro che a quest’ora sarà già nel suo letto a strafogarsi di cioccolata leggendo uno dei suoi soliti libri di poesie babbane.” –concluse James, mentre volgeva lo sguardo verso la ragazza al proprio fianco.
“Tu che ne pensi, Sirius?” –domandò Lily, osservando il ragazzo che sedeva di fronte a lei, mentre beveva del succo di zucca.
Gli sguardi dei tre amici si concentrarono sul rampollo dei Black, che in tutta risposta si mise in piedi.
“Io penso che andrò a dormire, non ho molta fame.” –affermò lui in tono piatto, allontanandosi dal tavolo.
Peter fece per fermarlo, ma James gli afferrò prontamente la manica, intimandogli di stare al proprio posto, ed osservò l’amico uscire dalla Sala Grande.
Quando Sirius entrò nei dormitori, Remus non se ne rese nemmeno conto, distratto com’era a guardare fuori dalla finestra verso la foresta; i suoi vestiti erano pieni di terra, e sul viso facevano capolino alcuni tagli poco profondi.
Hey Rem, ti davamo tutti per disperso. –nell’udire quella voce, il ragazzo sobbalzò, girandosi di scatto verso il giovane che adesso stava in piedi e lo fissava torvo- Sai, avresti potuto avvisare almeno i tuoi migliori amici che saresti scomparso per tutto il giorno, così non avremmo trascorso l’intera domenica a correre in lungo e in largo per il castello alla tua ricerca.”
“Io…avevo bisogno di restare un po’ solo, scusatemi.”
–nel dire ciò, lo sguardo del licantropo si abbassò, mentre le orecchie cominciavano a fischiargli leggermente.
“Lo avevamo intuito, per questo motivo non siamo corsi dalla McGranitt, anche se Peter lo ha proposto più volte.” –Sirius si avvicinò al proprio letto, sedendosi sul materasso e continuando a rivolgere lo sguardo verso l’amico.
Io beh, credo che tu voglia restare solo quindi vado, buonanotte Sirius.” – fece per uscire dalla stanza, quando una mano gli afferrò il polso, chiudendo la porta alle sue spalle.
Vuoi dirmi che cosa ti prende, per favore?” –sussurrò il giovane Black, piantando i propri occhi grigi in quelli ambrati dell’amico che, in tutta risposta, strabuzzò gli occhi, ritraendosi immediatamente.
“Io? Assolutamente niente, sono solamente stanco e pensavo che volessi stare un po’ solo, visto che sei appena tornato e..” –farfugliò lui velocemente, mentre le sue gote si tingevano di un lieve color porpora.
Guardami –mormorò l’altro, e riluttante Remus alzò lo sguardo- Moony, io non ho paura di te.” –disse Sirius deciso, afferrando la mano dell’amico e portandosela al petto, esattamente sopra una delle due grandi cicatrici che adesso squarciavano il petto candido del ragazzo. Quest’ultimo chiuse gli occhi, sussultando leggermente al contatto tra il suo petto caldo e le mani gelide dell’altro.
Remus percorse la cicatrice con un dito, sfiorando timidamente quel lembo di pelle rialzato, mentre tentava invano di proferir parola in quel silenzio che si faceva sempre più denso tra di loro.
Mi dispiace Sirius, mi dispiace davvero.” –fu l’unica cosa che riuscì a dire, prima di voltarsi ed uscire velocemente dal dormitorio, nascondendo le lacrime che ormai gli velavano gli occhi.

Una settimana e 5 giorni.
Trascorsero una settimana e 5 giorni senza rivolgersi minimante la parola evitandosi, per quanto fosse possibile, nei dormitori, lungo i corridoi e durante le ore di lezione, nonostante si trovassero semplicemente a qualche banco di distanza e i loro sguardi si incontravano spesso.
Lily, James e Peter, d’altra parte, non avevano idea di come si sarebbero dovuti comportare, e tentavano invano di avviare un discorso che potesse coinvolgere i due in qualcosa che fosse più di uno scambio di risposte monosillabi.
Era un freddo sabato mattina di Dicembre, poco prima dell’inizio delle vacanze di Natale, e Remus si era svegliato presto per salire nella Guferia ad inviare una lettera ai propri genitori; il cielo fuori era di un bianco opaco, e la temperatura in cima alla torre non era molto diversa rispetto a quella del parco, in quanto mancavano finestre e porte e vi fossero spifferi ovunque.
Dopo aver affidato la propria pergamena ad un allocco dal piumaggio marrone, il giovane si voltò verso la porta, incamminandosi verso le scale, quando una figura gli si parò davanti, impedendogli di poter fare un altro passo.
Sirius –sussurrò meravigliato- Dovrei passare, sai, per andare a fare colazione.”
“Non andrai da nessuna parte finché non ascolterai ciò che ho da dirti. E’ da quasi due settimane che cerco di rivolgerti la parola, eppure tu ti comporti come se non mi conoscessi, o peggio, come se non esistessi!”
–sbottò l’altro, sentendo la rabbia di dodici giorni montargli dentro, sul punto di scoppiare.
Fece un passo verso il ragazzo che aveva difronte, che dal canto suo indietreggiò, finché le proprie spalle non toccarono una delle pareti gelide della torre.
Beh, sentiamo cos’hai da dirmi.” –disse il licantropo, guardando l’amico in maniera torva e fingendo indifferenza, mentre dentro di lui lo stomaco entrava in subbuglio.
“Ho tentato in ogni modo di farti capire che non ce l’ho affatto con te, per quello che è successo quella notte. Io so che non eri in te, e che il lupo ha preso il sopravvento; e so anche di quanto tu abbia tentato di fermarlo, sì, Lily me ne ha parlato. So anche del male che ti sei fatto –e nel dire ciò afferrò con cautela le mani del compagno, su cui brillavano le cicatrici dei giorni precedenti- ed ho ascoltato ogni singola parola che mi hai detto quando venivi a trovarmi in ospedale; già, facevo finta di dormire, ma non avevo il fegato di aprire gli occhi e guardarti, non sarei riuscito a reggere il tuo sguardo afflitto. Ma quello che sto cercando di dirti è che non sopporto questa distanza incolmabile tra noi, non sopporto doverti ignorare quando l’unica cosa che vorrei fare è urlarti contro che sei un’idiota nel credere che non voglia avere più niente a che fare con te.” –il giovane Black si fermò un attimo, per riprendere fiato, e a quel punto Remus tentò di intromettersi.
Sirius, io volevo solo..” –tentò di parlare, ma lo sguardo dell’amico lo costrinse a zittirsi.
Remus, non sarà il lupo che c’è in te a convincermi che tu sia un mostro. Non me ne andrò per questo motivo e tu sei uno sciocco se pensi di potermi convincere del contrario.” –concluse infine lui, alzando lo sguardo, che fino a quel momento aveva tenuto fisso sulla punta delle proprie scarpe, sul viso del ragazzo che stava difronte a lui.
Ho solo paura di poterti fare di nuovo del male, e sai che non potrei mai perdonarmelo.” –Remus lo guardò negli occhi, cercando di trasmettergli in quello sguardo tutte le sue paure, le sue ansie e preoccupazioni, che da giorni non gli lasciavano un attimo di tregua.
A meno che tu non decida di allontanarmi di nuovo, finché sei con me nessun lupo mannaro potrà farmi del male.” –Sirius strinse le mani dell’amico, avanzò verso di lui e colmò quella poca distanza tra i loro corpi, sfiorando le labbra del ragazzo con le sue, mentre cercava di fare ordine tra i pensieri che affollavano la sua povera mente.
Aveva avuto paura di Remus? Sì, all’inizio sì.
Ma alla fine era arrivato alla conclusione che avrebbe sopportato cose ben peggiori pur di tenere al suo fianco quell’unica persona che, insieme a James, gli permetteva di sentirsi
 parte di una famiglia per la prima volta nella sua vita.  
Note dell'autore:
Abbiate pietà di me, è la prima storia che pubblico e la mia prima Wolfstar, quindi non so bene se quello che è uscito dalla mia testa sia qualcosa di decente oppure no. La storia è un po' lunga, sono 5396 parole, ma dividerla in capitoli mi sembrava inopportuno.
Mi piacerebbe se lasciaste alcune recensioni, per capire se ho fatto un buon lavoro oppure se ho scritto una scemenza.
  
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