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Autore: Koori_chan    10/01/2017    0 recensioni
Aprile 1911, Cape Evans, Antartide.
L'inverno australe è alle porte, ma ogni cosa è organizzata al meglio e non appena il sole tornerà a sorgere sull'orizzonte si potrà finalmente dare il via alla corsa al Polo Sud.
Le cose sembrano stare andando per il verso giusto per la British Antarctic Expedition, almeno fino a quando Cherry-Garrard, aiuto biologo nella spedizione del Capitano Scott, non trova nel suo sacco a pelo una ragazza addormentata. Una ragazza che, proprio come un fantasma, nessuno riesce a toccare e che pare provenire da cent'anni nel futuro.
Novembre 2010, Oxford, Inghilterra
Leslie Compton, matricola di Economia all'Università di Oxford, ha deciso che la vita non fa per lei. Nessuno ha capito il perchè della sua amarezza nei confronti del mondo, perchè nessuno è ancora riuscito ad avvicinarla; ogni cosa le sembra sciocca e priva di valore. "Grazie, ma non sono interessata" è diventato il suo motto.
Seccata dalla vita di comunità verso la quale viene quotidianamente sospinta, desidera semplicemente essere per gli altri poco più di un fantasma.
Almeno finché non si risveglia in una baracca in Antartide nel 1911.
Genere: Angst, Commedia, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Il Novecento
Capitoli:
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2- Some Friendly Ghost







 

23 Aprile 1911, Cape Evans


Il silenzio si poteva tastare con mano. Era solido e ingombrante e non sembrava volersi togliere di mezzo. Se ne stava lì, mescolato a loro come un passante curioso sulla scena del delitto, spudorato, indelicato, invadente.
Fu Wilson a scacciarlo, un passo avanti e un sorriso leggero mentre gli altri ancora trattenevano il respiro e il Capitano fissava la ragazza a labbra serrate.
- E’ esattamente di questo che si tratta, Con. Come puoi vedere... –
Ma l’uomo non lo lasciò proseguire.
- Una ragazza. – sentenziò, glaciale.
Leslie aveva la gola secca, ma deglutire era fuori discussione e probabilmente già solo i battiti del suo cuore stavano facendo più rumore del dovuto.
- Sì, è successo un fatto strano, l’abbiamo trovata così, nel sacco a pelo, e... –
- Chi l’ha trovata? –
Gli occhi freddi del Capitano saettarono a destra e a sinistra in cerca del colpevole. Ci fu un fremito collettivo, poi una mano si levò, lenta e titubante, a richiamare l’attenzione.
- Io, Signore. –
- Spero possa darmi una spiegazione, signor Cherry-Garrard. –
Il ragazzo annuì, le punte delle orecchie rosse come brace incandescente e gli occhi scuri spalancati di terrore e vergogna.
Fu a quel punto che un’altra lampada venne accesa dall’altro lato della baracca e nuove voci  si fecero sentire.
- Che cosa succede? –
- Perchè siete già in piedi? –
- Capitano, cosa c’è? –
Leslie vide Wilson portare una mano a coprirsi il volto, mentre Atkinson si grattava la testa e sospirava.
- A quanto pare abbiamo un intruso, Teddy. – spiegò il Capitano a uno degli ultimi arrivati presso il capannello di individui che si era ormai formato attorno a loro, un tizio dallo sguardo vispo nonostante il sonno ancora aggrappato alle palpebre.
- Con, lasciami spiegare, è una faccenda delicata. – lo avvicinò di nuovo Wilson, posandogli una mano su una spalla per essere sicuro di avere la sua completa attenzione.
Il Capitano portò lo sguardo su Leslie e poi su Cherry, infine tornò a fissare gli occhi in quelli di Bill Wilson.
- D’accordo. – concesse, girando sui tacchi e  facendogli segno di seguirlo, non prima di aver rivolto alla sconosciuta un’occhiataccia che le raggelò il sangue nelle vene.
Leslie guardò i due uomini scomparire dietro l’angolo della parete di legno e improvvisamente tutti gli occhi furono su di lei.
- Scott mi ammazzerà... – mugolò Cherry, pallido come la morte.
Il tizio brutto si alzò finalmente in piedi e andò a battergli un’amichevole pacca sulla spalla.
- Non preoccuparti, Cherry, sono sicuro che andrà tutto bene! – esclamò positivo.
Gli altri uomini, quelli che si erano svegliati dopo il Capitano, borbottavano tra loro nel tentativo di mettersi in pari con gli avvenimenti, incuriositi da quella presenza che non sapevano come spiegarsi e contemporaneamente attenti a cogliere qualsiasi parola fosse giunta dall’altro vano della baracca.
Leslie approfittò della luce per darsi un’occhiata attorno; si trovava in una costruzione interamente di legno che ricordava un incorcio fra una baita di montagna e uno di quei prefabbricati assemblati in quattro e quattr’otto nei campeggi. L’arredamento era più che spartano: i letti erano sostanzialmente brande messe insieme con assi e sottili materassi su cui poggiavano i sacchi a pelo, e al centro dell’unica grande stanza divisa in settori da casse accatastate le une sulle altre c’era un lungo tavolo, anch’esso di legno.
Nonostante nel complesso l’ambiente fosse decisamente ordinato, vi era una quantità incredibile di oggetti: tazze, guanti, scarponi, strani strumenti di cui ignorava assolutamente l’impiego e addirittura delle slitte incastrate fra le travi del soffitto.
1911.
Come era possibile che fosse tornata indietro nel tempo? Eppure, più i minuti passavano, più doveva ammettere che era tutto troppo preciso, tutto troppo dettagliato perchè potesse trattarsi di un sogno o di un’allucinazione. Per quanto inspegabile doveva farsene una ragione e incominciare a pensare a come cavarsela.
Una cosa era chiara: non avrebbe potuto semplicemente dichiarare di provenire da cent’anni nel futuro e sperare di essere presa seriamente. Avrebbe dovuto fingere, stare al gioco, cercare di omologarsi a quell’epoca per riuscire almeno a rimettere piede su suolo civilizzato. Forse, se fosse riuscita a tornare ad Oxford avrebbe scoperto come mettere fine a quell’assurdità. Forse avrebbe dovuto fare un cerchio alchemico, magari l’Università sorgeva su un antico terreno sacro agli dei pagani. Oppure le era capitato come alla protagonista di quella serie di romanzi di cui Katie parlava in continuazione, quella che dall’età contemporanea era piombata all’improvviso nella Scozia del Settecento.
Ma persino nelle opere di fantasia vi erano regole precise e i viaggi nel tempo non contemplavano mai anche spostamenti nello spazio.
Era così concentrata su simili pensieri che nemmeno si era accorta che Cherry-Garrard, il ragazzo con gli occhiali su cui sembrava ricadere la colpa della sua presenza in quel luogo, era stato convocato dal Capitano.
Infatti fu solo quando levò lo sguardo per studiarlo di sottecchi che si accorse che era sparito; al suo posto vi era adesso l’uomo dall’aria vispa, che senza osare rivolgerle la parola la scrutava da ogni angolazione come una gazza dispettosa e pronta al furto.
- Teddy! – lo rimproverò Atkinson con un’occhiata in tralice.
- No, è che mi chiedevo, Atch... Se noi siamo reali e lei è reale, come è possibile che... –
- Potrebbe essere legato ai campi magnetici! Siamo vicini al Polo Sud, giusto? Potrebbe esserci qualche interferenza che rende le mie cellule incorporee? – azzardò Leslie, stupendosi da sé di udire la sua stessa voce pronunciare una simile frase.
- Se così fosse dovremmo risultare incorporei anche noi. – la smontò immediatamente il medico, aggrottando le sopracciglia.
- Forse è perchè è una donna. Potrebbe essere un effetto che non si riscontra nel sesso maschile. – ipotizzò poi.
- In ogni caso non credo sia esatto parlare di “incorporeità”. Dopotutto riesce a stare seduta, non passa attraverso i mobili come un fantasma. Siamo solo noi che non riusciamo a toccarla. – osservò saggiamente l’uomo con il naso adunco.
Ma prima che altre ipotesi potessero essere avanzate, Cherry-Garrard fece capolino da dietro l’angolo.
- Il Capitano ha richiesto un colloquio. – comunicò, scuro in volto.
- Con me? – chiese Leslie, sperando vivamente di aver capito male.
Il ragazzo tuttavia annuì, indicandole la via con un gesto del pollice e camminando dritto verso il suo letto, dove si sedette nonappena lei si fu alzata nuovamente in piedi.
Il tragitto fu breve, le bastò voltare l’angolo per ritrovarsi di fronte a Wilson e all’uomo che da cui dipendeva la sua sorte.
- Si sieda. – le ordinò, indicandole uno sgabello accanto a un piccolo tavolino. Poi rivolse un cenno a Wilson e quello li lasciò soli con un ultimo sorriso incoraggiante per la giovane. Se lui era stato in grado di calmarla immediatamente con i suoi modi gentili e i suoi occhi sinceri, lo stesso non si poteva dire dell’altro uomo.
- Sono il Capitano Robert Falcon Scott e sono a capo di questa spedizione. – esordì.
Era più basso di Wilson, eppure il suo sguardo austero riusciva a renderlo imponente, quasi tiranneggiante. Aveva labbra spesse e rughe d’espressione che lasciavano indovinare un carattere più incline al rimprovero che alle risate.
- Il signor Cherry-Garrard e il dottor Wilson hanno già descritto ampiamente il suo ritrovamento, ma la mia curiosità a riguardo è rimasta insoddisfatta, temo. Dal momento in cui vorrei escludere qualsiasi motivazione di accusa nei suoi confronti gradirei conoscere la sua versione dei fatti, signorina. –
Le sue parole erano rispettose e misurate, le parole di un uomo abituato al comando, tuttavia erano intrise di un sospetto che difficilmente l’educazione riusciva a celare.
Per un assurdo istante Leslie si trovò a pensare che avrebbe davvero gradito la presenza di Wilson accanto a lei, ma si fece coraggio e parlò ugualmente.
- Mi chiamo Leslie Compton, ho diciannove anni e vengo da Oxford. O almeno Oxford è l’ultima cosa che ricordo prima di essermi risvegliata qui. Non ricordo che mi sia capitato nulla di anomalo, sono andata ad una festa e poi sono tornata a casa e mi sono messa a letto, di ciò che è successo dopo ne so esattamente quanto voi. – confessò.
Scott parve soppesare attentamente le sue parole, quasi avesse voluto scandagliarle alla ricerca di una menzogna che sapeva già di trovare.
Non si fidava di lei, era evidente.
- Immagino che fra le ragazze di Oxford l’ultima moda sia l’ordine del giorno. – fu il suo commento velatamente critico.
Leslie non colse immediatamente l’allusione, ma seguendo lo sguardo scettico dell’uomo si accorse che il suo pigiama non doveva esattamente essere ciò che una signorina per bene avrebbe indossato all’inizio del ventesimo secolo.
- Proprio così. Nel caso le interessasse, questa arriva dall’America. – replicò acida indicando con un cenno la maglietta scolorita che usava per dormire.
Si pentì immediatamente di quello che aveva detto e sentì il sangue affluire rapido alle guance. “Nel caso le interessasse”? Sul serio?!
Memore del colorito cadaverico di Cherry-Garrard, si preparò al peggio, ma inaspettatamente il Capitano propruppe in una risata trattenuta.
- Senta, signorina, apprezzo la faccia tosta, ma credo sia il caso di parlarci chiaro. Chi è che la manda? Sono i Norvegesi? – domandò.
Leslie strabuzzò gli occhi.
- Crede che io sia una spia? Guardi, glielo dico in totale sincerità, non avrei accettato di venire in questo buco di posto nemmeno per dieci miliardi di Sterline e di sicuro se fossi una spia non sarei così idiota da andare a schiacciare un pisolino dritta dritta nel sacco a pelo del nemico! La situazione è questa: io sono andata a dormire ad Oxford e mi sono risvegliata in Antartide, e l’unica cosa che mi interessa davvero è tornarmene a casa al più presto, il più lontano possibile da sacchi a pelo, pinguini e orsi polari! Ora, Capitano, crede che si possa fare, o dovrò giocare a fare il fantasma fino alla fine dei miei giorni? – sbottò, già stufa del teatrino.
Quell’uomo non le piaceva. Il suo atteggiamento autoritario era a dir poco seccante, e il modo in cui nemmeno si impegnava a celare la sua inimicizia nei suoi confronti glielo faceva stare ancora più antipatico.
Perchè se Wilson aveva immediatamente capito il suo problema e dimostrava almeno gentilezza Scott non poteva fare lo stesso? Insomma, era pur sempre una ragazza, dov’era finita la galantreria?
Ma probabilmente il semplice fatto di essere un Ufficiale, di occupare un posto di comando, gli faceva credere di essere esentato dalla buona educazione.
- Non ci sono orsi polari in Antartide. – fu l’unica replica che riuscì ad articolare.
- E’ uguale. – sbuffò Leslie nell’alzare gli occhi al cielo.
Se si era presentata al suo cospetto con l’intento di comportarsi bene e non inimicarsi nessuno, il suo buon proposito era già andato a farsi benedire.
Scott prese a camminare avanti e indietro nel piccolo vano creato dal muro di legno. Alle sue spalle quella che doveva essere la sua branda era sormontata da svariate piccole fotografie in bianco e nero i cui soggetti erano resi irriconoscibili dalla penombra.
- Temo di doverle comunicare una cattiva notizia, signorina Compton. La nostra spedizione riceverà supporto via mare al termine del primo anno di permanenza, quando arriverà una nave dalla Nuova Zelanda. Fino ad allora ho paura che non esista alcun modo di rimpatriarla. – sospirò, terribilmente serio.
- Sta scherzando. –
- Non oserei. –
Improvvisamente fu il silenzio. Leslie continuava a fissare Scott dritto nelle pupille in attesa della risata, del “ci sei cascata” canzonatorio, ma era più che evidente che quell’uomo non era un tipo burlone, e il mondo le crollò addosso.
- Vuole dire che da quando avete messo piede in Antartide non avete avuto contatti con la civiltà? Che non ne avrete fino a dio solo sa quando? Non c’è modo di contattare la Nuova Zelanda? Non avete una radio? E per le emergenze?! – incominciò, il tono più acuto di un’ottava e la respirazione nuovamente affannata.
- Non posso stare qui per un anno! Che cosa faccio? Non è possibile! –
Il Capitano le posò istintivamente una mano sulla spalla e, come tutti gli altri, sussultò appena nel trovarla inconsistente.
- Signorina, si calmi. Purtroppo non possiamo fare niente, la radio non è un mezzo abbastanza potente, qui a Cape Evans siamo a tutti gli effetti tagliati fuori dal mondo. Chiede come facciamo per le emergenze? Vogliamo credere di avere qui con noi tutto il necessario per poterle fronteggiare, e speriamo di non averne mai bisogno. – spiegò, la voce improvvisamente più morbida e negli occhi una luce meno dispotica.
- So che le può sembrare una prospettiva terribile, ma non possiamo offrirle nulla di diverso. E’ stata fortunata, comunque: non ho mai conosciuto un gruppo di persone più piacevole, affidabile e rispettoso dei miei compagni in questa spedizione. Se vorrà partecipare alla vita della nostra piccola comunità, scoprirà che qui ai Quartieri Invernali non c’è mai il tempo per annoiarsi. – aggiunse, l’ombra di un sorriso sulle labbra.
Leslie stava per rispondere con il suo solito “grazie, ma non sono interessata”, il ritornello che Katie si era ormai sentita ripetere infinte volte, ma si rese conto che non era più a Oxford e non poteva concedersi il lusso di fare la snob.
- Ho forse alternative? – domandò retorica.
Scott sorrise ancora.
- L’uomo è nato con il libero arbitrio! – commentò.
Forse un poco di senso dell’umorismo ce l’aveva, ma era di certo decisamente macabro.
Mosse ancora qualche passo avanti e indietro e per un attimo parve volersi sedere sulla branda. Rinunciò, tornando ad avvicinarsi a Leslie e  protendendo lentamente una mano verso di lei.
Seppur infastidita da quel gesto, la giovane non si scansò e rimase a guardare per l’ennesima volta in quell’assurda nottata una mano sconosciuta attraversare il suo corpo come se niente fosse. Non percepì nulla, né freddo, né calore, né pressione: i suoi occhi vedevano le dita dell’uomo svanire attraverso il suo braccio e lei non sentiva nulla.
- E’ proprio vero, le si passa attraverso... – commentò Scott senza che si riuscisse ad interpretare la sfumatura nella sua voce.
- Così pare. – borbottò lei, già stufa di essere additata come una strana creatura, un esotico animale dietro le sbarre dello zoo.
- Se lei è d’accordo, credo che sarebbe opportuno si facesse visitare dal nostro dottore. –
- Crede che possa curarmi? –
L’uomo si strinse nelle spalle e si passò una mano sul volto.
- Ce lo auguro, signorina Compton, o sarà un bel problema per entrambi quando arriverà la nave dalla Nuova Zelanda. –
Ecco, quella era una cosa a cui non aveva pensato. Se anche fosse riuscita ad andarsene da quel nulla assoluto di ghiaccio e freddo, se anche fosse riuscita a tornare in Inghilterra, che cosa avrebbe fatto? Come avrebbe potuto tenere nascosta la sua vera provenienza, la sua incorporeità, il mistero della sua presenza in un’epoca sbagliata?
Trasse un lungo sospiro e si passò una mano sul braccio nudo, indecisa su che cosa dire dopo quella dichiarazione. Al momento voleva solo tornare a dormire e non pensare a nulla per il resto della sua vita.
- Senta, Capitano. L’ultima cosa che desidero è portare scompiglio alla sua spedizione. Se potessi svanire come sono apparsa, mi creda, lo farei all’istante. Se proprio non posso abbandonare questo luogo per favore, ignoratemi, fate finta che io non esista nemmeno e proseguite con i vostri compiti. Sarò... sarò come un fantasma... – concluse con meno convinzione di quando aveva incominciato.
Dopotutto era quello che doveva apparire agli occhi di quegli uomini: impalpabile e fredda come un fantasma.
Scott tacque per un lungo istante, poi un nuovo sorriso, questa volta veramente gentile, andò a curvare le sue labbra.
- Spero sarà un fantasma amichevole! – commentò.
Leslie annuì, incapace di trattenere un lieve sorriso.
Si era cacciata davvero in un bel pasticcio, ma almeno il Capitano non sembrava intenzionato a farla fuori.









 
29 Agosto 2010, Londra


Per essere una giornata di addii, il sole era sorprendentemente splendente e il gelato sorprendentemente buono.
L’aveva comprato poco fuori dalla stazione di Paddington e doveva dire che, nonostante i colori sgargianti che suggerivano una contaminazione aliena, la vaniglia sapeva davvero di vaniglia e il cocco non aveva il solito schifoso retrogusto di cartone.
L’unico peccato era che, vittima della sua voracità, era durato poco più di dieci minuti, ma dopotutto aveva un treno da prendere, e trascinare i trolley e obliterare i biglietti con le mani occupate dal gelato gocciolante non sarebbe stato esattamente il massimo.
Adesso, seduta accanto al finestrino con lo zaino aperto di fronte a sé e il biglietto abbandonato sul sedile, Leslie rimpiangeva di non aver comprato una bottiglietta d’acqua aggiuntiva: il gelato fa sempre venire sete.
Bevve qualche sorso da quella che si era portata da casa, ma decise che sarebbe stato meglio razionarla per il viaggio. Il treno avrebbe impiegato più o meno un’ora a raggiungere Oxford, e una volta arrivata a destinazione chissà quanto altro tempo ci avrebbe messo a trovare il suo alloggio.
Controllò un’ultima volta che i documenti fossero ancora tutti assieme nella busta di plastica e chiuse lo zaino, per poi sprofondare nel sedile con aria sconsolata mentre il treno lasciava la stazione.
E così aveva inizio! La sua vita da universitaria, il suo mirabolante viaggio attraverso la conscenza! Sbuffò. Non ne aveva assolutamente voglia.
Eppure qualcosa doveva pur fare, no? Rimanere a casa a crogiolarsi nella nullafacenza era fuori discussione e cercarsi un lavoro... per carità! La mamma non avrebbe mai retto a saperla impiegata in un McDonald’s o in uno di quegli schifosissimi Pret dove il massimo traguardo era la targhetta di impiegato del mese.
No, una figlia senza una laurea era un disonore, e quindi eccola sul treno per Oxford, con i suoi opsucoli nello zaino, i libri di economia in valigia e la determinazione di affrontare tre anni di studi adagiata sui binari davanti al treno in corsa.
C’erano tante cose sbagliate nella sua vita, tanti errori, tanti momenti fuori posto. Talmente tanti che Leslie ci aveva rinunciato a raddrizzare ciò che la vita aveva deviato dal suo corso. A raddrizzare se stessa.
Non ne aveva più voglia.
Era infelice? Non avrebbe saputo dirlo. Rideva ancora, spesso fino alle lacrime, sapeva apprezzare un bel tramonto, il profumo di cannella che lasciava le pasticcerie alla mattina presto, quando con una scusa qualunque –di solito il jogging- lasciava casa e se ne andava al parco.
Era andata in vacanza in Francia, quell’estate, ed era stato piacevole. Aveva amato la salsedine, il vento fresco, le vie strette di Rouen. Aveva ancora le foto sul cellulare, nella cartella di Luglio.
No, non era infelice. Aveva tutto quello che voleva senza nemmeno il bisogno di chiederlo. Eppure qualcosa non andava.
Forse era che lei non era fatta per quello. La vita, s’intende.
A volte si chiedeva se gli altri non ne vedessero le assurdità, le incongruenze, la meschinità. Come potevano avere gli occhi così velati da non essere schifati dal mondo? Ma ancora non era il mondo a farle venire la nausea, non erano le giornate di pioggia o il vento freddo della City.
Era la gente.
Egoista, scontata, banale.
Le loro storie tutte uguali, prevedibili, grige, i loro occhi spenti, disinteressati, sprezzanti.
A Leslie erano sempre piaciute le storie, le piaceva ascoltarle e poi raccontarle di nuovo, ricche di dettagli fantasiosi e avvincenti. Ma aveva smesso, perchè a papà dava fastidio e la mamma lo trovava infantile.
In un’altra vita avrebbe trovato Oxford un’avventura eletterizzante, ma adesso le sembrava di marciare verso qualcosa di già visto.
Sarebbe arrivata in un luogo apparentemente nuovo, avrebbe conosciuto persone apparentemente interessanti, apparentemente affezionate, e sarebbe finita a uscire alla mattina presto a fare jogging per non pensare alla delusione di aver scoperto che tutto il mondo è paese, che a nessuno importa degli altri.
Condividere, nel bene e nel male, non andava più di moda.
Sospirò ancora, notando appena che il paesaggio fuori dal finestrino era cambiato e che Londra ormai era alle spalle da un pezzo.
Tutto quello che desiderava al momento era sparire agli occhi degli altri, essere dimenticata, diventare un fantasma.
Allora, forse, avrebbe smesso di essere delusa dagli umani.
 
 









 
 

23 Aprile 1911, Cape Evans


Concluso l’interrogatorio, i lineamenti di Scott si erano notevolmente distesi e l’aveva accompagnata nuovamente di fronte agli altri uomini che, curiosi come faine, li aspettavano riuniti attorno al tavolaccio. Lì, con gli occhi di tutti puntati contro, aveva tenuto un breve discorso in cui aveva riassunto le disposizioni appena prese e aveva consegnato Leslie ad Atkinson con l’ordine di visitarla per bene e vedere se riusciva a scoprire qualcosa sulla sua bizzarra condizione.
Inutile dire che la visita era stata più difficile del previsto.
- Devo dire, signorina, che auscultare un paziente in questo stato era l’ultima cosa che mi sarei aspettato dalla mia professione. – commentò l’uomo allegramente, abbandonando lo stetoscopio sul tavolo.
Non aveva praticamente aperto bocca negli ultimi cinque minuti se non per sussurrare fra sé e sé le sue osservazioni, eppure tutto nei suoi movimenti lasciava trasparire uan certa rilassatezza, come se venire buttato giù dal letto nel cuore della notte da una perfetta sconosciuta non lo avesse turbato neanche un po’.
- Non si preoccupi comunque, da quello che ho visto è sana come un pesce! Il che in effetti è positivo fino a un certo punto. – aggiunse con una nota più seria nella voce.
Leslie tornò a infilare la maglietta nell’elastico dei pantaloni e si voltò verso Atkinson: alla luce delle lampade poteva finalmente concedersi di osservarlo un po’ meglio. Aveva folti capelli scuri e zigomi pronunciati e le mani ferme e precise di un chirurgo.
- Significa che non sappiamo ancora che cosa mi sia successo? –
Il medico scosse la testa e le fece segno di passargli un quadernino abbandonato su una mensola.
Scribacchiò velocemente qualcosa e si sedette di fronte a lei, un braccio appoggiato pigramente allo schienale e le gambe accavallate.
- Potrebbe davvero essere qualsiasi cosa, per quello che ne sappiamo la causa potrebbe essere in Inghilterra. E’ davvero strano, non sente il freddo ma percepisce il dolore... – considerò.
- E se fosse il DNA? – suggerì Leslie.
L’uomo alzò lo sguardo dai suoi appunti e inarcò un sopracciglio.
- Come? – chiese, confuso.
Tutto il gelo che non aveva sentito fino a quel momento le si avvinghiò alle ossa nello spazio di quella semplice domanda.
Il DNA non era ancora stato scoperto, e lei si era fregata come un’idiota.
- Nulla, nulla, dottore! Balbettavo, mi capita a volte... – mentì spudoratamente pregando che l’uomo le togliesse di dosso il suo sguardo sospettoso.
Fu accontentata e Atkinson tornò a sorriderle gioviale.
- A quanto pare dovremo trascorrere un intero anno assieme. Mi chiami pure Atch, signorina...? – fece, cercando di ricordare il suo nome.
- Leslie. Solo Leslie, per favore. E niente formalità, sembra di essere a scuola! – ridacchiò, già convinta che quell’Atch avrebbe reso la permanenza al Polo un po’ meno noiosa di quanto non aveva temuto inizialmente.
Il medico le fece cenno di alzarsi e le indicò un fagotto che qualcuno aveva abbandonato sul tavolo poco prima che iniziassero la visita.
- Allora, Leslie, vestiti e raggiungimi fuori dalla baracca, voglio fare un esperimento! – esclamò, cambiando registro come se niente fosse.
Senza attendere alcuna replica, la lasciò sola e si incamminò verso il chiacchiericcio che proveniva dall’altro lato dell’edificio.
La giovane indossò velocemente i pantaloni lasciando le bretelle a penzolarle ai fianchi: il taglio maschile dell’indumento faceva sì che non ne avesse bisogno. Abbandonò anche la maglietta del pigiama e infilò senza tante cerimonie una maglia grigia dalle maniche spropositatamente lunghe che arrotolò fino al gomito; per ultimi provò gli scarponi che le avevano lasciato ai piedi del tavolo, provvisti di spessi calzettoni di lana. Per fortuna quelli calzavano alla perfezione, o nell’arco di dieci minuti si sarebbe ritrovata i piedi pieni di vesciche.
Chissà di chi erano quegli indumenti... Sperò vivamente che i precedenti proprietari non avessero avuto i pidocchi o quant’altro e sistemò meglio i pantaloni, ficcandone gli orli inferiori bene dentro agli scarponi, poi si incamminò verso la porta della baracca.
Ad ogni passo poteva chiaramente percepire gli uomini interrompere le loro occupazioni per guardarla circumnavigare il tavolo e ritrovarsi in un altro spazio rettangolare dove altri letti ospitavano altrettanti membri della spedizione.
Dio, quanto avrebbe voluto sprofondare!
La voce di Scott tornò alla sua coscienza con impertinenza. Un fantasma amichevole, come no! Tutto quello che voleva era mandarli tutti al diavolo e tornare ad Oxford. Almeno là la gente la ignorava davvero e non la fissava con tanta insistenza. Insomma, non avevano mai visto una ragazza?!
Senza azzardarsi a sollevare lo sguardo e cercando di non pensare alle sue guance in fiamme proseguì dritta verso la porta e uscì senza nemmeno voltarsi indietro.
Atch la aspettava fuori con almeno altri due maglioni addosso e una pipa a penzolare dalle labbra.
- Una vera esploratrice! – commentò soddisfatto, ottenendo solo che la suddetta esploratrice alzasse gli occhi al cielo. Ma la sua espressione seccata fu brutalmente spazzata via dallo spettacolo che si apriva davanti a lei.
Il cielo era illuminato da una luce dorata e danzante che faceva impallidire le stelle, sotto di esso un’infinita distesa scura e di tanto in tanto punteggiata di bianco si riversava lungo la costa con il cadenzato e confortante fruscio della risacca. L’aria crepitava appena in piccole nuvolette di vapore nel lasciare le labbra e ogni cosa riluceva di quello spettacolo meraviglioso.
- Benvenuta a Cape Evans. –
Atch sorrise sornione e diede un tiro alla pipa, le braccia conserte e il peso del corpo appoggiato allo stipite della porta.
Leslie lasciò che un’altra nuvoletta di vapore abbandonasse le sue labbra, gli occhi ancora spalancati di fronte all’aurora.
- Dio, questo posto è meraviglioso... – sussurrò.
- In trent’anni di esistenza non ho mai visto qualcosa di altrettanto spettacolare. E’ un peccato che tu sia arrivata alle porte dell’inverno australe... Oggi è l’ultimo giorno di sole. Goditelo pure! Magari più tardi Cherry può farti fare un giro qua attorno... –
- Non so se è il caso... – borbottò ficcando le mani in tasca.
- Anzi, credo che voglia uccidermi, dopo il casino con il Capitano. – aggiunse.
Atch scoppiò a ridere e rilasciò una boccata di fumo.
- Cherry? Quel ragazzo non farebbe male a una mosca. E’ solo facilmente irritabile, ma dopotutto non lo sono tutti a Oxford? –
A quella frecciatina Leslie non poté fare a meno di arrossire vistosamente.
- Mai senza motivo. – replicò, punta sul vivo. Poi si scrollò di dosso quell’espressione cupa e raccolse una manciata di neve fra le mani.
- E l’esperimento? – chiese, curiosa.
L’uomo le rivolse un’occhiata indecifrabile che la mise in soggezione.
- Direi che ho raccolto abbastanza dati. Andresti a chiamarmi Bill? Digli che porto i pony a fare due passi e che ho un paio di cose da chiedergli. –
La ragazza annuì piano e lasciò cadere la neve a terra. Rivolse ad Atch un lieve cenno del capo, indecisa se salutarlo o meno, poi rientrò nella baracca in cerca degli occhi chiari di Bill Wilson e in fuga da quelli di tutti gli altri.
Non erano passate due ore da quando era arrivata e già sentiva che sarebbe stato l’anno più lungo della sua intera esistenza.
















 
Note:

Ben ritrovati a tutti!
Pessime notizie per Leslie: a quanto pare la permanenza in Antartide sarà ben più lunga del previsto e nessuno sembra particolarmente elettrizzato da questa prospettiva.
In questo capitolo abbiamo fatto la conoscenza del Capitano Scott, e a caratteraccio bisogna dire che se la gioca proprio con la nostra ragazza del futuro! Eppure se per certi versi il povero Cherry-Garrard non aveva torto ad essere terrorizzato, per certi altri sembra che il Capitano sia quasi divertito dalla situazione. E se non divertito sicuramente incuriosito. Dopotutto anche per lui è conveniente risolvere il problema di Leslie prima che arrivi la nave di supporto...
E poi c'è Atch, con il quale Leslie si è lasciata sfuggire forse qualche parola di troppo. Che abbia capito che c'è qualcosa che non va in lei? E Leslie stessa può dirsi al sicuro a Cape Evans?
Spero che anche questo capitolo vi abbia incuriositi e ringrazio immensamente come sempre chi ha letto questa storia!

Kisses,

Koori-chan
  
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