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Autore: Leonhard    18/01/2017    6 recensioni
Judy si volse verso la sagoma della lontana Zootropolis. Vixen aveva detto che il cavallo era il pezzo più forte della scacchiera, Alopex aveva scelto un cavallo per guidare gli eventi: forse avevano previsto tutto, forse no, ma in fin dei conti era quasi giusto che fosse stato un cavallo a dare scacco matto e vincere la partita.
E la città, sapeva, avrebbe continuato a bruciare.
Genere: Guerra, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Capitan Bogo, Judy Hopps, Nick Wilde, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Distopian Zootopia'
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NOTA DELL’AUTORE:

Infine ce l’abbiamo fatta: benvenuti a quella che è la fic conclusiva di questa serie nata per caso. I ringraziamenti ed i discorsi lacrimevoli ve li risparmio per l’aggiornamento conclusivo, quindi vi auguro una buona lettura, spero un buon divertimento ed un preventivo grazie a tutti coloro che vorranno seguire quest’ultima fatica. Alla prossima, stay tuned
 
Leonhard
 
 
  1. Ancora più in su…
Bogo guardò con occhi soddisfatti la sua scrivania finalmente libera da polvere, quelle penne esaurite che si era ostinato per tanto tempo a non buttare e di quella pila di dossier contenente casi, richieste, denuncie e fascicoli che avevano sempre troneggiato su di lui coperte di polvere e celate macchie di caffè. Aveva sempre sentito che era giusto che fossero lì e quando finalmente era arrivato il momento di dar loro la fine che meritavano si era sentito libero.

Il tritacarte sopra il cestino era fermo, alcuni brandelli di fascicolo erano ancora appesi alle lame interne e l’ufficio, insonorizzato ed isolato dal mondo esterno, era pregno di un silenzio in grado di risvegliare ricordi. Si prese qualche istante per spaziare, perdere di vista il presente fumoso e di una tonalità bluastra sempre più flebile, e tornare in una camera illuminata da un sole caldo che filtrava dalle finestre semiaperte.

Vedeva la scrivania, i libri che lo attendevano ed il vociare degli amici proveniente dal parco sotto casa. Lui non poteva uscire, non poteva giocare: lui sarebbe diventato qualcuno di grosso, di importante, qualcuno davanti a cui tutti avrebbero chinato il capo, incespicato con la lingua, tolto il cappello.

“Sei un bufalo” gli ripeteva suo padre. “Una delle prede più grosse della natura, ma una preda: devi diventare un bufalo predatore”. L’aveva fatta facile il suo vecchio, all’interno della sua divisa decorata al valore militare e davanti alla sua pagella scolastica in cui l’unico voto basso era una B nella condotta aveva scosso la testa e muggito.

“Hai fatto del tuo meglio…” annuiva, con un sorriso finto e la delusione che gli faceva capolino timidamente negli occhi. “Adesso cerca di fare del mio meglio”. E lui era veramente il meglio.

Quella frase l’aveva detta per la prima volta dopo l’ultimo giorno delle elementari e sarebbe stata l’ultima che avrebbe sentito da lui. Loro erano dei bufali: enormi e pacifici, ma inarrestabili quando si lanciavano in corsa. E l’unico modo per non essere fermati mai era cominciare a correre molto presto.

Quel ricordo era il suo diciottesimo compleanno e stava guardando il regalo di suo padre con occhi confusi; la sua vita era sempre stata una corsa verso l’alto, un percorso scolastico eccelso ma che apparentemente non bastava mai. Quello era solo il passaggio da cucciolo a bufalo adulto, altro che torta, regali, feste e cose da mammiferi qualsiasi. Da bufali qualsiasi.

Un bufalo predatore arriva in alto, in testa al branco, e lo guida nella sua corsa travolgendo e distruggendo qualunque cosa sul suo cammino. Un bufalo predatore viene istruito nel migliore dei modi ed ogni fallimento viene severamente punito.

E dall’alto della sua maggior età raggiunta da appena un’ora guardava la domanda di arruolamento nelle forze di polizia già celermente compilata dall’ordinata calligrafia del padre che aveva deciso per lui la strada che conduceva al perfetto bufalo predatore. Lui sarebbe diventato qualcuno, e quel qualcuno era alla fine della strada su cui era stato messo.

Da lì era stata una rapida escalation al successo: ausiliare del traffico, agente, caposquadra, supervisore ed infine capitano del distretto centrare della ZPD. Un ottimo traguardo, ma la voce del suo vecchio

hai fatto del tuo meglio: adesso fai del mio meglio

lo spronava ancora dalla tomba, a spingerlo a continuare. Un bufalo in divisa non poteva essere considerato un bufalo predatore: al limite un capobranco, ma non esisteva che ci si doveva accontentare dei pesci piccoli, delle cariche fugaci che sarebbero durate fino all’arrivo di un bufalo più forte di lui.

La prima tigre che passò sotto la sua finestra pose fine all’attimo: un distinto mammifero, con una sobria cravatta scura ad accompagnare un completo da ufficio notarile. Comparve dalla lieve foschia in cui si era ormai diradata la nube azzurra, accompagnata dalli strilli terrorizzati di un gruppetto di tassi poco distanti, impegnati in un fuggi-fuggi disperato. La tigre li guardava con occhi persi, smarriti: evidentemente non capiva il motivo di tanta paura e palesò il suo disappunto con un gutturale ruggito prima li lanciarsi al trotto verso una strada secondaria.

Sulle quattro zampe.

Sulla scrivania troneggiava la dichiarazione del decesso di Dawn Bellwether accanto al mandato d’arresto per Nicolas Piberius Wilde, una volpe caduta in un irreversibile stato di primordialità. E con lui tutti i predatori che avevano anche solo annusato il vaccino contro gli ululatori.

Nemmeno il suo vecchio avrebbe saputo creargli un branco migliore: gli ululatori non avrebbero mai più funzionato, ma solo una vanesia sconclusionata come quella petulante pecorella poteva usare un trucco così misero per accaparrarsi un gregge da guidare. Lei non era una pecora predatrice, non lo era mai stata, non lo sarebbe mai potuto diventare e dopo l’enorme favore che Wilde gli aveva fatto non lo sarebbe divenuta mai più.

Il pensiero di dimenticarsi di lui per ricompensarlo del favore gli accarezzò la mente per qualche istante, poi la voce del suo defunto padre tornò a tuonare nelle sue orecchie, ti sembra questo il meglio che io farei?, avvertendolo che ormai era in ballo e l’ultima cosa che doveva fare era pestare i piedi ai mammiferi sbagliati.

Era ora di mettersi al lavoro.
 

 
“Nick, la devi finire di fare l’idiota” sbottò Judy, con un misto di ansia, stizza e disperazione nella voce. “L’intero corpo di polizia ti da la caccia: dobbiamo…”.

“WAG” replicò lui.

Ehi! L’agente tuut-tuut!

L’espressione sul muso di Nick era un concentrato di perplessità, puntualizzata dalla testa reclinata di lato. La coniglietta deglutì amaro e prese tra le zampe il suo muso, per nulla abituata ad averlo alla sua stessa altezza.

“Il vaccino contro gli ululatori…” mormorò. “Nick…ti prego, parla: dì il tuo nome, dì qualcosa…”. L’espressione della volpe, da perplessa com’era, passò ad incorniciare un paio di occhi pregni di costernazione.

Wilde. Nick Wilde.

“Nick…” mormorò Judy, ormai prossima alle lacrime. “Tu…non puoi parlare, vero?”. Lui abbassò le orecchie ed uggiolò piano. “E nemmeno stare in piedi…”. Fissò negli occhi la volpe: la guardava con occhi sconsolati, come se fosse colpa sua; sorrise e gli prese la testa tra le zampe, ricambiando lo sguardo con un paio di occhi risoluti.

Per favore non avercela con me…

“Non ti preoccupare Nick” disse con una voce che pregò suonasse sicura di sé. “Non succede nulla: adesso noi cerchiamo un modo di farti tornare come prima”.

Una brusca frenata ed uno schianto, seguito da urla ed una baraonda; dopodiché un suono risuono da fuori la finestra. Judy rabbrividì e scattò verso il vetro. Il fugace pensiero che quello più che un suono fosse un verso ricevette la sua conferma in modo talmente brusco da farle credere di essere più al sicuro lì dentro con un Nick imprevedibile. Di una piccola utilitaria rossa era rimasto solo un bizzarro rottame a forma di ferro di cavallo e del fumo usciva dal vano motore diventato improvvisamente concavo. Attorno all’incidente i mammiferi si spingevano tra loro con occhi pieni di panico, ansiosi di allontanarsi da quel palo della luce.

Dall’auto saltò fuori un puma. Per una frazione di secondo, la coniglietta si domandò il motivo di tanto chiasso: era un comune puma, un operaio a giudicare dalla tuta blu con su il marchio di una fabbrica. Un distinto mammifero che, povero disgraziato, sarebbe arrivato al lavoro in ritardo.

Poi l’animale atterrò sulle quattro zampe dopo un salto che normale sarebbe stata l’unica definizione che non sarebbe calzata per niente. La divisa da lavoro era tesa sui muscoli delle spalle e la bocca era semiaperta, a mostrare una fila di denti che stonava con l’espressione sbigottita e vagamente agitata che lesse in quegli occhi.

Poi aprì la bocca e quello che uscì dalla sua gola fu un verso tagliente, freddo e spietato che fece drizzare a Judy il pelo sulla nuca. Ammettendo a sé stessa il sollievo di non essere in strada in quel momento, rivolse la sua attenzione all’insieme: animali scappavano in tutte le direzioni con la paura cieca che muoveva il loro corpo.

Paura? No, quello che animava i corpi era qualcos’altro. Un qualcosa di molto meno razionale, più istintivo e selvaggio, qualcosa impossibile da imbrigliare che non avrebbe fatto altro che peggiorare inesorabilmente la cosa. Preferì il termine panico, anche se sentiva che era quello sbagliato.

Il termine giusto sarebbe arrivato con il tempo, ma in quel momento si rifiutò nella maniera più categorica di accettarlo come tale. A fatica, si volse nuovamente verso Nick: era rivolto verso di lei, guardandola con occhi perplessi. Le orecchie guizzavano indipendenti in tutte le direzioni ed il naso vibrava leggermente. Si sedette e si grattò la nuca con evidente soddisfazione.

Judy tornò con lo sguardo fuori dalla finestra: il puma si stava guardando attorno, disperato, mentre continuava a ruggire quel verso che tutto sembrava tranne una richiesta di aiuto. Attorno a lui, prede di tutte le specie e dimensioni si accalcavano l’una contro l’altra nel disperato tentativo di mettere più spazio possibile tra loro e quel predatore impazzito.

Si staccò dalla finestra con occhi risoluti: lei non sarebbe sopravissuta al caos che si stava diffondendo e che non si sarebbe fermato e non esisteva che abbandonasse Nick.

Lui aveva bisogno di lei: la pensò così e per la prima volta da quando lo conosceva sentì di avere finalmente il controllo della situazione. Scoprì anche che non le piaceva: non in quel modo.

“Nick” mormorò, avvicinandosi a lui. “Bogo ti sta dando la caccia e la fuori è il caos: non ti lascerò da solo in questo stato a farti catturare. Hai ucciso due mammiferi e dovrai pagare per questo”. Gli passò una zampa sulla testa, Nick piegò le orecchie all’indietro ed un sorrisetto fece capolino sul suo muso solo per qualche secondo.

“Non ti lascio da solo” ripeté. “Verrai con me alla Tana dei Conigli”.
   
 
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