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Autore: MadAka    21/01/2017    1 recensioni
«Bisogna avere pazienza quando si svolge un'indagine. Se l'assassino vuole comunicare con me troverà il modo di farlo ancora una volta» disse, lanciando un’ultima occhiata sicura alla ragazza, «Ma non temere, continuerò comunque a indagare su questa faccenda, non mi farei mai scappare un caso invitante quanto questo.»
Si avviò verso la sua stanza, senza aggiungere altro. Emily lo guardò, mille pensieri a riempirle la testa. Alla fine uno fra tutti prese il sopravvento, facendola sentire più preoccupata che mai.
«E se fosse Moriarty?»
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Emily Prince si è sempre sentita diversa. Un ombrello giallo sotto la pioggia di Londra, un puntino rosso nel cuore della notte, una mente affollata, sicura e colorata, e una visione unica del mondo intorno a sé.
La sua ambizione più grande la guiderà lontano dalla sua città, fino al più noto numero civico di Baker Street. Tuttavia, contro ogni previsione, la farà anche sprofondare in qualcosa da cui, sola, la ragazza non potrà uscire.
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La storia è ambientata dopo la fine della terza stagione.
Genere: Mistero, Suspence, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson, Nuovo personaggio, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Cinque giorni. Tanto erano durate le ricerche di Sherlock nella speranza di riuscire a ottenere informazioni sul possibile assassino del giudice Walker. Sebbene avesse raccolto una moltitudine di informazioni, nonostante il suo cervello avesse srotolato quantità impensabili di possibilità, dopo cinque giorni si era trovato ad avere fra le mani un nulla di fatto. L’omicidio del giudice gli era parso fin da subito qualcosa di comprensibile; era convinto sarebbe giunto alla soluzione corretta in breve tempo, eppure così non era stato. Il suo primo sospettato, ovvero qualcuno vicino a Darrell Scott era stato un sonoro buco nell’acqua. Scott era praticamente solo al mondo e benché Sherlock avesse fatto il possibile per trovare dei legami fra lui e altre persone al di fuori della prigione, non aveva ottenuto nulla. Perfino la sua infallibile rete di senzatetto non gli aveva fornito risposte, il che diede all’uomo la sicurezza sufficiente per convincersi del fatto che, con tutta probabilità, il nome di Scott poteva venir depennato.

Eliminato il più probabile degli indiziati il detective aveva quindi spostato le sue ricerche sugli altri nomi che aveva a disposizione. Tuttavia anche gli altri sei indiziati avevano smontato le sue teorie come ghiaccio al sole. Pareva che nessuno di loro potesse essere adeguatamente sospettabile, molti, oltretutto, avevano alibi così di ferro da rendere intoccabili se stessi e i famigliari dei gradi più lontani pensabili.

Nel pomeriggio del sesto giorno di indagini inconcludenti Sherlock era seduto alla sua poltrona, al 221B di Baker Street, come ogni pomeriggio prima di quello. Era di umore intrattabile da ormai due giorni e quella mattina aveva sollevato la soglia dell’indagine da uno a due cerotti alla nicotina. Per qualche motivo che sfuggiva a tutti quelli vicini al detective, quella ricerca lo stava perseguitando. Per quanto fosse convinto che le modalità con cui Walker era stato assassinato fossero solamente un richiamo all’operato di Jim Moriarty, una parte di lui non si dava pace. Voleva sapere chi c’era dietro a quell’omicidio, a costo di perdere il sonno per altri giorni interi.

Ricominciò a leggere mentalmente tutte le informazioni che aveva raccolto per l’ennesima volta, scorse ogni indizio in cerca di qualcosa che potesse essergli sfuggito, ma nulla cambiava.

Frenò il suo cervello di colpo appena sentì dei passi farsi strada lungo le scale. Riconobbe lo scricchiolio tipico del settimo gradino della rampa. Puntò istintivamente gli occhi all’ingresso dell’appartamento che, una volta aperto, permise all’ispettore Lestrade di entrare nel soggiorno. I due uomini si guardarono.

«Non sei occupato, vero?» chiese l’ispettore, una leggera nota sarcastica nella voce.

«Cosa vuoi?» replicò Sherlock, senza scomporsi.

Lestrade sollevò le sopracciglia con fare infastidito. «Bel modo di accogliere gli amici.»

Sherlock era pronto a replicare, ricordando a Lestrade che i suoi amici erano un numero molto ridotto e che, con tutta probabilità, lui non era fra loro, quando vide l’uomo estrarre dalla tasca del cappotto un pacchetto di sigarette. Focalizzò la sua attenzione su quelle; l’improvvisa voglia di nicotina lo aggredì, al punto che l’inutilità dei cerotti divenne palese come non mai.

«Posso?» chiese Lestrade indicando la poltrona di Watson.

Sherlock gli diede il via libera con un gesto e si mise a fissare con intensità la sigaretta appena presa in mano dall’ispettore. Lestrade osservò il detective di rimando, capendo che aveva il permesso – oltre alla benedizione – di portare una ventata di fumo malsano nel piccolo soggiorno.

Per qualche minuto nessuno disse nulla. L’ispettore inspirava ed espirava lunghe boccate dalla sigaretta, sentendosi in pace almeno per quei brevi istanti; Sherlock, di fronte a lui, si inebriava il più possibile dell’odore acre che saliva lento nella stanza e si mescolava all’ossigeno presente.

«Sei qui per darmi qualche notizia che reputi “brutta”, lo so. Perciò fossi in te mi toglierei il dente subito» lo incalzò poi il detective, dopo essersi assuefatto a sufficienza al fumo argenteo espirato dall’altro.

Lestrade diede un colpetto alla sigaretta e guardò la cenere cadere.

«Lo hai capito dalla sigaretta?» chiese, retorico. Sherlock, infatti, non gli rispose e l’uomo riprese a parlare: «Dove hai messo Emily?» domandò, cambiando completamente argomento.

I muscoli facciali di Sherlock si tesero impercettibilmente, irritati. Non sopportava che si girasse intorno all’argomento apposta, specie se per farlo si tirava in ballo una questione di cui gli importava poco.

«È in facoltà, ha iniziato a seguire le lezioni per il master questa settimana. Fossi in te cercherei di sopprimere il prima possibile ogni eventuale desiderio di approfondire la conoscenza con quella ragazza, se capisci a cosa mi sto riferendo.»

Lestrade aggrottò la fronte a quelle parole. Schiuse le labbra per dire qualcosa, ma prima di farlo scosse la testa con fare incredulo.

«Sherlock, ha venticinque anni. Non mi passerebbe neanche per la mente di “approfondire la conoscenza”» disse, facendo segno di virgolette in aria. «Ti ho chiesto dov’è semplicemente perché mi è simpatica e perché non sarebbe stato male avere davanti qualcuno di socievole almeno per una volta, visto che non c’è neanche John. Credevo fossi più intelligente.»

Sherlock ignorò completamente le parole dell’ispettore. Si limitò a fissarlo infastidito, senza replicare. Lestrade, allora, prese l’ultima boccata dalla sua sigaretta e decise di accontentare il detective.

«Non hai scoperto nulla su Walker?» domandò.

Sherlock si sentì ulteriormente irritato da quelle parole. C’era della provocazione nella voce di Lestrade, non molta, ma sufficiente per farlo sentire improvvisamente un incapace. Non aveva scoperto molto, era vero, ma con che coraggio quell’uomo si presentava in casa sua per metterlo all’angolo a quel modo? Lo guardò per un lungo momento, austero. Lestrade, però, non si scompose.

«Non ho finito di indagare» disse infine Sherlock, gelido.

«Oh, non ne dubito. Ma questa volta mi permetto di dirti che certamente potresti impiegare ancora parecchio tempo.»

«Come fai a dirlo?»

L’ispettore si strinse nelle spalle. «Mi piacerebbe dirti che questa volta ti ho battuto, ma non ho tutto il merito.»

«Vieni al dunque» lo incalzò il detective, confermando a Lestrade di essere particolarmente intrattabile.

«L’assassino ha confessato.»

Sherlock si bloccò di colpo, fissando Lestrade. Nella sua testa qualcosa gli diceva che non poteva essere possibile.

«Chi ha confessato?»

«Un certo Erik Horvat, un croato che vive qui da un pezzo.»

Il detective si esternò dalla conversazione. Tornò con la mente all’elenco dei nomi raccolti in quei cinque giorni, li rilesse tutti, senza alcuna eccezione. Fra quell’elenco di nomi, fra tutte quelle persone che lui aveva considerato sospettabili poiché vicine a ognuno dei sette indiziati per l’omicidio di Walker nessun Horvat figurava.

«Per quale motivo lo avrebbe fatto?» chiese poi a Lestrade, nella speranza di capire qualcosa di più. Non gli sembrava possibile, si rifiutava di credere che davvero qualcuno di cui lui non conosceva neanche l’esistenza avesse commesso un simile omicidio.

«Conti in sospeso. Abbiamo indagato un po’ sui retroscena della vita del giudice. A quanto pare era molto bravo a tenere nascosto a tutti che aveva un giro di prestiti in nero. Pare che Horvat si fosse invischiato per bene in un grosso debito e non riuscisse più a ripagarlo. Droga e gioco d’azzardo. Al nuovo sollecito di Walker il croato ha pensato di ucciderlo» gli spiegò Lestrade.

Nuovamente Sherlock si rifiutò di credere a quella storia. Nei suoi brevi contatti con il giudice aveva avuto modo di capire che non era un uomo totalmente onesto, ma la cosa non gli era mai importata più di tanto. No, in quel caso non era il traffico illegale di soldi del giudice a innervosirlo, ma il fatto che fosse entrato in gioco qualcuno che lui non aveva previsto nonostante, come suo solito, avesse tenuto conto di una moltitudine di scenari.

«Sei venuto fin qui solo per dirmi questo, quindi. Per farmi vedere che, una volta tanto, Scotland Yard è riuscita a concludere qualcosa» disse Sherlock all’improvviso, il fastidio palpabile nella voce.

Lestrade lo guardò, più sorpreso del solito. «Non sei di buon umore, vedo. Non sono venuto qui per questo, sono venuto qui per chiederti di venire con me in centrale per interrogare Horvat.»

Il detective sollevò un sopracciglio. «Perché dovrei? Ha confessato, no? Sbattetelo in cella e prendetevi il merito.»

L’ispettore sospirò, prese quanta più forza possibile preparandosi a dire una cosa che non avrebbe voluto dover dire: «È stato troppo semplice, Sherlock. Pensala come vuoi ma io non credo alla storia di quell’uomo. Forse trascorro troppo tempo insieme a te, ma credo che se lo arrestiamo, sbagliamo. In centrale cominciano già a pensare che io sia pazzo e venendo qui ti dico subito che non sto facendo altro che alimentare le loro credenze.»

«Allora non dovevi venire. Se quell’uomo ha confessato c’è poco che possa fare.»

«Vieni almeno a parlare con lui. Ti basterebbe guardarlo per capire se mente o no.»

Sherlock si alzò dalla sua poltrona, improvvisamente irritato. Non c’era niente di positivo in quella giornata, assolutamente niente. Raggiunse la porta dell’appartamento, l’aprì e fece segno a Lestrade di andarsene.

«Non ho nessuna intenzione di venire con te» scandì accuratamente. «Se avete arrestato il reo confesso, per quanto mi riguarda, il caso è chiuso» concluse, rinnovando l’invito ad andarsene.

L’ispettore lo guardò a lungo, senza muoversi di un millimetro. Non credeva a Sherlock. La sua irritazione crescente mano a mano che lui gli raccontava come era evoluta la situazione era il chiaro segnale che il detective si era lambiccato il cervello inutilmente per giorni e che la cosa lo innervosiva.

I due uomini rimasero a osservarsi a lungo, entrambi seri, entrambi imperscrutabili. Fra loro si sollevò un silenzio ostinato, che venne interrotto dalla porta d’ingresso del 221B. Sentirono la chiave girare nella serratura, la porta venire aperta e le voci di Emily e John riempire lo spazio, un gradino alla volta, fino al soggiorno. Sherlock teneva ancora la porta aperta quando Emily raggiunse il pianerottolo; osservò confusa il detective e lo ringraziò, dopodiché entrò nel soggiorno e sorrise all’ispettore, salutandolo. John entrò dietro di lei e salutò a sua volta Lestrade.

«Che succede?» volle informarsi John.

«L’ispettore se ne stava andando» rispose Sherlock.

Lestrade si alzò. «Abbiamo preso l’assassino di Walker.»

«Davvero?» chiese Emily.

«Sì, esatto. Ho chiesto a Sherlock di venire con me per interrogarlo, ma pare non sia in una buona giornata.»

John e la ragazza si voltarono verso di lui, il quale sbuffò un po’ d’aria senza replicare.

«Perché non vuoi interrogarlo?» domandò John.

«Perché ha confessato. C’è veramente bisogno di porre altre domande a qualcuno che ha già detto tutto?»

Emily si rivolse a Lestrade: «Chi è stato?»

«Un certo Erik Horvat.»

La ragazza si voltò verso Sherlock; si accorse che l’uomo la stava già guardando e lesse nei suoi occhi il suo stesso pensiero. Lei era stata accanto al detective mentre raccoglieva informazioni e tesseva indagini; la parete alle spalle del divano si era riempita poco a poco di indiziati e sospetti, ma nessun Erik Horvat vi figurava. Si era confrontata con Sherlock in più occasioni nell’arco di quei cinque giorni, scoprendo con sua grande sorpresa che, più volte, il detective aveva considerato le sue osservazioni interessanti – benché lui ci fosse sempre arrivato svariati minuti prima di lei – eppure, entrambi, avevano sbagliato. C’era qualcosa di sospetto in quel risvolto e lei era certa che fosse sospetto anche per Sherlock. Eppure non capiva per quale motivo, ora, lui si rifiutasse di andare più a fondo nella faccenda.

«Cos’ha detto esattamente questo Horvat quando è venuto a confessarsi?» domandò infine, sempre rivolta all’ispettore.

Lestrade, non aspettandosi quella domanda, rispose in modo incerto, incuriosito, e non riuscì a notare l’improvviso bagliore d’interesse che si riaccese negli occhi di Sherlock. Lo notò John, invece.

«Gli ha appena chiesto quello che volevi sapere tu, vero?» gli domandò quest’ultimo, indicando in direzione di Lestrade. «Se ti premeva tanto sapere la risposta perché non glielo hai chiesto tu?»

Sherlock lo guardò. Sollevò le sopracciglia con fare sorpreso. «Oh andiamo, John. Non sono il tipo da perdere l’occasione di mettere in ridicolo per l’ennesima volta Scotland Yard solo perché non ho voglia di porre una domanda a Gavin.»

«No, invece sei proprio il tipo» replicò il medico, guardandolo di traverso.

L’ispettore non si scompose per l’ennesima storpiatura del proprio nome, ma rimase fermo a osservare gli altri uomini. Emily, invece, si sbottonò il cappotto e fece per sfilarselo quando Sherlock la bloccò: «Non toglierlo, Emi, dobbiamo uscire.»

Lei lo guardò, senza capire. Indicò dietro di sé con il pollice dicendo: «Sherlock sono appena tornata a casa. Ho bisogno di andare in bagno.»

Il detective afferrò il suo cappotto scuro e lo infilò. «Alla centrale di polizia hanno i servizi igienici, puoi usare i loro. John, anche tu sei dei nostri, ovviamente. Muoviamoci ispettore» concluse, facendo un cenno a Lestrade. Questi guardò gli altri due confuso, scosse la testa e borbottò sarcastico: «Quindi adesso viene. Grandioso.»

I quattro scesero in strada, dove ad attenderli c’era la berlina dell’ispettore. Montarono tutti in auto, diretti verso la stazione di polizia.

Una volta giunti all’edificio entrarono e seguirono Lestrade lungo i corridoi più interni. L’ispettore fece loro strada con passo sicuro e Emily non poté fare a meno di notare le occhiate che le persone lanciavano nella loro direzione, sicuramente per via di Sherlock. Da quando aveva scoperto dell’esistenza di quell’uomo e da quando aveva cominciato a interessarsi a lui, la ragazza non aveva potuto fare a meno di sospettare che per molti l’alta figura del detective – o consulente investigativo, per usare le sue parole – non poteva essere vista di buon occhio da tutti. Sherlock aveva la capacità di riuscire dove gli altri fallivano e questo, con il tempo, lo aveva portato a rendersi sgradito a molti, proprio come dimostravano le occhiate che continuavano a lanciargli. Tuttavia per qualche curioso e apprezzabile motivo ciò non valeva per Lestrade.

L’ispettore aprì un’altra porta e raggiunse una donna dalla carnagione mulatta e dagli indomabili capelli scuri.

«Non mi dica che lo ha portato qui per interrogare Horvat. Ha confessato, non abbiamo bisogno di lui» disse la donna, indicando irritata verso Sherlock. «E poi, cos’è? Ti sei portato dietro la scorta, chi è la ragazzina?»

Emily la guardò, impassibile. Non avrebbe stretto la mano a quella donna; le era bastato veramente poco per capire che non sarebbe stata mai ben vista da lei solo per via del suo legame con il detective.

«Donovan, per favore. Ho le mie ragioni per averlo portato qui» replicò secco l’ispettore. Scostò la donna e riprese a camminare lungo il corridoio, fermandosi poco prima della fine di esso. Davanti a loro un’ampia vetrata dava su una stanza piccola, grigia e spoglia. Dentro, seduto dietro un tavolino, un uomo li stava osservando. Lestrade lo indicò oltre il vetro. «Vi presento Erik Horvat, a quanto pare l’assassino di Walker.»

Sherlock, John e Emily lo osservarono, mentre Horvat ancora rispondeva al loro sguardo.

«Se vuoi entrare è tutto tuo. Dieci minuti dovrebbero bastarti» disse al detective l’ispettore.

«Sono anche troppi. John e Emi vengono con me» rispose Sherlock, senza guardare il suo interlocutore.

«Cosa? No. Non è un’amichevole rimpatriata, Sherlock, non possono entrare tutti.»

«Ho bisogno che ci siano entrambi» replicò l’altro calmo.

John guardò un momento Emily, cosa che fece immediatamente anche Lestrade. La ragazza era certa di porsi la loro stessa domanda, ovvero cosa potesse c’entrare lei in quella faccenda. Si sentiva lusingata di sapere che Sherlock la voleva, ma non riusciva a spiegarsi bene perché. Il detective rimaneva ancora un mistero, una delle persone che stava impiegando più tempo di tanti altri per riuscire a comprendere, anche solo nei tratti più rilevanti.

Lestrade sospirò, arreso. «D’accordo, entrate tutti, allora.»

Sherlock aprì la porta appena ebbe il via libera ed entrò nella stanza, seguito da John ed Emily. Dentro Horvat continuava a fissarlo, serio; lo seguì con lo sguardo mentre prendeva posto nella sedia libera davanti a lui, dopodiché incrociò le braccia e fece un cenno in direzione dell’unica ragazza presente.

«Lei mi piace molto» disse.

Sherlock lo guardò, serio. Portò i gomiti sul tavolo e congiunse le mani. «Ti posso garantire che non ha alcuna voglia di condividere dell’LSD insieme a te.»

Horvat rise. «Sei bravo, davvero.»

«Parlando di cose serie. Tu, quindi, avresti ucciso il giudice Walker.»

«Sì, infatti.»

«E hai confessato.»

Horvat annuì semplicemente, senza staccare gli occhi dal detective.

«Perché lo avresti fatto?» domandò poi Sherlock, abbassando la voce.

L’altro si strinse nelle spalle. «Ero pieno di debiti con lui. Non sapevo come restituirgli i soldi e mi aveva detto che se non li avesse rivisti entro fine mese avrebbe chiamato la polizia.»

«Mi riferivo al perché hai confessato di averlo ucciso.»

Le ultime parole di Sherlock presero alla sprovvista Horvat; tuttavia si ricompose in fretta e rispose: «Oh, beh. Non è che goda di buona fama fuori da qui.»

«E passare un po’ di anni in prigione ti garantisce protezione, certo.»

«Finché sono qui dentro tutti quelli con cui ho conti in sospeso non possono farmi molto.»

«Una logica stringente, lo ammetto. Hai avuto questa idea solo dopo aver ucciso Walker?»

Horvat annuì.

«Ucciso con il botulino» mormorò Sherlock

«Proprio così» si limitò a dire l’altro.

Sherlock si appoggiò allo schienale della sedia, inspirando. Lanciò un’ultima occhiata all’indagato, infine si alzò, sistemandosi il cappotto. Si voltò verso gli altri due e sentenziò: «Abbiamo finito» dopodiché uscì dalla stanza con loro al seguito. Una volta fuori, oltre il vetro, Horvat continuava a fissarli.

«Ci hai messo solo due minuti» gli fece notare Lestrade appena Sherlock si fu chiuso la porta alle spalle.

«Te lo avevo detto che dieci erano troppi.»

L’ispettore guardò Horvat, poi tornò a rivolgersi agli altri: «Andiamo nel mio ufficio» disse, cominciando a fare loro strada.

L’ufficio di Lestrade era silenzioso e cominciava a essere avvolto dalla penombra. Dentro John ed Emily avevano preso posto sulle sedie disposte di fronte alla scrivania dell’ispettore, alle loro spalle Sherlock camminava avanti e indietro, come un leone in gabbia. L’ultimo a entrare fu proprio Lestrade, una tazza di caffè fumante in mano. La porse a Emily quando le passò accanto e lei lo ringraziò mentre l’uomo andava a sedersi al suo posto e si appoggiava allo schienale della sedia.

«Quindi, Sherlock, cosa mi puoi dire di Horvat?» chiese poi, di punto in bianco.

Il detective si fermò di colpo, il cappotto lo avvolse. «Mente, ecco cosa posso dirti.»

Lestrade si sentì leggermente sollevato al suono di quelle parole, ma anche se avesse voluto non lo diede a vedere.

«Bene. Vale a dire che non ti ho fatto venire qui inutilmente.» Si grattò un momento la testa e riprese: «Ora, però, come posso dimostrare che sta mentendo?»

Sherlock si avvicinò alla scrivania, posò entrambe le mani sullo schienale della sedia di Emily e si avvicinò ulteriormente. «Come? Oh, andiamo ispettore. È palese che sta mentendo. Lo dovresti aver capito perfino tu. John ed Emily lo hanno capito senz’altro.»

John lo guardò. «Cosa? Come fai a dire che l’ho capito anche io?»

Sherlock rispose alla sua occhiata. «Per favore, John. Mi rifiuto di credere che tu non abbia imparato niente da quando stiamo insieme.»

Il medico aggrottò la fronte su quel “da quando stiamo insieme”. Era pronto a replicare, ma il detective prese parola prima: «A ogni modo, John può anche non averlo capito, ma Emi sì.»

La ragazza smise improvvisamente di sorseggiare il suo caffè. Si sentì chiamata in causa, consapevole che tutti la stavano guardando: Lestrade davanti a sé, John accanto, Sherlock dietro. Posò la tazza sulla scrivania e guardò l’ispettore.

«Lo credo anche io, ispettore.»

Non aggiunse altro. Lestrade guardò prima lei, poi il detective e chiese: «D’accordo. Ma ho bisogno di poterlo dimostrare, perciò, come fate a dirlo?» scandì con cura.

«Come facciamo a dirlo? È evidente» replicò Sherlock.

«Oh, ti prego! Non fingere che sia chiaro per chiunque se lo è solo per te.»

«Anche per Emily.»

Calò il silenzio, improvviso. Lestrade tornò a rivolgere la sua attenzione sulla ragazza, che si sentì improvvisamente avvampare.

«Di’ un po’,» esordì poi, parlando con Emily, «hai voglia di dirmi tu quello che, a quanto pare, non ha voglia di farmi sapere Sherlock?»

La ragazza annuì. «Beh, non so se la motivazione sia la stessa di Sherlock ma, io penso che stia mentendo per il modo in cui confessa di essere il colpevole.»

«Il modo?» domandarono all’unisono John e Lestrade.

«Sì. Insomma, quello che dice di aver commesso è un omicidio molto articolato, ben studiato. Qualcosa per cui deve aver lavorato molto. A me viene difficile pensare che possa liquidare il suo lavoro con un semplicissimo “proprio così”.»

«Ma lui non ha inventato niente. Ha semplicemente copiato ciò che Moriarty ha fatto a Carl Powers» disse John, voltandosi verso Emily.

«È comunque più complicato di così» si intromise Sherlock. «Uno come Horvat non avrebbe perso tempo a informarsi sulle abitudini di Walker, a cercare il botulino e a fare in modo che lo ingerisse giusto in tempo per affogare alla terza vasca a nuoto.»

Riprese a camminare per la stanza. «Non avete notato le sue mani, o il suo naso? No, certo che no. Deve essersi rotto il naso e più di una volta mentre le sue mani, beh, quelle sono assuefatte a graffi, tagli e botte, il che cosa significa? Che è un uomo rude, abituato alla violenza fisica, che la pratica spesso e, sicuramente, dà più che ricevere. Ciò vuol dire che uno così se avesse voluto davvero uccidere Walker affogandolo gli avrebbe semplicemente tenuto la testa sott’acqua, non avrebbe architettato un’azione del genere.»

Si fermò. Guardò dritto negli occhi di Lestrade e si portò l’indice alla tempia. «Gli assassini, quelli seriali, quelli veramente pericolosi hanno bisogno di un pubblico, lo bramano. Qualcuno in grado di commettere un simile omicidio non avrebbe mai, mai, sminuito il proprio lavoro a quel modo. Horvat non può averlo ucciso, sono pronto a scommettere che qualcuno lo ha pagato per addossarsi la colpa.»

«A che scopo, scusa? Farsi sbattere in cella non è il modo corretto per spendere dei soldi» gli fece notare John.

«Ma è un posto sicuro per rimanere fuori dai guai per un po’. È probabile che il vero assassino abbia pagato Horvat per prendersi la colpa, garantendogli che una volta uscito di prigione – ovvero abbastanza presto in caso di buona condotta – avrebbe avuto a disposizione i soldi, oltre a essere dimenticato da buona parte delle persone con cui lui ha attualmente dei debiti. Tutto torna, ispettore.»

Lestrade lo stava guardando, in silenzio. Ripensò alle sue parole e dovette ammettere a se stesso che, anche quella volta, le cose si incastravano fin troppo bene. Tuttavia sospirò, sconsolato. «D’accordo, Sherlock, ti credo. Ma finché non abbiamo prove serie c’è poco che posso fare. Quell’uomo ha confessato.»

Sherlock lo guardò, lievemente irritato. «Allora perché mi hai fatto venire fin qui?»

«Perché speravo potessi aiutarmi.»

«E cosa ho appena fatto?»

Lestrade non rispose. Si strinse nelle spalle e sospirò nuovamente. «Mi spiace, Sherlock. Ti ringrazio per il tuo tempo, ma questa volta ho le mani legate.»

L’ispettore e il detective si guardarono a lungo, in un silenzio teso e palpabile. Alla fine Sherlock si ricompose, si lisciò il cappotto e uscì dall’ufficio di Lestrade senza aggiungere altro.

 

*

 

Il taxi accostò davanti all’ingresso del 221B. Sherlock ne scese di fretta e altrettanto in fretta girò la chiave nella serratura ed entrò in casa. Emily, ancora seduta sul mezzo accanto a John, guardò il medico. Quest’ultimo le sorrise. «È fatto così, lo avrai capito. Non gli piace perdere tempo e sono certo che sia convinto che Lestrade gli abbia proprio fatto perdere tempo.»

La ragazza lanciò un’occhiata in direzione dell’ingresso di casa aperto, ma deserto. «Sai, John, impiego sempre poco per capire chi ho davanti, ma con Sherlock… davvero non riesco ad afferrarlo, nemmeno nei suoi tratti più evidenti. Non credevo fosse così complicato» ammise.

«Si beh, è un tipo particolare. Ma tutto sommato è una brava persona. Solo un po’ arrogante, stronzo e saccente. Un po’ molto in verità.»

«Eppure sei suo amico» gli disse lei, sorridendo.

John rispose al suo sorriso. «Commettiamo tutti degli errori» scherzò. «Non preoccuparti, Emi. Con Sherlock puoi stare tranquilla. E imparerai a conoscerlo, vedrai.»

La ragazza ci pensò su, infine annuì. Salutò il medico – anche da parte del detective – e scese del taxi, che ripartì subito per accompagnare John a casa.

Emily salì le scale fino all’ingresso dell’appartamento e, una volta lì, vide subito Sherlock intento a togliere con foga tutte le carte, le foto e gli articoli di giornale che i due avevano raccolto durante la loro ricerca sul possibile assassino del giudice Walker. Sentì una fitta al petto a vedere l’uomo che staccava con indifferenza e fretta i fogli, la carta che si lacerava di tanto in tanto. Le sembrava sbagliato ciò che Sherlock stava facendo; quella era la sua prima indagine insieme al detective, non voleva vederla sparire così, soprattutto perché non era realmente finita. Il vero assassino di Walker era ancora in libertà, Sherlock lo sapeva perfettamente, proprio come lei. Le sembrava irreale che l’uomo accettasse così l’esito di quel pomeriggio da Lestrade, che cancellasse con così tanta freddezza i dati di un caso che poteva essere ancora risolto. Quello non era lo Sherlock Holmes che lei immaginava e c’era qualcosa che la insospettiva. Perché non riusciva a capirlo? Perché continuava a essere un mistero?

«Che stai facendo?» gli chiese infine, guardandolo.

Lui si voltò. Sollevò le sopracciglia come se non comprendesse la domanda. «Hai sentito l’ispettore. Non possono fare niente. Horvat verrà processato e loro avranno il loro assassino. Per quanto mi riguarda il caso è chiuso.»

Riprese a staccare le carte dalla parete, tornando a ignorare la ragazza. Lei ebbe un fremito. Voleva impedirgli di cancellare tutto il loro lavoro così. Era certa, in un modo per lei incomprensibile, che anche per Sherlock quel caso non poteva definirsi “chiuso” e che lui si stesse comportando così solo perché irritato.

«Non te lo permetto» esclamò d’improvviso Emily, parandosi davanti al detective e impedendogli di proseguire nelle sue azioni.

Sherlock si fermò di colpo, guardandola. Un lampo di curiosità attraversò i suoi occhi mentre fissava Emily con intensità crescente. Lei fece del suo meglio per resistere allo sguardo dell’uomo, tentando di rimanere il più ferma possibile nella propria convinzione.

«Non me lo permetti?» mormorò Sherlock.

La ragazza annuì, lievemente incerta. Resistere agli sguardi di Sherlock le riusciva difficile molte volte e quel momento era una di quelli.

«Non voglio che tu distrugga tutto il lavoro che abbiamo fatto solo perché Lestrade ha deciso di lasciar perdere. Insomma, ci abbiamo lavorato a lungo no?»

Sherlock sorrise, lievemente. «Vero. Ma non ho alcuna intenzione di spendere altro tempo inutilmente su qualcosa che Scotland Yard ha deciso di ignorare, per cui considero questo caso chiuso.»

Emily lo guardò, senza sapere cosa pensare. Si sentiva confusa e incerta; sapeva solo che non voleva vedere tutto ciò sparire così, di punto in bianco, senza averle dato le risposte che sperava di ottenere.

«Beh, e se per me non fosse chiuso il caso?» domandò con forza, avvicinandosi di un passo al detective. Se ne pentì subito, però, poiché l’uomo era decisamente più alto di lei. Sherlock, infatti, dovette abbassare lo sguardo. Rimase in silenzio per quella che a Emily parve un’eternità, infine schiuse le labbra, respirò e disse: «Vorrei ricordarti che questa è una mia indagine. Non nego che tu mi abbia aiutato, ma se per me la faccenda è chiusa, allora è chiusa. Oltretutto vorrei anche sottolineare che questa è casa mia.»

La ragazza si sentì sotto accusa, tuttavia incassò l’affondo con eleganza e replicò subito: «Tecnicamente la casa appartiene a Mrs. Hudson. Noi due ne siamo ugualmente affittuari, il che vale a dire che siamo coinquilini. Ciò significa che questa casa è anche mia, così come lo è metà di questa parete… possibilmente quella senza lo smile» disse, indicando alle sue spalle. «Perciò ti proibisco di togliere le informazioni raccolte dalla mia metà del muro.»

Sherlock non replicò. Si limitò a stare in silenzio, un mezzo sorriso in volto e gli occhi fissi in quelli di Emily. Alla fine, dopo un gioco di sguardi all’apparenza infinito, annuì con il capo. «Come vuoi» concluse.

Riprese a staccare i fogli di giornale e gli appunti solo nella “sua” metà del muro, facendo ricomparire lo smile giallo sulla carta da parati, il tutto davanti a una perplessa e incredula Emily, che si sentì strana nell’aver vinto la sua prima faida contro Holmes. Quando il detective ebbe finito si spostò in cucina e la ragazza ebbe modo di vedere la precisione con cui la parete era stata divisa: metà spoglia, metà sovraccarica di carte. E nella sua metà, fra tutti gli articoli di giornale e i possibili indiziati, il nome di Darrell Scott, figurava ancora.

 

 

  
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