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Autore: Amantide    13/01/2017    1 recensioni
Sherlock aveva sempre pensato che l’amore fosse un difetto chimico e mai come quel giorno si rese conto che aveva ragione.
Genere: Drammatico, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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La curiosa storia di Sherlock e Barbarossa

 
 
“Si accomodi signora Holmes” esordì la giovane donna aprendo sulla costosa scrivania in mogano il fascicolo che riportava in copertina il nome Sherlock.
La signora Holmes prese posto sulla sedia di fronte alla dottoressa cercando di non far trasparire tutta la sua preoccupazione e rimase in attesa della sentenza definitiva. Erano anni che sospettava che il figlio avesse dei problemi comportamentali ma, nonostante tutte le avvisaglie e gli episodi che lei si era sforzata di ignorare in ogni modo, si era convinta solo quattro mesi prima a portare il figlio da una specialista, e ora se ne stava lì seduta con le mani in grembo strette ad un fazzoletto che si era premurata di portarsi nel caso in cui la dottoressa le avesse comunicato il peggio.
“Come lei sa, oggi si conclude il nostro ciclo d’incontri” affermò la dottoressa sistemandosi meglio gli occhiali dalla leggera montatura sulla punta del naso. La signora Holmes deglutì, tesa, come una corda di violino.
“Sherlock ha risposto positivamente a tutti i test, nonostante in alcuni casi si sia dimostrato non proprio collaborativo e fin troppo saccente, pertanto possiamo escludere autismo, sindrome di Asperger e ogni altro tipo di disturbo generalizzato dello sviluppo.”
“Mi sta dicendo che non c’è nulla che non vada in lui?” domandò la Signora Holmes esterrefatta ma sollevata, “è un bambino del tutto normale?”
 “Al contrario, il suo assetto cognitivo e lo sviluppo del linguaggio sono superiori alla media, e sembra esserne consapevole dal momento che, come le dicevo, è un filo saccente.” Spiegò la dottoressa arricciando le labbra in una smorfia.
La signora Holmes fissò la psicologa con apprensione, come se non credesse ad una sola parola di quanto stava dicendo. Assistere per tutti quegli anni alla condizione del figlio senza sapere come intervenire era stata la prova più dura che da madre si era vista costretta ad affrontare. Ammettere che c’era qualcosa in lui che non andava era stato ancora più doloroso, l’ultima cosa che una madre vorrebbe dover dire del proprio figlio.
Scosse lievemente il capo e poi tornò a fissare la dottoressa: “A scuola non ha amici, passa ore chiuso in camera sua e a volte non parla per giorni.” Balbettò la madre di Sherlock sull’orlo delle lacrime.
“Sì, questo è quello che mi ha raccontato durante il nostro primo incontro e che l’ha spinta a venire da me, ma posso garantirle che non ha nulla di cui preoccuparsi, suo figlio ha solo qualche difficoltà a relazionarsi con gli altri ma non si tratta di una patologia o di un disturbo comportamentale, è insito nella sua persona, fa parte del suo carattere, è una scelta del tutto arbitraria.”
“Lei non ha idea di cosa significhi vedere un figlio solo, ignorato, completamente estraniato dal resto del mondo, deve esserci qualcosa che io posso fare per lui.” Sospirò la signora Holmes lanciando un’occhiata alla sua sinistra dove un vetro le permetteva di vedere il figlio nella sala accanto intento a disegnare quello che sembrava a tutti gli effetti un vascello dei pirati. La dottoressa studiò attentamente la donna che aveva davanti e capì che non avrebbe lasciato spontaneamente quello studio senza una soluzione concreta alla solitudine del figlio.
“Gli compri un cane” suggerì la psicologa che iniziava ad avere una certa fretta di liberarsi della cliente, l’attendeva un pranzo con lo stagista del terzo piano e non voleva certo arrivare in ritardo.
La signora Holmes sussultò impercettibilmente sulla sedia. “Un cane?” domandò sorpresa da quel consiglio molto poco scientifico. Era una soluzione tanto semplice quanto bizzarra ma, giunta a quel punto, era disposta a tentare ogni cosa pur di far conoscere a Sherlock il significato della parola amicizia.
“Certamente, se suo figlio ha problemi a relazionarsi con quelli della sua stessa specie non significa che non possa instaurare un buon rapporto e trarre benefici dall’amicizia con un animale. Le consiglio di fare un tentativo.”
 
***
 
La mattina di Natale Sherlock scese le scale controvoglia, avvolto nella vestaglia blu che lui e Mycroft avevano uguale e che riportava le loro iniziali ricamate sul taschino. Suo fratello lo precedeva di qualche passo sbadigliando assonnato.
Sherlock odiava il Natale, esattamente come odiava dover far finta di apprezzare i regali che parenti più o meno prossimi si sentivano in dovere di fargli fingendo di conoscerlo bene. Ai suoi occhi il Natale era solo una stupida e particolarmente pomposa messa in scena in cui tutti fingevano di volersi bene per poi tornare ad odiarsi il giorno dopo.
“Cerca di non fare come lo scorso anno per favore” lo riprese Mycroft in piedi sull’ultimo gradino, deciso a non far procedere oltre il fratello finché non avesse promesso di comportarsi bene.
“Sii più preciso” fece Sherlock incrociando le braccia al petto con aria di sfida.
Mycroft rivolse un’occhiata al salotto per assicurarsi che i genitori non fossero nei paraggi e poi scrutò il fratello minore dall’alto, imponendosi in tutta la sua altezza. Mycroft adorava ricordare a Sherlock chi dei due era il maggiore.
“Non metterti a indovinare il contenuto dei pacchetti prima che il legittimo proprietario li abbia aperti” precisò ricordando con imbarazzo quando l’anno precedente Sherlock aveva descritto nei dettagli un completino intimo che la loro madre doveva ancora incominciare a scartare.
“Avevo visto papà incartarlo” spiegò Sherlock cogliendo perfettamente l’episodio cui il fratello faceva riferimento.
“Per nostra madre è stato umiliante” sottolineò Mycroft sforzandosi di mantenere un tono di voce pacato.
“Papà avrebbe dovuto scegliere un regalo meno imbarazzante allora” replicò Sherlock piccato, lontano anni luce dall’ammettere di aver sbagliato.
“Per l’amor del cielo Sherlock, non puoi credere a Babbo Natale come tutti i bambini della tua età?” lamentò Mycroft alzando gli occhi al cielo, Dio solo sapeva perché gli era toccato un fratello tanto stupido.
“Davvero Mycroft? Preferiresti se credessi alla favola di un obeso vestito di rosso che vola su una slitta trainata da animali che non sono fisicamente in grado di volare?” domandò Sherlock impertinente. Mycroft sbuffò contrariato, perché al posto suo non aveva una graziosa sorellina? Una di quelle belle e paffutelle a cui tutti davano volentieri un pizzicotto sulla guancia.
In quel momento la signora Holmes sbucò dalla cucina interrompendo il loro battibecco.
“Ragazzi, i regali non si apriranno da soli, perché non raggiungete vostro padre in salotto?” disse loro sfoderando un ampio sorriso che nessuno dei figli contraccambiò.
Mycroft iniziò a contare mentalmente fino a dieci sperando che il fratello riuscisse a trattenersi dal rispondere in malo modo alla madre. Come si aspettava non riuscì a superare il numero quattro perché Sherlock stava già replicando.
“Non ho bisogno di aprire i regali per sapere che non c’è l’unica cosa che avevo chiesto” sbottò Sherlock che sarebbe volentieri tornato di corsa in camera sua a dormire piuttosto che passare la mattinata a scartare calzini e giocattoli per bambini.
“Tesoro, non potevamo regalarti il plutonio” spiegò la donna con tutta la pazienza di cui era capace, “è radioattivo.”
“Lo so, ed è proprio questo il suo aspetto più interessante” replicò Sherlock mentre Mycroft raggiungeva il padre in salotto deciso più che mai ad estraniarsi da quell’assurda conversazione.
“Sherlock, hai già il piccolo chimico” gli ricordò sua madre con cipiglio severo.
“È per bambini!” protestò Sherlock con aria annoiata.
“E tu hai otto anni, adesso fila in salotto!” Lo redarguì lei indicandogli la strada da prendere per poi aggiungere tra sé e sé: “c’è qualcosa di molto più interessante del plutonio ad aspettarti.”
Quando Sherlock raggiunse il salotto e si avvicinò all’albero in cerca dei pacchetti che riportavano il suo nome, la madre sorrise dolcemente alle sue spalle. “Non è lì sotto che troverai il tuo regalo” disse mentre il figlio si voltava a guardarla confuso. Prima che Sherlock potesse porre qualsiasi domanda qualcuno bussò alla porta d’ingresso e Sherlock riconobbe la sagoma del padre attraverso le vetrate.
“Qualcosa mi dice che devi essere tu ad aprire” fece sapere Mycroft dalla poltrona. Nonostante il figlio maggiore fosse informato di quanto stesse per accadere, non aveva la minima idea di quale potesse essere la reazione del fratello.
Stranamente Sherlock ubbidì senza porre domande e quando aprì la porta si trovò come previsto di fronte a suo padre. Quello che non aveva previsto era che non fosse da solo. L’uomo, alto e dinoccolato come nel giro di qualche anno Sherlock sarebbe diventato, aveva tra le braccia un cucciolo di cane dagli occhi dolci e vispi e dal pelo lungo di color bruno rossiccio. A Sherlock bastò una sola occhiata per riconoscere le tipiche fattezze di una delle più nobili razze di cani da caccia. Era indubbiamente un Setter irlandese* e, a giudicare dalle dimensioni, non doveva avere più di quattro mesi.
“È un maschio” gli disse suo padre mettendoglielo tra le braccia, “e qualcosa mi dice che sarete ottimi amici…”
Il cane si agitò tra le braccia di Sherlock ed emise un lieve guaito come se, in un certo senso, volesse presentarsi al nuovo padrone.
Incapace di proferire parola, Sherlock dedicò un’occhiata al cucciolo e, per tutta risposta, quello gli leccò il naso e prese ad abbaiare in maniera stridula come solo i cuccioli di pochi mesi sono in grado di fare.
“Dovrai dargli un nome” disse suo padre rientrando in casa mentre Mycroft roteava gli occhi non del tutto d’accordo con la scelta dei genitori di regalare a Sherlock un animale. Non era poi così sicuro che non l’avrebbe usato come cavia per i suoi esperimenti.
Da quando aveva visto il cane, Sherlock non aveva ancora detto una parola e gli altri tre si stavano domandando se fosse un buon segno oppure no. Nessuno di loro sembrava in grado di leggere la reazione del bambino. Fu in quel momento che la madre, cercando con lo sguardo il sostegno del marito, si decise ad intervenire. “Beh?” disse titubante, “dal momento che è arrivato un cane e volevi il plutonio potresti chiamarlo Pluto, che ne dici?”
Mycroft non dimenticò mai lo sguardo che Sherlock rivolse alla madre in seguito a quel pessimo suggerimento, così come non dimenticò mai il tono con cui il fratello dichiarò: “Barbarossa, si chiamerà Barbarossa.”
Fuori cominciò a nevicare e tutta la famiglia si strinse intorno a Sherlock e al nuovo arrivato beandosi di quell’atmosfera natalizia che, una volta tanto, sembrava aver travolto tutti gli abitanti di casa Holmes. Il bambino guardò il cucciolo al culmine della gioia, non avrebbe mai potuto immaginare che otto anni più tardi quel cane avrebbe firmato la sua condanna ad una vita di solitudine.
 
***
 
Erano passati otto anni da quel Natale, o meglio, da quello che Sherlock era solito definire l’unico Natale che avesse senso ricordare.
In quegli anni Sherlock aveva raggiunto Mycroft in altezza (cosa che non perdeva occasione di rinfacciargli) e Barbarossa era arrivato a pesare ventotto chili, che Sherlock sentiva tutti ogni volta che il cane decideva di svegliarlo saltandogli addosso nel letto, cosa che fece anche quella domenica mattina di primavera.
Sherlock si svegliò di soprassalto e si trovò il muso del cane ad un palmo dal naso, si stropicciò gli occhi incapace di trattenere un sorriso e poi si alzò dal letto, i capelli scarruffati e l’espressione di chi avrebbe dormito almeno altri due giorni di fila. Al contrario, Barbarossa era più vivace e arzillo del solito e sembrava avere una certa fretta di raggiungere il parco.
Sherlock travasò il caffè in una tazza da viaggio e uscì di casa con il cane che si era premurato di portargli il guinzaglio mentre era ancora sotto la doccia.
Dieci minuti più tardi i due camminavano sul marciapiede in direzione del parco, o meglio, Sherlock tentava di camminare, ma Barbarossa tirava come un dannato dando degli strattoni al guinzaglio che rischiavano di far inciampare il suo padrone, ancora mezzo addormentato, ad ogni passo.
Una volta raggiunto il parco, Sherlock liberò Barbarossa del guinzaglio e quello non perse l’occasione di inseguire un paio di cornacchie abbaiando come un disperato.
Sherlock ne approfittò per sedersi su una panchina e finire il suo caffè, in tutta quella fretta non era ancora sicuro di essersi svegliato del tutto.
Fu proprio mentre ingurgitava l’ultimo sorso di caffè che Barbarossa comparve da un cespuglio e gli corse incontro con qualcosa in bocca, gli occhi più vispi e furbi del solito.
Il cane si fermò davanti al padrone e dopo aver deposto una pallina da tennis ai suoi piedi si accucciò a guardare Sherlock scodinzolando, in attesa che lui desse il via al suo gioco preferito.
“E questa dove l’hai presa?” domandò Sherlock al cane con aria severa. Afferrò la pallina da tennis e se la rigirò fra le mani, studiandola attentamente. Era una pallina della Wilson, parecchio rovinata a dire il vero, la scritta che identificava il modello era appena leggibile, ma non a causa di un uso intenso da parte di un tennista, no, probabilmente quella pallina non aveva mai visto un campo da tennis in vita sua perché sulla superficie non c’erano tracce della tipica terra rossa di cui era fatto il campo. No, quella era indubbiamente una pallina che era stata acquistata per un cane, non per un tennista, lo si evinceva dai segni dei denti ma soprattutto dal fatto che non ci fossero campi da tennis nel raggio di chilometri.
“Hai intenzione di studiare la pallina del mio cane ancora per molto?” disse una voce femminile alle spalle di Sherlock. “Il mio Albert la rivorrebbe indietro, sempre che al tuo ladruncolo non dispiaccia restituirla…”
Sherlock si riscosse da quello stato d’isolamento in cui era piombato da quando aveva cominciato ad osservare con interesse la pallina e si voltò ad osservare la sua interlocutrice.
Era una ragazza di bell’aspetto, esile e minuta aveva boccoli castani che le incorniciavano il volto e occhi di ghiaccio che rendevano difficile se non impossibile sostenere il suo sguardo, che in quel momento non era del tutto amichevole, esattamente come non lo era il cipiglio con cui il suo cane lo stava fissando. Albert era chiaramente un Rottweiler e stando alla sua postura, alla posizione della coda e ai denti messi in mostra quanto bastava per intimorirlo, sembrava anche parecchio arrabbiato.
“Ehi!? Mi hai sentita? Albert rivuole la sua pallina!” Ripeté la ragazza un po’ scocciata.
Sherlock scattò in piedi di colpo e tese la pallina alla ragazza che, spaventata da quel gesto improvviso, sobbalzò e rovesciò in modo maldestro la borsa che portava sulla spalla. Istintivamente Sherlock si chinò per aiutarla a raccogliere i libri e tutto ciò che era fuoriuscito dalla sua borsa e una volta in piedi i due si sorrisero imbarazzati.
“Ti chiedo scusa” balbettò Sherlock portandosi nervosamente una mano ai capelli, tutto d’un tratto si sentiva in disordine. La ragazza afferrò la pallina e la restituì al cane mentre Barbarossa emetteva dei borbottii per esprimere tutto il suo disappunto. “Barbarossa non voleva essere scortese, la verità è che quando vede una pallina non capisce più nulla” aggiunse Sherlock in difesa del cane che sentendo il tono di rimprovero del padrone aveva chinato il capo con aria colpevole.
“Ti perdono solo perché gli occhi del tuo cane sono troppo dolci per non farlo.” Sorrise la ragazza arretrando di qualche passo per tornare sulla sua strada, ingrovigliandosi nel guinzaglio. “Ci vediamo, spilungone” aggiunse prima che Albert tirasse improvvisamente obbligandola a voltarsi per seguirlo.
Sherlock osservò la ragazza allontanarsi mentre il vento scuoteva le chiome degli alberi generando un leggero fruscio. Barbarossa abbaiò con insistenza deciso ad attirare l’attenzione del padrone, si alzò su due zampe e cominciò a saltellargli intorno ma Sherlock sembrava completamente rapito e fu solo quando Barbarossa gli addentò delicatamente un polpaccio che finalmente si riscosse.
“Credo sia ora di tornare a casa Barbarossa… Mamma ha comprato a Mycroft delle nuove pantofole di seta e tu non hai ancora avuto modo di rosicchiargliele, non vorrai certo deluderlo?” domandò al cane con aria complice.
 
La settimane che seguì quell’incontro casuale al parco fu una delle più scombussolate della sua vita. A scuola era distratto e persino i suoi adorati libri di chimica gli apparivano noiosi e privi di qualsiasi attrattiva. Inoltre, quando i suoi compagni gli chiesero aiuto in vista di un compito in classe sulle soluzioni tampone, non trovò nemmeno le parole giuste per insultarli per la loro incapacità di risolvere dei problemi tanto semplici e elementari, segno inequivocabile che qualcosa non andava.
Perfino Mycroft, che di solito era sempre troppo preso da se stesso per rendersi conto di quello che lo circondava, si accorse che il fratello era strano, distratto.
“È l’ora del tè” fece sapere Mycroft entrando in camera di Sherlock senza bussare e avvicinandosi al fratello minore che era chino sulla sua scrivania sicuramente alle prese con uno dei suoi esperimenti. Appena fu abbastanza vicino da capire cosa stava facendo, Mycroft si pentì amaramente di non aver bussato. Sulla scrivania di Sherlock c’era una rana aperta in due e l’odore che emanava non era certo acqua di rose.
“Per l’amor del cielo, Sherlock! Cosa hai fatto a quella povera rana?” sbottò Mycroft che da qualche anno sospettava che il fratello minore avesse iniziato ad osare un po’ troppo con i suoi esperimenti.
Sherlock scrollò le spalle e si voltò a guardare il fratello.
“Tu non eri al College?” domandò ignorando bellamente la domanda del fratello e la sua faccia disgustata.
“Sherlock! Sono tornato mercoledì” sibilò il maggiore degli Holmes visibilmente infastidito da quella domanda.
“Ah” fece Sherlock non del tutto convinto, “e ci siamo già visti da quando sei tornato?” aggiunse mandando il fratello su tutte le furie.
“Sherlock, sono tre giorni che sono a casa e che ceniamo insieme!” Gli fece notare l’altro al culmine della rabbia, “possibile che tu non ti sia accorto della mia presenza?”
“Possibile anche se improbabile… forse ti ho solo ignorato” spiegò Sherlock con un’alzata di spalle tornando ad osservare attentamente l’interno della sua rana.
Mycroft sentì un conato di vomito salirgli dalla bocca dello stomaco e si costrinse a non guardare. “Quella rana…” cominciò a dire sperando di riuscire a convincere il fratello a liberarsene.
“Non sono un assassino!” dichiarò l’altro risoluto, “l’ha trovata Barbarossa” spiegò Sherlock indicando il cane che dormiva sul suo letto con la testa rigorosamente sul cuscino, “era sul ciglio della strada, ed era già morta!”
“Si ma perché torturarla?” sbottò Mycroft disgustato dallo scempio che regnava sulla scrivania di Sherlock.
“Sapevi che le rane hanno un osso chiamato urostilo?” domandò Sherlock mostrando al fratello un libro che riportava nel dettaglio l’anatomia dell’ordine degli anuri grazie ad un’ampia serie d’immagini e disegni.
“È l’ora del tè, Sherlock!” Ripeté Mycroft ignorando l’entusiasmo del fratello per un animale mezzo squartato in bella mostra sulla sua scrivania.
“Non voglio il tè” borbottò Sherlock impugnando un bisturi e una pinzetta. Mycroft gli lanciò un’occhiataccia e si decise a giocare il suo asso nella manica: “Mamma ha fatto i biscotti allo zenzero!”
Come previsto Sherlock depose i suoi strumenti di tortura e si alzò di scatto dalla sedia, non sapeva resistere ai biscotti allo zenzero e Mycroft lo sapeva bene. Sherlock diede un buffetto al cane che dormiva nel suo letto, poi si rivolse a Mycroft: “Dovevi proprio tornare?” chiese impertinente, “ti mancavamo così tanto?”
“Tu no di certo” replicò l’altro sorridendogli amabilmente, “ma sai com’è… le vacanze di Pasqua vanno passate in famiglia” sbuffò Mycroft pronunciando l’ultima parola come se fosse velenosa.
 
La domenica di Pasqua Sherlock venne svegliato come sempre da Barbarossa che non vedeva l’ora di raggiungere il parco per inseguire le cornacchie. Sua madre era già alle prese con i fornelli e lui fu ben felice di avere una scusa per uscire di casa ed evitare di farsi coinvolgere nei preparativi per il pranzo. Era una splendida giornata di primavera e Sherlock si rese conto che convincere Barbarossa a rincasare sarebbe stato difficile, ma di quello si sarebbe preoccupato più tardi.
Erano quasi le dieci quando imboccò il sentiero acciottolato che conduceva al centro del parco dove un laghetto ospitava una piccola colonia di anatre che Barbarossa adorava terrorizzare. Deciso a passare al parco più tempo possibile si era portato dietro un libro, ma un attimo prima che lo aprisse sentì Barbarossa abbaiare e lo vide giocare e rincorrersi con un altro cane, un cane che Sherlock aveva già visto e che difficilmente avrebbe dimenticato.
Nonostante la mole massiccia tipica del Rottweiler, Albert correva veloce con la sua fedele pallina da tennis stretta tra i denti e Barbarossa lo rincorreva deciso a rubargliela, il pelo rossiccio che splendeva alla luce del sole. Sherlock sorrise e si sentì pervadere da una sensazione sconosciuta. Trepidante attesa? Emozione? Paura? Non ebbe tempo d’interrogarsi oltre circa quello che stava provando in quel momento perché la proprietaria del Rottweiler sbucò da dietro un cespuglio, il guinzaglio stretto in una mano e il cellulare nell’altra. Aveva il capo chino, concentrata a leggere una mail o un messaggio, e non si era accorta della sua presenza. La ragazza sollevò lo sguardo in cerca del suo cane e Sherlock si sorprese a sperare che riconoscesse Barbarossa.
“Becky giusto?” fece Sherlock con un mezzo sorriso. Era giunto il momento di stupirla. “Facoltà di fisica, primo anno.” Le disse avvicinandosi, il guinzaglio di Barbarossa su una spalla e il libro sottobraccio.
La ragazza non ebbe difficoltà a riconoscerlo ma le sue parole la lasciarono di stucco e Sherlock si rese conto che lo guardava sbalordita, a tratti quasi spaventata.
“Non sarai uno di quei maniaci che abborda le ragazze al parco e le segue fino a casa cercando di…”
“No, no” fece Sherlock mortificato, non gli era mai capitato che qualcuno reagisse così ad una delle sue deduzioni, di solito si limitavano ad ascoltarlo in silenzio, la bocca lievemente aperta in segno di stupore, per poi emettere qualche suono che lasciava trapelare tutta la loro meraviglia; ma, ora che ci pensava, forse con le ragazze era diverso, dopotutto non aveva molto esperienza a riguardo, anzi, non ne aveva proprio. Forse sarebbe stato meglio iniziare con un semplice ciao.
“Come fai a sapere tutte queste cose di me?” chiese la ragazza molto diffidente e Sherlock capì che era pronta a darsela a gambe se solo lui avesse fatto una mossa sbagliata.
“Io… è solo che, beh…” balbettò Sherlock che non era minimamente abituato ad impappinarsi. “La tua borsa…”
“Cosa?” fece quella sempre più allarmata.
“La tua borsa” ripeté Sherlock sperando che la ragazza non fuggisse da un momento all’altro, “l’altra mattina ti è caduta e ne è uscito un libro di fisica, ‘Fondamenti di fisica I’ se non erro” fece Sherlock fingendo di ricordare il titolo del libro a fatica quando invece ce l’aveva ben impresso nel cervello.
“Il fatto che io abbia un libro di fisica nella borsa non significa che sia iscritta all’università” ribatté lei che stava ancora cercando di capire le intenzioni di quel ragazzo tanto strano e misterioso.
“C’era anche il libretto dell’università…” aggiunse Sherlock sperando di non aver osato troppo.
“Ci sono un sacco di facoltà in cui si studia fisica uno… perché pensi che sia iscritta proprio al corso di laurea in fisica?”
“Per via del tuo cane è ovvio” sorrise Sherlock, una punta di presunzione nella voce. Ormai era sempre più convinto di aver fatto centro.
La ragazza cambiò espressione e sul suo viso comparve un ghigno. “Il mio cane?” ripeté lei in attesa che Sherlock motivasse quell’affermazione.
“Albert. Magari mi piace lavorare di fantasia, ma più probabilmente quel nome non è casuale…”
“Non è casuale tu dici…” lo ribeccò lei incrociando le braccia al petto con aria sostenuta.
“No, non lo è” ridacchiò Sherlock, “non lo è affatto. È un omaggio. Ami la fisica e hai dato al tuo cane il nome di uno dei più grandi fisici che la storia abbia avuto l’onore di conoscere: Albert Einstein.”
“Non male per uno che ha dato al suo cane il nome di un pirata!” fece lei colpita ma decisa più che mai a non dare troppa soddisfazione a quel ragazzo dal sorriso enigmatico.
“Che ne sai che non è stato mio fratello a dargli il nome?” chiese Sherlock deciso a stare al suo gioco.
“Si capisce da come ti guarda… sei tu e solo tu il suo padrone, e come tale sei stato tu a dargli quel nome.”
“Colpito e affondato” fece Sherlock chinando il capo ed infilando le mani nelle tasche. “Da piccolo avevo un debole per i pirati” ammise divertito.
“E il mio nome?” domandò la ragazza cercando Sherlock con lo sguardo. Lui incrociò i suoi meravigliosi occhi solo per un attimo, poi spostò lo sguardo altrove.: “Questa era facile… il braccialetto” disse facendo un cenno col capo al suo polso destro dove un braccialetto argentato riportava quello che poteva essere solo il suo nome.
“Ci siamo visti solo tre minuti e tu hai notato tutte queste cose di me?” domandò lei visibilmente colpita.
“Non solo queste a dire il vero” ammise Sherlock un po’ imbarazzato ma deciso più che mai a giocarsi tutte le sue carte come meglio poteva.
“Cos’altro?” domandò lei curiosa.
“Sei mancina…”
Becky strabuzzò gli occhi, segno inequivocabile che Sherlock non si sbagliava, ma prima che potesse domandargli come l’aveva capito, lui parlò di nuovo. “Porti bracciali e orologio sul polso destro… un destrorso non lo farebbe, inoltre tieni il guinzaglio con la sinistra cosa che, vista la mole del tuo cane, non faresti a meno che il sinistro non sia il tuo braccio forte.”
“Ok…” sorrise lei arrossendo, e a Sherlock sembrò di leggere un certo interesse nei suoi occhi “dimmi la verità, quante ne hai rimorchiate con questa tecnica?”
Sherlock si sentì avvampare, perché non aveva una risposta intelligente a quella domanda? Cominciò a boccheggiare, il cervello completamente in blackout, doveva pur esserci un modo per uscire a testa alta da quella situazione.
“Ok, il fatto che tu non risponda significa che le stai contando, quindi sono tante, quindi non sono più tanto sicura di volerlo sapere…”
Sherlock sgranò gli occhi. Tante? Aveva veramente detto tante?
“Beh, tu non porti braccialetti e non hai il nome ricamato sui vestiti quindi saresti così gentile da rivelarmelo?” domandò timidamente Becky cercando lo sguardo di Sherlock che aveva preso a fissare i due cani che giocavano pur di non farsi destabilizzare dallo sguardo della ragazza.
“Sherlock… Sherlock Holmes” disse lui dopo essersi schiarito la voce e averle teso la mano.
“Sei un tipo interessante Sherlock Holmes” dichiarò lei stringendogliela.
“Non è quello che mi dicono di solito…” ammise lui mentre una sorta di brivido lo percorreva, ed era abbastanza certo che il tutto fosse causato da quella piccola mano che stringeva tra le sue dita lunghe e affusolate.
“Perché? Cosa ti dicono di solito?” chiese lei divertita.
“Fuori dai piedi!”** Ridacchiò Sherlock certo che lei non l’avrebbe preso troppo sul serio.
“Penso di non aver mai conosciuto una persona in un modo tanto singolare e…”
“e…”
“e tanto inquietante” ammise Becky condendo il tutto con un sorriso che fece sciogliere Sherlock. Cosa stava succedendo al suo corpo? Da dove arrivava tutta quella serotonina? Doveva pur esserci una spiegazione chimica a tutto quello che stava accadendo.
Il telefono di Becky emise un breve trillo e la ragazza diede una rapida occhiata allo schermo del cellulare. “Devo rientrare… il pranzo di Pasqua mi attende.”
Sherlock annuì mentre Becky richiamava Albert e gli metteva il guinzaglio sotto lo sguardo attento di Barbarossa che non sembrava troppo contento all’idea di separarsi dal suo compagno di giochi.
“Beh, allora ciao… Sherlock” disse lei un po’ impacciata mentre cercava di tirare a sé Albert affinché potessero tornare a casa. La ragazza fece un paio di passi incerti nella direzione da cui era arrivata e Sherlock si abbassò per coccolare Barbarossa domandandosi se lui capisse lo scombussolamento emotivo che stava provando in quel momento.
“Senti…” disse la voce di Becky facendo drizzare le orecchie ad entrambi, “magari l’hai già intuito solo guardando il mio telefono a distanza, o forse l’hai visto da qualche parte quando mi si è rovesciata la borsa ma… beh, questo è il mio numero.” Disse tendendo a Sherlock lo scontrino spiegazzato di un bar su cui aveva scarabocchiato rapidamente una sequenza di numeri. “Sarebbe carino se…”
Sherlock la fissava imbambolato stringendo il piccolo foglietto tra le dita, incapace di proferire parola.
“…se ci incontrassimo più spesso” azzardò lei un po’ spaventata da quella reazione, “dopotutto Albert e Barbarossa vanno d’accordo” concluse un attimo prima di dileguarsi dicendo: “adesso devo proprio andare.”
 
Sherlock era sdraiato nella vasca da bagno da più di mezz’ora a meditare su quanto era accaduto poco prima al parco. Era immerso nell’acqua bollente con la schiuma che gli arrivava fin sotto al mento, i lunghi piedi che uscivano dalla parte opposta della vasca e lo scontrino su cui Becky aveva scarabocchiato il suo numero di telefono saldamente stretto tra l’indice e il pollice della mano sinistra. Era lo scontrino del bar dell’università e risaliva alla settimana prima, stando a quanto riportava, la padrona di Albert non era solo un’appassionata di fisica ma anche di caffè perché quel giorno aveva ordinato un espresso e una brioches al cioccolato, curiosa scelta per qualcuno nato e cresciuto a Londra.
“Pensi di degnarci della tua presenza almeno per il pranzo, o resterai nella vasca da bagno fino a sera inoltrata?” domandò Mycroft che, come al solito, era entrato senza bussare.
Sherlock trasalì colto alla sprovvista dall’arrivo del fratello (che sapeva essere silenzioso come un gatto) e subito accartocciò frettolosamente lo scontrino tentando di farlo sparire dalla vista del nuovo arrivato. Troppo tardi, quel gesto rapido ma non abbastanza furtivo incuriosì Mycroft che si avvicinò alla vasca accigliato, deciso più che mai a scoprire cosa gli nascondeva il fratello. A Mycroft non si poteva mai nascondere nulla, voleva sempre avere tutto sotto controllo, in quegli anni Sherlock l’aveva imparato bene.
Dal momento che era bloccato nella vasca da bagno, Sherlock non aveva modo di nascondere il prezioso bigliettino alla vista del fratello così lottò con tutte le sue forze affinché quello si decidesse a mollare il colpo e farsi gli affari suoi. Purtroppo, essendo Mycroft piuttosto testardo e la vasca molto scivolosa, Sherlock ebbe la peggio, anche perché il maggiore gli cacciò la testa sott’acqua obbligandolo a consegnargli il biglietto in cambio di ossigeno. A mali estremi, estremi rimedi.
Sherlock riemerse respirando avidamente e, non appena ebbe di nuovo fiato, squadrò il fratello con odio.
“Ridammelo” ringhiò sporgendosi dalla vasca nel tentativo di riappropriarsi di ciò che gli era stato sottratto.
“Vestiti” ordinò Mycroft dopo aver letto il biglietto, “di questo parleremo più tardi” aggiunse mostrandolo a Sherlock un ultima volta prima di metterselo in tasca.
Sherlock osservò il fratello abbandonare la stanza, poi piegò la testa all’indietro cercando il muro contro cui si abbandonò per qualche secondo con gli occhi chiusi. Perché Mycroft doveva sempre rovinare tutto?
Quando Sherlock riaprì gli occhi trovò Barbarossa seduto in mezzo al bagno che lo fissava. Si appoggiò con i gomiti al bordo della vasca e allungò un braccio per accarezzarlo, in quel momento sua madre gridò dal piano di sotto: “Sherlock, è in tavola!”
 
“Sherlock hai visto le mie pantofole nuove?” domandò Mycroft quella stessa sera entrando bruscamente nella camera del fratello minore inorridendo per il disordine.
“Non lo so Mycroft, tu hai visto uno scontrino che mi appartiene?” replicò Sherlock piccato voltandosi quanto bastava per guardare male il fratello per poi riprendere i suoi studi al microscopio.
“Hai preso in ostaggio le mie pantofole perché rivuoi quello stupido scontrino?” fece Mycroft chiudendo la porta alle sue spalle.
“Può darsi” rispose Sherlock asciutto.
“Sherlock dove sono le mie pantofole?” ringhiò Mycroft, Dio solo sapeva quanto era geloso delle sue cose.
“Lo scontrino…” fece Sherlock allungando una mano in direzione del fratello senza degnarsi di voltarsi a guardarlo una seconda volta.
Mycroft infilò una mano in tasca e fissò il piccolo pezzo di carta con apprensione. “Non credevo che sarebbe mai successo” borbottò.
“Cosa?” domandò Sherlock, questa volta voltandosi a guardarlo.
“Che t’innamorassi, cominciavo a pensare che mamma e papà si fossero dimenticati di farti un cuore” Mycroft gli sorrise amabilmente.
“Io non sono… innamorato” replicò Sherlock pronunciando quell’ultima parola con tutto il disprezzo di cui era capace.
“Oh, lo sei eccome invece, e stando a quanto posso dedurre da questo… si tratta di una persona più grande di te perché lo scontrino proviene dal bar dell’università, ed è sporco di smalto, quindi una ragazza, devi aver decisamente fatto colpo su di lei perché nello scarabocchiare il suo numero le tremavano le mani, poverina, non sa cosa l’aspetta.”
“Dammelo” ringhiò Sherlock alzandosi di scatto dalla sedia per fronteggiare il fratello.
“Le pantofole” disse Mycroft allontanando lo scontrino dalla portata di Sherlock.
“Sono nel congelatore” rivelò Sherlock afferrando il foglietto con un gesto fulmineo. Mycroft non disse nulla e Sherlock vide la vena sulla tempia del fratello maggiore cominciare a pulsare gravemente, gli occhi sbarrati per la sorpresa.
“Hai messo le mie nuove pantofole di seta nel congelatore?” sbraitò al culmine della rabbia.
“Sì, e prima che ce le mettessi Barbarossa le ha sgranocchiate.” Confessò Sherlock fiero, strizzando l’occhiolino al cane che se ne stava accucciato sul tappeto al centro della stanza.
 
Erano passati dieci giorni da quando Becky aveva fatto avere a Sherlock il suo numero e lui non si era ancora degnato di agire. La scuola era ricominciata e la mole di studio era aumentata notevolmente in vista della fine dell’anno, pertanto le uscite con Barbarossa si erano ridotte ad un semplice giro del quartiere e le poche volte in cui avevano trovato il tempo di raggiungere il parco non avevano mai incrociato Albert e Becky. Sherlock sapeva bene che sarebbe bastato inviarle un semplice messaggio per rivederla ma gli ci erano voluti cinque giorni solo per convincersi a memorizzare il suo numero in rubrica e chiederle d’incontrarsi, pur usando la scusa dei cani, voleva dire dare ragione a Mycroft, e lui avrebbe fatto di tutto pur di non dargliela vinta.
Non era innamorato, di questo era certo, non si era mai interessato alle ragazze e men che meno ai sentimenti, quello per Becky era puro e semplice interesse, anche se quando ripensava ai suoi occhi qualcosa gli faceva torcere le viscere. Una condizione chimica sulla quale doveva ancora indagare.
Fortunatamente Mycroft aveva fatto ritorno al college e questo aveva semplificato, e non poco, la vita a Sherlock che cominciava ad essere stufo delle frecciatine del fratello circa i suoi problemi di cuore.
Ancora non aveva idea che il giorno che avrebbe inesorabilmente cambiato la sua vita fosse alle porte e che ne avrebbe pagato le conseguenze per il resto dei suoi giorni.
 
Quel maledetto ventinove di maggio arrivò mascherato da giorno comune; il cielo era terso e il sole splendeva cosa che, per quanto fosse rara a Londra, quella primavera si era già verificata altre volte. Sherlock e Barbarossa camminavano verso il parco come al solito, il primo con una tazza di caffè bollente in mano, l’altro con un frisbee in bocca.
Sebbene il parco fosse affollato più del solito a causa della bella giornata, Sherlock non ebbe difficoltà a scorgere Becky tra la folla. Indossava scarpe da tennis scolorite, jeans stretti e una camicetta a quadri a maniche corte, i capelli erano raccolti con un mollettone e qualche ciuffo scappava dall’acconciatura conferendole un aspetto disordinato, e Sherlock adorava tutto ciò che era disordinato, la sua scrivania ne era un esempio.
Barbarossa abbaiò due volte alludendo al frisbee posato sul prato che attendeva che il padrone gli lanciasse. Sherlock sorrise e accontentò il cane con un lancio che fece correre Barbarossa dall’altro lato del parco e che l’avrebbe tenuto impegnato per un po’.
“Ciao” fece Sherlock memore del loro ultimo incontro che era iniziato in modo del tutto diverso.
“Sherlock” sorrise Becky sorpresa, “dov’è Barbarossa?” domandò poi notando l’assenza del cane.
“A recuperare il suo frisbee” spiegò lui cercandolo con lo sguardo.
“Pensavo che mi avresti chiamata” fece sapere lei cambiando improvvisamente discorso, mettendo Sherlock in difficoltà.
“Beh, io…” tentò Sherlock. Perché di fronte a Becky faticava a trovare risposte intelligenti a domande semplici?
Becky colse il suo disagio e intervenne: “senti, qui è una bolgia” disse alludendo a tutta la gente che affollava il parco, “facciamo due passi?”
Fu così che poco più tardi Sherlock e Becky passeggiavano nei pressi del parco senza una meta precisa, Albert e Barbarossa che procedevano trotterellando uno di fianco all’altro al guinzaglio. Sherlock scoprì che oltre ad essere appassionata di fisica, Becky amava il teatro e la cucina cinese e lui le rivelò il suo amore per il violino e l’intenzione d’iscriversi alla facoltà di chimica l’anno venturo.
“Se non altro potremmo vederci più spesso” commentò lei in seguito a quella dichiarazione e Sherlock notò un lieve rossore fare capolino sulle sue guance.
Per l’ennesima volta, Sherlock si sorprese senza parole e il campanile della chiesa poco distante giunse in suo soccorso colmando quel silenzio con i suoi rintocchi.
Becky guardò l’orologio e, con non poco rammarico, sospirò: “è già mezzogiorno!”
Sherlock sentì il bisogno di consultare il suo orologio perché faticava a credere di aver trascorso due ore in compagnia di Becky senza essersene reso conto e quando sollevò lo sguardo dal quadrante dell’orologio si accorse che la ragazza lo stava fissando come se fosse in attesa di qualcosa. Sherlock era bravo a leggere i gesti e gli sguardi delle persone, indipendentemente da chi fossero, ma con Becky era tutto diverso. Becky era un fitto mistero e quando lei gli puntava addosso quegli occhi di ghiaccio lui sentiva la mente annebbiarsi e i sensi intorpidirsi. Era talmente immerso nella conversazione con lei da non essersi nemmeno accorto che in quelle due ore il tempo era cambiato e il sole scintillante aveva lasciato il posto al tipico cielo plumbeo di Londra e a qualche nube sicuramente carica di pioggia.
I giorni sono composti da ore, le ore da minuti, i minuti da secondi, ma cos’è esattamente un secondo? Un impercettibile spostamento di una lancetta su un orologio, una misera frazione di tempo che è in grado di cambiare per sempre il corso della vita di una persona, sconvolgerne l’esistenza mutando per sempre tutto ciò che è stato fino a quel momento, sgretolando ogni certezza. Questo fu quanto avvenne quel ventinove di maggio un istante dopo mezzogiorno. Approfittando dei rintocchi del campanile che avevano catturato l’attenzione di Sherlock, Becky gli si avvicinò più di quanto avesse mai fatto e, in punta di piedi gli posò un bacio sulle labbra. Bacio che Sherlock non aveva previsto neanche tra le più remote possibilità di quanto potesse verificarsi quel mattino, ma che contraccambiò senza farsi domande. Vulnerabile, indifeso, libero come non lo era mai stato, Sherlock non capì cosa stesse effettivamente succedendo quando sentì il guinzaglio di Barbarossa scivolargli lungo il polso e scappargli di mano, ma il rumore di una frenata improvvisa, le urla di un paio di signore e il tonfo che ne seguì, lo riscossero con orrore. Sherlock scostò Becky voltandosi di scatto e sentì un pezzo di quello che aveva appena scoperto essere il suo cuore disintegrarsi per sempre.
In mezzo alla strada, disteso sull’asfalto, immobile, inerte, fermo come poche volte in quegli otto anni di vita Sherlock lo aveva visto stare, c’era Barbarossa. Corse verso il cane mentre l’autista della macchina scendeva mortificato e le prime gocce di pioggia iniziavano a tamburellare insistentemente sull’asfalto.
Sherlock si gettò sul corpo del cane che aveva lo sguardo languido e la tristezza negli occhi. Lo sentì guaire in modo straziante mentre cercava in tutti i modi di avvicinarsi a lui per leccargli il viso in segno di affetto. Nonostante le abilità deduttive di Sherlock fossero messe a dura prova dallo shock, non gli ci volle molto per notare che Barbarossa non muoveva le zampe posteriori e che respirava a fatica. Lo strinse a sé conscio del fatto che la loro amicizia fosse giunta al capolinea e che per lui non ci fosse più nulla da fare. Gli accarezzò il muso mentre il cane, agonizzante, emetteva gli ultimi rantoli come se, in qualche modo, ci tenesse a dargli l’ultimo saluto.
Quando Barbarossa chiuse definitivamente gli occhi, la pioggia si era fatta battente e aiutò Sherlock a mascherare le lacrime che versò sul corpo di quello che fino ad un attimo prima era stato il suo cane, accasciato in mezzo alla strada appoggiato al cofano della macchina che si era crudelmente portata via il suo migliore amico.
Becky aveva osservato la scena a debita di stanza, in segno di rispetto, con gli occhi gonfi di lacrime e il cuore a pezzi. Aveva dovuto usare tutta la sua forza per trattenere Albert che guaiva e tirava senza tregua cercando di raggiungere Sherlock e Barbarossa.
Quando finalmente Becky trovò il coraggio di avvicinarsi a Sherlock fece per posargli una mano sulla spalla ma non appena quello avvertì la sua presenza si volto di scatto e le dedicò un’occhiata carica di odio.
“È tutta colpa tua” ringhiò Sherlock, il corpo del cane ancora stretto tra le braccia, “sparisci dalla mia vita” latrò facendo venire la pelle d’oca a Becky che arretrò spaventata ma rispettò la sua richiesta facendosi da parte, la vista annebbiata per le lacrime e un groppo in gola che difficilmente sarebbe riuscita a mandare giù.
Sherlock aveva sempre pensato che l’amore fosse un difetto chimico e mai come quel giorno si rese conto che aveva ragione.
Nessuno seppe mai il luogo in cui Sherlock seppellì il suo amico d’infanzia, nemmeno Mycroft che, una volta appresa la triste notizia, rientrò dal college per stare vicino al fratello e assicurarsi che non facesse nulla di stupido. Cosa che in parte aveva già fatto visto che il fratello maggiore gli trovò un pacchetto di sigarette in camera. Da quel giorno Mycroft promise a sé stesso che avrebbe sempre vegliato su Sherlock, indipendentemente che lui fosse o non fosse d’accordo.
 
John fissava Sherlock incredulo. Se ne stava seduto sulla poltrona davanti a lui con un bicchiere di whiskey in mano e un post-it giallo sulla fronte che, a sua insaputa, riportava proprio il suo nome e, nonostante fossero reduci dal suo addio a celibato ed entrambi ne stessero pagando le conseguenze, era abbastanza sicuro che Sherlock avesse gli occhi lucidi e che quel racconto fosse tremendamente vero seppur scaturito da un’eccessiva dose di alcool.
Si era perso in quel racconto per un tempo incalcolabile, tempo che John aveva trascorso in silenzio ad ascoltarlo senza dire una parola per paura che quella magia s’interrompesse e che Sherlock non finisse mai di raccontargli quello sprazzo di passato che gli stava permettendo di sbirciare dal buco della serratura.
A John si strinse il cuore nel vederlo in quelle condizioni; era sicuramente ubriaco, ubriaco come non lo aveva mai visto perché mai, da sobrio, si sarebbe lasciato scappare un racconto tanto dettagliato e personale sul suo passato e sulle toccanti esperienze che lo avevano reso lo Sherlock che John aveva conosciuto nei laboratori del Bart’s.
Era dal loro primo incontro che John si domandava cosa avesse reso Sherlock una persona tanto restia ai legami sentimentali e ora, dopo anni di convivenza e di domande sull’argomento, era stato proprio lui ad aprirsi di sua spontanea volontà e a far luce su quel mistero.
John si lasciò sfuggire un sorriso quando il suo cervello elaborò il fatto che fra tutte le vie di Londra, un uomo segnato da una ragazza di nome Becky avesse scelto di abitare proprio in una via che richiamasse quel nome: Baker Street.
“Beh?” fece Sherlock, che sembrava essersi appena riscosso.
“Come?” domandò John confuso.
“Tocca a te.” Gli ricordò Sherlock indicando con la mano che reggeva il bicchiere il post-it che aveva sulla fronte.
“Ah si, giusto” biascicò John che cominciava ad avere dei problemi anche solo a scandire le parole, “sono un vegetale?”.
 
 
 
* Le poche immagini che mostrano Barbarossa nella serie tv mi hanno sempre fatto pensare (forse perché è il mio cane preferito) al Setter irlandese.
 
** Citazione di “Uno studio in rosa”


Angolo dell'autrice: Parliamoci chiaro, il titolo più giusto per questa ff sarebbe stato "La triste storia di Sherlock e Barbarossa" ma avrebbe rivelato veramente troppo quindi ho dovuto scegliere un titolo che non causasse spoiler indesiderati. L'aggettivo "curiosa" mi piaceva molto e lo trovo comunque idoneo perchè è curioso il fatto che l'apatia di Sherlock e il suo disgusto per le relazioni sentimentali sia legata alla morte del suo cane (nella mia storia ovviamente). Morte che, lo ammetto, è stata straziante da scrivere e che mi ha fatto piangere (forse anche perchè avevo di fianco il mio gatto e mi sono immedesimata in Sherlock più del dovuto). Al di là dell'aspetto triste e drammatico spero che abbiate apprezzato anche altri aspetti della storia, mi incuriosisce un sacco il rapporto Sherlock-Mycroft (cosa su cui sto pensando di scrivere ancora) e mi piaceva l'idea di creare delle situazioni abbastanza divertenti tra loro due anche se immaginare Sherlock bambino è stato parecchio difficile perchè la serie tv non offre molti spunti e il rischio di finire OOC era dietro l'angolo.
Io mi ritengo soddisfatta di questo lavoro e penso che il risultato abbia un senso. Ho cercato di indagare il passato di Sherlock incastrando il tutto con degli elementi significativi noti (Barbarossa, l'essere sociopatico, Baker street, la dipendenza dal fumo e l'ossessione di Mycroft nel voler proteggere Sherlock), vi prego di farmi sapere se ci sono riuscita (oppure no) con una recensione perché sono veramente curiosa di sapere cosa ne pensate. Grazie a tutti voi per aver letto fino qui.
  
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