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Autore: cartacciabianca    27/05/2009    5 recensioni
Le origini di un assassino dal cappuccio grigio...
-Mi fa piacere vederti illeso, dai!- gioisco accorciando ancora le distanze. –Immagino che la tua missione sia riuscita!- aggiungo allegro, forse troppo per i suoi gusti.
Sotto il cappuccio, il mio superiore alza gli occhi di poco al cielo, voltandosi ad ammirare la fortezza che, imponente, vegliava dalla collina della città. –Il Maestro è nella torre?- domanda deviando il discorso.
M’insospettisco non poco, ma ben presto mi riscuoto balbettando: -Sì, sì! Sepolto fra i libri come sempre! Di sicuro ti aspetta-.
Genere: Triste, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Assassin's Creed

Rauf's Chronicles


<<… Avevo una famiglia, e mi fu permesso di godermela neppure fino ai miei sei anni, quando, brutalmente, ricordo solo di aver ricevuto un preciso ordine e di aver ubbidito come qualsiasi altro bambino della mia età avrebbe fatto. Oggi sono triste, oggi compiango la mia scelta, oggi mi domando perché Dio abbia scelto proprio la mia testa dove poggiare tutta questa sfiga! Oggi rimpiango di avere questa naturale, stupida natura di ascoltare ed apprendere, oltre che eseguire, qualsiasi cosa mi venga detta. Nel corso della mia breve vita, ho appreso di avere un passato da raccontare, ho imparato ad apprezzarlo, perché forse, senza che fosse successo tutto ciò, oggi non sarei proprio qui, di fronte all’acqua limpida di questa fontana nel centro di Masyaf, ad ammirare la mia immagine specchiarsi tra le ondine leggere che vi si formano.

Brilla il sole, è una stupenda giornata d’estate, esattamente come lo era 18 anni fa.
Il cielo è azzurro, e nell’acqua vedo specchiarsi anche questo. Io che sto in piedi dinnanzi alla pietra della fonte alla quale accorrono le donne della città assieme alle loro brocche in ceramica, contornato di bancarelle e del caos cittadino che è diventato la mia casa.
Ammiro il mio cappuccio grigio abbassato sulle spalle, seguo la linea dei lacci di cuoio che mi percorrono una spalla e l’altra, per poi stringermi il petto legate le une alle altre da quel magnifico triangolo di metallo argentato. Osservo la mia veste corta, grigia chiara arrivarmi fino alle ginocchia e, di conseguenza mi guardo i piedi pensando alle cose più assurde, come solitamente faccio nell’attendere qualcosa o qualcuno, pazientemente…
Torno a fissare l’acqua della fonte e studio affondo il mio viso, specchiato in essa, ora adulto, ma che nel corso degli anni ha pensato tanto a com’era stato quand’era bambino…
Ho sempre temuto di andare a caccia del mio passato, ricordando forse cose che non mi avrebbe fatto piacere anche solo immaginare. Ho paura di domandarmi perché certe persone avessero fatto quello che effettivamente, fecero…
Non chiedo di poter cambiare ciò che è successo, anzi… giungendo in questo luogo, ho saputo apprezzare le scelte che il mio Dio ha fatto per me. Sono devoto a Lui come lo sono sempre stato a qualsivoglia mio superiore.
Il mio nome è Rauf Sy-Ia’hef, e ricordo solo ora la mia storia…>>

Sotto di me, a pochi metri più in basso, c’era il terreno arido e polveroso caratteristico del Regno. Qualche ciuffetto di erba verde spuntava qua e là tra le pietre, e il caldo era torrido e lasciava asciutta la bocca; ma io stavo tanto bene lassù!
Le mie gambe cadevano a penzoloni nel vuoto. Le dondolavo avanti e indietro, sorprendendomi dell’aria leggera che mi accarezzava la pelle e scivolava tra le dita dei piedi. Era piacevole, rilassante sopra ogni dire!
Il ramo era tutto intarsiato e sfregiato, e quindi parecchio scomodo; forse mi ero proprio scelto il posto peggiore dove sedermi! Osservavo le formichine che trafficavano tra le venature della corteccia: formavano una fila ordinata ed io, affascinato, le ammiravo stupito passando un dito sulla corsi vuota accanto alla loro.
Vicino al mio albero c’era un piccolo laghetto di acqua linda, nel quale vedevo la mia immagine riflessa e distorta dalle leggere ondine create dal vento impercettibile di quella mattina.
Sollevai un ginocchio e me lo strinsi al petto; respiravo con calma e il sorriso affiorava sulle mie labbra sottili ed innocenti. I raggi del sole penetravano le fronde verdognole dell’ulivo e mi riscaldavano le guance arrossate e poco piene. Il viso mio magro e aguzzo, tipico della mia gente, era quello di un bambino di quattro, cinque anni al massimo. I capelli tagliati corti e di un castano scuro, liquido come i miei occhi, che si erano ridotti a due fessure per il sole abbagliante di quella calda giornata d’estate.
Ascoltavo il canto delle cicale nascoste nel grano e tra i cespugli della terra, ammiravo l’orizzonte oltre il mio naso e contavo le belle rondini che mi passavano accanto nidificando in qualche ulivo più avanti del mio.
Udii gli zoccoli di un cavallo ronzarmi nelle orecchie, ma non mi voltai percependo poi quel suono allontanarsi da me e dirigersi svelto verso il villaggio.
Solo allora capii, sollevando di poco lo sguardo e ammirando la nube di polvere che sollevavano due cavalli che, da quella distanza, riconobbi poco.
-Dada- dissi con la mia vocina acuta, ridendo.
Mi lasciai scivolare giù dal ramo, graffiandomi i pantaloni della corteccia solida e sfregiata.
Atterrai saldamente piegando le ginocchia e scattai subito di corsa. Traversai la strada sterrata che conduceva al mio villaggio e correvo gioioso tra la gente che mi guardava allibita.
In quel momento ero felice, felicissimo. Era stupendo, indescrivibile la gioia che stavo provando.
Raggiunsi le porte di casa mia, fermandomi d’un tratto dinnanzi all’uscio schiuso.
C’era un piccolo giardino recintato davanti all’ingresso. Alla staccionata erano legati due bellissimi cavalli: un puledro castano chiaro dagli stinchi bianchi e uno stallone nero come la notte, la sella del quale era proprio quella che avevo sempre lucidato con tanta premura assieme alla mamma.
Non esitai oltre e mi apprestai ad entrare in casa.
Il sorriso che avevo sulle labbra si spense poco a poco, fin quando, finalmente nel salone centrale dell’abitazione, cominciai a guardarmi attorno felice.
Udii dei singhiozzi, un pianto flebile provenire da non molto lontano, e pensai che potessero trattarsi di lacrime di gioia.
-Dada!- chiamai, e subito i miei occhi balenarono nello scorgere mia madre e un’altra figura nel retro di casa, esattamente dove c’era un piccolo cortile ove solitamente la donna amava stendere i panni al sole.
Mi avviai lì di corsa, spuntando dal nulla nel cortile e andando subito in contro al nuovo arrivato. Mi gettai ad abbracciarlo.
Le parti della sua armatura dorata mi diedero alcun fastidio, e molte delle placche d’argento erano calde per via dell’esposizione al sole.
Il cavaliere mi poggiò una mano sulla testa accarezzandomi i capelli, ma il suo flebile tocco si fece presto assente… Vedevo la spada nel fodero legato al suo fianco, ma… quella non era la sua spada.
L’elsa semplice, quale quella di mio padre non era. L’impugnatura rovinata, quale quella di mio padre non era. Il fodero chiaro, sobrio, quale quello di mio padre non era, che invece ricordavo bene fosse di cuoio nero e decorato di meravigliosi ghirigori dorati.
Mi staccai improvvisamente dall’uomo, indietreggiando terribilmente dispiaciuto e intimorito. Non era mio padre, ma indossava la sua stessa armatura. L’elmo che teneva sottobraccio era sfregiato e rovinato da frecce di poco schivate. Mi guardava allo stesso modo di come io guardavo lui: quasi con terrore, ma nel suo sguardo profondo, il compagno d’armi di mio padre aveva un’immensa tristezza e un infinito rammarico.
Poi mi voltai, accorrendo da mia madre che, in disparte, si era seduta su una delle panche del cortile tenendosi il viso tra le mani. Singhiozzava senza freno, irrigidendo le spalle e bagnandosi i palmi chiari delle sue lacrime argentee e lattiginose. Indossava un vestito bianco assieme a quel bellissimo velo verde chiaro a coprirle parte del capo.
Mi avvicinai a lei, girandomi di tanto in tanto verso l’uomo alle mie spalle che continuava a fissarmi amareggiato, come se la morte in battaglia di mio padre fosse stata colpa sua.
Non ero mica così scemo. Lo capii subito che mio padre era morto, e non di fu bisogno di una parola di più per dire ciò che si era discusso con un groviglio di sguardi e mesti sorrisi.
Odiavo quel mio genere di perspicacia, ma delle volte sapevo mi sarebbe tornato utile.

La mattina successiva, quando mi svegliai tra le braccia calde di mia madre, sdraiata sul mio lettino accanto a me, stropicciai per bene gli occhi abituandomi alla luce sottile che penetrava dalla finestra. Scostai di poco la mano della donna che pendeva su un mio fianco e scivolai giù dal materasso; passeggiai lentamente verso la finestra e mi affacciai a guardare fuori da questa.
Ammirai il sole che sorgeva sul mio villaggio diffondendo i suoi raggi dorati su tutto il Regno. Il cielo era azzurro, come il giorno precedente, e non vi era l’ombra di una sola nuvola per chilometri e chilometri oltre le colline dell’orizzonte. I prati verdi e i deserti attorno al mio villaggio si stagliavano infiniti fino alle montagne a nord; tra le strade vi era già tanta, tantissima gente indaffarata. Carovane e animali, greggi di pecore e stormi interi di polli che si apprestavano a raggiungere la piazza centrale per la domenica del mercato.
Mi voltai appena lanciando un’occhiata al corpo assopito di mia madre. Ella aveva il viso tristemente sereno, avrei detto. Sorrideva come poteva sorridere una donna che nel proprio mondo dei sogni stava abbracciando suo marito per l’ultima volta come fosse realtà; una realtà alla quale sorridere in quel triste modo che trasmetteva a me ogni sua malinconia.
Lasciai la stanza e raggiunsi il salotto. Mi affacciai subito fuori dalla porta di casa che lasciai aperta, prendendo una gran boccata d’aria fresca e lasciando che il venticello estivo penetrasse dolcemente nell’atrio.
Mi guardai attorno andando a sedermi sulla staccionata del piccolo giardino davanti l’ingresso. Con le gambe a penzoloni e le spalle strette al collo, non mi accorsi della gente che, riconoscendomi, mi salutava agitando una mano allegramente.
Li ignorai. Una ad una, anche le madri dei miei compagni di giochi parevano nel degne della mia attenzione. Io che, tanto triste e solo con me stesso, solo allora cominciai ad apprezzare il mio silenzio.
Sentii chiamarmi, e questa volta mi girai riconoscendo la voce stanca e incrinata dalla tristezza di mia madre.
Scesi dalla staccionata con un balzo e le andai in contro sull’uscio di casa.
Aveva due occhiaie sotto gli occhi che non le avevo mai visto. I capelli scuri scompigliati e aggrovigliati, il volto scoperto di fronte a tutta quella gente che passava di mattina davanti casa nostra.
-Va’- mi disse prendendo una mia mano nella sua e allungandomi con l’altra una piccola brocca in ceramica. –Va’ a prendere dell’acqua- aggiunse sorridendomi non tanto.
Annuii stringendo la brocca la mio petto e mi avviai di corsa sulla strada sterrata.

Raggiunsi la fontana con il fiato corto e le guance rosse; il viso sudato e i capelli bagnati e attaccati alle tempie. Il sole cocente mi stava abbrustolendo senza pietà, riflettendosi sulla mia pelle già così scura e ramata di suo.
Feci la fila dietro alle altre donne che portavano sé le brocche di ceramica simile alla mia. Attesi qualche minuto prima del mio turno, guardandomi attorno e sfuggendo il mio sguardo a quello dei passanti che traversavano quella zona del villaggio con le loro attività appresso; quali bancarelle e bestiame.
Quando fu il mio turno, riempii tutta la brocca fino al bordo e mi avviai svelto verso casa. Sulla strada del ritorno feci attenzione a non rovesciarne una goccia una.
Entrai nel salone e corsi subito in cucina, dove trovai mia madre seduta al tavolo con la testa nascosta tra le braccia conserte. Singhiozzava versando lacrime che non vedevo colarle dagli occhi celati sotto la massa di capelli scuri.
Poggiai, con non poca fatica, la brocca sul tavolo e mi avvicinai a lei con attenzione e premura.
-Mama- mormorai allungando una mano verso di lei.
-Va’ via, va’ via…- sentii solo pronunciarle.
-Mama- ripetei.
-Va’ via!- ringhiò lei con violenza. Si alzò di colpo e afferrò un cucchiaio di legno che levò in alto, minacciandomi. –Va’! Via! Ora!- ed io ubbidii.
Voltandomi spaventato, feci cadere a terra la brocca d’acqua che si frantumò rumorosamente in tanti pezzi. Uscii di casa senza voltarmi, corsi a perdi fiato e con le lacrime che mi salivano agli occhi. Ascoltai i lamenti della folla che si scostava imperterrita nel vedermi passare. Scappai terrorizzato e inciampai diverse volte in pietre, cespugli, crepe del terreno, ma fatto sta che quella fu l’ultima volta che rividi l’unico membro restante della mia famiglia.

<<… mi riscuoto dai miei ricordi, dai miei pensieri percependo i nitrii di un cavallo poco distante da me. Mi volto, e aspetto pochi secondi prima di intravedere una figura incappucciata, vestita di bianco, varcare la soglia della città e avvicinarsi a me col suo solito passo così composto, così serio e perfetto.
Allora spalanco le braccia e faccio un passo avanti, chiamandolo per nome: -Altair! Sei tornato!- sorrido compiaciuto. Non immaginavo di vederlo qui a Masyaf così presto. La sua era stata una missione rischiosa, pensai.
-Rauf- dice assente lui, distogliendo lo sguardo.
-Mi fa piacere vederti illeso, dai!- gioisco accorciando ancora le distanze. –Immagino che la tua missione sia riuscita!- aggiungo allegro, forse troppo per i suoi gusti.
Sotto il cappuccio, il mio superiore alza gli occhi di poco al cielo, voltandosi ad ammirare la fortezza che, imponente, veglia dalla collina della città. –Il Maestro è nella torre?- domanda deviando il discorso.
M’insospettisco non poco, ma ben presto mi riscuoto balbettando: -Sì, sì! Sepolto fra i libri come sempre! Di sicuro ti aspetta- lo guardo allontanarsi da me e avviarsi già sulla strada, così gli vado ascoltando i suoi ringraziamenti.
-Grazie, fratello- mormora l’assassino.
Mi fermo alle sue spalle e lo ammiro da lontano, contemplando la sua figura composta confondersi alla folla che saliva verso la fortezza. –Salute e pace, Altair- dico poco allegro, questa volta.
E lui, serio, risponde: -Altrettanto-.
La sua veste bianca risale la collina e, non appena lo perdo del tutto di vista, mi appoggio al bordo della fontana incrociando le braccia al petto…>>





Angolo d'autrice

Un piccolo tributo ad un personaggio che mi è rimasto impresso fin da quando giocai AC per la prima volta. Rauf, il quale cognome ho inventato e non credo esitate neppure in Arabo, compare sì e no solo due volte nel gioco, ma mi ha colpito molto il primo impatto che questi ha con il protagonista da noi controllato nel gameplay! Questa one-shot era nata con l’idea di raccontare invece il passato di Altair, ma invece, quando la traccia ho deciso che prendesse una piega differente, per non cancellare tutto e riscrivere daccapo, ho preso l’iniziativa di dedicarne una sua parte del tutto distaccata dalle altre… perché, come ho scritto: “Rauf’s Chronicles”  ho in mente di dedicare molto presto una sia ad Altair, Malik e Kadar, e l’ultimo, il tizietto presuntuoso che compare una sola volta e porta il nome di Abbass… chi è un vero fan della serie sa di chi parlo!!! Come spero abbiate capito, i filmini mentali di Rauf cominciano mentre lui è nella piazza centrale della città, dove c’è quella specie di fontana, nell’attesa che arrivi Altair. Entrambi i personaggi, nell’ultima parte della vicenda, si comportano esattamente come nel gioco, riportandoci alla scena iniziale quando l’assassino fa ritorno dal tempio di Salomone, portando con sé le brutte novelle sul fallimento della missione.
:D bene, qui è tutto. Ora aspetto solo le vostre recensioni.

P.S.

One-Shot dedicata ad Altair in arrivo, non perdete la speranza, ma probabilmente la staccherò totalmente da questa inglobandola in EFP come una storia a sé, nominandola anche diversamente… vabbé, si vedrà! Spero di non aver deluso le vostre aspettative, ma essendo molto devota al gioco di AC, ho voluto scrivere queste follie come tributo ai personaggi fondamentali e non della vicenda!
Attenzione: allego il link ad un video che fa chiarezza sulla one-shot!
Il video guardatelo dal minuto 3:09 in poi. In quell’istante comincia il dialogo tra Rauf e Altair.

Il video: http://www.youtube.com/watch?v=m0f9EW1m_P8
   
 
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