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Autore: _Frame_    15/01/2017    6 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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111. Per chi combatti e Per cosa sopravvivi

 

 

Nonno Roma strinse un braccio attorno alla schiena di Italia, lo fece rannicchiare contro il suo fianco, le ginocchia raccolte al petto, in mezzo ai cuscini sparsi sul triclinio, e gli diede una piccola scossetta alla spalla, tirandolo su di morale. “E anche se mi ero ritrovato da solo, ferito, accerchiato e intrappolato fra le pareti di roccia, non mi sono perso d’animo, e li ho affrontati uno per uno proprio con queste sole mani.” Sollevò l’indice al cielo, stese il suo sorriso raggiante come un sole d’estate che splende sui campi di grano dorato, e si gonfiò il petto, tutto inorgoglito. “E quando tutti capirono di avere a che fare con l’uomo più forte e affascinante del mondo, scapparono a gambe levate lasciandosi dietro solo una nuvoletta di sabbia.”

Italia si lasciò intenerire, ridacchiò anche lui restando accoccolato al suo petto, sollevò i piedi dal pavimento e li incrociò sopra l’imbottitura del triclinio, stringendosi di più contro il fianco del nonno. Si lasciò cullare da quei profumi impregnati nella stanza che sapevano di spezie, di mosto appena spremuto, di olio d’oliva, e vecchio cuoio. Un basso e profondo brusio di sottofondo si alzava anche dagli altri tavoli attorno ai quali sedevano altri uomini stesi sui triclini, o per terra, in mezzo ai cuscini. I suoni delle loro parole, delle loro risate rauche, dei tintinnii dei bicchieri sollevati sopra le teste per brindare, e il trillo dei vassoi che si toccavano fra loro, accompagnavano il dolce ticchettio dei passi. Giovani donne vestite in abiti bianchi, i capelli raccolti in nastri e fasce ricadevano dietro le spalle, passavano da un tavolo all’altro posando nuovi calici e bottiglie ad ampolla ripiene di vino rosso, cesti con pane fresco, focaccine alle olive, coppe con noci, uva rossa, datteri, e ribes.

Nonno Roma si sporse a raccogliere il suo bicchiere di vino dal tavolino in cui sedevano solo lui e Italia. “Per celebrare, me lo ricordo ancora, quella sera ci demmo alla pazza gioia. La più bella bevuta della mia vita! Andammo avanti a festeggiare per tre giorni di fila.” Agitò la coppa sbirciandoci dentro, laccando le pareti dorate con le ultime gocce che erano rimaste sul fondo tinto di un viola intenso, e la posò di nuovo accanto al vassoio con le fette di focaccia, all’ampolla dell’olio d’oliva, alla scodella di pinoli e mele già tagliate a spicchi. Sorrise, allegro. “D’altronde, le più belle bevute sono quelle che si fanno in compagnia. Ho ragione, no?” Il nonno raccolse una manciata di pinoli e tornò a poggiare le spalle sullo schienale imbottito del triclino, stringendo a sé Italia. I suoi occhi sfumarono in una luce malinconica, la sua voce squillante parlò con tono più basso e profondo. “Mi sarebbe piaciuto rimanere con i miei nipotini abbastanza tempo per poter trascorrere anche con voi quelle serate di vino, cibo, belle ragazze, canti, e vedervi ridere assieme a me fino all’alba.” Smangiucchiò i primi pinoli che aveva raccolto dal palmo chiuso a coppa e ne porse anche a Italia, sorridendogli. “Ne vuoi? Sono deliziosi.”

Italia ricambiò il sorriso ma scosse il capo. Abbassò lo sguardo sulla tavola apparecchiata, lo rivolse anche agli altri uomini che chiacchieravano attorno agli altri tavoli circondati da triclini e cuscini, e si strinse un braccio allo stomaco, sentendolo chiudersi. Nonostante il profumo caldo del pane e delle focacce, di quello fresco del vino e della frutta, e la presenza familiare e rassicurante del nonno accanto a lui, sentiva ancora la pancia aggrovigliata in un nodo di agitazione e timore che non riusciva a slegarsi dal cuore.

Una delle giovani donne che sfilavano fra i tavoli reggendo i vassoi si avvicinò al loro, si chinò facendo fluire i capelli bruni davanti alla spalla, lisci come la tunica che le avvolgeva i fianchi, e posò altre due ampolle impagliate di vino rosso, una scodella d’argento traboccante di ribes rossi e una più grande con dei mandarini che avevano un profumo dolce e frizzante.

Lo sguardo di Nonno Roma si illuminò. “Oh, ancora vino!” Rosicchiò gli ultimi pinoli che gli erano avanzati in mano, gonfiandosi la guancia come un topolino con la bocca piena.

La ragazza sorrise e gli versò il vino nel suo calice. Era un vino denso e nero che fece una sottile schiuma rosata sulla superficie. Glielo porse.

Nonno Roma lo raccolse dalle sue mani bianche e sottili, e le rivolse un sorriso così caldo che fece battere il cuore anche a Italia. “Grazie mille, bella signorina.” Anche Italia le sorrise, un sorriso più piccolo ma sincero, intiepidito dalla gioia del nonno.

La ragazza annuì e raccolse sul suo vassoio le bottiglie che avevano svuotato. Scivolò via con una camminata silenziosa, lasciando udire il brusio di sottofondo delle risate e degli schiamazzi degli altri uomini che fecero trillare un altro brindisi sopra le loro teste.

Nonno Roma prese un sorso del suo vino che gli tinse le guance di porpora, si sporse di nuovo e spezzò un rametto dal grappolo di ribes rossi e luccicanti come perle di sangue. Porse le bacche a Italia. “Ecco, prendi questi.” Glieli fece scivolare fra le mani chiuse a coppa. “Non hai ancora mangiato niente, devi tirarti su o altrimenti il vento ti porterà via.” Gli diede un’altra stretta alla spalla, di incoraggiamento.

Italia abbassò gli occhi, mosse leggermente le dita facendo scintillare i ribes come rubini lucidi, e il loro profumo zuccherino, leggermente acidulo, gli solleticò il naso, chiudendogli di nuovo lo stomaco. Scosse il capo, tenne i ribes in mano, e si accoccolò di più contro la spalla di Nonno Roma. “Non ho molta fame, nonno.”

Il nonno gli strofinò una carezza in mezzo ai capelli. “Sciocchezze,” gli disse, dopo un altro sorso di vino. “Assaggia e tirati un po’ su, vedrai poi come ti sale l’appetito.”

Italia sospirò, chiuse fra i polpastrelli due bacche di ribes e le staccò dal rametto, le fece rotolare sul palmo e le portò davanti alle labbra, ne inspirò di nuovo quel profumo fresco e pungente che si sciolse come zucchero sulla lingua. Sollevò un sopracciglio.

Che sia cibo vero?

Si fece scivolare in bocca i due chicchi di ribes. Affondò un morso lento. I ribes scoppiarono in fondo alla guancia e il succo gli scese in gola, fresco e acidulo. Gli fece strizzare gli occhi.

È da mesi che mangio solo razioni militari. Si leccò le labbra e raccolse con il pollice una goccia di succo che era scivolata all’angolo della bocca. Dovrei essere affamatissimo. Si succhiò la punta del pollice tinto di rosso, lo stomaco tornò a torcersi, e lui dovette massaggiarsi la pancia. Eppure basta solo che ne senta l’odore che mi viene subito la nausea.

Posò il resto dei ribes che erano rimasti appesi al rametto, raccolse le mani in grembo e si lasciò avvolgere di più dal braccio del nonno che gli passava attorno alle spalle. Chinò il capo sul suo petto, socchiuse le palpebre, e rimase al caldo, a sentire solo il suo battito del cuore sotto l’orecchio e il suo respiro che gli soffiava dolcemente fra i capelli.

Anche se è solo un’illusione, si rintanò in quell’abbraccio, non posso mettermi a mangiare quando Romano sta patendo la fame con tutti quanti i soldati.

La stretta del nonno tornò a dargli una spintarella. “Aah, ma certo che non volerai via, e sai perché?” Chiuse l’abbraccio più vicino a sé e gli strofinò la guancia sulla sua, ridacchiando e facendogli sentire il solletico della barba ispida. “Perché c’è il tuo nonnino a tenerti a terra con lui.”

Anche Italia non seppe contenere un risolino che gli scosse il petto in una vibrazione di gioia. Tenne la fronte unita alla spalla del nonno, si lasciò di nuovo carezzare i capelli, strofinare la nuca, e gli avvolse i fianchi con le sue braccia, raccogliendo le ginocchia alla pancia per farsi più piccolo. Sentì di averne bisogno.

Attorno a loro, le giovani donne andavano e venivano, i vassoi ricolmi di vino, di frutta, di pane, di olive e di fette di formaggio. Si spostavano in mezzo ai suoni di risate, di calici che tintinnano, di profonde sorsate risucchiate fra le labbra, di scrosci di vino che viene versato fra le pareti dei bicchieri, di scricchiolii del pane spezzato fra le unghie, di schiocchi delle noci rotte e rosicchiate assieme ai datteri.

Italia socchiuse gli occhi, si isolò da quei suoni, da quelle immagini. Pensò solo al calore del nonno, al suo profumo antico che aveva già rivissuto quando lo aveva abbracciato sul campo di battaglia, nel fango e nella pioggia, tutto bagnato di sangue, e rivisse la stessa sensazione di conforto e malinconia che gli strinse il cuore in una triste morsa dolorosa.

Chiuse gli occhi, si abbandonò al calore di quel tocco, gli carezzò le braccia che lo stringevano e coccolavano come quando era piccolo. “Nonno.” Lo chiamò con voce più avvilita e flebile, un sussurro.

Nonno Roma posò il calice vuoto sul tavolo, carezzò i capelli di Italia, continuò a sorridergli. “Sì?”

Italia sospirò. Sentì il profumo del nonno riempirgli il cuore e farlo traboccare di ricordi. Ricordi che sapevano di fango umido e gelido contro la pelle, sotto i vestiti, di pioggia che scivola fra i capelli, lungo le guance e dentro le labbra, e di sangue spanto sulle rocce. “Sai,” gli disse, “dopo... dopo quella volta...” Si strinse nel suo grembo, continuò a guardare in basso, verso il pavimento dove si intrecciavano le ombre della camera. “Quando sei corso ad aiutarmi. Perché poi...” Strinse le dita sulla sua veste, come quando si era aggrappato a lui in quell’abbraccio disperato sul campo di battaglia, quando il nonno lo aveva riparato e protetto dagli attacchi di Grecia. Le labbra di Italia tremarono. “Perché non sei rimasto con me?” E perché non mi hai portato via?

Nonno Roma sospirò – Italia si mosse assieme al suo petto – e sfilò la mano dai capelli di Italia, gli carezzò dolcemente la guancia. “Te lo avevo già spiegato.” Sollevò lo sguardo sulla stanza che li teneva avvolti nei profumi di vino e frutta, e una luce nostalgica fece luccicare i suoi occhi d’ambra, li rese più malinconici. “Il mio posto non è più con voi, ormai.” Intrecciò un’altra carezza fra i capelli di Italia, gli strofinò la nuca. “E anche tu non potrai rimanere a lungo con me, esattamente come io non sono potuto rimanere a lungo con te.”

Italia sussultò fra le sue braccia. Non posso rimanere? D’istinto, abbassò gli occhi sul proprio petto, si toccò il cuore che sentiva ancora battere senza provare dolore. Quindi non sono morto? Fece scivolare il palmo fra le pieghe della giacca, senza incontrare il profilo della croce di ferro o il sottile filo della catenina. Non la indossava al collo.

“Ma anche...” Italia tenne le dita strette al petto, sollevò lo sguardo verso quello del nonno, e i suoi occhi si velarono di paura. “Anche se io tornerò di là, anche se ricominciassi a combattere come vuoi tu,” un tremore gli attraversò il corpo, gli fece scuotere il capo, “ormai è tutto inutile.” Il senso di impotenza gli tornò ad avvolgere il cuore come una fitta nebbia nera.

Nonno Roma lo guardò con occhi interrogativi, tristi. “Perché dici che è inutile?” Lasciò scivolare le gambe giù dal triclinio in modo da tenere Italia più vicino a sé, in modo che lui lo avvolgesse completamente.

Italia strinse il viso per tenere dentro le lacrime che già sentiva pungere agli angoli delle palpebre, trattenne il respiro, un’ondata di calore si gonfiò come una bolla in fondo al petto, si sciolse in un piccolo gemito da animaletto ferito. “Perché ormai...” Spinse la fronte contro la spalla del nonno, le braccia avvolte al suo torso tremarono. “Anche se adesso sono assieme a Romano, anche se combattiamo stando uniti, non riusciremo mai a vincere.”

Singhiozzò una prima volta, e gli parve di nuovo di essere abbandonato a giacere in mezzo al fango e alle rocce, il fucile caduto lontano dalle sue braccia, la pioggia che gli batteva sopra, il vento ghiacciato che la stava lentamente trasformando in una soffiata di neve pungente, e la presenza di Nonno Roma che si allontanava come un’ombra. La paura tornò ad annaffiarlo, a piovergli addosso come il diluvio che era sceso a frustate in faccia durante le prime settimane di guerra e che non aveva mai smesso di scavargli nell’anima, consumandola giorno dopo giorno.

Italia emise tre singhiozzi di seguito, si coprì il viso con una mano chinandosi in avanti per resistere alla pressione del dolore, e di nuovo stridette fra i denti. “Perché, nonno?” guaì. “Io...” Fece scivolare la mano dal viso e svelò due occhi lucidi e disperati, ma da cui erano scese solo poche lacrime. “Io non capisco,” gemette. “Grecia non è una nazione debole, ma non è nemmeno tanto forte come Germania, o come Inghilterra, o come Russia.” Si strofinò le palpebre, tirò su col naso. “Allora perché lui sta vincendo contro di noi,” si asciugò anche l’altro occhio, la pressione nel petto aumentò facendogli arrochire la voce, “mentre io e Romano non siamo riusciti a batterlo nemmeno una volta?”

 Gli occhi di Nonno Roma si fecero più attenti, profondi e scuri. I suoni della stanza si abbassarono, le luci si addensarono solo attorno a loro due, gettando una sottile penombra sul resto dei tavoli, sui vassoi, sui calici scintillanti e sugli altri uomini.

Italia si strinse a un braccio di Nonno Roma, lo guardò con viso implorante, pregno di dolore. “Dimmelo, nonno,” gemette. “Perché io non so...” Spinse la fronte sulla sua spalla e scosse il capo. Un’intensa ondata di stanchezza gli appesantì i muscoli, chiuse un forte dolore attorno alle ossa e sulle spalle. “Non so più per cosa valga la pena di continuare a combattere.” Un sospiro lungo e tremante lo fece singhiozzare.

Lo sguardo di Nonno Roma si ammorbidì, gli occhi caldi e comprensivi, e sulle sue labbra tornò quel piccolo tocco di sorriso che gli rendeva il colore delle guance più roseo. Si chinò verso il tavolo a raccogliere una focaccina farcita di olive. “Mhm, sai, forse è vero.” Spezzò la focaccina e diede la fetta più grande a Italia. “La potenza di Grecia non è poi così tanto diversa dalla tua e da quella di tuo fratello.”

Italia tirò su col naso, si stropicciò gli occhi rossi, e raccolse la focaccia dalla mano del nonno. Ne rosicchiò un angolino in cui era impastato un anello di oliva verde. Il sapore dolce e ancora tiepido dell’impasto lo aiutò a trattenere in gola le lacrime.

Nonno Roma tornò a sprofondare con le spalle sullo schienale in velluto rosso del triclino. “Eppure, lui ha qualcosa in più rispetto a voi due.” Diede anche lui un piccolo morso alla focaccia di olive, sollevò un indice al cielo. “Un’ottima motivazione.”

“Ma...” Italia buttò giù a fatica l’ultimo boccone, si strofinò la bocca, e si posò le mani sul petto. Gli occhi ridivennero lucidi e increduli. “Ma anche io ho una motivazione.”

Nonno Roma sollevò un sopracciglio, ma le sue labbra sfiorate dalla focaccia già addentata si incurvarono in un finissimo sorriso, quasi sapesse...

Italia abbassò gli occhi di colpo. “Io sto combattendo per la nostra nazione,” una vena di indecisione gli incrinò la voce, “e anche Romano lo sta facendo.” Strinse le dita sul grembo e stropicciò un angolino della giacca. “Io e lui siamo uniti, siamo tornati assieme e...”

Nonno Roma scosse il capo. “Siete tornati assieme solo qui.” Gli posò delicatamente due dita sulla fronte, sotto la frangia, e Italia sussultò per quel tocco. “Ma tu e tuo fratello dovete essere uniti anche qua.” E gli portò le due dita sul petto, dove batteva il cuore.

Italia trattenne il fiato, intimorito e messo allo scoperto. L’anima nuda davanti al nonno, con la sensazione di avere le sue dita poggiate sulla pelle spogliata del torso dove si vedeva l’impronta del cuore brillare di rosso a ogni palpito.

Nonno Roma gli tolse le dita dal torso, smangiucchiò l’ultimo morso di focaccia alle olive. “E ora i vostri cuori non si trovano nello stesso posto,” continuò. “Perché voi due non state combattendo per lo stesso motivo,” annuì a se stesso, “al contrario di Grecia che combatte per la sua nazione.”

Italia strinse una mano sulla coscia e una sul petto, sopra il battito del cuore. E dov’è il mio cuore? Il suono sotto il palmo batté soffice ma a fondo, gli fece vibrare il sangue e il respiro, dandogli la stessa sensazione che infonde una profonda boccata d’aria presa prima di immergersi in acqua. Per chi è che sta battendo?

“Io...”

Io combatto per Germania e questo non va bene. Abbassò lo sguardo, vergognandosi di incontrare quello di Nonno Roma. È questo che intende?

“Io ho capito quello che vuoi dirmi,” ammise Italia. “Ma non riesco...” Tenne la mano strizzata sul petto, raccolse tutto il calore bruciante che sentiva ardere in corpo, lo concentrò nel suo battito, e non riuscì a mentire. “Non riesco a sentirmi in colpa.” Inspirò forte, e quel respiro gli rese il petto più leggero. “Non riesco a sentire di stare facendo la cosa sbagliata.”

Gli occhi di Nonno Roma tornarono più attenti.

Italia percepì lo sguardo intenso del nonno, sentì accendersi una scossa di coraggio che lo fece avvicinare di più a lui con le ginocchia. Sollevò gli occhi dritti verso i suoi, fino a specchiarsi. “Nonno.” Italia gli avvolse una mano attorno al braccio, sotto la spalla, e una fitta di nostalgia gli aprì un tonfo nel petto. “Quando ero piccolo,” chinò il capo sulla sua spalla, “quando tu eri ancora con me, mi leggevi un sacco di storie, e un sacco di poesie, e mi raccontavi di come ogni poeta e ogni scrittore passava la sua intera vita a comporre per la persona che più amava al mondo, persino più di se stesso, e che a volte arrivava addirittura a morire per questa persona.”

In quel nodo di nostalgia, si rivide piccolo, seduto sulle ginocchia del nonno, su un prato all’ombra di un albero, o sul letto prima di andare a dormire, con il librone aperto davanti al suo visetto rivolto alle scritte fitte che il nonno gli insegnava a leggere percorrendo le lettere con la punta del ditino.

Italia non riuscì a trattenere un sorriso di malinconia. “Tu mi hai sempre insegnato queste cose. Hai cresciuto me e Romano solo con amore.” Sospirò, e i suoi occhi bassi e scuri tornarono annebbiati di tristezza e dolore. “E allora perché...” Scosse il capo. “Perché adesso il mio sentimento è così sbagliato?” Sfilò la mano dal braccio del nonno e tornò a posarle entrambe sul petto. “Perché è sbagliato che io provi queste cose nei confronti di Germania?” guaì, la voce stretta e sofferente. “Perché non può essere lui il motivo per il quale combatto e per il quale decido di essere forte e coraggioso? Lui...” Singhiozzò, si stropicciò un occhio e tenne la mano premuta sul viso, a frenare le lacrime. “Lui ha sempre creduto in me.”

Lo rivide in quel loro ultimo giorno d’autunno trascorso assieme, fra i colori rossi e arancio del bosco del Brennero, il volto di Germania girato di profilo, un raggio di luce dorata a sfiorargli la guancia, gli occhi azzurri che brillavano limpidi e freschi come il cielo, sinceri come le sue parole. “Io ho fiducia in te, Italia.”

Quel ricordo arrivò trascinato da una gettata di pentimento. “Lui ha continuato a credere in me,” gemette Italia, “ha continuato a credere in me anche dopo quello che è successo con la scorsa guerra, anche quando tutti mi consideravano un buono a nulla e un codardo e una nazione debole.” Strinse le mani al petto, come a racchiudere il fantasma della croce di ferro. “Germania mi ha voluto di nuovo vicino.” Vicino a lui nel primo e disperato abbraccio a Berlino dopo gli anni trascorsi uno lontano dall’altro, vicino a lui nell’ultima e silenziosa notte passata abbracciato al suo fianco, solo cullato dal suo respiro. Italia sollevò un sorriso che si inumidì delle lacrime scivolate giù dalle palpebre. “Ha voluto proteggermi, ha creduto alla mia forza quando nessuno lo avrebbe mai fatto.”

Nonno Roma gli accostò una mano al viso e gli asciugò due gocce di lacrime rotolate sulle guance.

Italia gli trattenne la mano, la tenne accostata alla sua guancia, a darsi forza con il suo calore. “Perché,” singhiozzò, “perché non posso combattere anche io per lui?” Socchiuse le palpebre e flesse le sopracciglia in un’espressione straziata dal dolore e dallo smarrimento. “Perché è così sbagliato che io combatta per qualcuno che amo, al posto di combattere solo per me stesso?” Singhiozzò altre due volte, strizzò gli occhi lasciando gocciolare perline di pianto sulla mano del nonno, fra le dita flesse contro la sua guancia, e tornò a farsi abbracciare.

Nonno Roma gli strofinò la mano libera fra i capelli, sorrise, gli strinse le spalle dandogli una scossetta di incoraggiamento per farlo smettere di piangere. “Hai ragione.” Lasciò che Italia si calmasse un po’, che si asciugasse da solo le lacrime dagli occhi, e tornò a chinarsi verso il tavolo. Raccolse il calice di vino mezzo pieno, rivolse gli occhi al succo nero sfumato di viola, e le sue guance riflessero la tinta rossiccia del nettare. “Non è sbagliato combattere per qualcuno che si ama, non è sbagliato che tu combatta pensando a Germania.” Prese un sorso di vino, e i suoi occhi rimasero alti, a vagare fra i ricordi, bui e lontani. “Io ho combattuto per secoli da solo, pensando solo alle conquiste,” flesse il capo di lato, abbassò le palpebre e sospirò ancora, “a diventare più forte, a sottrarre potere agli altri, a impadronirmi di terre, di denaro, di vite.” Sorseggiò altro vino, e le guance si riempirono di un sapore più amaro e pungente. Nonno Roma scosse le spalle, anche il suo sorriso fu più amaro. “E sono comunque qui.”

Italia si asciugò un’ultima lacrima e osservò Nonno Roma con sguardo più attento. Il groppo di dolore sciolto da quelle parole sincere.

Nonno Roma fece ondeggiare il vino, laccò le pareti del calice spandendo un profumo dolce e speziato. “Non è sbagliato amare qualcuno,” scosse il capo e sorrise di nuovo, “non è sbagliato volere il bene di un alleato e compiere sacrifici per lui, perché un’alleanza consiste anche in questo.” Sollevò la punta di un indice e guardò Italia con quegli intensi occhi caldi come il sole e brillanti come l’oro. “Ma in tutto ciò che fai non devi mai perdere la consapevolezza di te stesso, di ciò che sei.” Porse il calice a Italia, e lui lo raccolse con entrambi i palmi. Le braccia ancora tremavano per gli spasmi del pianto. “Il tuo deve essere un amore consapevole,” spiegò il nonno, “altrimenti non sarebbe amore, sarebbe una sottomissione.”

Italia chiuse gli occhi e finì il vino rosso buttandolo giù in un sorso solo. Un buon sapore fruttato e corposo, di fragola, gli scivolò fresco attraverso la lingua e gli riempì la bocca di un profumo che ricordava quello della noce moscata. Con le labbra tinte di rosso ancora unite all’orlo, Italia provò un’altra fitta di dolore e consapevolezza. Sfilò il calice vuoto dalla bocca e lo poggiò sul tavolo.

“È perché sono una nazione, vero?” Tornò a rannicchiarsi sul triclino, raccolse le ginocchia al petto e avvolse le braccia attorno alle gambe. “Se fossi un umano...” Strizzò i pantaloni fra le dita, sentendo la frustrazione bruciare nel sangue. “Se fossi un umano sarebbe tutto più facile.”

Nonno Roma scosse di nuovo il capo. “Che tu sia un umano e che tu sia una nazione...” Gli sfiorò la guancia, raggiunse il mento, e gli fece voltare il viso con un delicato e premuroso movimento delle dita. “Questa è una regola che chiunque deve ricordarsi.” Lo tornò a guardare negli occhi, nel cuore, nell’anima. “Altrimenti, finirai solo per perdere te stesso.” Gli carezzò la guancia e gli portò dietro l’orecchio due fili di capelli rimasti incollati alla pelle dalle lacrime. “E nemmeno Germania vuole questo da te, ne sono sicuro.”

“E allora...” Di nuovo il vortice di confusione gli risucchiò i pensieri, premette sulle tempie battendo come un martello, gonfiando di nuovo quella bolla di pianto fra i polmoni. “Allora cos’è che vuole?” Italia singhiozzò senza accorgersene, si tappò un occhio raccogliendo il flusso di lacrime che riprese a scivolare lungo le dita e in mezzo alle labbra. La voce stridette in un lamento che avrebbe spaccato il cuore a una pietra. “Cos’è che devo fare per renderlo felice?” Si asciugò anche con l’altra mano. “Perché è questo che voglio.” Singhiozzò ancora, il nodo di dolore alla pancia e al petto lo spinse a chinare le spalle in avanti, a nascondersi il viso dentro i palmi. “Io voglio che lui sia felice,” gemette. “Io voglio che lui sia felice di stare con me.”

Il sorriso di Nonno Roma divenne più morbido, comprensivo e paterno. Un sorriso triste di vedere Italia piangere di nuovo fra le sue braccia.

Nonno Roma gli carezzò la guancia con dolci movimenti circolari delle nocche. Era un tepore caldo che arrivava fino al cuore. “Tu hai tanto amore da dargli,” disse. “Ed è stato questo a rattristarlo, sai.”

Italia si sfilò le dita dagli occhi, sbatté le palpebre rosse e umide, mostrò uno sguardo interrogativo, confuso.

Nonno Roma gli avvolse le spalle, lo tenne abbracciato al suo fianco, la tempia di Italia poggiata sulla sua spalla, le dita a pettinargli i capelli. “Lui ti vede come qualcuno che è riuscito a portare la pace nel suo cuore, nel suo animo che non ha conosciuto altro che la guerra.” Una soffice e innocente risata fece vibrare il petto accanto all’orecchio di Italia. “Pensa a come deve essersi sentito quando ha scoperto che tu avevi scelto la guerra, mentre per lui tu non rappresenti altro che pace.”

Italia sgranò gli occhi e sussultò, si aggrappò alla veste del nonno sentendo un vuoto scavargli il petto. Io per Germania rappresento la pace?

Di nuovo quel giorno nel bosco del Brennero, di nuovo gli occhi azzurri di Germania, il suo viso serio carezzato dal sole d’autunno che gli tingeva le guance di arancio, e il vento che scuoteva gli alberi e le foglie appassite attorno a lui. “Non è per vederti cambiare che ho firmato l’alleanza con te, Italia.”

Italia guardò in basso, si fissò la mano aperta e tremante, bagnata di lacrime. E cos’è che Germania rappresenta per me, allora? Il battito del cuore gli trasmise una sensazione che lo estraniò, gli fece provare caldo sulla pelle ma freddo dentro. Forse... Serrò la mano, accostò il pugno al petto, soppresse quei ricordi dolci e amari che non voleva più vedere. Il riflesso di qualcuno che non se n’è mai andato dal mio cuore?

“Nonno, e se...” Italia sollevò il capo. Sul suo viso si dipinse un’espressione grigia e vuota, gli occhi si annebbiarono. “E se io stessi mentendo a me stesso fin dall’inizio?”

Nonno Roma sollevò un sopracciglio. Tenne Italia sempre abbracciato a sé e stette ad ascoltare.

Italia inspirò a fondo, il cuore vibrò di dolore. “Forse, io sento così tanto il bisogno di stare accanto a Germania perché in lui io cerco di vedere qualcuno che in passato ho lasciato andare via e che ora so che non tornerà mai più.” Si accorse di stare di nuovo piangendo solo quando sentì il sapore acre delle lacrime riempirgli le labbra. Non si tappò gli occhi. Continuò a fissare il vuoto, a spandere il pianto che gli scivolava liscio e silenzioso lungo le curve rosse delle guance. “Germania allora è questo per me? Solo un modo che ho per riparare al mio errore? Solo una consolazione che non mi fa più sentire il peso di...” Un singhiozzo gli fece mordere il labbro e rimangiare le parole. La voce di Italia sussultò, tornò a parlare più rauca, bagnata anche lei dalle lacrime. “Di quella scelta di cui mi sono pentito sempre di più?”

Gli occhi di Nonno Roma si intristirono come se anche lui si fosse affacciato ai ricordi assieme a Italia. Ricordi di giornate soleggiate trascorse nel prato, il pennello in mano, il grembiulino gonfio di biscotti, la manina libera unita a piccole dita che tremavano di imbarazzo. E ai ricordi di una giornata fredda, ventosa. Di labbra morbide sulle sue, del sapore delle lacrime a pungergli la bocca, di parole d’addio sussurrate trattenendo i singhiozzi, e di una promessa affidata al soffio del vento.

Italia si sfregò la mano sulle guance, singhiozzò di nuovo ma rafforzò la voce, sentì vibrare lo stomaco. “Io ho promesso a me stesso di non commettere quell’errore con Germania, però...” Tornò a guardarsi le mani tremanti. “Però ora sto iniziando a chiedermi se il mio sia stato davvero un errore.” Emise un sospiro abbattuto, tornò a spalle chine, si posò la mano sul cuore dolorante e abbassò la voce. “Io non ho sbagliato a lasciare andare Sacro Romano Impero, perché sia io che lui abbiamo messo davanti a tutto il bene dei nostri popoli e dei nostri paesi. Ed è così che si comporta una brava nazione.” Gli occhi annacquati sgorgarono altre due scie di lacrime cristalline. “Quello che ho sbagliato...” La sensazione di quei ricordi fece più male del proiettile conficcato nel cuore, aprì un vuoto che sapeva che non sarebbe mai più riuscito a colmare. Italia si coprì il viso rosso e umido. “È stato innamorarmi di lui.” Pianse ancora, annegato in quei pensieri bui e profondi.

Le braccia di Nonno Roma strette attorno a lui gli diedero qualcosa a cui appendersi. “Lasciarlo andare è stato molto coraggioso da parte tua,” gli disse con voce calda e sincera. “Proprio perché hai scelto di mettere da parte il tuo cuore per il compimento di un destino superiore.”

Italia singhiozzò. “Qu...” Ingollò un grumo di lacrime, si strofinò gli occhi. “Quale...” Sollevò lo sguardo ancora umido e lacrimante, cercò gli occhi del nonno attraverso la patina opaca. “Quale destino superiore?” Tirò su col naso.

“Quello che anche in futuro ti troverai a fronteggiare.” Nonno Roma guardò davanti a sé, verso la stanza che si era fossilizzata in quel silenzio fitto e pesante nel quale non si sentivano più nemmeno i profumi delle pietanze. “La Storia è destinata a ripetersi.” Gli occhi del nonno rabbuiarono, più distanti, ma il braccio si chiuse attorno alle spalle di Italia per tenerlo più vicino. “Esattamente come i tuoi sentimenti saranno nuovamente messi davanti alle stesse prove.”

Italia sobbalzò. I miei sentimenti? Si toccò d’istinto il cuore. Quelli per Germania...

Non poté fare a meno di pensare anche a...

O quelli per Sacro Romano Impero?

“Io...” Italia parlò con voce flebile, addolorata e infittita da quel peso che premeva sul cuore a ogni respiro, come il proiettile. “Io non so più distinguere i sentimenti che provavo per Sacro Romano Impero e quelli che ora provo per Germania.” Schiuse le mani pallide e tremanti, che luccicavano per le lacrime, e le dita si torsero come se stessero reggendo due pesi contro i palmi. “E ho paura che un giorno non sarò più in grado di scegliere fra loro due,” guaì, “fra quello che mi dice il cuore e quello che è giusto fare per me e per la nostra nazione.”

“E infatti arriverà un giorno...” Nonno Roma guardò di nuovo lontano, gli occhi intensi e quella voce profonda che ora era un eco vibrante trasmesso direttamente all’anima. “Arriverà un giorno in cui anche tu ti troverai a scegliere fra la pace e la guerra.” Si rivolse a Italia, gli posò le nocche sulla guancia, come quando gli raccoglieva le lacrime. “Fra Germania e te stesso, fra Germania e tuo fratello, fra te stesso e tuo fratello.”

Italia ebbe un tuffo al cuore, un pugno di panico schiacciato sulla bocca dello stomaco. Rimase a labbra socchiuse, il sangue ghiacciato, gli occhi larghi e lucidi di spavento. “Cosa?” mormorò. E la mano del nonno posata sul suo viso si fece fredda come un pezzo di ghiaccio.

Fra Germania e Romano.

Quel pensiero gli divise il cuore come un coltello rovente che affonda la sua lama e taglia di netto il muscolo. Una parte del cuore a Romano e l’altra a Germania.

Fra Germania e me stesso.

Le loro mani intrecciate, la croce di ferro a pendere fra le loro dita. Il loro legame destinato a districarsi, le mani che si separano, scivolano l’una dall’altra, e le spalle che si voltano. Gli sguardi che si abbandonano.

Fra me stesso e Romano.

Il coltello non affondava più nel cuore, ma nella loro nazione. La tagliava di netto in un sonoro swish!, come una lama sulla carta.

Italia schiacciò i pugni sulle ginocchia, i palmi bruciarono, gli occhi di nuovo si gonfiarono di lacrime amare e pungenti, il groviglio al petto fece gorgogliare una fiamma di disperazione.

Ma io ho fatto tutto questo proprio per non dover scegliere. Per non essere costretto a rinunciare a nessuno dei due! Perché...  

Scosse il capo e si prese la fronte con entrambe le mani, svuotato di ogni forza, le membra stanche e il cuore pregno di dolore.

Perché non può esserci un’altra soluzione?

“Nonno...” Italia si sporse e tornò ad abbracciarlo, a rintanarsi contro il suo petto, a bagnargli la veste con le ultime lacrime che non smettevano di sgorgare. “Fammi rimanere qui, nonno.” Singhiozzò. “Se...” Strizzò gli occhi, strinse forte le dita, mentre l’ondata di ansia e paura tornava a farlo tremare come un gattino fradicio di pioggia. “Se è davvero questo quello che deve succedere, io non voglio più combattere, allora.” Ripensò alla frustrazione di avere il corpo annaffiato di sangue, lacerato di ferite, il viso sporco di fango e sudore, e di trovarsi a giacere a terra, sommerso dall’ombra del nemico ancora in piedi. “Anche se combatto, non cambia mai niente. Anche se mi sacrifico, è tutto inutile.” Strinse i denti. Soffocò il lamento contro il petto del nonno. “Perché devo continuare a lottare se non troverò mai quello che cerco?”

Nonno Roma fece un sospiro triste. Il braccio attorno alla schiena di Italia lo massaggiò in mezzo alle scapole, a calmare i singhiozzi. “Perché la vita è una lotta continua.” Scosse il capo. Il sorriso piccolo e consapevole, un sorriso che era l’ombra delle sofferenze che gli avevano marchiato il corpo per secoli. “Una lotta a cui nessuno si può sottrarre, né nazione né umano.”

Delicati passi, morbidi come una camminata su una distesa di cotone, si avvicinarono al loro tavolo. Una delle giovani donne che li aveva serviti prima si chinò a raccogliere il calice vuoto sporco di vino e l’ampolla ancora piena. Li ripose entrambi sul vassoio e al loro posto posò, in mezzo alle ciotole di mele e noci e alla cesta della focaccia con le olive, un calice d’oro che emanava dal suo interno riflessi bruni e lucidi, come un olio.

La donna si allontanò e Nonno Roma si chinò a raccogliere il calice, tenendo Italia stretto a sé con un braccio solo. “La volta in cui smetti di lottare,” il nonno guardò dentro il calice, fece ondeggiare il fluido, e i suoi occhi sorridenti si tinsero del riverbero bruno e oleoso che riempiva le pareti dorate, “sei morto come me.”

Italia sussultò. Si tenne stretto, e anche i suoi occhi volarono sul calice da cui sentiva provenire un odore pungente e amaro, come bile. L’odore di un liquore lasciato invecchiare troppo sul fondo della bottiglia, diventato vischioso come resina in cui intingi le dita e lo fai filare come colla. Gli torse le viscere.

“Il nostro scopo non è creare un mondo senza le guerre.” Nonno Roma gli porse il calice e sorrise, come quando gli aveva fatto scivolare in mano la coppa di vino. “Ma trovare qualcosa o qualcuno per cui valga la pena di affrontarle.”

Italia tese le dita verso il calice, ne sfiorò la superficie con le punte delle dita, esitò tirandole indietro, e raccolse la coppa dalla mano del nonno. Portò il calice sotto la punta del naso, rivolse lo sguardo al suo interno, alle pareti dorate che riflettevano la luce chiara sulle sue guance umide di lacrime, e sbatté piano le ciglia. Un’ultima lacrima si staccò dalla sua palpebra, piovve nel liquido e aprì una serie di cerchi concentrici densi e vischiosi. Italia fece oscillare piano il calice, il liquido sporcò le pareti e si ritirò in onde morbide, la superficie tornò piatta e lucida come olio bruno. Italia si vide riflesso. Il viso rosso e inondato di lacrime, gli occhi larghi, lucidi e sporgenti come biglie di vetro racchiuse in palpebre gonfie e nere di stanchezza, lo sguardo straziato dal dolore.

Italia prese un respiro e accostò l’orlo del calice alle labbra. Reclinò la coppa e l’odoraccio pungente di liquore invecchiato, di medicina amara come bile, gli scivolò lungo la gola martellandogli la bocca dello stomaco e facendo risalire un conato di vomito.

Gettò il capo all’indietro e bevve d’un fiato. Ingoiò quell’olio amaro bagnato dalla sua lacrima.

Un’esplosione di dolore gli contrasse i muscoli di colpo, strozzò il respiro, gli salì alla testa come uno schiocco di fulmine e scoppiò in un lampo bianco che risucchiò ogni immagine, quella del nonno, il suo profilo, il calore del suo abbraccio. Dilatò una fredda macchia nera che inghiottì la stanza.

Italia schiuse le mani, lasciò precipitare a terra il calice vuoto che fece schizzare fuori dall’orlo un’ultima goccia di liquido, e crollò sulle ginocchia. I crampi di dolore lo picchiarono sullo stomaco e sul petto, come forti mazzate chiodate. Si tappò la bocca aggredita da quel sapore amaro che gli infiammava la lingua, gli occhi si annacquarono di lacrime e nella patina opaca e traballante si spalancò un ricordo.

Sacro Romano Impero che sventolava la manina sopra la testa, voltato di profilo, il vento che scuoteva la veste nera, i soldati che si allontanavano assieme a lui scortandolo sotto l’ombra degli stendardi.

“Ti aspetterò,” pianse la vocina di Italia, di quando era piccolo. “Ti aspetterò per sempre e un giorno ci rincontreremo.”

E la sagoma di Sacro Romano Impero che diventava sempre più piccola, fino a scomparire.

Italia strizzò gli occhi. Spremette le lacrime di dolore fuori dalle palpebre, e il pianto scivolò lungo le guance, corse in mezzo alle dita sovrapposte alle labbra, e si infilò in bocca.

Mugugnò un lamento di dolore, si arricciò su se stesso premendo le ginocchia alla pancia, e una vampata di gelo lo travolse in una violenta marea che gli fece sentire l’acqua alla gola. La fredda e fangosa acqua dell’Isonzo, l’acqua mitragliata dal diluvio che gli pioveva addosso a sassate, mordendogli la carne sotto i vestiti.

“La guerra non è un gioco,” echeggiò la voce di Germania, disturbata dallo scroscio del fiume che ruggiva fra le loro gambe. “Se tu sei troppo debole per realizzarlo e accettarne le conseguenze, questa è la fine che meriti.”

Le lacrime di allora avevano lo stesso sapore che gli stava riempiendo la bocca in quel momento, rievocò il suo pianto tremante sussurrato fra i denti che battevano di freddo e paura. “Perché deve esserci sempre una guerra di mezzo fra noi due?”

Italia si accasciò continuando a sentire le lacrime gocciolare di sbieco, attraversargli il viso di traverso, entrargli fra i capelli e lungo la curva dell’orecchio, spandersi sotto la guancia schiacciata a terra. Gemette di dolore, mentre quel saporaccio di bile continuava a martellargli in bocca e nelle viscere, torcendogli la pancia in una serie di nodi soffocanti.

“Tu vuoi fare esplodere una guerra e pretendi che io ti aiuti?” gridò la voce di Romano. “Pretendi che decida di venirti dietro solo con la scusa che sei mio fratello?”

“Se sono un codardo non va bene, se provo a essere coraggioso non va bene lo stesso.” Il suo urlo di disperazione davanti a Grecia, in ginocchio, bagnato da pioggia, lacrime e sangue. “Che cosa devo fare per andare bene a questo mondo?”

“Il nostro scopo non è quello di creare un mondo senza le guerre.” La voce di Nonno Roma tornò vicina, calda e confortante come una sua carezza fra i capelli. “Ma trovare qualcosa o qualcuno per cui valga la pena di affrontarle.”

Italia si sentì strappato via da quel dolore, trascinato lontano dall’ultima immagine del nonno, di nuovo risucchiato nel nero dal quale era arrivato.

 

♦♦♦

 

Si svegliò con il sapore del ferro e del sangue impregnato nella bocca. Un soffio d’aria gli passò attraverso le labbra secche e screpolate, gli toccò la lingua secca come carta, amarissima, scivolò in gola in un sospiro rauco che gli graffiò le pareti della gola. Un raggio di luce grigia gli toccò le palpebre, lo solleticò spingendolo a schiudere le ciglia vibranti di fatica. Ombre nere e sfocate scivolarono davanti al riverbero, i loro profili si sgranarono sui contorni, si sciolsero come nebbia, e tornarono a riempirgli la vista di nero. Italia richiuse le palpebre, stanche e pesanti, e mosse le labbra dal sapore amaro e pastoso come quello della lingua premuta sul palato. Il petto bruciò, gli mancò l’aria, e guadagnò un brevissimo risucchio di fiato dal naso. Lo graffiò come una sniffata di ghiaccio secco, gli fece contrarre il viso e increspare le sopracciglia in una smorfia di dolore.

Una voce lo raggiunse da lontano, fioca come un eco. “... lingua.” Rimbombò fra le pareti della testa ancora gonfia di anestetico, intorpidita dal sonno, e strinse un anello di emicrania attorno alle tempie. Luci bianche lampeggiarono sotto le palpebre abbassate, gli diedero la sensazione di star svenendo di nuovo.

“... ore. Signore...” Qualcosa di tiepido gli toccò la guancia e lo scosse. Un colpetto soffice e cauto. “... la lingua.” La voce suonò più limpida e vicina all’orecchio. Era la voce del capitano medico. “Tiri fuori la lingua.” Un altro piccolo schiaffetto alla guancia.

Un pungente formicolio si espanse attraverso la guancia che il medico aveva scosso. Italia arricciò la punta del naso, di nuovo i vapori di etere e di tintura di iodio gli penetrarono le narici, bruciarono la gola e pesarono contro il petto. Schiuse le labbra, mosse la lingua contro il palato a cui era incollata, e la spinse mollemente contro i denti, incontrando resistenza. Il formicolio alle guance scese, si spanse come una maschera, e gli aggredì anche le labbra. Italia forzò la bocca a muoversi, piegò prima un angolo e poi l’altro, ma non si aprì. Era di gesso.

La luce grigia batté di nuovo contro gli occhi, ramificò attraverso le palpebre in una scia di pizzichi e alimentò la pressione dell’emicrania sulla fronte e attorno alle tempie. Italia schiuse di nuovo gli occhi, le ciglia sfarfallarono, una macchia nera tornò a riempire il globo di luce metallica entrata dal lucernario e che galleggiava nell’ambiente della baracchetta. La luce si abbassò, divenne meno dolorosa e più delicata, bordò il profilo della figura china su di lui che gli stava stringendo la spalla. Folti e spettinati capelli castani incorniciavano il viso tondo della figura, due occhi scuri e antichi lo cercarono dalla penombra, splendettero di una luce calda e familiare, morbida come una carezza alla guancia.

Era il viso del nonno, “Veneziano, mi senti?”, con una voce che non apparteneva a lui.

Italia sentì il cuore guizzare di gioia, una scossetta di vita gli strinse il petto. “Non...” Forzò le palpebre ad aprirsi, la luce abbagliò gli occhi, e quelle tornarono socchiuse. “...no?”

“Veneziano?” Il viso si avvicinò, i lineamenti ringiovanirono, assottigliandosi, la tinta ambra degli occhi si fece più scura ma altrettanto calda e familiare. L’eco si sciolse, e la voce di Romano rimbombò limpida e profonda. “Ohi, svegliati, dai,” gli diede anche lui un piccolo colpetto alla guancia, “tira fuori quella dannata lingua.”

Italia forzò verso l’alto la punta di un sopracciglio. Romano? Schiuse di nuovo le labbra, e la punta della lingua scivolò fra gli incisivi, sbucò dalla bocca.

La prima voce – quella del capitano medico – tornò a intromettersi fra loro, e anche il suo volto si sporse sotto la luce metallica racchiusa fra le pareti bianche della tenda. “Bene.” Annuì, gli posò la mano sulla guancia e poi sulla fronte. “Bene così. Provi un’altra volta.”

Italia prese un piccolo respiro, sentì uno scricchiolio di giunture diramarsi lungo il petto e le spalle, e spinse la lingua più fuori, facendola passare fra le labbra secche e amare.

Romano chinò le spalle più vicino al corpo di Italia, la mano scivolò dalla spalla, gli strinse la sua, ma Italia non riuscì a sentire la presa. “Veneziano?” Lo chiamò con voce pregna di ansia.

“Ro...” Le labbra di Italia si incurvarono in un piccolissimo e fragile sorriso che pizzicò infossandosi nelle guance ancora intorpidite dall’etere. “Romano?” sussurrò.

Gli occhi di Romano si ammorbidirono, sciolsero la tensione che anneriva le palpebre, e anche lui trasse un sospiro di sollievo. “S-sì,” strinse più volte la mano di Italia, “sono qui.” Si sporse a toccargli la fronte con la sua, gli carezzò la guancia con le nocche, e il suo respiro vibrò. “Oddio, oddio, sono qui, sono qui.” Posò le labbra fra i suoi capelli, un altro sospiro di sollievo vibrò fra i denti digrignati. “Maledizione a te, cazzo.” E gli passò un’altra carezza sulla testa, giù lungo il profilo della guancia.

Italia mosse la mano dentro a quella di suo fratello, il sangue riprese a circolare attraverso il braccio, gli fece percepire la consistenza della coperta che lo avvolgeva fino ai fianchi. Sbatté tre volte le palpebre, altri sciami di lucciole bianche turbinarono contro il soffitto, respirò più a fondo sentendo ancora il naso bruciare e il petto riempirsi dell’odore pungente della tintura di iodio e del sangue.

Tintinnii metallici rimbombarono contro le orecchie, i passi del medico si avvicinarono di nuovo al lettino e il viso dell’uomo si rivolse a Romano, ancora chino e abbracciato alle spalle di Italia. “Signore, cerchi di non muoverlo troppo, potrebbero riaprirsi i punti.”

Romano tirò su la schiena, si strofinò una guancia, e tenne stretta la mano di Italia, senza lasciarla andare.

Italia guadagnò un altro respiro dalle labbra, il petto si alzò, bruciò aumentando la pressione fra le costole, e lui tornò a buttare fuori l’aria. “Sono...” Ruotò gli occhi verso il basso, lungo il suo torso. Fasce bianche coprivano i rigonfiamenti delle garze imbottite che tamponavano la ferita ricucita. Macchie brune della tintura di iodio stavano già sbocciando come fiori su una distesa di neve, sporcando le bende. Italia tornò con lo sguardo su Romano. “Vivo?” Non provava dolore. Sentiva le membra pesanti e molli, avvolte da un piacevole calore che lo faceva sentire come immerso in un bagno di acqua tiepida.

Romano annuì. “Sì.” Strinse l’orlo della coperta arrotolata attorno alle sue anche e gliela stese fino alle clavicole, gli nascose le fasciature. “Sei qui, sei vivo.” Lisciò il tessuto e lo rimboccò ai fianchi per non far passare neanche uno spiffero d’aria.

Italia mosse le labbra, mugugnò un gemito fra la lingua impastata e il palato secco, e anche la mano del medico gli toccò la spalla.

“È andato tutto bene, signore,” lo rassicurò. “Ma ora pensi solo a riposarsi e a stare sdraiato. Non deve affaticarsi.”

La voce dell’altro uomo li sorprese dall’altra parete della baracchetta. “Forse riesco a trovare un’altra coperta.”

Il capitano annuì. “Ecco, bene.” Gli indicò l’uscita con un cenno del mento. “Fai in fretta.” Il medico uscì di corsa, e il capitano tornò a occuparsi di Italia. “Sente dolore, signore?” gli chiese. “Possiamo farle un’altra fiala di morfina, se vuole.”

“Uh.” Italia sentì di nuovo le palpebre pesanti, come riempite di sabbia. Chiuse le ciglia, la testa si riempì di un ronzio ovattato, e aprì di colpo gli occhi, dandosi una scossa per stare sveglio. “N...” Impastò le parole fra le labbra. “Non lo so.” Non sentiva niente, solo un pizzicore al petto e alle braccia, dove Romano lo stava stringendo, e il costante saporaccio amaro a riempirgli la bocca. Il ricordo del nonno si fece annebbiato, sfocato come il suo viso e come i suoi occhi ambrati che lo avevano guardato un’ultima volta prima che si svegliasse.

Passi affrettati valicarono l’entrata della baracchetta, richiusero il telo isolando i rumori esterni. “La coperta.” Il braccio del medico si stese verso quello del suo superiore.

L’altro annuì. “Ottimo.” Spiegò la coperta di tela – non avevano quelle di lana – e la sovrappose al corpo di Italia, già avvolto dall’altra. Gli batté delicatamente una mano sulla spalla, un gesto di incoraggiamento. “Appena si riprenderà un po’ le daremo delle pastiglie, d’accordo?” Rivolse lo sguardo anche a Romano, che lo stava squadrando con occhi scettici. “È solo per prevenire il tetano e le infezioni,” spiegò, “e poi dobbiamo tenerlo lontano dagli altri soldati dato che c’è stata una recente epidemia di febbre.”

Romano annuì. Aprì e chiuse la mano che stringeva quella di Italia, gli carezzò il braccio strofinandolo da sopra le coperte.

“Ora però il problema più grave sono i congelamenti,” continuò il medico. “Dato che ha perso molto sangue, per lui sarà più difficile riuscire a scaldarsi e a mantenere stabile la temperatura corporea, e quindi dobbiamo assicurarsi di tenergli al caldo i piedi e le mani, d’accordo? Gli faremo anche delle infiltrazioni di Vitamina C per evitare che si congeli.”

Romano fece di nuovo sì con la testa, più pallido in viso rispetto a prima, e gli occhi grigi. Italia annuì a sua volta, con un gesto molle e stanco che gli fece sfregare la nuca contro il cuscino.

Il medico si allontanò dal lettino, si sfilò il camice macchiato di tintura di iodio – chiazze più scure di sangue lo imbevevano all’altezza delle maniche arrotolate –, si asciugò il sudore dalla fronte con un panno, e rindossò la giacca militare con i gradi da capitano. “Si assicuri che rimanga coperto.” Abbottonò l’uniforme, indossò la fascetta bianca con la croce rossa e la sollevò all’altezza della spalla. “Quando si sarà ripreso potremo anche farla trasferire in una tenda da ricovero, ma per ora è meglio se resta qui.”

Romano tornò ad aprire e chiudere le dita contro il palmo ghiacciato di Italia, annuì con lo stesso gesto meccanico. “Sì.”

Il medico distese i tratti del volto, bianco di fatica e sciupato agli angoli delle palpebre, e rivolse quell’occhiata più calda e confortante anche a Italia. “Passiamo a ricontrollarla fra una ventina di minuti.” Si girò anche lui e passò attraverso il telo dell’entrata tenuto in disparte dal collega. Il secondo medico lo seguì, richiuse la tenda, i loro passi scricchiolanti si allontanarono, le ombre proiettate sulla parete di tela bianca si rimpicciolirono, scomparvero assieme al brusio della loro camminata.

Romano trasse un lungo sospiro di sollievo e di liberazione, sentì il cuore più leggero ma punto da quella spina di ansia che non riusciva a snocciolarsi dal petto. Abbassò lo sguardo verso quello di Italia, gli occhi ancora lucidi di paura, cerchiati di stanchezza, e gli spremette due volte la mano. “Ehi,” sussurrò.

Italia gli sorrise, chiuse le palpebre. “Ehi,” soffiò. Girò la guancia e adagiò il capo sul cuscino, di nuovo in preda ai vapori del sonno.

Romano gli passò le dita fra i capelli, gli pettinò la frangia. “Come...” Il suo tocco esitò, la mano scivolò dalla fronte e si posò sulla guancia. “Come stai?”

Italia schiuse le ciglia facendo vedere solo un filo dei suoi occhi lucidi. Tornò a chiudere le palpebre, prese un sospiro lungo, mormorò con le labbra appesantite a sfioro del cuscino. “Ho sonno.” Il peso della stanchezza gli riempì la testa come una fitta nuvola di fumo. Italia riuscì a rimanere sveglio solo grazie alle carezze di Romano che gli scorrevano sul viso e in mezzo ai capelli.

“Ti fa male la ferita?”

Italia scosse il capo con un gesto debole. Sentiva solo il torso prudere e il fastidioso formicolio alle mani e ai piedi, come tanti dentini che lo mordevano da dentro la carne.

Inspirò piano dal naso, sentendo di nuovo le narici bruciare. “È andato...” Si toccò le labbra con la lingua, e sapevano di ferro, di sangue. “Tutto,” un altro sospiro, “bene?” Ruotò gli occhi verso Romano, e un anello di pressione strinse attorno alle tempie, gli fece male alla testa.

Romano guardò per terra. Le dita strette alla mano di Italia si chiusero, fecero una leggera pressione, e Romano strizzò anche il pugno che teneva posato sul ginocchio. Lo strinse di nuovo, la pressione fece diventare bianche le dita, e sul suo viso calò un’ombra che gli annebbiò gli occhi. “Veneziano.”

Italia chiuse gli occhi, riuscì solo a sibilare un fragile sospiro. “Mh?” Non aveva voglia di tenere le palpebre aperte.

Romano si sporse, sollevò il pugno dal ginocchio e schiuse la mano davanti al viso di Italia, stendendo le dita.

Italia sbatté le ciglia, mise a fuoco il luccichio scintillante che brillava sul palmo di Romano, e una piccola scossa di realizzazione gli sciolse la nebbiolina di sonno che gli riempiva la testa. Allargò le palpebre, sollevò la guancia dal cuscino e strinse di più la presa ancora intrecciata alle dita di Romano. “Oh,” sussultò. “Quello...”

Il bossolo di un proiettile color ottone, leggermente ammaccato e annerito attorno alla parte esplosa, ma lucido come appena sciacquato, brillava dentro il palmo di Romano, silenzioso e pacifico.

Italia ansimò, strinse la mano contro l’orlo del lettino, fra le lenzuola, e il lacero sul petto attraversato dai punti diede una scarica bruciante, come percorso da un fulmine. “Quello era...” Le parole morirono in bocca, fra il palato e la lingua ancora intorpidita dall’effetto dell’etere. Il petto pulsò di nuovo, il fantasma del proiettile appena estratto creò una fitta pressione fra le costole che gli mozzò il fiato.

Romano abbassò la fronte, i capelli sfoltiti della frangia gli nascosero gli occhi. Strinse di nuovo il pugno, sospirò con voce tesa. “Questo...” Avvicinò il pugno al suo petto. “Lo tengo io, va bene?” Mosse le dita serrate, le nocche sbiancarono di nuovo. “Lo terrò io e...” Il pugno tremò assieme al braccio. Romano mosse le dita, rigirò il bossolo fra i polpastrelli, le unghie vi tintinnarono sopra. “Mi ricorderò di non far succedere mai più una cosa del genere.”

Italia sollevò un’ombra di sorriso. Un sorriso di sollievo. Tese la mano per raggiungere quella di suo fratello, gli carezzò il ginocchio. “Ora sto...” Rabbrividì sotto le coperte. Il formicolio alle gambe si stava spandendo, gli faceva sentire il ghiaccio alle punte dei piedi. Italia sospirò contro il cuscino e batté i denti. “Sto bene.” Un altro spasmo gli contrasse il corpo.

Romano strinse entrambi i palmi attorno alle dita di Italia, gli sfregò il dorso e il palmo. “Hai freddo?”

Italia annuì contro il cuscino, la nebbia di sonno stava tornando a riempirgli la testa, a ronzargli nelle orecchie e ad appesantirgli le palpebre, la bocca. “Un po’,” sussurrò.

Romano si sollevò dallo sgabello accanto al lettino, si sporse premendo un gomito fra le coperte, sollevò un ginocchio e avvolse le spalle di Italia ancora prima di sdraiarsi accanto a lui. Lo abbraccio dietro la schiena, una mano salì, si infilò fra i capelli e gli fece poggiare la testa sulla sua spalla, stando attento a non toccargli il torso. Italia emise un breve ansimo di sorpresa, colto da quel calore improvviso trasmesso attraverso le coperte. Sollevò anche lui le braccia appesantite, come riempite di sabbia, e avvolse i fianchi di Romano. Strinse forte le dita sulla sua giacca, posò la fronte contro il suo petto, e inspirò il suo profumo che si mescolava a quello del fango e della neve sciolta. Gli trasmise un senso di pace che gli rilassò i muscoli, distese il sorriso, e gli fece tornare sonno.

Romano gli sfregò piano le spalle, sussurrò con voce rauca. “Ti faccio male?”

Italia scosse il capo contro il suo petto. “No.” Strinse di più le mani, si avvicinò anche con il torso, non pensando alla ferita, e piegò le ginocchia per riuscire a toccargli anche le gambe.

Romano gli diede un’altra carezza più morbida fra le scapole. “Allora tu cerca di dormire ancora un po’.”

“Ma se...” L’abbraccio di Italia tremò. Lo colse una scossa di paura che gli fece sentire freddo, una scossa ghiacciata attraverso il sangue. “Come facciamo se,” deglutì, “se arriva Grecia? Se...” Si rannicchiò di più contro il calore di Romano, rintanandosi nel profumo della sua giacca, fra le sue braccia, protetto. “Se fossero vicini e se...” Immaginò i greci sfondare nel villaggio, bombardarli e dare fuoco alle loro postazioni, ucciderli ricoprendo il suolo innevato di sangue, mentre lui giaceva ancora immobile nel letto, ferito, incapace di muoversi. Tremò un’altra volta, strizzò gli occhi e si aggrappò alle spalle di Romano. “Se io non mi riuscissi a riprendere in tempo...”

Romano sbuffò. “Ci provi.” Italia sentì il suo petto vibrare contro di lui. “Ci provi anche solo ad avvicinarsi a te e a toccarti con un’unghia e gli rifilo un calcio tale da forargli lo stomaco.” Romano mosse le dita strette dietro la schiena di Italia, rigirò di nuovo il proiettile esploso e ammaccato fra i polpastrelli ingrigiti dal freddo, sollevò la fronte per sbirciarlo e i suoi capelli sfregarono contro la spalla di Italia. Sbuffò di nuovo. “Oppure gli faccio ingoiare questo.”

Italia gli diede un piccolo strattoncino alla manica, lo rimproverò. “Romano.”

Romano ignorò il suo tono lamentoso e strinse le braccia, rintanò la fronte contro la sua spalla, dove l’odore di tintura di iodio e di sangue diventava così forte da bruciargli le narici e fargli lacrimare gli occhi. L’ondata improvvisa di quell’aroma aspro gli diede un capogiro, lo scaraventò a qualche ora prima, quando si era ritrovato chino, a mani giunte attorno alla croce di ferro, lo sguardo in mezzo alle gambe, a pregare a occhi strizzati, a fiato sospeso e con il cuore in gola, di non vederlo morire davanti a sé. 

Romano inspirò forte, mosse il petto contro il fianco di Italia. “Ho avuto...” Artigliò le coperte che gli avvolgevano il corpo ferito, abbassò la voce. “Giuro che...” La morsa di paura gli fece accelerare il battito del cuore, il flusso del sangue divenne più freddo, gli trasmise forti brividi attraverso i muscoli, gli strinse un nodo in fondo alla gola. “Che se ti fosse successo qualcosa...”

Italia scosse il capo, gli fece una carezza attorno alle spalle per rassicurarlo. “Sto bene.”

Romano sospirò ancora e chiuse l’abbraccio, gli strofinò la schiena, gli posò le labbra in mezzo ai capelli, stette a occhi chiusi, quella spada di sofferenza e angoscia a scavargli il viso, e si strinse a lui come quando erano piccoli, sotto le coperte a tenersi caldo, a farsi coraggio durante le notti piovose e a nascondersi dalle urla del vento e dagli scoppi del temporale.

Il respiro di Italia tornò pesante e rilassato, pregno di sonno, e la testa si riempì di nuovo di quel ronzio ovattato che gli faceva rimbombare i pensieri fra le pareti del cranio, come un eco rimbalzante.

Romano si è davvero preoccupato.

Aprì le mani strette attorno ai suoi fianchi, gli carezzò la schiena abbandonandosi nel tepore di quel dormiveglia ancora annebbiato dai fumi dell’anestetico. Sottilissimi cristalli di lacrime fiorirono fra le ciglia, il cuore si gonfiò di rimpianto.

Lui si è sacrificato così tanto per me, fin da quando la guerra è cominciata, eppure l’unico a cui riesco a pensare è sempre Germania. Io prendo ogni mia decisione pensando solo a Germania, e mai a Romano.

Strofinò piano la guancia contro il suo petto, tornò ad avvolgergli i fianchi.

Io non merito un fratello come lui.  

Il ricordo di quello che aveva visto quando lo avevano addormentato rimontò alla testa come uno schiocco elettrico, gli riaccese la pungente sensazione di paura che gli aveva attraversato il sangue.

E se penso anche a quello che ha detto il nonno...

Tornò l’immagine di Nonno Roma, il calore del suo abbraccio, il profumo dei suoi vestiti e della sua pelle, la luce dei suoi scuri e intensi occhi d’ambra che gli guardavano dentro, fino in fondo all’anima.“Arriverà un giorno in cui anche tu ti troverai a scegliere fra la pace e la guerra. Fra Germania e te stesso, fra Germania e tuo fratello, fra te stesso e tuo fratello.”

Italia riaprì gli occhi, sbatté piano le palpebre sfiorando con le ciglia la giacca di Romano.

Dopo tutto questo...

Dopo l’abbraccio rotolante in mezzo alla neve, quando si erano riuniti e avevano pianto uno sulla spalla dell’altro, tenendosi stretti; dopo che Romano si era lanciato a proteggere Italia dall’esplosione con il suo corpo, dopo che avevano respirato la stessa aria di guerra, di esplosioni, sangue; e dopo che avevano continuato a tenersi per mano, reggendo insieme il dolore che li aveva travolti come una valanga... 

Per quanto io gli voglia bene, rimuginò Italia, non potrò mai più mettere Germania sopra a Romano.

“Romano,” gli mormorò.

Romano schiuse gli occhi, ammiccò un impercettibile movimento di sopracciglia che Italia non vide. “Mh?” Anche lui aveva la voce stanca, il respiro lento.

Italia tornò a farsi stretto e piccolo. “Io ho...” Tenne il viso basso, colpevole, e gli tremarono le labbra. “Ho visto il nonno.”

Romano smise di respirare, cessò quel soffio leggero che Italia sentiva inumidirgli i capelli, e il suo corpo divenne rigido, un abbraccio di pietra.

Italia inspirò piano. “E...” Le parole scivolarono lentamente fuori dalle labbra. “E non l’ho visto solo adesso, anche... anche a novembre, quando...” Dovette deglutire per inumidirsi la gola secca e amara, di carta. “Quando ho combattuto da solo, lui era lì con me.”

Romano rimase in silenzio, senza abbassare il viso, senza riprendere a respirare, senza allentare la presa attorno alle spalle di Italia.

Italia respirò lentamente dalle labbra bianche. “Forse...” Soppresse un tremore in quell’abbraccio, ma stare stretto a Romano era come avvolgere un blocco di pietra. “Forse stiamo sbagliando tutto, Romano. Forse è per questo che ci stanno succedendo tutte queste cose brutte.”

Anche Romano tremò. Un fremito di rabbia gli scosse le braccia, e lui strinse i denti ingoiando un conato di odio che gli fece ribollire il sangue e infiammare le guance. “Se il vecchio ha tutta questa voglia di fare su e giù dall’altro mondo,” voltò la guancia sopprimendo un grugnito di rabbia contro il cuscino, “potrebbe anche degnarci di portarci via dalla merda, allora.”

“Non è colpa del nonno se siamo qui, Romano,” lo rimproverò Italia. “La colpa è mia e tu lo sai.”

Romano scosse il capo, sbuffò di frustrazione. “È anche mia,” ribatté con voce più piatta, rauca. “Non avrei dovuto...” Si mangiò le parole fra i denti, e sospirò rilassando la tensione dei muscoli. Suonò rassegnato, stanco e avvilito. “Avrei dovuto fermarti quando potevo farlo.”

Stretto nel suo abbraccio, a respirare vicino al suo petto, a udire il battito del suo cuore e i suoi respiri, Italia si ritrovò di nuovo fra le braccia del nonno, sotto il suo tocco che lui aveva posato prima sulla fronte e poi sul suo cuore.

“E ora i vostri cuori non si trovano nello stesso posto, perché voi due non state combattendo per lo stesso motivo, al contrario di Grecia che combatte per la sua nazione.”

Italia girò il viso, spinse la guancia sopra il torso di Romano, trattenne il fiato e chiuse gli occhi per udire quel profondo e regolare tu-tum. Vibrava come una corda tesa e luminosa che sprizzava scintille bianche a ogni palpito.

Si toccò anche il suo petto fasciato, che incominciava a pizzicare lungo il profilo a lisca di pesce della ferita, e provò una sensazione più fredda, un brivido di gelo lungo la schiena.

“Romano...” Sollevò lo sguardo, posò la fronte sulla sua clavicola, il respiro a carezzargli delicatamente la gola. “Perché tu combatti?” mormorò.

Romano trattenne di nuovo il fiato, il corpo irrigidì, e in quel silenzio si udì il fischio del vento fuori dalla finestra, la marcia di alcuni passi nel suolo congelato, lo scricchiolio di ruote in mezzo ai sassi ghiacciati.

Romano sbuffò. “Lo sai.” Aggiustò la posizione delle spalle, chiuse di più le braccia attorno a Italia. “Io combatto per te.”

“Allora non...” Italia scosse la testa. “Non combatti per l’Italia.”

Un altro sbuffo di Romano, più acido e scocciato, vibrò accanto all’orecchio di Italia. “È la stessa cosa.”

“No,” rispose Italia. “No, non lo è.”

“E tu, allora?” Chinò la fronte, e le sue labbra pronunciarono parole gravi, cupe, che Italia sentì vibrare accanto al cuore. “Tu per cosa combatti?” gli chiese. “Tu combatti per il paese?”

Quelle parole gli entrarono nel petto e nell’anima come un secondo proiettile. Italia ridivenne freddo, un’ondata di dolore lo fece diventare piccolo nell’abbraccio di Romano. “No,” sussurrò, fioco. “Anche tu lo sai. Sai per cosa...” Strinse forte le dita sulla giacca del fratello, e ripensò al momento in cui gli aveva passato la croce di ferro, da mano a mano. Deglutì. “Per chi combatto.”

Romano fece roteare lo sguardo, tornò ad adagiare la testa sul cuscino, schiacciato dal senso di sconforto. Nessuno di noi due combatte per l’Italia. Chiuse l’abbraccio attorno al corpo ferito di suo fratello che aveva visto crollare davanti a sé, giacere immobile e grigio come un cadavere. Strinse il proiettile che teneva ancora in mano. E intanto l’Italia crepa.

“Forse,” pigolò Italia. “Forse è questo che il nonno voleva dirmi. Forse lui...” Nei suoi occhi luccicò un lampo di spavento e realizzazione. “Forse lui ha paura per l’Italia. Ha paura che io e te...” Tremò di freddo, di timore. “Ha paura che io e te la lasciamo morire. Lui ci ha lasciato la sua terra, la sua gente,” un singhiozzo di pianto si infilò nella sua voce, “e noi stiamo lasciando morire tutto quanto.” Scosse il capo. Nascose il viso nel petto di Romano e gli abbracciò le spalle. “Stiamo rovinando tutto,” guaì. “È per questo che stiamo perdendo. Stiamo perdendo perché nessuno di noi combatte per la nostra nazione.” Sospirò. La voce più calma e buia. “Mentre Grecia sì.”

Romano rigirò il proiettile fra le dita, vi grattò sopra con l’unghia del pollice, sulla consistenza liscia e fredda, metallica, che sentiva pungere anche dentro al suo cuore. Chiuse forte il pugno, il proiettile nel guscio del palmo, e una fiammella di coraggio si riaccese nel loro abbraccio di ghiaccio. “Ce ne andremo da qui.” Abbracciò Italia più forte, gli carezzò i capelli. “Ti giuro che ce ne andremo. Ce ne andremo vivi.” Accostò le labbra all’orecchio di Italia, solleticato dai suoi capelli, e gli parlò con voce ferma, come quando lo sgridava, ma a tono bassissimo. “Tu sei mio fratello,” disse, “e sei anche la mia nazione. Non m’importa di come la pensi tu.” Scosse il capo in un gesto deciso. “Io non smetterò mai di combattere per te.” Raccolse quella promessa nel proiettile che teneva stretto in mano. Il proiettile che un giorno avrebbe rischiato di piantargli dentro la testa.

 

.

 

Diari di Italia

 

Il nonno ha sempre ragione.

Si avverò tutto quello che mi disse quella volta, e accadde che qualche anno dopo dovetti davvero compiere quelle scelte che aveva predetto lui.

Dovetti scegliere fra Germania e Romano, e scelsi Germania. Lo scelsi comunque, nonostante tutto quello che avevo promesso a me stesso e a mio fratello.

Poi dovetti scegliere fra Germania e me stesso, e scelsi me stesso. Scappai di nuovo. Scappai con paura, e non con il coraggio di star facendo la scelta giusta per me e per il mio paese.

Solo su una cosa il nonno si sbagliò, perché quando dovetti scegliere fra me stesso e Romano io non scelsi nessuno dei due. Io scelsi l’Italia.

   
 
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