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Autore: visbs88    11/01/2017    5 recensioni
“Abayo”, gli aveva detto al telefono.
E c'era stato molto, racchiuso in quella parola rude e breve: la rinuncia, la fine di qualcosa che solo loro sapevano aver avuto inizio.
Era stato lo spezzarsi di quei baci nel buio dei vicoli, del sangue colato dalle loro ferite e leccato dalle loro lingue avide. Era stato il ricordo dell'odio bruciante che aveva legato i loro occhi e le loro anime, e il non poter accettare di essere vicini – ma vicini erano arrivati. Era stato abbandonare per sempre quelli che erano stati due ragazzini in cerca di se stessi e nulla più, in fondo.

[Scritta per il P0rnfest #10 di fanfic_italia]
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Izaya Orihara, Shizuo Heiwajima | Coppie: Izaya/Shizuo
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: Spoiler!, Violenza
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Iniziativa: P0rnfest #10 indetto dalla community di LiveJournal fanfic_italia.

Prompt: Izaya Orihara/Shizuo Heiwajima, “Abayo my ass”. Mega-special thanks ad Amberle_Dubhe, alla quale tale prompt è da attribuire! *_*

 

Note: buttata giù pressoché di getto in piena notte qualche giorno dopo aver visto il finale di Ketsu, sono piuttosto sicura che questa cosina non sia nulla di che, ma credo di volerle bene. Sono anche certa al 99% che le persone del fandom lo sappiano, ma giusto per chiarezza, “Abayo” significa “Addio” (per quanto in maniera piuttosto rozza e informale), ed è esattamente ciò che Shizuo dice al telefono a Izaya in lingua originale nel famoso scambio prima che inizino a cercare di uccidersi *sob* – no, in realtà la cosa è stata bellissima e niente, spero di trasmettere un po' di emozione con questa mia sciocchezza. Buona lettura, grazie a chiunque lascerà un parere o passerà a leggere!

 

 


 

 

 

 

Abayo.

 

 

 

 

Abayo”, gli aveva detto al telefono.

E c'era stato molto, racchiuso in quella parola rude e breve: la rinuncia, la fine di qualcosa che solo loro sapevano aver avuto inizio.

Era stato lo spezzarsi di quei baci nel buio dei vicoli, del sangue colato dalle loro ferite e leccato dalle loro lingue avide. Era stato il ricordo dell'odio bruciante che aveva legato i loro occhi e le loro anime, e il non poter accettare di essere vicini – ma vicini erano arrivati. Era stato abbandonare per sempre quelli che erano stati due ragazzini in cerca di se stessi e nulla più, in fondo.

La luce della televisione, la telecronaca di un delitto, la lingua di Izaya tra le sue gambe, la sua bocca avvolgente; i loro petti tremanti e nudi, sussurrarsi “Ti odio” e poi stringersi, le guance di Izaya che si tingevano di rosso al di sotto dei suoi occhi scuri e lucidi mentre apriva le gambe e Shizuo, per un istante, si illudeva che tutto potesse finire bene, con quella mosca che lo chiamava mostro. Si erano abbracciati forte e avevano chiamato piano il nome dell'altro; era stato piacere timido all'inizio, avido e semplice. C'era stato anche dolore, certo – per Orihara, per i morsi e i segni rossi sul collo di quando avevano iniziato a odiarsi di più, ad amarsi di più. E quella parola, mostro, sempre sulle labbra di lui, per gioco e per ferire – Shizuo stava dicendo addio anche a quell'etichetta, datagli da un uomo che l'aveva spedito in prigione, e gli aveva scalfito la pelle con lame e unghie, veleno e miele.

E avevano sentito la distanza crescere a ogni errore, a ogni pugnale, a ogni colpo e a ogni osso infranto. Avevano fatto l'amore per ammazzarsi, poi, e Izaya aveva iniziato a ridere al posto di gemere – le insicurezze sepolte nella sua solitudine, un baratro in cui Shizuo non aveva mai avuto intenzione di affondare. Acciaio e asfalto e liquidi e fumo: tutto ciò che era rimasto di loro, fino allo sfociare della guerra, e al compimento di tutto ciò che di orrendo quella mente brillante aveva potuto tramare.

Ma mentre Shizuo si accasciava, il gas nei polmoni e il sorriso vuoto di Izaya sopra di lui, capì che non poteva finire.

Che Abayo era solo una puttanata, in fondo – anzi, un desiderio.

Erano il fardello l'uno dell'altro, e non avrebbero mai potuto rinunciare. Erano vita, erano il pulsare delle vene e piacere graffiante – erano coloro che, non importava quanto si odiassero, sarebbero sempre finiti a guardarsi negli occhi e a volere che la città non li avesse ingurgitati così a fondo, così giovani. Shizuo non sapeva se fosse destino, o una maledizione. Non sapeva cosa fosse a incatenarlo a quella voce, a quel volto dalle lunghe ciglia e dalle labbra beffarde, a quei capelli neri e a quegli abiti che tutta Ikebukuro conosceva – che in tanti forse avevano tolto dal corpo di Izaya Orihara, ma che solo lui aveva strappato, lacerato, odiato, bramato, avuto. Ricordava il culmine del piacere, il corpo caldo e magro e fragile, le volte in cui l'aveva cosparso di baci e quelle in cui gli aveva lanciato addosso tutto quello che trovava pur di distruggerlo; sapeva che, da sempre, Izaya si mordeva le labbra sia quando stava per colpire, sia quando non poteva più resistere all'estasi.

E sapeva che sempre, sempre, sempre, sarebbero tornati l'uno all'altro. E la morte in realtà non esisteva – non esistette nemmeno quando Izaya accese il fiammifero e lo lasciò cadere.

Avrebbero tentato di uccidersi in eterno, e non sarebbero morti mai. Perché quale significato avrebbe avuto, non potersi più rincorrere?

Abayo...” si ripeté, vedendo la piccola scintilla cadere dal cielo nero e dalla mano bianca che tante volte gli aveva accarezzato i capelli.

Fece molto più male sapere che avrebbe combattuto, anziché l'idea di morire. Che avrebbero fallito nell'intento di lacerarsi, in un modo o nell'altro, perché era quello che sempre accadeva – e di nuovo avrebbero intrecciato i loro corpi nella lotta e nel sesso, all'infinito, per sempre.

Non lo voleva. Ma era come doveva essere.

E se qualcuno doveva morire davvero, quello non sarebbe stato Shizuo Heiwajima.

Abayo... col cazzo”.

E l'aria prese fuoco.

   
 
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