Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: RLandH    12/01/2017    0 recensioni
Le città dimenticate era il modo carino con cui si era preso a chiamare i distretti del Muro Maria, dopo la caduta di Shingashina e la perdita dei territori compresi tra la prima e la seconda cinta muraria. Il Muro Rose aveva aperto le sue porte a quasi tutti gli abitanti che avevano cercato rifugio – sbarazzandosene poi nell'immediato dopo – ma la notizia della caduta non era arrivata alle altre città fortifica perché potessero salvarsi.
Erano stati letteralmente lasciati a morire, dimenticati.
Nascosti sotto la povere di mostri senz'anima e pile di cadaveri.
Finn ci aveva pensato, lo doveva ammettere, a tutte quelle centinaia di persone che erano rimaste lì a marcire e morire d'inedia, fame e che altro.

Si, diciamo che per tutta la lettura (e visione) di SNK mi sono chiesta: ma agli tre distretti, del Muro Maria, cosa è successo?
E da lì e venuta fuori davvero tanta ... tristezza.
Un bacio a chiunque volesse leggere.
Genere: Angst, Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Altri, Erwin Smith, Levi Ackerman, Nanaba, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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NB: Questo capitolo è trash
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M O R I T V R I   T E  S A L V N T



F O R T V N A M    C R I M I N I S    P V D E A T     S V I

 

 

 

Il sole non era ancora sorto. Dalle imposte non trapassava neanche un filo di luce lunare, soffocata dalle nubi. La stanza era avvolta in un buio così pesto da non permettere di guardare nulla e il silenzio regnava sovrano, interrotto solamente dai loro respiri. Non riusciva a vedere, però poteva toccare il corpo che gli era accanto, era caldo e gli dava sicurezza.
“Cosa ti affligge, Bas?” si era sentito chiedere, da una voce impastata dal sonno e lui aveva continuato a guardare dritto davanti a se al buio in cui sprofondavano i suoi occhi, “Domani è il suo compleanno” aveva sussurrato lui, sentendo gli occhi pizzicargli. Non era fatto per i discorsi profondi e a lui piaceva ridere, scherzare e civettare, non quello, quello lo disturbava. “Chi?” si era sentito nuovamente domandare, “Mia sorella” aveva risposto, “La più grande” aveva precisato ed aveva cominciato a piangere, sentendo il bullone che portava legato al collo pesante come un macigno sul petto.
“Quanto vorrei aver risposto alle sue lettere” aveva singhiozzato.
“Ti capisco” gli era stato detto, prima di sentire le labbra sulla tempia in una bacio gentile.

 

 

 

(845)
La prima volta che aveva ucciso aveva nove anni e la sua vittima era stata un gatto.
Si chiamava Fett ed era dei vicini di casa, anche se veniva sempre da loro e si infilava nella sua casa passando dalla finestra della cucina. Sua madre sembrava adorarlo, specie quando il grasso gatto si strusciava tra le sue caviglie. Aveva smosso con un po' di cuore anche suo fratello che gli dava del cibo e lo grattava sempre sotto il mento.
Fett era tondo, con il pelo d'un bianco sporco con macchie grigio cenere, non era brutto, anzi era un gatto piuttosto carino e morbido. In realtà lo aveva preso in braccio molto volte ed aveva schiacciato il viso sul manto gonfio del gatto.
Poi aveva triturato del vetro con estrema minuzia, utilizzando il mattarello di sua madre, prima di mischiarlo agli scarti del pollame per darlo a Fett.
Lo aveva guardato morire, con un brivido a scuoterla nel profondo.
Non odiava quel gatto, anzi le piaceva, lo aveva fatto spinta solo dal principio di voler sapere cosa si provava.
Che poi fosse passata dai gatti alle persone, Augusta stessa non se n'era stupita.

 

“Chi non è stato arrestato?” aveva chiesto la sua compagna di cella, cercando di schiacciarsi quanto più possibile sulla parete addossata a quella adiacente. Ausgusta era rimasta in silenzio con la schiena posata sul freddo della pietra, seduta sulla brandina a riflettere. Il Muro Maria era crollato, che assurdità.
Non riusciva neanche a pensarla una situazione del genere, che per lei era arrivata come la salvezza, Briemer era scivolata nel caos letteralmente e tutti si erano dimenticati che lei doveva essere impiccata.
Avrebbe dovuto essere già morta da almeno due giorni, ma le uniche volte che le guardie si erano palesate erano state per potare solo gente dentro.

“Fritz e Friedrich” aveva commentato un uomo dall'altra parte della parete, rispondendo alla donna che aveva parlato, “Engel” aveva annesso la della donna, c'era evidente frustrazione nella sua voce, “Ma non è quello che si è affettato da solo con le sue lame?” aveva domandato retorica una voce, veniva da una cella diversa. “Ed il dottore?” aveva chiesto qualcuno era una voce nuova, “Lui sembra capace” aveva constatato qualcun altro – era abbastanza lontano da loro, una delle celle infondo al corridoio. “Lo sono” chi aveva risposto era stata la prima voce maschile che Augusta aveva sentito, quella che aveva risposto alla donna. “Spero tu abbia ragione, Leon” aveva soffiato la compagna di cella. “Io non posso crederci” aveva mugugnato qualcuno, “Oh per favore, tu devi solo stare zitto” aveva risposto con una certa rabbia qualcun altro, “Che è tutta colpa di quella testa di cazzo di tuo fratello” aveva aggiunto. Per Augusta era un impresa riuscire a stare dietro a tutte quelle voci, che sembravano tutte dire le medesime cose e senza riuscire a distinguere effettivamente chi stesse parlando – e di cosa – non era riuscita a venirne a capo. Alla fine aveva rinunciato.

Il caos, i subbugli e l'isteria nella prigione era solo peggiorata; qualcuno aveva cercato di convincere gli uomini a mantenere basso il brusio o le guardie sarebbero venute a ficcanasare.

“Il gatto” l'aveva interrotto una voce, Augusta aveva potuto identificare a provenienza in un uomo dalle ombre rade sulle guance che condivideva la cella di fronte la loro, “E quella ragazzina pallida” aveva ripreso lui, passandosi una mano sul mento.
La donna che condivideva la cella con Augusta ne aveva preso atto, annuendo. Era piuttosto piccola di statura, o almeno lo era rispetto lei, poteva comunque essere definita bassa; aveva i capelli scuri che arrivavano alle scapole, erano spettinati e tutto quello che Augusta riusciva a guardare era il simbolo delle ali incrociate sulla schiena: una legionaria. Eccetto lei e quella vecchia cariatide di Tom – che sarebbe morto lì dentro probabilmente – erano tutti membri di quel corpo militare. “Humbert è bravo, non lo troveranno mai; lei … Frejya, non lo so” aveva commentato la donna tra sé e sé, scivolando seduta per terra, con le spalle ora rilassate, passandosi le mani tra i capelli scuri.
“Anche Miloh” qualcuno aveva strillato; Augusta aveva potuto vedere la donna sollevare gli occhi al soffitto come se quella notizia l'avesse colpita repentinamente, “Baumann” il tono era sembrato quasi esasperato.
“Ma qualcuno ha visto Shoshanna?” l'ultima voce era stata piuttosto alta.
Prima che la sua compagna di cella potesse commentare qualsiasi cosa, Augusta aveva parlato: “Cosa sta succedendo?” aveva chiesto, passandosi le mani sulle braccia ossute. La donna l'aveva guardata; aveva un viso molto più giovane di quanto Augusta si fosse potuta immaginare, forse erano molto più vicine d'età di quanto avesse pensato fino a quel momento, aveva occhi scuri la ragazza, ma illuminate dalle fiaccole delle prigioni sembravano di un rosso bruno come il sangue. “Stiamo morendo” aveva risposto pratica quella.
“Caporale Charlotte Schwarz” si era presentata, allungando una mano verso di lei, si era dovuta chinare un po' in avanti per permettere che la distanza tra di loro si accorciasse, per quel che valeva le celle erano praticamente buchi. Lei si era sporta di rimando, stringendo la mano: “Augusta Rommel” si era presentata.

 

La donna aveva passato nuovamente le dita attorno allo strano ninnolo che indossava come monile, un bullone – probabilmente tolto da una manovra - legato ad uno spago e Fritz si era arreso a comprendere che quella azione fosse guidata da un nervosismo. Anche quando aveva trovato lo scheletro bruciato battello arenato sulla ghiaia ai piedi del lago salto aveva sfiorato ripetutamente l'oggetto.
Era una donna senza particolarità degne di note, una donna dal naso appuntito e gli zigomi puntellati di lentiggini scure; un viso affilato, occhi della sfumatura del teak e capelli bruni; continuava a tormentarsi le piccole labbra con i denti. “Quanto dobbiamo aspettare ancora?” aveva chiesto Engel, con le spalle incavate ed un coltellaccio in una mano. Fritz era al suo fianco e fumava con le dita tremolanti.
Da che il giovane fattore aveva detto a lui e a Charlotte che il muro era crollato ed i giganti erano entrati, quella era la sua prima sigaretta, la prima in cinque giorni.

Il privato Brhol aveva il posato il fucile contro il muro, mentre egli era seduto per terra, con le spalle infossate, le ciocche fulve tirate via dal viso. “Il Caposquadra Schuster sarà qui fra poco” aveva detto quello con un tono un po' tremolante, tutto di lui sembrava irrequieto e Fritz non si sentiva di giudicarlo.

Il luogo dove si erano riuniti era a tutti gli effetti l'appartamento di un Caposquadra – in particolare quello della drappello di Brhol – della Guarnigione, che sembrava essere quello dietro una quanto plausibile rivoluzione che sembrava sul punto di compiersi. “Ma secondo voi … al sud, cosa staranno facendo?” aveva chiesto il ragazzo della guarnigione, morendosi le labbra. “Tutto il possibile per chiudere la breccia, credo” aveva risposto Fritz, “Non possiamo sapere l'estensione del danno, ma so che stanno facendo tutto ciò che è in loro potere” aveva detto con certezza disarmante lui.
Perchè si fidava di Erwin Smith.

Soshanna aveva emesso una specie di sbuffo, “Non ha importanza quello che fanno loro al sud- Il dottor Meyer ha ragione però, non sappiamo l'estensione del danno, potrebbero impiegarci da giorni a mesi. Briemer non è fatta per resistere ad un assedio” aveva spiegato secca, continuando a passare le dita sul suo bullone. “Pensate possano davvero recuperare il muro?” aveva chiesto Brhol, “Ma poi come è successo che è venuto giù?” aveva rilanciato dunque Engel, che come Fritz aveva sentito le stesse improbabili ipotesi che si erano fatte nel tribunale.
Shoshanna – che era un ingegnere e probabilmente si era già costruita le sue teorie – aveva guardato lo stazionario, “Sicuramente hanno buttato giù la porta, le mura sono troppo resistenti” aveva cominciato quella, “Come non riesco ad immaginarlo, ho sentito di gente parlare di fatti davvero difficili da credere, ma considerando che il rivestimento della morta è in mattoni e legno c'è voluta una forza immane” – si era arrestata, tormentandosi un labbro con i denti – “Forse l'ipotesi del gigante alto sessanta metri che calcia la porta potrebbe avere quasi senso” e come aveva pronunciato quelle parole, i visi di tutti gli uomini della stanza si erano fatti esangui. “Però sì,” aveva ripreso Shoshanna ed in quel caso aveva incatenato i suoi occhi scuri a quelli di Sirk Brhol, “Chiuderanno la breccia, hanno l'ingegnere più brillante che le Mura abbiano mai visto; se non chiude lui la voragine, non lo farà nessuno” aveva spiegato pratica, il suo tono era inflessibile come il ferro.
Fritz aveva strizzato gli occhi appena richiamando nella memoria l'immagine della persona di cui Shoshanna stesse parlando, la quale si era palesata in colori sfumati fino a prendere le fattezze di un uomo dal viso di bimbo con la chioma chiara come il nevischio ed iridi di ametista. “Pav … Pascal VonPedrick, vero?” aveva domandato Fritz, cercando di ricordare correttamente il nome, invece rimembrava il cognome vividamente in quanto era appartenente a una famiglia nobiliare con un’araldica non indifferente. Nina gliene aveva parlato qualche volta e come Shoshanna pure lei sembrava nutrire una certa ammirazione per le facoltà mentali possedute da tale ingegnere, anche se la sua amica ogni tanto si divertiva a tinteggiargli una personalità che nonostante l'alacrità risultava al quanto variopinta.
Shoshanna era rimasta in silenzio, con le labbra strette tra di loro, “Si, Pashcal” aveva confermato lei, facendo inavvertitamente scivolare fuori la S strisciata della sua zona di provenienza. “Lui è … davvero straordinario” aveva ammesso la donna. Qualcosa nel suo tono era stato diverso dalla lucida sicurezza con cui aveva parlato fino a quel momento.
Engel aveva sollevato lo sguardo dal punto nel pavimento che aveva fissato fino a quel momento – senza particolare ragione – per sollevarlo verso la donna e le aveva chiesto sfacciatamente “È il tuo uomo?”

Shoshanna aveva riso con una certa asprezza, “Mio?” aveva chiesto enfatica. E dopo quell'unica parola aveva lasciato in pace il suo bullone.
Paschal appartiene alla scienza e solo alla scienza.”

 

Il discorso morì lì, ulteriormente interrotto dallo sferragliare delle chiavi contro la serratura della porta. Quando la porta si era aperta, il primo ad essersi palesato era stato un uomo dalle spalle ampie che Fritz aveva valutato essere alto quasi quanto Fabi, suo fratellastro, sul metro e novanta, con un intricato intreccio di capelli chiari e le rose appuntate sul petto. “Caposquadra!” aveva esclamato immediatamente Brhol saltando in piedi dalla sedia in cui era stato seduto fino a quel momento, con tanto di saluto militare. “Riposo Brhol” aveva detto semplicemente lui, volgendo immediatamente uno sguardo verso di loro, facendosi però da parte, permettendo di entrare anche alle altre persone nell'appartamento.
Una ragazza alta e robusta – non quanto sua sorella Jara – con i capelli biondo cenere, aveva le maniche arrotolate fino ai gomiti, della giacca della guarnigione. Alle sue spalle c'era un altro stazionario con i capelli dello stesso nero dell'inchiostro e gli occhi del colore dello zucchero cotto. Poi Fritz aveva riconosciuto il famigliare viso di Humbert, il Gatto, con gli occhi liquidi come il cielo ed i capelli di un biondo piuttosto chiaro, accanto ad un'altra legionaria di cui non sapeva il nome, ma che sembrava fatta di latte e farina.
“Tenente!” aveva strillato qualcuno e Fritz aveva immediatamente riconosciuto il ragazzo della birra farsi largo per raggiungere Shoshanna, “Seriamente, lui?” aveva chiesto Engel grattandosi il capo con una certa perplessità.
“Fritz!” aveva esordito Humbert, spingendo – forse con troppa enfasi – l'altra legionaria verso di lui. Il dottore aveva potuto notare che fosse più livida di quanto l'avesse vista nei giorni ad Hanneke. Le sue labbra erano screpolate ed i suoi occhi parevano opachi, “Hanno sparato a Freyja” aveva detto subito quello, “Sulla spalla” aveva aggiunto, indicando la zona senza toccarla.
Entrambi avevano un odore nauseante, Fritz non avrebbe potuto definirlo in nessun altra maniera se non come sapone sullo sporco, come se avessero cercato di tirar via del marcio versandoci dell'acqua pulita, avendo però creato un terzo miasma.
Fritz aveva recuperato delle forbicine dalla sua borsa di pelle in cui riponeva sempre i suoi attrezzi medici. Aveva infilato le forbici nel colletto di lana di Freyja cominciando a tagliuzzarla lungo la spalla fino all'altezza del gomito, scoprendo la pelle lattea.
Shoshanna e l'Uomo della Birra si erano attorniati a loro, così come invece Brhol si era ricongiunto con i membri della Guarnigione.
La spalla di Frejya era stata fasciata alla meno peggio, ma del grumoso sangue bruno insozzava le bende; il dottore aveva strappato ancora di più la maglietta per avere più campo di movimento, al punto di esporre anche le bende che fasciavano il petto, la ragazza era avvampata di imbarazzo.

“Scusa” aveva provato Fritz senza distrarsi cominciando a sfasciare la bendatura che aveva la giovane, “Gliela ha fatta Gretha” aveva cominciato subito Humbert che aveva sollevato lo sguardo per non assecondare l'imbarazzo della sua compagna. A Fritz onestamente non interessava in quel momento di sapere chi fosse la donna citata, quanto più premeva di sapere quanto grave fosse la ferita.
Il proiettile l'aveva passata da parte all'altra, senza recidere alcuna arteria; “Ti pulisco la ferita e vedo se è il caso di ricucire qualcosa” Fritz aveva tranquillizzato Frejya con un tono di voce calmo, “Dovresti prendere anche un antibiotico” aveva aggiunto, pensando che le avrebbe anche dovuto dare un antinfiammatorio, ma gliene erano rimasti così pochi, che sarebbe stato grandemente più saggio vedere il decorso dell'infezione. Avevano già lavato la ferita, quella Gretha doveva avere una certa manualità nel fare medicazioni. “Dai alla fine è un colpo di rivoltella, non è grave vero?” aveva chiesto Humbert passandosi una mano sul fianco, nonostante questo la voce tradiva una certa apprensione.
“Come ve la siete cavata voi? Io sono andato da Sirk” aveva raccontato il ragazzo della birra, “Ci siamo nascosti in un bordello” aveva spiegato Engel, “Anche noi” era stato lo spento commento di Frejya. Poi le loro parole erano scivolate in un silenzio logorante.

 

Le conversazioni degli stazionari erano arrivati loro distanti, “Il Privato Zimmermann?” aveva chiesto Sirk Brhol passandosi le mani tra i capelli rossastri con un espressione un po' vacua, “Tranquillo è dove deve essere” l'aveva rassicurato Schuster, dandogli una pacca su una spalla prima di voltare lo sguardo verso il gruppo di legionari.
Shoshanna aveva alzato lo sguardo su di lui, mentre Fritz si occupava di mettere delle garze pulite sulla ferita di Frejya, che aveva avuto per tutto il tempo un espressione sofferente. Humbert le aveva tenuto una mano. “A parte in un sanatorio, si intende” era stato il commento soffocato del Gatto; Fritz ci aveva messo qualche minuto a comprendere che stesse parlando del privato.
Il Capo Squadra Schuster aveva assottigliato lo sguardo verso il legionario che aveva parlato, ma anche Shoshanna non si era risparmiata un'occhiataccia di biasimo verso il suo subordinato. “Sono contenta, Ludwing, di sapere che nel vostro ordine ci sia ancora qualcuno di intelligente” era stato il commento spietato della donna della Legione; “Non abbastanza” aveva replicato l'uomo della Guarnigione: Ernest Bruster – avrebbe scoperto poi Fritz. “Tutta colpa di quella testa di cazzo di Otto Sprotte” aveva borbottato invece la donna che aveva accompagnato loro, intrecciando le braccia sotto il seno.
Era sceso tra di loro un altro silenzio teso. “Per quanto parlare male del capitano Sprotte sia intrigante ...” aveva cominciato Humbert, ma era stato interrotto da Shoshanna che aveva chiesto senza peli sulla lingua – e senza far scivolare troppe “S” - per quale motivo Schuster gli avesse radunati lì.

“Direi che ho intenzione di cambiare le cose” aveva decretato immediatamente il capo squadra della Guarnigione.

 

 

Gli occhi delle persone non erano mai state una parte che aveva trovato di particolare interesse. Quelli di Lisbeth però avevano qualcosa di particolare, forse era perché sembrano di resina fulva densa. “Hai tenuto d'occhio l'ingresso?” aveva detto lei tutta concitata, mentre con gli occhi faceva attenzione a spirare l'ingresso della Prigione di Lubeck; il Caposquadra Schuster le aveva dato il compito di osservare tutto.
Compito piuttosto generico.
“All'ingresso ci sono due guardie, cambiano ogni ora e un quarto, con uno sbalzo di mezz'ora l'una dell'altra” aveva spiegato lui attento, osservando la tazza scheggiata che aveva in mano. Per osservare l'ingresso della galera, si era dovuto sistemare come un mendicante, con una mantella sbiadita, l'orlo sfilacciato e rovinato, con diverse macchie a completare il sistema; nessuno si era avvicinato per offrigli mezzo boccone o qualche moneta di rame, a dir si voglia nessuno si era avventurato per strada.
Nonostante questo aveva potuto rendersi conto che il quartiere di Sylten, fosse molto più calmo di quello di Wolfliebhaber; nessuno aveva sbarrato le finestre, non c'erano edifici in fiamme o gente aggredita per strada, solo sana paranoia di gente asserragliata nelle proprie dimore.
Lisbeth aveva passato una mano sull'orlo della sua mantella, senza nessun particolare implicazione. La sua espressione era vuota, tranne per gli occhi sbarrati. L'unica cosa bella che aveva; era una ragazzina spaurita, con ossa sottili e tratti del viso affilati, aveva delle orecchie un po' sporgenti che il riccio del capello non riusciva a coprire, il lobo sinistro era spaccato, una volta gli aveva chiesto cosa fosse successo, Lisbeth gli aveva tirato un pugno.
Nonostante fosse un militare, fresca dell'addestramento, il suo colpo non era stato nulla più di un buffetto sulla sua guancia, non dopo tutte le volte che si era picchiato per le strade di Wolfliebhaber – o i colpi di suo fratello quando voleva disciplinarlo.
Lisbeth gli aveva sorriso in quella maniera che la faceva apparire raccapricciante, “Stai bene così” aveva stabilito, “Dovresti andare in giro così più spesso” aveva aggiunto viziosa, “Come il rifiuto umano che sei” aveva terminato lei.

La contrazione delle sue labbra era stata automatica, “Stai zitta” le aveva impartito e le aveva tirato uno spintone appena, facendo finire la schiena di Lisbeth contro il muro di mattoni. Lei aveva riso, ma lui, ritraendo le mani, aveva continuato: “Dovresti solo ringraziarmi che sto aiutando voi porci schifosi della guarnigione”, sentiva le dita formicolargli. Voleva colpirla.
Lisbeth aveva raccolto le sue parole come se fossero state d'acqua scivolosa, le aveva recepite senza sentirsene turbata a fondo, per un solo momento nei suoi occhi allungati aveva visto un lampo di incertezza, che era stato soppresso dalla sua insofferenza. “Perchè?” gli aveva chiesto, la sua voce era così gelida da mettere i brividi, mentre lui era rimasto un silenzio e lei gli aveva domandato ulteriormente: “Che altro avevi di fare oltre farti fottere?”
Le sue mani sul collo sottile della ragazzina erano stati uno scatto così automatico, che lui se n'era reso conto solo quando aveva sentito la pelle bollente sotto i palmi. Lisbeth le aveva conficcato le unghie su entrambi i polsi, aveva spalancato le labbra screpolate, ma il terrore era stato solo un lampo nelle iridi. “Dai fallo, Kurt” aveva boccheggiato, stringendo con più forza le unghia, fino a spezzarsene, “Ma tanto una puttana come te non ne ha il coraggio, solo i cazzi sai stringere” aveva esalato. Ogni parola sembrava una coltellata nel suo costato, ma voleva comunque che lui sentisse.
Neanche la paura di morire soffocata, poteva fermarla.
E Kurt era stufo … stufo di quella sua lingua da serpente, di quella cattiveria, di iniziare a pensare davvero di non valere nulla ed era stato difficile combattere il desiderio di stringere e questo lo spaventò molto.
Aveva già allentato la presa, quando la voce gli aveva attirato: “Vacci piano ragazzina, o finirai per ucciderla davvero.”
“Io non stavo facendo niente” aveva miagolato Lisbeth.
A loro si era avvicinata una giovane donna, la chioma tagliata sotto l'attaccatura della mascella, di un paglierino che ricordava la birra, un viso piuttosto marcato, un naso pronunciato; sorrideva in una maniera un po' storta, poi aveva detto: “Ma, infatti, io parlavo con l'altra.”

Lui aveva potuto sentire gli occhi caustici della nuova venuta su di sé ,“Ei” aveva berciato, scoccandole uno sguardo piuttosto infastidito. Quella aveva spalancato le palpebre, “Oh ma sei un maschio” si era burlata di lui, “Hai un viso così femminile” aveva aggiunto allungando una mano verso di lui, forse voleva vederselo meglio quel volto, ma Kurt si era tirato indietro svelto.
La mano della donna era rimasta sospesa, i suoi occhi si erano spalancati, aveva ciglia chiare come i capelli, piantonati sul suo vico; Kurt ne era certo avesse visto qualcosa che lui non poteva comprendere, aveva anche perso quel suo sorriso sghembo per schiudere le labbra. Era sul punto di chiederle se le piacesse quello che vedeva, quando Lisbeth aveva parlato: “Ma tu non sei la sorella di Wagner?” aveva chiesto, guardandola.
La donna aveva finalmente scostato gli occhi di dosso a Kurt per piantarli nell'altra ragazzina, anche questa volta aveva allungato una mano, ma Lisbeth non era stata così veloce da scostarsi. La donna le aveva posato il palmo sulla guancia ed aveva con le dita sfiorato il lobo spaccato a metà e Lisbeth aveva fatto scattare una mano per afferrare il polso della sorella di Wagner, “Tu sei Lis dell'orecchino di rosa, giusto?” aveva chiesto la donna più grande.
Kurt non aveva mai visto la ragazza in quello stato, il suo viso s'era fatto cereo, i suoi grandi occhi erano aperti e vividi nel terrore, le labbra serrate ed un leggero tremore si evinceva dalle spalle. “Sapresti spiegarmi cosa cazzo è saltato in mente alla Guarnigione?” aveva inquisito quindi la donna, togliendo la mano dal viso di Lisbeth – e quella aveva ripreso a respirare solo in quel momento – che presto si era portata le dita al lobo spaccato.
“Dovresti prendertela con il Capitano Sprotte, a quanto ci hanno spiegato è stato un fervido sostenitore di questa intervento cautelare” aveva detto Lisbeth riacquistando un po' di colorito sulle guance; la frase non aveva messo per nulla di buon umore la donna, che si era passata le dita tra la frangia scoprendo la fronte alta.
Si era allontanata ed aveva tirato un calcio al muro, sul viso vi era l'espressione di una bestia, “Otto esimia testa di cazzo” – un ringhio – “Ma non potete esservi rincretiniti tutti insieme” aveva ammesso, c'era una frustrazione immensa nella sua voce, “Il Caposquadra Schuster non lo è” aveva detto con voce spenta Lisbeth. Kurt aveva spalancato gli occhi guardandola con preoccupazione, era forse impazzita del tutto?
Il fatto che quel soldato, Schuster, avesse voluto che la situazione rimanesse per lo più nascostea non era stato molto eloquente nello spiegarlo, ma anche Kurt che aveva ascoltato la conversazione seduto dalle scale che portavano al piano di sopra, nel bordello dove abitava, che era necessaria la discrezione, che quello che dovevano fare avrebbe creato loro non pochi problemi.

Il caposquadra Schuster lo aveva detto a Lisbeth, Humbert e quell'altra di cui non ricordava il nome, dopo che quei tre si erano rifugiati dove viva lui – e sua zia Gretha aveva alla ben che meglio messo le mani sulla ferita della legionaria ferita. Le altre ragazze del bordello erano state tutte un po' tese ed avevano ricordato a Kurt animali diffidenti, quando avevano sentito parole come discrezione, piano e contromossa.
Ed era stato palese a tutti che il caposquadra Schuster volesse fare qualcosa di profondamente avventato.
Le prostitute avevano acconsentito a tacere, soltanto perché la situazione era a loro strettissima, non volevano assolutamente sollevare un vespaio e tutti concordavano che la legione esplorativa era necessaria contro i giganti.
Kurt non ci voleva neanche pensare ai titani, ne era sempre stato terribilmente spaventato quando da bambino gli avevano preso a raccontare che se non mangiava tutte le verdure i giganti lo avrebbero mangiato.
Lui era tranquillo, non aveva la più pallida idea di cosa fosse successo al sud e di cosa stessero combinando tutti, di quanto il danno fosse esteso, di come poteva essere successo, Kurt ammetteva tranquillamente di essere ignorante, ma una cosa lo sapeva: suo fratello non l'avrebbe lasciato a morire.
La donna aveva ripreso un colorito umano e sembrava che parte della frustrazione fosse scemata via dal suo viso, “E dimmi dove lo trovo questo stazionario non completamente stupido?” aveva chiesto e se Kurt era stato sul punto di mentire, normale sfiducia nel genere umano, Lisbeth la aveva direzionata in quella che tutto probabilmente era il vero luogo.

 

“Perchè lo hai fatto?” aveva chiesto Kurt, osservando come ancora Lisbeth mantenesse un espressione vacua, che il ragazzo non riusciva ad associare alla personalità leziosa della sua conoscente. Gli occhi grandi di Lisbeth erano il riflesso del vuoto e le sue labbra erano serrate in un taglio, neanche una smorfia o un sorriso sornione; somigliava quella versione terribilmente più alla vecchia Lisbeth di quanto alla nuova. “Suo fratello è in galera” aveva risposto la bionda, mentre faceva scorrere il pollice sulla spaccatura del lobo, “Loro sono uniti” aveva mormorato. Kurt ne aveva preso atto ed aveva annuito, lui poteva capire.
“Spero tu abbia ragione” aveva mormorato lui, grattandosi il capo, non sapendo più cosa dire, mentre spiava la sua compagna che se ne stava ritta e spenta al suo fianco, qualcosa che Kurt non aveva compreso doveva averla turbata molto. Era tanto tempo che lui non la vedeva in uno stato simile, anche quando era venuta a portare la notizia della caduta del muro l'aveva fatto con mero disinteresse, con il viso disteso in un sorriso inconsapevole: Lisbeth che sempre non sembrava curarsi di nulla.
Nulla che non fosse il tormentarlo, con la sua lingua di veleno e lo sprezzo negli occhi.
Kurt non riusciva a sovrapporle l'immagine della soldatessa con il guizzo di follia nello sguardo con quella della bambina che Kurt conosceva. Lisbeth con i ricci tondi e gonfi, che portava il pane tra le mani per donarglielo.

“Torniamo a lavorare” aveva ringhiato poi la ragazza, abbandonando il gioco sul suo orecchio per voltarsi verso di lui, “O ti senti troppo vuoto?” aveva chiesto lei, ammiccando. Kurt aveva sentito le dita tremolargli, ma aveva lasciato perdere.

 

L'antagonismo del Governatore contro la Legione era colpa indirettamente di Andrej Sankov e di Marcel Schuster, questo Ludwing lo aveva scoperto dopo il suo ingresso nella Guarnigione; era stato dopo la morte di suo padre, dopo che aveva spedito quella lettera per il Sankov e se n'era sentito brutalmente in colpa.
Aveva incontrato Sankov un anno dopo aver terminato dall'Accademia ed aveva raggiunto il sud, era stata la prima volta che andava più a meridione di Nedlay ed era giunto fino a Shigashina. Ricordava quella licenza come la più bollente della sua vita, non solo per Liesa, conosciuta lungo la strada, con quei capelli ardenti e le cosce pallide, ma per il caldo; si era letteralmente cotto sotto i suoi vestiti sempre troppo spessi ed anche il suo cavallo sembrava aver cominciato a cedere al sole battente.

Ricordava il viso spaesato e confuso di Andrej quando si era affacciato all'ingresso del quartier generale della Legione, perché aveva saputo che un ragazzo del Nord lo cercava.
Dello scandalo di Sankov lo aveva saputo dalla Guarnigione, quando il Capitano Pfeiffer gli aveva chiesto se per caso non fosse figlio di quel povero bastardo di Marcel Schuster.
“Sei uguale a tuo padre” era stato il commento affievolito di Sakov e Ludwing si era sentito improvvisamente minuscolo, perché mai si era sentito più distante rispetto suo padre, che era un brav'uomo che aveva aiutato un amico.

Ludwing era lì per la verità, gli aveva detto, era stato per quello che si era mosso così a sud, alla Guarnigione aveva sentito un pettegolezzo e l'allora capitano Winkler gli aveva detto se voleva sapere la verità forse era il caso che la chiedesse a chi di dovere.
Lui e Sankov avevano diviso una birra ad una locanda di Irsee ed alla fine l'uomo gli aveva raccontato la verità, che era l'uomo orribile di cui si diceva al nord e che Marcel Schuster era stato per lui un fratello, un mentore ed un amico. Alla fine aveva pianto. Ludwing non aveva mai visto un tale pianto sul viso di un adulto.
Se Sankov camminava ancora su quella terra, gli aveva confessato, era merito di suo padre, lui ed il capitano Winkler lo avevano coperto da quella che era stata un'azione disperata di un ragazzo troppo giovane e troppo disperato, che gli era costato l'esilio da Briemer.
“Avrei voluto esserci, per Marcel” gli aveva detto Andrej, “Quando il governatore tirerà le cuoia io tornerò a casa” aveva aggiunto poi, alzando lo sguardo su di lui, era fiammeggiante la promessa.
Poteva sembrare fuori luogo rimembrare quella vicenda in tale delicato momento, mentre in una stanza occupata da una rosa di persone quanto mai diverse si dibatteva cosa fare, ma lo Scandalo di Sankov gli aveva suggerito una soluzione piuttosto drastica.
Il problema era il Governatore.
Era venuto il momento che qualcuno mettesse in atto un piano che per colpa dell'avventatezza di un giovane non si era mai potuto realizzare: togliersi dalle palle il governatore.


“Il problema di Otto Sprotte è che non si è mai tolto la scopa dal culo che gli ha ficcato Levi della Legione” la voce di Eva lo aveva risvegliato dalle sue elucubrazioni. Ella era un membro della guarnigione ed era di poco più grandi di lui; aveva un fisico piuttosto mascolino, era la seconda di Otto, ma non sembrava nutrire grande stima per il suo superiore.
“Oh, me lo ricordo” gli era andata dietro Shoshanna Nordtveit con un accento buffo che continuava a riverberare nelle sue parole; “Non credo sia il momento di parlare di questo” aveva sentenziato Schuster, ma aveva potuto vedere il medico della legione, quello con gli occhi azzurri da cerbiatto spalancare le palpebre. “Perchè mi perseguita” era riuscito a dire, mentre chiudeva le dita attorno al viso e il suo compare di Nedlay gli aveva messo una mano sulla schiena e gli aveva tirato qualche buffetto.“Ludwig ha ragione, per quanto adori parlare di quella storia a chiunque” aveva spiegato Ernest, alzandosi dello sgabello in cui si era accomodato, aveva il viso glabro ed era ancora un giovane idealista, almeno però si disse Schuster non aveva addosso il puzzo di latte come Brohl.
“Comunque credo di amare Levi” era stato il sussurro del ragazzo della legione esplorativa che non era il dottore, il quale aveva una macchia di capelli corvini fino alle spalle, dritti come lame. Il medico gli aveva lanciato uno sguardo luminoso, mentre le dita affusolate passavano tra i riccioli castani per toglierli dal viso. “Ed io l'ho saputo direttamente da lui” aveva canticchiato la recluta della legione, con una risata frizzante, mentre teneva ancora la mano della sua amica ferita.
A vederli così Ludwing pensò che erano davvero disperati. Prigionieri nelle terre dei giganti, la legione in galera e quelli erano gli unici uomini che era riuscito a mettere assieme. Ed aveva anche un piano che faceva schifo, si rendeva conto, che a confronto quello di Andrej Sankov per assassinare il Governatore – che gli era valso l'esilio – era un capolavoro.

Se il ragazzino dalla legione dai capelli chiari come nevischio avesse avuto voglia di raccontare come aveva conosciuto la storia direttamente da Levi del sud, un inaspettato arrivo gli aveva interrotti. “È così che vi state rendendo utili?” aveva chiesto una voce, facendoli tutti con lo sguardo capitolare dentro l'ingresso della piccola casa di Ludwing.
Il suo primo pensiero era andato ad Otto Sprotte, lo stesso viso aguzzo ed i capelli quasi gialli, gli occhi stretti e cattivi, poi aveva scorso il fisico più minuto ed il petto, prospero. “Tu sei la sorella di Otto!” il commento era venuto da Eva, che si era irrigidita come una molla, una mano aveva raggiunto la fondina, il ragazzino della legione le aveva parlato sopra: “La sorella di Wagner!” aveva detto.
La donna aveva spalle strette, i capelli lisci, portati lunghi fin sotto al mento ed un frangia a coprire la fronte alta; indossava una giacca piuttosto pesante per il periodo primaverile, di un colore scuro ed opaco, “Potrei essere la sorella di entrambi, visto che hanno lo stesso cognome” aveva sentito il bisogno di inferire la donna, con un sorriso caustico sulle labbra.

“Vengo in pace, comunque” aveva aggiunto, mentre li studiava attentamente. “Perchè dovremmo fidarci di te?” la domanda l'aveva posta Ernest, con le braccia incrociate sotto il petto, mentre la guardava cauto. Il Privato Brhol aveva ingabbiato il fucile per accortezza. “Il fatto che il mio fratellino è stato messo in prigione?” aveva domandato con un certo sarcasmo lei. Il ragazzo della legione, che teneva la mano all'amica ferita, si era alzato in piedi, era piuttosto alto ma molto allampanato, “Io mi fido di lei, Wagner ne parla sempre bene” aveva voluto rivelare, con un tono di voce molto limpido.
La cosa non era andata troppo a favore della sorella di Otto, era impressionante quanto si somigliassero, ma nessuno aveva emesso alcun commento. Quella aveva chiodato gli occhi verdi su Ludwing – il suo primo pensiero era stato che per quanto simili fossero molto più spaventosi di quelli di Otto – ed aveva cominciato: “Sentite, non mi sorprende che non vi fidiate di me, mio fratello maggiore è una testa di cazzo che non ne ha prese abbastanza da bambino. Adesso io non ho idea di cosa come stiano sprecando il tempo al sud, ma penso che la legione chiusa in galera sia un idea così stupida che solo quel coglione di mio fratello poteva appoggiare. Ora a guardatevi: il mio aiuto non potete rifiutarlo, siete piuttosto patetici e disperati, io sono stata spedita qua praticamente da due bambine con le ginocchia ancora sbucciate”
Ludwing aveva impiegato un momento per pensare di chi stesse parlando. La donna non gli aveva dato il minimo indizio, continuando a parlare come un fiume: “Nel ghetto ho visto gruppi di bambini più organizzati di voi. Siamo in prossimità della fottuta apocalisse, la Guarnigione ha deciso di dare sfoggio a tutta la merda di cui ha riempito la testa – senza offesa – e trovo voi, la resistenza, vi devo chiamare così? Che state perdendo tempo: sparando cazzate su quel nano infame di Levi, che se fosse stato qui per davvero avrebbe ridato una ripassata a quel beota di mio fratello, a quel vecchio disgustoso del governatore ed al resto delle teste di cazzo” poi si era finalmente fermata.
Aveva catturato decisamente lo sguardo di tutti, il dottore della legione aveva tolto le mani dal viso per guardare con gli occhi da cerbiatto la donna, c'era ancora un certo sconforto nel suo sguardo, “Ma tu chi sei?” aveva chiesto quello poi.

La donna aveva distolto lo sguardo da Ludwing per guardare quello che aveva parlato, “È la sorella di Wagner” aveva spiegato il ragazzino dai capelli biondi, ma aveva guadagnato un'occhiata piuttosto scettica dal dottore. “Grazie, Humbert, parlavo in maniera più generale” aveva spiegato il dottore, passandosi una mano tra i ricci scuri, “Caporal Maggior Emma Sprotte, principessa, della Gendarmeria” gli aveva risposto a tono quella.
Ludwing aveva notato quando fosse pericolosamente somigliante a suo fratello.
“Come c'è finito un gendarme a Briemer?” aveva domandato la ragazzina della legione con la spalla ferita; “Licenza” aveva mormorato lei un po' più spenta.
“Caspita” era stato acre commento dell'altro uomo di Nedlay.
Andare in licenza nei territorio più esterni e ritrovarsi prigionieri tra i giganti …

Eva aveva voltato lo sguardo verso di lui, “Ci fidiamo?” lo aveva solo sillabato, ma Ludwig aveva annuito. Ricordava in maniera vaga la famiglia di Otto, negli anni in cui erano stati compagni – ed avevano dovuto dividere anche la cuccetta – ma ricordava distintamente volte in cui si era lamentato della sua sorella sempre così fastidiosa, che a differenza sua era entrata nella Gendarmeria.

Ludwing aveva accordato; “Schuster, giusto?” aveva chiesto Emma avvicinandosi a lui, non era particolarmente minuta come donna, salvo rispetto lui, non aveva neanche delle forme eccezionalmente voluttuose, ma aveva un aspetto ammaliante e ferino. “Ci siamo incontrati una volta, non importa, quale è il piano? Perchè devi averne uno” aveva sentenziato Emma.
Tutti gli sguardi della stanza in quel momento erano rivolti a lui, “Si, ne ho uno” aveva confermato lui, forse lievemente lugubre nella voce.
“Lo dice, come noi diciamo c'è un quindici metri” il commento era venuto da un membro della legione, ma Ludwing non si era lasciato distrarre per nulla, fissando gli occhi di intensi di Emma. Si aveva un piano, si era piuttosto patetico, ma almeno ne aveva uno.
“Faremo ciò che non è riuscito a fare Andrej Sankov” aveva stabilito e gli occhi si erano direzionati su Shoshanna Nordveit. Era sulla trentina, probabilmente era stata presente in quegli anni piuttosto turbolenti della Legione. “Vuoi uccidere il Governatore?” aveva chiesto appunto quella stessa. “Se dovesse capitare, non mi tirerei indietro” aveva confermato, in parte, “Ma no” aveva rivelato.

 

Ti lascio il mio anello di famiglia, puoi scegliere se indossarlo o meno. Se lo farai, quando sarò tornato potremmo sposarci.
Ti ho anche regalato una collana, Charlotte dice che potresti apprezzare un dono fatto a mano più di un gioiello. Sei abbastanza intelligente e creativa da capire le molteplici implicazioni di un bullone come metafora, credo. Spero di non averti sopravvalutata.
Comunque dovresti ricontrollarti i calcoli per …, mi sono ricordato che non devo scriverlo,ma potresti aver commesso un errore tra la quarta e la quinta pagina dei progetti.

Pascal.

 

Shoshanna aveva riletto quella lettera con un sorriso mesto sulle labbra. Che dannato senso aveva in quel momento? Il vascello era bruciato e Briemer sembrava perduta.
Non aveva idea di cosa era successo al sud, ma se nessuno era ancora arrivato a portar loro notizie probabilmente la situazione era davvero … grave; probabilmente neanche con tutta la sua intelligenza Pascal avrebbe potuto mettere riparo alla situazione.
Forse quello era il tramonto definitivo di Briemer e lui non sarebbe mai tornato, ma forse un giorno si sarebbero incontrati di nuovo. Il piano di Schuster, e quello di Lottie, per quanto abbozzato e fallace, poteva avere successo e, quindi, forse c'era davvero da sperare in quel matrimonio, che lei neanche aveva voluto.
Aveva strillato, aveva strepitato quando aveva letto la lettera e desiderato lanciare l'anello quanto più lontano possibile da lei, ma poi lo aveva indossato. Era un gioiello fatto d'oro, lucido e pacchiano, era istoriato di iscrizioni e pietruzze lucenti, in ultimo sulla sommità svettava una pietra che probabilmente valeva più di mezza Briemer – quasi sicuramente – di un viola cupo e denso.
Lottie aveva detto fosse ametista, lei ne capitava decisamente di più, Shoshanna aveva sempre trovato i gioielli fuori luogo per la sua persona, che alla fine aveva finito di regalare tutta l'eredita che sua madre le aveva lasciato alla sua sorellastra – le mancava Marina – ed alcuni li aveva donati a Charlotte, che sembrava gradirli più di lei.
Aveva quasi perso l'anello fuori nelle terre dei giganti ed alla fine si era costretta a riporlo in un posto sicuro, nello stesso aveva nascosto anche la lettera. Li aveva recuperati entrambi, per scaramanzia. Si era sfilata la collana di spago in cui era infilato il bullone – lo aveva gradito davvero quel regalo, era stato come dichiarare che stavano costruendo qualcosa assieme – e dopo aver sciolto il nodo aveva fatto scivolare anche l'anello lì, prima di indossarlo nuovamente.
Doveva ricordarsi quando lo avrebbe incontrato di ficcargli quel fottuto anello in culo, assieme alle sue mele e le sue follie ricerche sulle cose cadenti.
“È per lui che stai facendo tutto questo?” la domanda del dottore l'aveva costretta a risvegliarsi, si era voltata per incontrare gli occhi azzurri di Fritz Meier; aveva ventidue anni, il viso sbarbato ed un aspetto ancora da giovincello e quel terribile accento del sud. “Non siamo mica tutti come te” doveva essere una battuta quella di Shoshanna, ma era uscita fin troppo leziosa e se ne rendeva conto. Non avrebbe dovuto creare conflitti prima di quei delicati momenti, ma non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione di incomodo che provava per quel giovane. “Non ho bruciato io la nave” Fritz lo aveva scandito, capendo forse che a principio della loro incomprensione continuasse ad essere quel fatto.
Shoshanna stava alludendo alla sua abitudine di raccontare della sua amata, la sorella del neo Comandante Erwin Smith, il motivo per cui quasi tutti avessero cominciato a sospettare di lui come spia del suddetto, in effetti.
“Sei stato l'ultima persona a lasciare il sito” aveva fatto notare Shoshanna, ricordando l'ultimo sguardo che aveva dato alla sua bambina – frutto dei progetti di Pascal e suoi – non ancora pronta per solcare … l'oceano, provava brividi solo a pensarla quella parola; ricordando l'immagine distinta del dottore accendersi una sigaretta.
E la mattina dopo c'era il fuoco ed uno scheletro sottile a testimonianza di quel loro duro lavoro.

Fritz avrebbe probabilmente ricominciato la solfa sull'accelerante e sulle motivazione. I medici sono buone spie, avrebbe replicato lei, aggrappandosi a quello che aveva detto qualcuno quando si era affrontato nell'immediato l'argomento fuori nelle mura.
Alla fine gli unici dei soldati di Briemer che sembravano disposti a dare il beneficio del dubbio al dottore erano stati Erik e Sal, sebbene che quella del primo potesse essere una semplice mascherata non era da escludere. Solo Charlotte si era dimostrata incredibilmente disposta non solo a dargli il beneficio, ma addirittura credergli.
Forse aveva un'infatuazione per lui, anche se sembrava difficile pensarlo. Shoshanna non l'aveva mai vista sbilancirsi in maniera emotiva verso i giovincelli, in tutti i nove anni di servizio assieme,quanto un mero desiderio fisico, canalizzato poi in uomini degni di tale definizione che in ragazzi che sembravano ancora in fase adolescenziale.
Fritz Meier aveva ventidue anni, ma Shoshanna riteneva sembrasse molto più infantile.

“No” aveva detto alla fine, potendo leggere la confusione dipingersi sul volto del dottor Meier, “Tutto è per la mia famiglia” aveva commentato con voce greve.
L'idea di rivedere Pascal almeno un'altra volta non le dispiaceva affatto, ma non era quello a motivarla, quanto era più il desiderio di rivedere la sua famiglia, di metterla al sicuro.
Erano di Gersenshinka, un piccolo borgo – forse era esagerato – sistemato in una gola tra le austere catene montuose del Keine Rückkehr, sopra la più grande miniera di gas dei territori di Maria.

“Dove vivono?” aveva chiesto Fritz, il suo tono di voce era incredibilmente pastoso, Shoshanna aveva sospirato toccandosi il bullone e l'anello, come gesto scaramantico, “Diciamo in una zona dove temo le notizie siano più ardue ad arrivare anche di Briemer” aveva confessato, forse con troppa emotività.
Fritz aveva annuito, “Almeno, su questo posto essere tranquillo. So che la mia famiglia è al sicuro” aveva aggiunto il dottore, passandosi una mano tra i riccioli, erano piuttosto lunghi e continuavano a cadergli sul viso, che Shoshanna aveva avuto quasi la tentazione di infilargli a forza dei ferretti. “Io non ho una famiglia” il commento era venuto da Miloh, il ragazzino imberbe della Legione, con il viso pulito ed i capelli scuri ordinati in un caschetto.
Shoshanna aveva allungato una mano verso di lui e gli aveva accarezzato le spalle (punto) Le ricordava un po' i suoi fratelli, aveva lo stesso modo di fare impacciato e distratto di Justus, anche se la sua età era vicina a quella di Bastian. “Hai dei fratelli?” aveva chiesto Shoshanna a Fritz.
Sembrava stupido perdersi in chiacchiere in quel momento, mentre aspettavano che Brhol e Schuster si palesassero per procedere con il piano, ma era una legionaria lei, sapeva che ogni momento poteva essere l'ultimo.
“Una sorella ed un fratellastro” aveva confessato Fritz e senza che lei gli facesse ulteriori domande lui aveva continuato, “Adoro Jara, anche se a volte è un po' apprensiva, credo si sia sempre sentita in dovere di farmi da madre” aveva fatto un momento di silenzio, “Non mi ha mai perdonato che mi sia arruolato, ha sempre avuto paura che sarei morto come mamma” aveva confidato.
Oh, be, non aveva torto, aveva pensato Shoshanna, sentendo però di non doverlo dire, “Anche tua madre era una legionaria?” aveva chiesto incuriosita; quando erano a Briemheaven aveva sentito di sfuggita una conversazione tra il dottore ed il Gatto, ricordava che il primo avesse detto di aver preso le Ali per una donna – aveva pensato fosse per Nina Müller. Fritz aveva annuito, per un momento aveva visto una profonda tristezza annidarsi nelle iridi, “Ed il tuo fratellastro?” aveva chiesto lei, volendo allontanare la morte dai loro discorsi.
Fritz aveva manifestato un certo disagio sul viso, “Adoro Fabian, davvero, mi ha pagato lui la mia prima birra, solo che il suo antagonismo verso nostro padre lo ha portato a stare spesso lontano da noi … inoltre ci portiamo sedici anni di differenza … quindi …” aveva detto con un certo nervosismo, grattandosi il retro del collo. Annaspava e Shoshanna era andato in suo aiuto, “Anche io ed il più piccolo dei miei fratelli, ci portiamo quella distanza” aveva confidato, “Anche per me in realtà è un fratellastro” aveva aggiunto, anche se non sapeva perché, aveva sempre considerato tutti i figli di suo padre come fratelli pieni, anche Desiderio che era solo figlio di Lotaria – sua matrigna – come sangue del suo sangue. “Quando è nato, io mi barcamenavo tra l'addestramento a Nedlay e gli esami ad Utopia” aveva sussurrato, c'era stata per la nascita di tutti i suoi fratelli, tranne Bastian, eppure era stato tra tutti quello a cui poi si era legata maggiormente.
Quando tornava a casa era sempre lui che si attaccava alle sue gambe e pretendeva di stare sempre con lei, che metteva il broncio quando partiva. L'ultima volta non era neanche andato a salutarla, visto che Shoshanna gli aveva detto che sarebbe stata via molto tempo, erano passati già quattro anni.
Bastian e Marina, che erano i più piccoli, non dovevano essere più bambini.
Le venne voglia di piangere, solo Oer e Justus erano istruiti e dunque tutte le lettere passavano per loro, ma tutti i suoi fratelli, chi per proprio conto chi per dettato, avevano inviato a lei lettere, Bastian era l'unico che non lo aveva fatto.
Aveva fatto in modo di infilarsi nelle lettere dei suoi fratelli – commenti sporadici e domande – ma mai una che avesse la sua firma.
Se era infastidito per la sua scelta di stare così lontano da casa, era solo peggiorato quando Shoshanna, Marina e Desiderio si erano incaponiti di far andare via anche lui.
Non sopportava l'idea di non poterlo più rivedere, di non poter più rivedere il suo viso, di non riuscire più a chiarirsi con lui.
E tutti gli altri.

Ludwing era ritornato, privatosi dell'uniforme della guarnigione, lo stesso avevano fatto Ernest e il privato Brhol, che aveva sul viso l'espressione verdognola di un malato. “Abbiamo preso delle attrezzature delle vostre misure” aveva detto immediatamente Ernest, mostrando i lacci di cuoio, con un espressione un po' vacua.
Fritz valutò che fosse più grande di lui, ma non di molto, sembrava comunque terribilmente più vecchio con profonde occhiaie violacee e guance incavate, “Grazie” gli aveva detto prendendo le cinghie per il movimento e delle corde.
Si erano divisi: metà a cercare di far evadere la legione, metà a fare quello. “Ricordate: non possiamo sprecare il gas” aveva impartito Shoshanna, infilando la sua collanina all'interno della sua camicetta, prima di cominciare a sfilarsi gli stivali. “Ho portato delle pistole e non le lame” aveva detto Schuster con sicurezza, mentre posava uno dei dispositivi per la manovra a terra, lui già lo indossava. La donna della legione aveva annuito, prendendone atto, “Meglio: i giganti non puoi ucciderli senza lame, gli uomini si” aveva detto stoica e fredda.
Fritz aveva sentito le vertigini; era un dottore lui, aveva fatto un giuramento, lui uccideva giganti, non persone – non voleva farlo. “Forse avremmo dovuto dirlo ad Aliena” aveva sentito sussurrare Brhol, Fritz non sapeva di chi stesse parlando. Ludwing aveva annuito, passandogli una mano sulla schiena in una carezza paterna. “Sarebbe impazzita lo sai. Lei è molto militaristica, non potevamo chiederle di fare un tradimento” aveva detto immediatamente il caposquadra.
Brhol aveva annuito, con il viso ancora esangue, non del tutto convinto di quella risposta. “Quindi come è la situazione?” aveva chiesto Shoshanna attirando nuovamente l'attenzione su di sé. C'era un certo nervosismo e paura nella sua voce e Fritz non si sentiva di biasimarla. “Il governatore è con Pfeiffer, al quartiere generale. La sua casa è protetta da quattro uomini” aveva berciato immediatamente Schuster, “Quindi stiamo davvero per rapire una donna per usarla contro suo padre?” aveva domandato il ragazzo della birra, non ricevendo però alcuna risposta, se non silenziosa consapevolezza.

Thorben Pfeiffer, capitano generale – e supervisore – della guarnigione di Breimer aveva due figli, un maschio ed una femmina, quest'ultima era l'attuale moglie del Governatore di Briemer, la quarta avevano detto a Fritz.
La prima era scappata, la seconda era stata uccisa, la terza si era suicidata e loro stavano per rapire la quarta. Onestamente, avevano spiegato al dottore che probabilmente al Governatore non sarebbe fregato nulla nello scoprire che sua moglie fosse nelle loro mani, ma erano tutti più-o-meno convinti che al Capitano Pfeiffer sarebbe importato del destino di sua figlia; inoltre la giovane era letteralmente la pistola che il Governatore puntava contro il capitano.
“Non le faremo del male” aveva concordato Schuster con voce greve e Fritz si augurò fosse vero; “Non per essere crudele: ma non possiamo più porci shcrupoli” aveva sentenziato Shoshanna.

 

La villa del Governatore era quasi nel centro della città. Era un complesso in mattoncini rosso vinaccio e nero, alta a due piani con le finestre in ferro battuto con ghirigori che ricordavo del fogliame. La porta era in legno nero piuttosto ampia con due teste di leoni che mordevano gli anelli. La casa aveva anche un discreto cortile; due uomini però erano piazzati alla porta, uno indossava la giacca della Guarnigione, l'altro invece sfoggiava una giacca nera semplice, entrambi portavano delle pistole e nessuno dei due l'attrezzatura.

“Martin” aveva sentenziato Schuster, mentre scostava un po' la mantella verde che aveva indosso, “Ci pensi tu” aveva commentato Ernest guardando Brhol, il quale aveva annuito. Il ragazzo dai capelli rossicci aveva sistemato la mantella verde per nascondere l'attrezzatura. Schuster aveva annuito, poi si era voltato verso Shoshanna, “Il retro” si era limitata a dire lei, mentre dava un pizzico al ragazzo della birra, lui aveva annuito ed aveva imboccato quella strada.

Fritz era andato dietro a Shoshanna, come Ernest e il ragazzo della birra; lui aveva lanciato però un ultimo sguardo a Brhol, che attraversava il cortile della casa del governatore. Loro si erano mossi in maniera piuttosto quatta, tentando di non risultare sospetti, avevano dovuto indossare giacche lunghe, erano vecchie e ingrigite, anonime. Si erano impegnati per rendere l'attrezzatura meno visibile. Il loro piano era quello di essere anonimi e non dare nell'occhio. Si erano infilati tra la casa accanto a quella del Governatore e quella dopo, in un piccolo corridoio di muri di pietra, “Sarà un casino” aveva sentenziato lei, “Pensa alla tua famiglia, a me aiuta sempre” aveva soffiato Fritz.

“Ed io?” gli aveva interrotti il Ragazzo della Birra; Ernest gli aveva messo una mano sulla spalla.

Shoshanna aveva cominciato a sbottonare il suo impermeabile che aveva mollemente fatto cadere per terra, prima di far scattare l'attrezzatura e portarsi sul tetto della casa, evitando la finestra, prima di appiattirsi sulle tegole della casa. “Allora?” aveva chiesto quella affacciandosi, in modo che anche gli altri due avessero potuto seguirla, così avevano fatto.
Erano così stesi sul tetto, “Quindi adesso aspettiamo?” aveva chiesto il ragazzo della Birra, che si era acquietato accanto a Soshanna, mentre lei si premuniva di prendere il fucile che Schuster gli aveva dato.
E così era stato: il ragazzo dai capelli rossicci della guarnigione si era palesato davanti ad una finestra e l'aveva aperta. “Come è entrato?” aveva chiesto Fritz, la verità era che avevano programmato il piano

“Martin risponde al tenete maggiore Gunter, che potrebbe essere o non essere l'amante di Eva” aveva cominciato a spiegare Ernest, mentre gli veniva passato il fucile da parte di Shoshanna. Quando avevano concordato il piano quella parte era sembrata a Fritz un po' troppo lasciata al caso, ma in qualche modo era riuscito – forse la guarnigione meritava più credito.
“Mi raccomando” aveva stilettato Shoshanna verso Ernest, che aveva imbroccato il fucile, mentre loro si erano impegnati per raggiungere la finestra. Shoshanna era atterrata sul tetto, rischiando di far cadere una mattonella, mentre Fritz si era acquatto al muro proprio al fianco alla finestra, con i piedi sui mattocini del muro cercando di mantenere un equilibrio precario. Il ragazzo della birra aveva preso in pieno la finestra, urtando con la fronte l'imposta, sarebbe scivolato all'indietro – anche se fosse rimasto appeso – Brhol lo aveva afferrato.
Ernest avrebbe fatto il cecchino dall'alto.
 

Fritz era entrato prima di Shoshanna e l'aveva aiutata a scavalcare il davanzale, poi avevano sentito una serie di rumori al piano di sotto, “Il Capitano Ludwing ...” aveva spiegato con un tono basso Brhol. La stanza in cui erano entrati era di una dimensione piuttosto modesta, che aveva una scrivania, piena di libri, un armadio molto decorato e un letto. “Di chi è questa stanza?” aveva chiesto Fritz, osservando l'arredamento piuttosto spartano che albergava nella camera, prima di farsi distrarre da i titoli altisonanti dei libri sulla scrivania, erano rovinati dal tempo, ma la fattura del cuoio della copertina era pregiata, così come le rilegature ancora piuttosto impeccabili. Fritz aveva sfiorato con le dita uno dei primi, era un vecchio libro di racconti, gli aveva dato un immensa nostalgia, era di quelle edizioni con una stampa piuttosto limitata, erano poche le altre copie, una di queste era nella mansarda della sua casa paterna. “Non importa, era la prima stanza vuota che dava da questo lato” aveva detto Brhol con un certo disagio e nervosismo.
“Vado ad aiutare Schuster, voi cercate di recuperare la signora Munchhausen” aveva soffiato Shoshanna, mentre imboccava l'uscita della stanza, chiedendo a Brhol le informazioni necessarie per dirigersi. Lui aveva guardato il ragazzo della birra, che dal canto suo stava guardando il ragazzo della guarnigione cercando di mantenere uno sguardo sicuro, che gli si si addiceva.
Come era stato possibile che Engel e Humbert fossero finiti nell'altra squadra?
Avrebbe tanto voluto stringere l'orologio che gli aveva regalato suo padre per la laurea, era un gesto che abitualmente faceva per scaramanzia, ma lo aveva dimenticato a Nedlay.

“Andiamo” aveva detto il privato Brhol, il suo tono era lugubre, ed aveva imboccato la porta come aveva fatto precedentemente Shoshanna e loro si erano ritrovati a seguirlo, era abbastanza facile, loro prendevano la donna e con le guardie che Shoshanna e Schuster non avevano fatto fuori sparavano a vista cercando di avere successo.
A Fritz veniva da piangere a pensarci – non poteva funzionare.

 

Lui non aveva mai visto il Capitano Pfeiffer e neanche il Governatore quindi non poteva davvero dire di essere rimasto stupito, ma certamente quando gli avevano detto di rapire la moglie del governatore, Fritz non si era aspettato che Beate Munchhausen fosse così. In anzitutto bella, senza se e senza ma, come era normale che lo fosse una ragazzina della sua età, con il bacio della gioventù sul viso tondo, con le gote rosate,i capelli di un rosso torbido come il sangue legati in una treccia e gli occhi erano davvero particolare, di un blu così denso da sfiorare il colore dei lillà. Indossava un abito lungo, pregiato, sopra una manta sottile dai motivi floreali. Aveva un sorriso impreciso e lo sguardo chino, impegnata nel ricamo di fianco la finestra, non si era ancora accorta di loro.

“Oh, sono innamorato” aveva miagolato appena il ragazzo della birra e forse quella minuscola frase, era bastata finalmente per attirare l'attenzione della giovane, aveva sollevato uno sguardo verso di loro, il sorriso accogliente che le illuminava il viso si era ghiacciato quando vedendoli non aveva riconosciuto nessuna persona a lei famigliare.

Beate aveva dato cenno di voler urlare, ma si era ritrovata Brhol letteralmente addosso che premeva le mani sul viso nel tentativo di evitare che le lo facesse. Erano ruzzolati per terra entrambi e Fritz non aveva capito come era successo, ma il momento dopo il ragazzo si era ritrovato agonizzante lontano da lei, aveva uno dei ferri della maglia conficcati nella spalla ed una mano insozzata di sangue. Beate era strisciata via, ma Fritz aveva calciato indietro l'altro ferro; le labbra della ragazzina erano insozzate di sangue.

Era riuscita lei a tirarsi su, mentre con gli occhi guardava loro con astio, “Aiuto! Aiutatemi” aveva strillato, mentre Brhol con le mani in alto cercando di non peggiorare la situazione aveva tentato di avvicinarsi a lei, Beate aveva afferrato un vaso che era vicino ad una mensola e l'aveva lanciato verso il legionario, che era riuscito in tempo a spostarsi per non prenderlo in testa, ma nel farlo era comunque caduto per terra.
Due soldati messi a terra da una ragazzina, praticamente, e Fritz che aveva affrontato i giganti fermo come una pertica.
“Chi siete, cosa volete?” aveva domandato Beate, la sua voce tremava mentre si era appiatta contro il muro, gli occhi saettavano a destra e manca cercando altro con cui potersi difendere, poi si erano fermati sui cocchi di terra cotta del vaso in frantumi. Si era forse resa conto che probabilmente nessuno sarebbe arrivato e uno sparo al piano di sotto aveva comunque messo tutti in allarme. “La prego signora Munchhausen, non abbiamo intenzioni” ostili aveva provato Brhol mentre si sfilava il ferro con la mano buona, ma Beate si era lanciata per afferrare un coccio piuttosto appuntito. Era stato Fritz a lanciarsi su di lei quella volta e le aveva afferrato il polso, prima che lei aprisse un sorriso sulla gola di del ragazzo della birra. Beate gli aveva assestato una ginocchiata tra le gambe che lo aveva mandato a terra in agonia.

Era un po' patetico da raccontare, ma c'era voluto l'intervento di Schuster – arrivato dopo l'urlo di Beate, quando il ragazzo della birra era finalmente riuscita almeno a farla cadere a terra, tentando ancora di convincerla di non avere intenzioni malevole – che aveva trovato Fritz che era riuscito a rimettersi in piedi, Brhol che sanguinava per la stanza e l'ultimo di loro che aveva schiacciato la signora Munchhausen per terra, trattenendola per i polsi, quest'ultima di certo non intenzionata a farsi minimamente passiva.
“Sul serio?” aveva chiesto lui, per un momento confuso, prima di attirare lo sguardo dalla giovane, “Oh! Signor Ludwing!” aveva detto quella con una certa disperazione e gli occhi colmi di lacrime, Fritz si era voltato verso Schuster ed aveva potuto vedere la vergogna dipinta sul suo viso, aveva abbassato gli occhi bassi sulla punta dei suoi stivali. “No” aveva pianto Beate e Ludwing si era scusato.

Fritz aveva estratto la corda che aveva portato con se e con quella aveva legato le mani della giovane, dietro la schiena, così da evitarsi di guardare quegli occhi spiratiti di odio.
Lo stava facendo per suo padre, per sua sorella, per suo fratello, per Nina …

perché doveva tornare a casa.
Il ragazzo della birra si era strappato una parte della camicia per poterla usare come bavaglio e l'aveva fatto continuando a scusarsi. “Non voglio neanche sapere come tre soldati si siano fatti atterrare da una ragazzina” aveva ringhiato Schuster, afferrando Beate per la vita e caricandosela in spalla come un sacco di patate e Fritz si era impegnato per legarle le caviglie insieme, aveva perso una delle due pianelle, mentre Ludwing stoico prendeva i calci. Brhol aveva abbassato il viso in maniera piuttosto colpevole e consapevole, “Era molto più agguerrita di quanto avessimo pensato” aveva ammesso il ragazzo della birra, grattandosi il capo, Schuster aveva deciso di non voler indagare.
Fritz pensò che fosse perché era una ragazzina, perché era umana, con le spalle piccole, che non importa quanto fosse disposto a fare per tornare a casa, si addestrato per combattere i giganti, per uccidergli quelli ed era un medico, semplicemente lui non poteva …

“Non per mettervi ansia, ma dobbiamo assolutamente andare!” la voce di Shoshanna era venuta su a fatica, nascosta dai colpi di pistola e loro si erano fiondati fuori dalla finestra usando le attrezzature, Schuster era quasi caduto con lo squilibrio di portare Beate. Fritz aveva gettato uno sguardo verso il tetto, ma non aveva visto Ernest.
 

Shoshanna si era fiondata fuori dalla porta continuando a sparare, correva piuttosto in fretta nonostante l'attrezzatura ed era macchiata di sangue, ma non abbastanza. Fritz era planata su di lei per prenderla al volo, l'attimo prima che chiudesse le mani sui suoi fianchi, aveva potuto sentire l'ultimo colpo dritto alle sue spalle, il proiettile aveva passato da parte a parte il corpo della donna.
L'aveva presa, tenuta stretta, sentendo la pelle delle sue mani farsi umidiccia per il sangue e la maglia chiara macchiarsi di rosso, nel basso ventre. In una sala operatoria pulita avrebbe avuto solo trenta minuti, lì anche di meno.
Si era appostato su un tetto ed aveva potuto sentire l'attimo dopo Miloh palesarsi. Aveva preso una pistola e la puntava nella direzione opposta alla loro, una striscia di sangue correva giù dalla tempia.
“Shoshanna, devi restare come” aveva detto Fritz mentre sollevava la maglia, per scoprire la ferità, non aveva preso la sua bisaccia con tutto l'occorrente. Perché non l'aveva presa?
“Dobbiamo spostarci!” aveva esclamato Fritz. Venticinque minuti.

Shsoshanna aveva portato una mano al collo e si era strappata la collanina di spago, l'aveva premuta sul petto di Fritz, poi la forza le era venuta a mancare, ma lui l'aveva raccolta, premendo anello e bullone contro il palmo della donna, con l'altra mano le aveva fatto circondare le spalle e poi le aveva messo una mano sul fianco. Il sangue continuava a scendere e zampillare dalla ferita. Non si poteva fare un laccio emostatico al ventre, “Adesso riprendiamo il volo” aveva sussurrato a lei, l'attimo dopo l'avevano fatto.

Ventidue minuti.
Il ragazzo della birra aveva sparato verso qualcuno, mentre continuava ad urlare al Sergente di resistere.
“Andrà tutto bene” l'aveva rassicurata Fritz.

“Desiderio” aveva sussurrato lei solamente, continuando a stringere i pendagli della sua collana, le sue nocche erano bianche, ma non per lo sforzo, tutto di lei era niveo. Il sangue non stava più affluendo. Casa di Schuster era troppo lontana.
Ventuno minuti.

“Come?” aveva chiesto Fritz confuso, Shoshanna non gli aveva risposto, “Oertwin” gli aveva detto lei, “Non capisco, Sho.” aveva continuato lui, tenendola premuta contro di sé, direzionandosi solamente con le gambe, timoroso di perderla.
Non aveva tempo.
“Rabah..n” aveva aggiunto Shoshanna, la sua voce era molto più sottile e piccola.
Fritz aveva aggrottato le sopracciglia, non riuscendo a seguirla, “J-Justus” aeva sussurrato, un tono piccolo, con la sua s orribilmente strisciata, aveva gli occhi scuri colmi di lacrime ma sorrideva.
Allora lui aveva capito: erano i suoi fratelli.
“Marina” aveva mormorato ancora Shoshanna. “Esatto pensa a loro e a Pascal. Resisti” le aveva impartito Fritz, mentre sfrecciava per le vie oscure della morta Briemer.
Shoshanna sorrideva, lacrime correvano lungo le guance; il sangue della donna insozzava le mani di Fritz, seminando una pioggia purpurea per la città dimenticata.

Diciannove minuti.
“Se … Bastian …”

 

 

 

 

“CHE TRISTEZZA.”

N.B.Questo è stato il commento di Chemical Lady alla fine della betatura, onestamente non so se parlava del mio modo di scrivere o del capitolo LOL.

Comunque la ringrazio di cuore per quello che fa e ricordatevi sempre che qui trovate la sua storia che è strattamente legata alla mia. Di fatti Pascal Von Pedrick e Andrej Sankov sono suoi personaggi - ho preferito non raccontare bene la sua storia perchè alla fine spetta a lei.
Ringrazio di cuore Lechatvert per la Manip della Copertina.
E visto che ho introdotto un bordello di personaggi che a starci dietro ci si confonde – mi ci confondo io – QUI c'è un album dove un po' alla volta sto inserendo tutti i personaggi, per ora ci sono solo militari.

E non c'è Fritz che è il protagonista.
Ringraziamo sempre Chemical Lady per avermi suggerito il nome del carcere Lubeck.
Ora parliamo della scena TRASH: Si, una ragazzina ha messo fuori uso tre soldati, si lo so cosa state pensando … ma Eren a nove anni ha ucciso due briganti e fatto un discorso motivazionale mentre veniva strangolato.
No, questo non mi giustifica, ma dai che lo rende un po' più plausibile.
Non è vero, ma mi aveva divertito troppo che alla fine ho lasciato così.

Il titolo del capitolo vuol dire: si vergogni la fortuna del suo delitto.

Oltre questo volevo dirvi una cosa divertente: quando pensai questa storia i protagonisti non dovevano essere Charlotte e Fritz, ma Charlotte e qualcun altro.
E quel qualcuno è presente.
LoL

Ringrazio chi sia arrivato fin qui.

Un bacio

RLandH
 

   
 
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