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Autore: mirkovilla7    04/01/2017    0 recensioni
Dal PROLOGO: "La Sala del Consiglio cadde in un silenzio cupo creato dalle ultime parole del Governatore Barber.
La stanza era grande e per la maggior parte vuota. Sulle pareti grigie l’unica decorazione consisteva nei quadri raffiguranti i Governatori successi prima di quello attuale. Su un lato una porta di vetro scorrevole con di guardia due uomini lasciava intravedere un lungo corridoio che terminava con una porta identica. Tre sedie completavano l’arredamento con un tavolo ovale posto al centro della Sala. Sulle sedie, con aria stanca di chi discuteva da ore, c’erano due uomini ed una donna."
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Fu la puzza di fumo la prima cosa che sentii al mio risveglio. Prima di aprire gli occhi, però, mi resi conto di alcune informazioni fondamentali: la prima era che mi trovavo appoggiato su una superficie liscia, la seconda che il fumo stava iniziando a inebriarmi i sensi e, la terza e più importante, che avevo un fortissimo dolore alla gamba sinistra.
Considerai, quindi, l’opzione di aprire gli occhi e la scena che mi balzò alla vista, dopo che l’accecamento da luce del sole fu svanito, era composta da un cratere con come centro il mio cilindro, come se l’impatto avesse provocato un simile danno.
Da sdraiato, vedevo un mio debole riflesso sulla parete del cilindro, e mi venne da vomitare. La mia faccia aveva più tagli e sangue che pelle pulita e priva di escoriazioni. Il danno più grave era una scheggia di vetro conficcata appena sopra il sopracciglio destro. Da questa ferita intravedevo del sangue fuoriuscire con ritmo copioso. Dalle dimensioni approssimative, che avevo calcolato dal riflesso, della scheggia presunsi che doveva essere penetrata nella mia faccia per almeno tre centimetri.
La parte superiore della fronte non se la passava molto meglio in quanto un livido di un brutto color violaceo torreggiava sul colore naturale della pelle.
Il labbro inferiore aveva un taglio verticale non profondo, ma esteticamente evidente.
Alzai lo sguardo al di sopra della mia testa, dove Joanna giaceva immobile ma apparentemente senza gravi danni.
Decisi che era il momento di tentare di alzarmi.
Fu una delle scelte più necessarie e allo stesso tempo peggiori che io avessi mai fatto. La gamba pulsava come se fosse il cuore e, in contemporanea, un acuto mal di testa non faceva che peggiorare la situazione.
Tenendomi appoggiato al vetro scheggiato, mi misi in piedi nella miglior posizione possibile, date le circostanze.
Per prima cosa, decisi di controllare lo stato di Joanna, considerando che era l’unica persona che avrebbe potuto darmi una mano.
Era distante solo pochi centimetri, ma ci impiegai comunque un sacco di tempo per arrivare da lei.
Giunto alla mia destinazione, mi abbassai con delicatezza, cercando di caricare il meno possibile sulla gamba sinistra.
Le punzecchiai la pancia, cercando di non compiere movimenti bruschi.
Ci vollero diversi colpetti ma, alla fine, tossì sangue direttamente sulla mia faccia e si svegliò.
«Grazie» mi disse con voce roca smorzata dai residui della tosse. Nonostante questo, non vi trovai le tracce di risentimento che avevo notato nel dormitorio quella mattina.
Mi ricomposi e mi scostai un po’ da lei. Poi, mi rimisi in piedi e le diedi una mano a rialzarsi. Sembrava abbastanza stabile, forse addirittura meglio di me.
«Cosa è successo?» mi chiese.
Ci pensai un attimo prima di risponderle, perché anche io non avevo ancora metabolizzato gli avvenimenti accaduti.
Le raccontai tutto, dal mio risveglio dopo la puntura di Flemling all’impatto con il suolo e al successivo risveglio.
Joanna mi ascoltò attentamente e mi guardò negli occhi per tutto il racconto, mettendomi in evidente imbarazzo. Io non la guardai molto, in quanto riuscivo meglio a parlare guardando il terreno marrone scuro di terra bagnata o i resti di ferro del cilindro. Mi accorsi, però, del suo sopracciglio alzato quando le dissi che l’avevo sollevata di peso e trasportata sulle spalle.
Al termine del racconto, aspettò attimi che parvero interminabili prima che lei rispondesse: «Ok, quindi presumo che qui vicino ci siano anche Flemling e l’altro ragazzo che era con noi.»
Sembrava vivace e pronta all’azione.
Io, invece, avevo intuito solamente una cosa e sarei stato pronto a scommetterci la vita che, in qualche modo, eravamo lontani da New Town e, la natura selvaggia ed incontaminata vicino a noi era proprio il Mondo di Sotto.
 
 
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Dopo che ci fummo sistemati il meglio possibile e puliti da sporco, schegge e fuliggine, uscimmo dal cratere.
A pochi passi da noi, uno strapiombo alto più di cento metri dava su un bosco vastissimo, che si stendeva a perdita d’occhio.
Dietro, alti alberi ci annunciavano che il bosco proseguiva anche in quella direzione.
Un rivolo di fumo partiva dal cratere ai nostri piedi e si innalzava fino a sparire nel cielo limpido.
Dalla posizione del sole intuii che fosse pomeriggio inoltrato.
Guardammo al di sopra del bosco e notammo che da qualche parte, in mezzo agli alberi, un altro rivolo di fumo compariva e si innalzava.
«Là» disse Joanna indicando in quella direzione e anticipandomi per un secondo.
Annuii e risposi: «Sì, dovrebbero essere caduti in quella direzione. Andiamo»
Joanna partì di corsa ma si fermò pochi passi più avanti, quando notò che io non avevo la possibilità di correre.
Imprecò, ma mi aspettò e camminò con me appena le arrivai abbastanza vicino.
Dal cratere non sembrava, ma ci volle più di un’ora per arrivare alla fonte del fumo che, come avevamo intuito era una capsula come la nostra.
Anch’essa era rotta ma, all’interno, non c’era nessuno.
Joanna scese di corsa all’interno di quel cratere, questa volta senza aspettarmi.
Arrivata in fondo, osservò la scena, poi si rivolse a me: «C’è una pista di sangue che parte dalla capsula e risale verso di là» e indicò un punto dalla parte opposta del buco nel terreno, «io dico di seguirla»
Feci segno di aver capito e mi incamminai costeggiando il bordo del cratere per non sforzare la gamba che, nel frattempo, non era migliorata.
Seguimmo la striscia di sangue fino a quando, in una pozza di liquido denso rosso, non trovammo Sam.
La scheggia piantata nella mia faccia che sembrava tanto brutta non era nulla in confronto al pezzo di vetro di una quindicina di centimetri che sporgeva dalla spalla di Sam. Il ragazzo sembrava incosciente e profondamente addormentato, anche se intuivo che fosse svenuto.
Mentre lo fissai imbambolato, Joanna si abbassò per osservarlo meglio da vicino. Cercai di seguire il suo esempio ma, appena provai a piegare la gamba, un dolore lancinante mi prese tutto il corpo, costringendomi a raddrizzarmi nuovamente.
«Ha una forte emorragia alla spalla e penso che l’altra sia lussata» mi disse Joanna mentre torreggiava sul corpo di Sam.
Pensai che fosse meglio svegliarlo prima di provare qualsiasi intervento: «Non sarebbe meglio aspettare che si svegli?»
Joanna mi guardò in cagnesco e mi chiesi come mai avesse questi sbalzi d’umore continui: «Se non lo curiamo ora perderà troppo sangue»
«Togliti la maglietta» mi disse con fare autoritario. Memore dell’esperienza di quella mattina nel dormitorio, non avevo intenzione di spogliarmi nuovamente in pubblico.
«Per quale motivo non lo fai tu?» chiesi a Joanna, intuendo la sua intenzione di utilizzare la maglietta come fasciatura per fermare l’emorragia di Sam.
Nonostante la situazione, mi scoprii divertito per averla stuzzicata e un po’ imbarazzato per la richiesta inopportuna.
Solamente il suo sguardo irritato e del tipo “fallo altrimenti ti ammazzo” mi fece pentire di averle risposto a tono.
«Girati» le dissi e, vedendo nuovamente la sua espressione aggiunsi: «per favore»
Me lo concesse e mi sfilai la maglietta. La mia eccessiva magrezza aveva preso piede da quando mi avevano arrestato, quindi l’accenno di tartaruga che si vedeva in corrispondenza degli addominali non era dovuto all’allenamento ma solamente alla mancanza di grasso. Ringraziai comunque i pochi esercizi che avevo fatto nella mia cella di isolamento, che mettevano in risalto qualche accenno di bicipiti.
Nonostante ormai avessi dovuto averne, nessun pelo faceva capolino sul mio petto.
Non notai che Joanna si era già voltata fino a quando non la sentii fare un verso di scherno. Aveva un’espressione divertita senza qualsiasi traccia corrucciata che aveva pochi minuti prima.
Nonostante l’aria non fosse particolarmente calda, mi chiesi come mai la temperatura si fosse alzata così bruscamente.
«Idiota» le dissi mentre le tiravo la maglietta. Lei la prese e ne strappò uno dei pezzi più integri che c’erano.
Mi chiesi come mai, nonostante la caduta che avevamo subito, la maglietta non si fosse strappata tutta.
Dopo aver rimosso il pezzo di ferro e finito di medicare Sam, Joanna iniziò a chiamarlo a gran voce per svegliarlo.
Ci vollero diversi minuti prima che ciò accadesse e, quando ci riuscì, Sam non sembrava in grado di sostenere una conversazione per via di un labbro veramente gonfio che non avevo notato prima.
«Devo sistemarti l’altra spalla» gli disse con una gentilezza che non fece altro che domandarmi di nuovo come mai aveva questi sbalzi di umore continui.
Sam annuì nonostante la consapevolezza del dolore e si mise il resto della mia maglietta strappata in bocca per morderlo al momento del dolore.
Il dolore arrivò nel momento in cui Joanna gli spostò con decisione il braccio, rimettendogli la spalla nella posizione naturale. L’urlo di Sam squarciò il cielo limpido che si stava avvicinando al colore arancione del tramonto che avevo letto in una descrizione dei tramonti di un vecchio libro risalente al periodo in cui non c’era il Mondo di Sopra.
Nel Mondo di Sopra non c’erano tramonti arancioni o albe colorate, in quanto si era talmente in alto che il sole tramontava presto e sorgeva tardi.
Conoscevo solamente certi colori dai libri che leggevo prima e durante la mia prigionia.
Abbassai lo sguardo nuovamente sui miei due nuovi amici e notai che Sam era svenuto di nuovo per il dolore, mentre Joanna stava provvedendo ad effettuare un’altra fasciatura sulla spalla appena sistemata (ovviamente con la mia maglietta).
«Forse è meglio se ci fermiamo qui a dormire stanotte. Domani andremo a cercare Flemling» mi disse. Non capii come facesse a stare così calma e indifferente nella situazione surreale e, forse, fu proprio la sua calma e determinazione che mi bloccò quando le stavo per rivelare che Flemling fosse morto.
«Va bene» le risposi, «Vado a cercare un po’ di legna per fare un fuoco. Ho letto su un libro come si accende». Sperai che ciò che avessi letto sarebbe funzionato quella notte.
 
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Feci ritorno al nostro accampamento provvisorio con le braccia piene di legno da ardere e mi misi di impegno con Joanna ad accendere un fuoco, dopo averle riferito cosa avevo letto.
Non era stato complicato trovare legna, considerando che eravamo in un bosco vastissimo. Inoltre, nella mia passeggiata ero anche riuscito a cogliere qualche mela da alcuni alberi.
Dopo quasi un’ora di tentativi riuscimmo ad ottenere un fuocherello scoppiettante che ci permise di mangiare una cena con mele con buccia, mele con buccia sputata e mele scottate.
Sam riuscì a mangiare solamente pochi morsi di mela prima di riaddormentarsi per la stanchezza.
La notte prese in fretta il posto del giorno e una vivida luna piena fece capolino nel cielo senza stelle. Io e Joanna non parlammo molto né durante la cena né dopo, fino a quando Joanna annunciò che si sarebbe stesa per dormire.
Per fortuna la notte non comportò un calo drastico della temperatura, nonostante una lieve brezza fresca si inoltrò intorno a noi.
Cercai di restare sveglio ancora per un po’, anche perché avevo intenzione di montare la guardia fino a quando non fossi stato troppo stanco da chiedere il cambio a Joanna. Il mio tentativo di restare sveglio durò poco e ben presto mi ritrovai steso anche io con le labbra pesanti.
Non feci in tempo a chiamare la mia compagna di avventura prima di addormentarmi.
 
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La prima volta che mi svegliai fu per un fastidio che sentivo alle costole. Abbassai lo sguardo e notai un piccolo rigonfiamento scuro che si muoveva con fare sospetto sul mio corpo. Il chiarore della luna non mi permetteva di vedere di più. Con un rapido movimento colpii l’animaletto, che morì sotto alla mia mano.
Il rumore, però, svegliò Joanna che, dopo vari insulti per la mia indecenza nel muovermi, si alzò in piedi. La vidi nella penombra spostarsi e andare a sedersi a bordo dello strapiombo che dava sul bosco sottostante.
Fui indeciso se rimettermi a dormire o andare a vedere come mai quest’improvviso allontanarsi e stavo pensando su cosa scegliere quando dal l’ombra in corrispondenza di Sam si udì: «Vai, ti conviene».
Mi dissi mentalmente di ringraziare Sam per il consiglio e mi alzai con la minor goffaggine possibile concessa dalla gamba ancora dolorante, anche se dovetti ammettere che era migliorata dopo il corto riposo di poco prima.
Andai verso Joanna e mi sedetti accanto a lei, con le gambe che penzolavano in aria verso il bosco sotto.
«Vattene» mi disse lei mentre appoggiavo le natiche a terra, ma il suono della sua voce lasciava trapelare che l’affermazione non era veramente lo specchio di ciò che voleva.
Mi sedetti lo stesso e ignorai il suo sguardo corrucciato. Per una decina di minuti rimanemmo seduti a guardare il bosco fino all’orizzonte, dove si intravedeva la base di una montagna.
Decisi di spezzare il silenzio: «Cos’hai?»
«Niente che ti riguardi» rispose. Odiavo quando faceva così. Per quel poco che la conoscevo eravamo insieme nella stessa situazione, quindi non c’era bisogno di fare così. Stavolta fu il mio turno di essere arrabbiato: «Quando ti deciderai a ricevere aiuto, sai dove trovarmi» e mi alzai.
Fui bloccato nel tentativo di allontanarmi da lei che, prendendomi per un braccio, sussurrò «Resta, per favore»
Adesso si vedeva la ragazza fragile che per poco avevo scorto dietro la richiesta di andare via di quando mi ero seduto.
«Non guardarmi, altrimenti non ti dico nulla» mi disse, facendomi rendere conto che ero imbambolato a osservarla. Distolsi lo sguardo controvoglia e mi costrinsi a guardarmi i palmi delle mani ruvidi e sporchi. Mi resi conto che non avevamo bevuto nulla da un giorno e che il succo delle mele non ci avrebbe fatto resistere ancora a lungo.
«Tu lo sai come mai ero dentro, vero?» esordì. Annuii. «Ero solo una delle tante che aveva stuprato quell’uomo. Ma io, tra tutte, l’ho cercato. C’è voluto un po’ di tempo per trovarlo, perché non agiva mai nello stesso posto due volte. Tutto era premeditato. Sceglieva le ragazzine da un vecchio sito web che scansiona i profili dei social network e li filtra. Lui aveva perennemente impostato il filtro dei tredici anni. Non serve un genio in psicologia, però, per capire che una ragazza con i miei problemi famigliari non è mentalmente stabile» Vide il mio sguardo interrogativo e aggiunse, come se fosse una frase che si sente tutti i giorni o, magari, lei era abituata a dirla tutti i giorni: «Mio padre ha ucciso mia madre davanti ai miei occhi solamente perché quella sera “non ne aveva voglia”.
«Io avevo sei anni, tanta paura di lui ed ero troppo sconvolta per dire la verità alla polizia, che prese per vero il fatto che mia madre fosse caduta dalle scale, come gli disse mio padre. La paura mi fece crescere troppo in fretta per la mia età e finii in giri poco raccomandabili con ragazzi che avevano vent’anni quando io ne avevo dodici. Poi, la settimana dopo che ebbi compiuto tredici anni, mentre aspettavo quello che era il mio ragazzo in un vicolo vicino casa, arrivò quell’uomo. Mi chiese se avessi bisogno di qualcosa e io gli dissi di no e che stavo aspettando il mio ragazzo. Insisteva e si avvicinava. Provai a chiamare al telefono il mio ragazzo ma il telefono era spento. L’uomo mi raggiunse e cercò di toccarmi. Cercai di scansagli la mano e mi disse che preferiva le ragazze che opponevano resistenza. Era molto corpulento e forte e riuscì a bloccarmi e…»
Vidi che il viso di Joanna era rigato dalle lacrime. Colmai la distanza che c’era tra noi e le appoggiai, titubante, un braccio attorno al collo. Non mi disse si spostarmi. Vidi che stava per proseguire il racconto e cercai di fermarla: «Non sei obbligata a dirmelo» le dissi.
«Tranquillo, mi fa bene parlarne con qualcuno che non mi giudica per come ero o per quello che facevo» rispose. Proseguì: «Quando si fu stancato di abusare di me mi lasciò distesa a terra nel vicolo. Mi trovò mio padre dopo ore, mentre io aspettavo ancora il mio ragazzo che aveva pensato bene di darmi buca proprio quel giorno.
«Non accettai l’aiuto di mio padre, mi alzai con le mie gambe tremanti e me ne andai a casa barcollando, da sola. Presi qualche cambio di vestiti e me ne andai sul primo pullman diretto a New Town.
«Vissi per tre anni per strada, ma nessun uomo mi si avvicinava più se io non lo volevo. E l’unico che lasciavo avvicinare era il padrone della pizzeria che mi ha nutrito per tre anni, fino al giorno che ho deciso di tornare indietro.
«Scoprii che mio padre si era suicidato lasciando un messaggio dove ammetteva l’omicidio di mia madre e dove si scusava per il suo comportamento con me. Mi fu indifferente. Presi la pistola che sapevo nascondesse nel cassetto della biancheria e uscii. Dopo pochi minuti di strada a piedi trovai il bastardo seduto in un bar con moglie e due gemelli di pochi mesi. Accanto a lui sedeva il suo migliore amico: il ragazzo che mi aveva dato buca quel giorno. Entrai nel locale e andai con passo deciso verso il bastardo. Notai che non mi riconobbe fino a quando non gli fui a pochi passi. Presi la pistola e gli sparai al cuore. Poi spostai la mira di pochi centimetri e sparai al mio ex. Non scappai. Non sapevo nemmeno dove andare. Aspettai le manette che non tardarono ad arrivare. Scoprii più tardi che il mio ex ragazzo non era morto ma solamente ferito ad una spalla.»
Restammo in silenzio per quella che parve un’ora, poi le dissi «mi dispiace»
«Non dispiacerti», rispose, «Io mi meritavo di essere arrestata. Mi merito di essere qui. Tu no. Non è mai stato rivelato il nome del fratello del bambino giustiziato ma ho capito subito che fossi tu. Tu non meriti di essere qui»
Si alzò, mi diede un bacio sulla guancia e se ne andò a dormire.
Ebbi l’impressione che mi avesse sussurrato un «Grazie» mentre mi dava il bacio.
 
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Il mio secondo risveglio fu quello traumatico. A liberarmi dal morso del sonno fu un urlo di Joanna. Mi svegliai e cercai di mettere a fuoco il mondo alla luce del sole mattutino, ma quando riuscii a farlo vidi solamente due paia di gambe nude dalla metà coscia in giù che mi sovrastavano. Poi, solamente il buio più totale che mi fece capire che mi avevano messo qualcosa in testa. Venni immobilizzato alle braccia e alle gambe, con i conseguenti dolori alla gamba dolorante. Poi, venni sollevato di peso e portato come un sacco di patate.
  
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