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Autore: catoptris    06/01/2017    4 recensioni
Los Angeles era argomento off-limits, lo sapevano tutti. La ragazza iniziava a dare in escandescenza al solo sentirlo nominare. O al sentir nominare la famiglia Blackthorn.
La verità è che le mancavano più di quanto realmente volesse ammettere: ricordava a malapena gli occhi di Ty, il volto dolce di Dru, la sicurezza con cui si muoveva Livvy, i piccoli versi che faceva Tavvy - anche se ormai aveva sicuramente imparato a parlare. Le mancava perfino Mark, sempre con quell'aria da ragazzo perfetto e imbattibile, che lo accumunava in maniera inquietante sia con Jace che con il popolo fatato, del quale possedeva i tratti. Li ricordava vagamente, ma sapeva con certezza che erano delicati e precisi. Ma più di tutti, era Julian a mancarle. Il suo migliore amico, con il quale aveva affrontato anche troppo a soli dodici anni. Sarebbero dovuti diventare parabatai e restare insieme, lì nell'Istituto di Los Angeles.
Genere: Angst, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Emma Carstairs, Julian Blackthorn, Un po' tutti
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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Emma correva per i corridoi familiari dell'Istituto di Los Angeles, stringendo un coltello da lancio in mano: il peso ormai familiare di Cortana dietro la sua schiena era affiancato dalla stretta di una piccola mano; voltandosi, Emma vide la piccola Dru stretta alla sua cintura che la seguiva mentre correvano. Teneva in braccio Tavvy, con il volto paonazzo per il pianto; si scorse in una delle finestre dell'Istituto: i capelli biondi erano legati in un'alta coda di cavallo che le lasciava il volto scoperto. Un volto da bambina di dodici anni. Si bloccò di colpo solo quando si rese conto di aver imboccato il corridoio sbagliato, che la fece arrivare in cima alla scalinata che affacciava sull'atrio e sul portone d'ingresso. C'erano Shadowhunters ovunque.
Ci mise ben poco a capire: Sebastian Morgenstern. Vestito di rosso scarlatto, con i capelli biondissimi, quasi bianchi, e il volto simile a una scultura di marmo, senza alcuna traccia di emozioni. Aveva gli occhi neri, privi di qualsiasi traccia di vita, e una delle sue mani era stretta in una spada incisa con un motivo di stelle, nell'altra un calice fatto di adamas. La Coppa Infernale. Vide Mark, immobilizzato, con la tenuta sporca di sangue e incapace di qualsiasi azione. Sebastian disse qualcosa, qualcosa che raggiunse Emma come un brusio soffocato. Il signor Blackthorn trascinò Katerina, la loro tutor, che tentava di ribellarsi. Venne spinta sulle ginocchia. Questa volta, le parole di Sebastian raggiunsero Emma chiare, come se gli fosse accanto – e all'improvviso, al posto di Katerina c'era lei, sotto la stretta possente del signor Blackthorn e lo sguardo impassibile di Sebastian Morgenstern
"Adesso bevi dalla Coppa Infernale," le intimò, spingendo quindi il bordo del calice contro la bocca. Emma gridò, tentando di indietreggiare –

E si svegliò gridando. Le coperte bianco candido del suo letto erano gettate da un lato, uno dei cuscini dall'altro; sudava, e il suo cuore andava a mille. Lasciò vagare lo sguardo per la stanza: la luce pallida della luna filtrava dalla finestra aperta, illuminando appena la scrivania quasi immacolata, e gli abiti gettati sulla sedia, sul pavimento. Cortana, al fianco del letto, emetteva una flebile luce pari a quella della luna, che andava a riflettersi sulla copertina del libro che Emma teneva sul comodino.
D'improvviso, la porta venne aperta, lasciando entrare anche la luce del corridoio.
"Em? Em ti senti bene?" La voce maschile la raggiunse familiare come quasi tutte le notti. La figura avanzò rapidamente, sedendosi al suo fianco e avvolgendole le braccia attorno le spalle per attirarla a sé: Emma sentiva il suo stesso cuore in ogni fibra del corpo, ma a quel contatto così gentile le parve di sciogliersi. A poco a poco, le immagini dell'incubo lasciarono la sua mente libera, facendo sì che si concentrasse solo sul respiro regolare del ragazzo al suo fianco.
"È stato solo un incubo – sto bene, Alec," mormorò la giovane. Qualche momento dopo, si era allontanata da lui, incrociando le gambe e afferrando il cuscino in equilibrio precario sul bordo del letto per stringerlo al petto. Lui la osservava con i suoi grandi occhi blu che luccicavano nell'oscurità, e le labbra appena ripiegate verso un lato come in una smorfia: con Emma c'era sempre qualcosa di più, ma aveva ormai imparato a non fare troppe domande. Passava talmente tanto tempo con Jace da aver acquisito parte del suo carattere – o era Jace a somigliare più a lei da quando si allenavano insieme?
"Quando sei tornato?" Gli chiese quindi, sciogliendo la lenta treccia che bloccava i suoi lunghi boccoli biondi. Magnus adorava i capelli di quella ragazza, diceva che gli ricordavano una cascata d'oro colato dalle mille sfumature. Lui non ci aveva mai fatto caso, ma sapeva che Emma era una bella ragazza – un po' trasandata forse, ma la sua bellezza era un'altra cosa. Era forte, combattiva, non si faceva abbattere da nulla e riusciva sempre a far ridere tutti, anche nelle situazioni più spiacevoli.
"Un paio d'ore fa circa, sono passato al loft di Magnus per – sistemare una faccenda, quindi sono tornato qui," replicò, allungando una mano per scostarle i capelli dal volto. In un'altra circostanza, lei si sarebbe ritratta: le piacevano le premure di Alec, ma non quando esagerava. Finché non era arrivato Max, lui si era comportato da padre con lei, come se si stesse allenando per il momento in cui avrebbe avuto a che fare con il vero bambino; così, di tanto in tanto, tornava alle vecchie abitudini affettive di quando Emma era poco più che una dodicenne.
Un ampio sorriso si fece strada sulle labbra della giovane, indecisa su quale tipo di battuta poter provare: dischiuse le labbra, pronta a parlare, ma lo sguardo di Alec la fermò. Anche al buio, ogni singola sfaccettatura delle sue iridi era visibile. Emma aveva imparato a conoscerlo dai suoi occhi, che non riuscivano mai a nascondere nulla. Forse erano quelli il motivo per cui Magnus si era innamorato di lui, tra tanti.
"È successo qualcosa?" Domandò, reprimendo il panico che a poco a poco rimontava in lei. Sei una Shadowhunter, si disse, non puoi farti prendere dal panico così facilmente. Alec la guardò per qualche istante ancora, poi sospirò.
"Magnus, prima di venire a Buenos Aires, è passato a trovare Malcolm a Los Angeles," iniziò. A quelle parole, il sangue di Emma parve raggelarsi. Le sembrava quasi di non sentire più le pulsazioni del suo cuore, mentre una piccola rotellina nel suo cranio iniziava a girare cigolando. Los Angeles era argomento off-limits, lo sapevano tutti. La ragazza iniziava a dare in escandescenza al solo sentirlo nominare. O al sentir nominare la famiglia Blackthorn.
La verità è che le mancavano più di quanto realmente volesse ammettere: ricordava a malapena gli occhi di Ty, il volto dolce di Dru, la sicurezza con cui si muoveva Livvy, i piccoli versi che faceva Tavvy – anche se ormai aveva sicuramente imparato a parlare. Le mancava perfino Mark, sempre con quell'aria da ragazzo perfetto e imbattibile, che lo accumunava in maniera inquietante sia con Jace che con il popolo fatato, del quale possedeva i tratti. Li ricordava vagamente, ma sapeva con certezza che erano delicati e precisi. Ma più di tutti, era Julian a mancarle. Il suo migliore amico, con il quale aveva affrontato anche troppo a soli dodici anni. Sarebbero dovuti diventare parabatai e restare insieme, lì nell'Istituto di Los Angeles. Era stato lui a chiederglielo.

"Potremmo diventare Parabatai," disse Julian. "Allora non potrebbero separarci. Mai."
Emma ricordava chiaramente come quelle parole rimbombarono nella sua testa per qualche istante.
"Ma Jules," replicò lei, "essere Parabatai non è uno scherzo. È – è per sempre."
"Noi non siamo per sempre?"

Poi, dopo la morte del padre, aveva cambiato idea. L'aveva evitata, allontanata.
A distanza di cinque anni, Emma continuava a chiedersi se fosse stata lei a far qualcosa di sbagliato, aver detto qualcosa di male. Magari invece – come le aveva ripetuto per mesi Clary – era semplicemente sotto shock. Per essere dei semplici dodicenni, ne avevano passate tante. In quei momenti, Emma avrebbe voluto colpirla in faccia: lei era nata Mondana, non sapeva che loro erano abituati sin da piccoli a pressioni e allenamenti. Naturalmente, la Guerra era stata una pressione fin troppo grande, ma più di tutti, Julian aveva dovuto uccidere il padre. Aveva dovuto farlo. Davanti ai suoi fratelli minori. Emma sapeva che ancora non se l'era perdonato, nonostante fosse consapevole di aver fatto la cosa migliore; non quella giusta, probabilmente, ma di sicuro quella migliore.
"Pare abbiano chiesto aiuto a Malcolm per individuare delle linee di energia, o qualcosa del genere – Julian era lì con una ragazza, Cristina," Alec si bloccò, riprendendo fiato con un sospiro. Avrebbe davvero dovuto dirglielo a quell'ora della notte? Ma, dopotutto, era già sveglia, e non si sarebbe riaddormentata. Era sempre così, dopo i suoi incubi. "Em, sono stati trovati altri corpi come quelli dei tuoi genitori, lontani dall'oceano," disse quindi.
Fu come sentire un colpo di Jace piazzato sul naso dall'angolazione migliore che si potesse trovare. Emma era stordita, incapace di assimilare a pieno la notizia. Corpi. Genitori. Tuoi genitori. Altri corpi. Dimenticò tutto: Julian, la ragazza con lui, Malcolm, Magnus, perfino la presenza di Alec lì con lei. Tutto ciò che riusciva a vedere erano le foto dei corpi dei suoi genitori, prima che si disintegrassero, sfregiati dalle rune – che propriamente rune non erano.
Avrebbe voluto mettersi a gridare, o a piangere, o magari entrambi contemporaneamente. Non riuscì a fare nulla di tutto ciò – e vide tutto nero.

Quando si svegliò, capì immediatamente di essere nell'infermeria. Sentiva un calore piacevole all'altezza del fianco sinistro, e le sue mani sfioravano qualcosa di soffice – Church, probabilmente. Il sole le sfiorava il volto che, se fosse rimasta a Los Angeles, non sarebbe stato così pallido come tutti le facevano notare.
"Oh per l'Angelo, finalmente ti sei svegliata!" Izzy accorse strascicando i piedi, e le gettò le braccia al collo. Emma si trattenne dall'allontanarla bruscamente, limitandosi a fingere un colpo di tosse che la fece tirare in piedi con uno scatto. Isabelle era una bella persona, un'ottima cacciatrice, e teneva a Emma. Io ero come te, le aveva detto una volta. Piena di ambizioni e di traguardi da raggiungere. Non aveva mai concluso la frase, e la cosa aveva demoralizzato abbastanza la bionda.
"Cos'è successo?" Borbottò quest'ultima, tirandosi lentamente a sedere. Come previsto, al suo fianco c'era Church, acciambellato con il muso sul fianco della giovane. I grandi occhi dorati scrutavano l'ambiente con una pigra attenzione, mentre muoveva appena la coda. Per tutti era stato sconvolgente quando, entrata nell'Istituto, Emma si era ritrovata mucchi e mucchi di pelo aggrappati alla spalla, alla disperata ricerca di coccole. Ormai passava tutto il tempo che non gironzolava chissà dove nella stanza di Emma – James Carstairs le aveva spiegato il motivo solo un paio di anni dopo il suo arrivo, quando si erano incontrati per caso.
"Quando ci siamo svegliati Alec ha dato di matto – non sapevamo neppure fosse tornato! Ha detto che stavate parlando e dopo averti parlato di – lo sai – sei svenuta di colpo e non volevi proprio riprenderti. Ti ha portata qui, pensando che sarebbe servito a qualcosa, e ti ha fatto qualche runa di troppo," si sedette al suo fianco, incrociando le lunghe gambe in un angolo di materasso. Church balzò giù, come infastidito dalla sua presenza, e nel giro di pochi istanti svanì. Indossava la tenuta da combattimento, ma era scalza, cosa che rendeva il quadro alquanto bizzarro. Il rubino le cadeva sul petto, ed era la prima cosa che probabilmente saltava all'occhio guardandola.
Emma si guardò le braccia, sulle quali si erano già formate nuove cicatrici dovute alle rune applicate da Alec – consapevolezza, calmarabbia, fortezza, iratze, protezione, tranquillità. Sembrava che qualcuno lo avesse strappato via da lei, così da interrompere quella successione di segni in combutta con loro. Magari era quello il motivo della confusione di Emma.
"Dov'è ora?" Chiese a Izzy. Lei scivolò giù dal letto, stiracchiandosi come un gatto prima di allacciarsi la giacca.
"Con Magnus, avevano alcune faccende da sistemare – ce ne parleranno questa sera probabilmente," le disse. Quindi si chinò in avanti, lasciandole un delicato bacio contro la fronte; quel gesto ricordò a Emma la madre. Lo faceva anche lei? Ormai quasi non lo ricordava più. "Riposati un po' per oggi, Jace non se la prenderà se salterai un allenamento," continuò, con un sorriso bonario sulle labbra. "Tanto sei già più brava di lui," aggiunse, strizzando un occhio. A quelle parole, Emma non riuscì a non sorridere.
"Tu dove vai?" Le domandò, fingendo di stendersi nuovamente. Le labbra di Isabelle si dischiusero in un sorriso a trentadue denti. Simon.
"Simon," rispose lei semplicemente, prima di saltellare via. Emma rimase qualche istante a guardare l'uscio vuoto, quindi sorrise tra sé e sé. Dopotutto era stata fortunata a trovarsi lì.

   
 
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