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Autore: Jultine    11/01/2017    0 recensioni
"Sono un bastardo, un egoista, sono tutto ciò che mai avrei voluto diventare. Ora, rannicchiato contro le pareti fredde del bunker, mi scopro più umano che mai. E mi disgusta. Mi terrorizza."
Genere: Dark, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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SOGNO IN NUCLEARE




Sono un bastardo, un egoista, un pezzo di merda. Sono tutto ciò che mai avrei voluto diventare. Ora, rannicchiato contro le pareti fredde del bunker, mi scopro più umano che mai. E mi disgusta. Mi terrorizza. Non riconosco più il mio riflesso nei cocci di vetro, nelle pozzanghere, nell’acqua torbida e irradiata dei torrenti. Ricambio lo sguardo di quell’estraneo di fronte a me e comprendo che – ormai – dai suoi occhi scuri non c’è più via d’uscita. Un tunnel di rimorso, di fame, di miseria. Senza fondo. Un vortice sporco di umanità.   
          Precipitare nel baratro è una sconfitta graduale, caduta libera in assenza di gravità. Ti rendi conto di sprofondare – e di marcire – ma non riesci ad annaspare o gridare aiuto. Nel silenzio nessuno può sapere quale sia il momento giusto per lanciarti una corda. E precipiti, ti inoltri nella merda fino a soffocare. Poi, se hai avuto fortuna – e coraggio – muori. Smetti di esistere nel mondo e nei ricordi di chi ti ha accompagnato, fai da comparsa sottopagata nella continuità dello spazio e del tempo e…sparisci.   
          Io non voglio sparire. Voglio implodere. Cancellare la mia nascita dall’albo dell’esistenza. Mutarmi in divinità, oltre ogni barriera, oltre ogni dolore.         Per questo sono un egoista e un bastardo e un pezzo di merda. Perché mentre sopra di me infuria una delle solite tempeste nucleari, io mi trovo rannicchiato in una cella sotterranea. Fuori c’è gente che muore e che, in fondo, non se lo merita. Era gente che aveva voglia di esistere.     
          Dio dà il pane a chi non ha i denti.      
          Gestisco una comunità di sopravvissuti. Ci siamo organizzati discretamente, con le nostre quattro baracche di legno e lamiere. Ci siamo voluti bene, abbiamo collaborato. Poi ho cominciato a sprofondare e a far finta di avere ancora la terra sotto ai piedi. Ho imparato ad odiarli. Mi sono ostracizzato dal dolore delle responsabilità, sono diventato ancora più meschino, più uomo, e ho costruito questo bunker. Lontano dall’accampamento, lontano dai loro sguardi e dalle loro necessità, lavorando di notte come un fuggitivo.
Loro non sanno, non l’hanno mai saputo e mai dovranno saperlo. E ad ogni tempesta, mentre prego che ne muoiano il maggior numero possibile, mi illudo di non aver ancora toccato il fondo del baratro.       
           Mi accendo una sigaretta e mi rannicchio contro le coperte. L’ambiente si riempie di fumo biancastro che contro i neon crea un’atmosfera spettrale. Credo che la fine assomigli a questo: a un uomo solo nella propria meschinità che si fuma una cicca dopo l’altra in attesa di chissà che. Suggestivo.        
          Decido di controllare la situazione in superficie.      
          Mi arrampico sulla scaletta arrugginita e sbircio dall’oblò. Scorgo gli alberi piegarsi contro il vento, il cielo ancora verdastro. È ormai notte inoltrata, dovrei provare a posare la testa sul cuscino e attendere fino a domani mattina. Alle prime luci dell’alba sbucherei da chissà dove preoccupandomi dei sopravvissuti e facendo la conta degli irradiati. E seppellendo i morti, sempre troppo pochi.
          L’unica cosa che vorrei, adesso, è la completa solitudine. Il monopolio assoluto sulla mia coscienza, sulle mie azioni e sulla mia accidenti di vita. Un sogno in nucleare.
          Faccio per stendermi che sento la radio gracchiare il mio nome. Mi volto sconcertato: non immaginavo che qui sotto arrivasse il segnale. Eppure, se tendo l’orecchio, in mezzo al crepitìo del rumore bianco posso afferrare qualche sillaba.         
          Non posso rispondere. Se afferrassi lo speaker probabilmente mi localizzerebbero e verrei cacciato a pugni dall’accampamento. Devo resistere, ignorare quella dannata radio e chiudere gli occhi. Passerà. Solo allora potrò uscire fuori e continuare la mia vita. Fino ad allora, però, sono un morto.                  
          «Derrick! Derrick, ci senti? Amico, siamo spaventati a morte, rispondi.»              
          Cristo, da dove diavolo stanno trasmettendo? Mi brucia il petto, ho lo stomaco sottosopra. Con quest’ansia addosso non riuscirò ad addormentarmi nemmeno con dieci dosi di Clemax.               
          «Derrick, cazzo! Parla Jun, siamo a nord-» la voce si interrompe, la radio tossicchia un po’, poi riparte «Siamo a nord della casa base, c’è una cantina.»
          Cosa?
          «Cantina, ripeto. Cantina! Mi senti? Rispondi!»     
          Non capisco. Ho esplorato la zona qui intorno, quando siamo arrivati. Ho scoperchiato praticamente tutto il vecchio circondario, ho frugato in tutti i cassetti e gli armadi delle case, ho sollevato tutti i tappeti e spostato tutti i quadri. Come può essermi sfuggita una botola o qualcosa che conducesse ad una cantina? Mi sento male. Ciò significa che loro si trovano al sicuro e non mi hanno detto nulla. Ma perché contattarmi adesso se…      
          «Derrick, ultima chiamata. Sono Jun, rispondi.»         
          Sollevo lo speaker.
          «Ragazzi.» soffoco. Dall’altro lato della radio mi arrivano grida euforiche.    
          «Accidenti, amico, ci hai fatto perdere dieci anni di vita! Non ci sono fulmini per ora, raggiungici. Sbrigati!»     
         
Obbedisco con una strana delusione addosso. Avrei voluto che morissero tutti quanti, intossicati dalle radiazioni. Avrei voluto ereditare la terra di tutti per poterla accompagnare nella morte, da solo. Avrei voluto troppe cose sbagliate. Ed ora, semplicemente, non riesco a comprendere: da dove viene questa delusione? Dal saperli al caldo, sotto un tetto di piombo e cemento, oppure dal riscoprirmi meschino? Forse da entrambe le cose. Oppure solo dalla consapevolezza di non essere abbastanza umano, nel senso buono.
   
 
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