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Autore: ludo22    16/01/2017    2 recensioni
Una volta decisi tutti gli invitati, una volta recitati i voti, una volta scambiati gli anelli, una volta firmate le carte al municipio, Molly Hooper si era davvero chiesta se fosse tutto vero, se avessero mai davvero avuto qualche chance di durare. (…)
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O di come Molly salva Sherlock e Sherlock salva Molly.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Molly Hooper, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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•Uso scriteriato dell’imperfetto e dei puntini di sospensione.

•Prima storia in assoluto sul fandom di Sherlock (e già ne ho lette un paio di meravigliose che mi fanno vergognare dello schifo che ho scritto io), quindi siate clementi, per piacere.

•Questa fan fiction è stata un mezzo parto (perché Sherlock non giri come voglio io, ma fai sempre come ti pare? i pensieri di Sherlock non mi sembravano naturali e perché l’avrò scritta e riscritta almeno cinque volte, ma mi sono rotta, mi sono rassegnata al fatto che meglio di così non riusciva a venire), quindi spero che abbiate clemenza della mia povera anima tormentata.

Disclameir: Questa fanfiction non è a scopo di lucro, tutti i personaggi presenti (soprattutto Molly, sigh! Come faccio a comprarla?) appartengono a Conan Doyle, Moffatt e Gatiss o a chi per loro, e di chiunque ne detenga i diritti.                        
 

Con le piccole cose
 

 
 
(Ogni giorno, imparavano qualcosa l’uno dall’altra piccole cose, che nessuno conosceva all’infuori di loro due e la fine si avvicinava. Era di un passo sempre più vicina.

Era come sognare gli angeli, ma lasciarli sempre sul più bello.)
 
****
 
(Dicono che capisci di amare davvero una persona quando per quanto vorresti, non riesci proprio ad odiarla…

Tu dici sempre cose orribili. Ogni volta… sempre… sempre…)

Il matrimonio, per lei, era più naturale di quanto potesse anticiparlo.

Una volta decisi tutti gli invitati, una volta recitati i voti, una volta scambiati gli anelli, una volta firmate le carte al municipio, Molly Hooper si era davvero chiesta se fosse tutto vero, se avessero mai davvero avuto qualche chance di durare.

Eppure eccoli lì.

La gente li prendeva in giro. La chiamavano ‘la sua babysitter’, ma la verità era che si prendevano cura l’uno dell’altra e a loro ciò bastava. Molly supponeva fosse perché lei si prendeva cura di lui in modi più visibili; era lei che si ricordava di mandare i regali e gli auguri di Natale alle loro famiglie in tempo, era lei a ricordarsi di mandare una bottiglia di whiskey e un cestino ricolmo di torte a Mycroft, l’unico giorno dell’anno in cui essere imparentati con Mycroft Holmes era più un peso che un vantaggio.

Lei faceva ovviamente anche altre cose, come ricordargli di mangiare, qualche volta di bere e anche di dormire, spesso. Era ancora coinvolto in casi interessanti e non era raro che sbattesse la porta in faccia al mondo, ma tutto sommato Molly lo preferiva così piuttosto che oziare tutto il giorno sul divano.

L’ozio, lo aveva sempre saputo, sarebbe stato la sua morte.

Il matrimonio, per lei, era anche pieno di bizzarrie e fonti di divertimento. C’erano anni in cui le veniva recapitato un enorme mazzo di rose rosse, con un po’ di nebbiolina, tre settimane prima del loro anniversario, nel caso in cui lui, perché evidentemente troppo preso da un caso, se ne dimenticasse. C’erano anni in cui i mazzi di rose erano due, perché dimenticava di aver già fatto l’ordine.

E c’erano anni in cui lui se ne dimenticava del tutto.  

Il matrimonio era anche tornare a casa con una pila di compiti da correggere perché l’avevano promossa a professoressa (la casa era abbastanza grande per tutti e due, comunque); aveva responsabilità maggiori ora: offrire ogni brandello di conoscenza che possedeva alle future generazioni. Si addormentava sul divano quando non era arrivata che ad un quarto e, la mattina dopo, si svegliava nel su… nel loro letto. Lui le dormiva accanto, gli arti stesi con una strana angolazione, perché, sebbene fossero passati secoli, i suoi sogni erano sempre agitati. Lei scendeva le scale e trovava le pile di compiti ordinate. I test erano sistemati dal migliore al peggiore, così che l’unica cosa che le rimaneva da fare era leggere le piccole note che lui scriveva per lei a matita agli angoli e mettere il voto. Lui dormiva fino a mezzogiorno, per poi scendere piano le scale e trovarla che si stava finendo di vestire, mentre lui girovagava per casa in una delle sue vestaglie, una goccia di thè che gli gocciolava ancora dalle labbra, immerso in un libro.

Ogni tanto si svegliava nel bel mezzo della notte, e sentiva il suono del violino, che filtrava dalla porta chiusa del suo studio. Riusciva ad avvertire la pressione delle sue dita sull’archetto, che si riflettevano, poi, sulle corde, come se stesse componendo un nuovo pezzo, o stesse imparando un qualcosa vecchio di secoli, gli spartiti si piegavano, si sottomettevano, quasi, a lui come erba al vento. Lei lo ascoltava per un po’ e, anche se il sole non era ancora sorto, anche se doveva andare a lavoro dopo poche ore, sorrideva, perché non conosceva nessuno che sapesse suonare come suonava lui, e perché se sentirlo equivaleva a un numero maggiore di ore al Saint Bart’s, il suo piccolo ne sacrificio valeva la pena.

Quando tornava a Londra per vedere un paio d’amici e bere qualche drink che le avrebbero fatto perdere inevitabilmente l’ultimo treno per casa, lui era sempre un passo avanti e la passava a prendere; veniva automaticamente, così che lei non dovesse preoccuparsi di tornare prima. Accendeva il riscaldamento qualche minuto prima di arrivare al pub in cui lei e i suoi amici si trovavano, per assicurarsi che lei stesse al caldo. Quando entrava in macchina, le chiedeva come fosse andata la serata e la guardava per un attimo di più, per accertarsi che si fosse divertita veramente e che stesse bene prima di partire. Abbassava anche la musica cosicché lei potesse appoggiare la testa al finestrino e chiudere gli occhi.

La sera, quando si sentiva un po’ più sveglia, facevano il tour dei ricordi.

Il tour del detective.

Andavano nei loro vecchi posti; Baker Street e la Barts c’erano sempre, come però c’era sempre anche il giro sulle rive del Tamigi, dove avevano camminato e camminato e camminato per ore, senza parlare, i lampioni sui ponti erano stati l’unica luce che brillava, riflettendosi sul fiume.

Erano passati davanti al suo vecchio appartamento, una volta, ma era stato sostituito da una nuova costruzione, tutta vetro e luce e alberi piantati ad intervalli regolari lungo il percorso che portava all’ingresso, per illudere l’ignaro compratore, o turista che fosse, dell’isola verde che era Londra.

Il pensiero li aveva seccati così tanto che non ci erano più passati.

Lui si prendeva cura di lei con le piccole cose, piccole cose che gli altri non vedevano, e sinceramente lei non voleva nemmeno che vedessero. Erano solo loro due, e questo era ciò che più contava, era quello che aveva sempre contato.

Finché si bastavano, non era davvero importante ciò che gli altri pensavano.

Il matrimonio, per lei, era avere il coraggio di fregarsene, perché aveva tutto ciò di cui aveva bisogno.
 
 
****
 
 
(Dicono che il sapere sia di sapere una cosa, sia il non saperla sia la vera conoscenza.

Sembri triste… Quando lui non ti guarda. Stai bene? E non dire di starlo, perché so cosa significhi, essere tristi quando pensi che nessuno guardi.

Ma tu mi guardi.

Io non conto…)
 
Il matrimonio, per lui, era un eccellente costrutto.

Non l’aveva mai visto sotto quel punto di vista, prima che lei gli avesse chiesto di seguirla. Aveva sempre pensato che fosse una cosa che capitava alle altre persone, una cosa che era destinata, inevitabilmente, a passare di moda, o a crollare, perché statisticamente, lui, ancora più degli altri, non avrebbe avuto una singola chance.

Ma quando Lestrade era stato promosso a ispettore superiore sostituto commissario, e i giorni in cui il “lavoro sul campo” di Sherlock Holmes (come li aveva definiti poeticamente Mycroft ) erano finiti, era stato lui ad essere stato messo da parte, per collaborare con le brillanti e giovani menti che erano faticosamente risalite lungo la scala sociale. Fan del blog di cui John Watson andava fiero – non suoi, mai suoi. E nessuno di essi che fosse minimamente interessato alle ceneri di tabacco.

Ma, probabilmente, era perché andavano più di moda le sigarette elettroniche, di quei tempi. Stranamente, quelle erano una delle poche cose che non gli creassero dipendenza. Le considerava un giocattolo per bambini, con sapori per bambini, progettate per una gioventù che non voleva il cancro per via delle sigarette, ma che lo preferiva da fonti sempre più alla moda.

Il problema era che tutte le nuove leve che ogni sera leggevano il suo blog nelle loro belle case, situate nei dintorni del quartiere di Mayfair*2, avevano iniziato a portargli casi stupidi e assolutamente troppo semplici per una mente geniale come la sua, tutte ovviamente accompagnate da ridicole teorie sugli illuminati, se non peggio.

Ogni tanto una sigaretta era semplicemente una sigaretta.

Il crimine è cosa comune, la logica è cosa rara. Quindi, lei dovrebbe concentrarsi più sulla logica che sul crimine*1, aveva brontolato al nuovo ispettore capo, quando aveva bussato alla porta di Baker Street, recando con sé, quello che, a detta dell’uomo, era un caso estremamente complesso e fuorviante.

L’uomo non ci aveva messo più di due secondi a capire chi fosse il colpevole. 

Si era stufato in fretta di quelle bambinate, così, quando lei glielo aveva chiesto, quando i suoi occhi nocciola si erano fermati solo un istante in più nei suoi, la terra che incontrava con il cielo per creare l’orizzonte, aveva realizzato che lei glielo stava davvero chiedendo. Gli aveva detto che, con i soldi ricavati dalla vendita del suo appartamento, si sarebbero potuti permettere un cottage con tre camere da letto e un garage, che si sarebbe potuto benissimo trasformare in un laboratorio, non aveva avuto niente per cui obiettare.

Il resto aveva seguito naturalmente il suo corso.

Ogni tanto l’anello che aveva al dito rifletteva un raggio di sole, e il conseguente luccichio era sufficiente a catturare la sua attenzione, ricordandogli che lei teneva a lui a tal punto da essere disposta a passare il resto della sua vita con lui. Belle giornate, cattive giornate, e tutte quelle nel mezzo. Lei era disposta a sopportare lui e tutte le sue abitudini, abitudini che sapeva bene avrebbero fatto scappare a gambe levate chiunque.

Ma lei non era mai stata chiunque. Lei non era mai stata normale. Lei era, da sempre, stata straordinaria. Quando si soffermava a pensarci, supponeva che non dovesse essere una sorpresa per lui essere finito lì. No davvero.

A lei non importava se lui certe sere non veniva a letto, ma passava, invece, il suo tempo nel loro piccolo ma efficiente laboratorio casalingo. Lei non si lamentava se lui saliva rumorosamente le scale che portavano alla su…alla loro camera da letto, e finiva inevitabilmente per svegliarla. Lei si rannicchiava e lo abbracciava, facendogli passare un braccio sottile attorno alla vita, e premeva stancamente le labbra contro il suo collo, prima di tornare a dormire.

C’erano mattine, dopo una notte nella quale lui aveva avuto tutte le buone intenzioni del mondo, ma che non passavano mai il lucido parquet delle scale, in cui si svegliava sotto una spessa coperta che sapeva vagamente di gelsomino e arancio amaro– quel profumo gli ricordava tremendamente infiniti pomeriggi di sole, passati con Mycroft, Eurus e Victor a giocare in piccolo giardino, in una casa lontana secoli e chilometri. Una casa che, a ben vedere, non c’era già più-. Si girava e vedeva il libro che stava leggendo la sera prima sul tavolino da caffè, un segnalibro che svettava tra le pagine, come la cattedrale di Londra che sì innalza sulla collina più alta della metropoli, segnalando fieramente il punto in cui la stanchezza l’aveva consumato.

A lei non importava nemmeno se si rifugiava per qualche giorno in sé stesso. Si limitava a lasciarlo lì, e veniva la sera in garage, con una tazza di thè in mano e qualche biscotto nell’altra, che gli sarebbe servito ad andare avanti fino alla sera dopo. Ogni tanto si fermava e si appoggiava alla sua schiena, le braccia che gli si avvolgevano mollemente sulle spalle, mentre lui sedeva, proteso oltre il microscopio. In quelle occasioni non era mai sicuro se sentisse davvero il battito cardiaco della donna contro le sue scapole, o se se lo stesse solo immaginando, ma il piccolo contatto che lei gli procurava era abbastanza per ricordargli che c’era un intero mondo all’esterno del suo garage.

Lei non gli faceva una domanda che fosse una su cosa stesse facendo, almeno fino a quando non ricompariva, con una macchia in più sulla camicia e una scottatura sempre nuova sulla mano sinistra. Era a quel punto che parlavano per serate intere senza mai fermarsi, stravaccati sul divano, il fuoco che scoppiettava nel camino. Gli aveva fatto ottenere, inoltre, un pass per la biblioteca universitaria, e lui, lì, passava interi pomeriggi mentre lei teneva qualche seminario o qualche lezione.

Il tutto funzionava bene.

Il matrimonio, per lui, erano le pigre e nebulose domeniche mattina che li coglievano sempre di sorpresa alla fine di ogni settimana. Lui scendeva piano le scale per sorprenderla, e le portava una tazza di thè a letto e, con la scusa, andava anche a prendere la posta. Riaffioravano appena in tempo per la cena e per una piacevole serata con una pinta di birra nel più vicino pub, seguite da una lenta camminata verso casa.

Era questa la normale vita che tutti sognavano?, si chiedeva spesso. Poi, però, ripensava al suo ultimo caso e sorrideva, perché loro non sarebbero mai stati del tutto normali. Loro erano reali! Non una qualche effimera costruzione, cucita appositamente affinché il mondo di fuori potesse essere invidioso.

Forse era così la gioia vista da dentro: una valle piena di luci, un vento etereo., si era detto spesso. Forse la gioia non la si trova nel domani, o nel dopodomani, o nel dopodomani ancora. Forse la gioia è già qui. Forse la gioia è già adesso. E lui aveva guardato milioni di volti, milioni di posti, milioni di secoli, alla sua disperata ricerca.

I primi anni aveva temuto che lei scoprisse peggiori abitudini di quelle che lei già conosceva. Aveva avuto paura che lei lo chiamasse selvaggio o sbandato e che se ne andasse per sempre. Ma questo non era successo, e lei si era perfino superata, arrivando a conoscerlo meglio di quanto lui immaginasse, ancora meglio di se stesso.

Il matrimonio era, per lui, un impegno lungo una vita nei confronti della persona che lo amava più di tutte, e un impegno lungo una vita affinché lei non se ne pentisse mai.  
 
 
 
 
 
*1Citazione presa da ‘L’avventura dei faggi rossi’, assolutamente necessaria.
 
*2Il quartiere di Mayfair è un quartiere prevalentemente commerciale di Londra.
I (pochi) che hanno la fortuna di abitarci fanno parte della così detta upper class (la classe alta) inglese.
E’ una zona prettamente centrale e non è troppo distante da Baker Street (ci si mettono circa 10 minuti con la metropolitana e 20 a piedi, per chi conosce bene Londra e sa le scorciatoie –non fidatevi di Google Maps, che sarà pure carina, ma non è chiaramente di Londra XD).
 
   
 
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