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Autore: Silvar tales    22/01/2017    6 recensioni
«Adesso è tutto finito…»
«Ma cosa dici Yuri! Vedrai, ci alleneremo insieme io e te, ti farò imparare un programma molto più bello».
«No no no! Papà non mi pagherà più le lezioni… è tutto finito! La canzone era perfetta, il vestito era bellissimo… e io ho rovinato tutto! E il nonno non tornerà questo pomeriggio dall’ospedale, lo so che la mamma mi ha detto una bugia…!»
Yakov lo sapeva che prima o poi sarebbe esploso. Lo sapeva che tutto quel silenzio non poteva durare. Perché Yuri non era un bambino che rimaneva congelato nelle proprie paure. Yuri si sfogava, Yuri si sbloccava, proprio come stava facendo ora. Per questo, Yakov era sicuro che sarebbe diventato un campione.
Per questo era sicuro che sarebbe diventato grande, no, anzi: il più grande.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Yakov Feltsman, Yuri Plisetsky
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
- Questa storia fa parte della serie 'The Russian Soldier'
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The Greatest
[the russian soldier]





Yuri Plisetsky si chiuse la porta di casa alle spalle, e per quanto lo fece velocemente un ricciolo di nevischio riuscì lo stesso ad entrare assieme a lui, trasportato dalle forti raffiche di vento.
Scosse il cappotto dalla neve che si era accumulata sul cappuccio e lo mise su una sedia, perché ancora non arrivava all’attaccapanni, nemmeno se si alzava in punta di piedi. Dopo aver battuto gli stivaletti in pelle scamosciata sul tappeto, li sfilò e li gettò in un angolo dell’ingresso, accanto a quelli di gomma che la mamma e il papà usavano per andare in giardino.
Si liberò dal peso del borsone da pattinaggio, che era grande il doppio di lui. Avrebbe dovuto svuotarlo, portare i vestiti sporchi in lavanderia, cambiare l’acqua della borraccia, dare agli uccellini i crackers sbriciolati che non aveva mangiato, togliere le imbottiture dai pattini e metterle ad asciugare davanti alla stufa.
Invece saltellò fino in cucina, canticchiando il brano che avrebbe dovuto eseguire l’indomani.
«Driiiiiim tu drim, in deddart of de nait...»
Non capiva le parole, ma la musica gli piaceva un sacco. Aveva visto anche il cartone con i topolini, soltanto il primo episodio però, mentre Dreams to dream era tratta dal secondo film, "Fievel conquista il West".
Si arrampicò su una sedia e raggiunse lo sportello scassato della credenza. L’anta sinistra penzolava da un lato perché un cardine era saltato, ma papà non l’aveva ancora riparata.
Yuri si alzò in punta di piedi e frugò alla cieca scandagliando lo scaffale con la mano, rischiando di far cadere un vasetto di nocciole tostate e la vecchia teiera di porcellana Royal Copenaghen della nonna, finché le sue dita non incontrarono il metallo della scatola dei biscotti.
Era una bella scatola di latta, con dei motivi floreali in rilievo e una scritta in corsivo a caratteri latini che Yuri non riusciva a leggere, ma ciò che gli interessava davvero di quella scatola non erano certo le sue decorazioni, quanto il suo contenuto. Tolse il coperchio e arraffò sei biscotti al miele di castagno che la mamma aveva fatto due giorni prima, facendo piovere una cascata di briciole per terra.
Quei biscotti erano troppi e le sue mani troppo piccole, inoltre fra poco sarebbe stata ora di cena e non avrebbe dovuto guastarsi l’appetito, sua madre lo sgridava sempre per la sua cattiva abitudine di mangiare dolcetti fuori pasto. Ma non poteva farci niente: era sempre stato goloso di dolci, e in quel momento aveva talmente tanta fame che avrebbe mangiato pure la neve accumulata sul davanzale.
Dopo due ore di ginnastica di riscaldamento, aveva provato e riprovato il suo programma dalle undici di mattina fino alle quattro del pomeriggio. Yakov gli aveva concesso solamente una piccola pausa per masticare una schifosa barretta energetica ai cereali integrali che sapeva di segatura, e per trangugiare una porzione di latte e cacao che fortunatamente aveva coperto il saporaccio. Era la vigilia del Russian Figure Skating Junior Championship 2008, e non avrebbe avuto altre occasioni per ripassare il programma prima dell’inizio delle gare.

Siccome entrambi i suoi genitori erano impegnati nel temutissimo colloquio con gli insegnanti, era stato Yakov ad accompagnarlo a casa dopo l’allenamento. Durante il tragitto da Mosca a Možajsk, gli aveva ripetuto una serie di raccomandazioni davvero molto originali:
Mangia cose leggere stasera, e mangia cose energetiche domani mattina. Non fare altri sforzi per oggi. Non uscire, non prendere freddo. Metti dei cerotti su quelle vesciche. Vai a letto presto.
Poi, quando erano arrivati davanti alla modesta casupola di legno dove viveva la famiglia Plisetsky, gli aveva rivolto un sorriso stiracchiato sotto i baffi che era solito portare in quegli anni, e gli aveva messo in grembo un vecchio lettore mp3 e un paio di cuffie.
«Riascoltala due o tre volte prima di andare a letto, se ne hai voglia. Ci vediamo domani, ore nove davanti all’Ice Palace. Puntuali eh!»
«Sì, sì...»
Yuri, già sazio delle troppe regole che gli erano state impartite, aveva afferrato il lettore mp3 e non aveva perso altro tempo a sgusciare fuori dall’auto. Sotto il peso dell’enorme borsone, per poco non era scivolato sul vialetto d’ingresso. Il duro lavoro di pala che suo padre aveva fatto quella mattina per liberare il camminamento, era stato vanificato dalla neve caduta nel pomeriggio.
Yakov l’aveva osservato trafficare per un po’ con le chiavi, finché non era riuscito a far scattare la serratura. Aspettava sempre di vederlo entrare in casa, prima di ripartire.



Con la bocca ingombra di biscotti, Yuri non poté cantare se non con la gola, mentre davanti al gigantesco specchio che troneggiava nella sua cameretta ripeteva le figure e i punti chiave della sua esibizione, con le cuffie dell’mp3 infilate nelle orecchie. Lo specchio, esageratamente grande per l’ambiente nel quale era stato inserito, era stato un regalo del nonno. O meglio, della nonna.

«A lei ormai non serve più, lassù in cielo. Sono sicuro che avrebbe voluto darlo a te, Yurochka. Ti ricordi quante volte sei sgattaiolato nella sua stanza per giocare davanti a questo specchio?»
Non erano passati nemmeno dieci giorni dal funerale della nonna, che già nonno Nikolai si era messo in testa di vendere la grande casa dove avevano vissuto fino a quel momento. Perché a lui non serviva tutto quello spazio, diceva. Perché così avrebbe aiutato economicamente suo figlio e la sua famiglia, e avrebbero finalmente ristrutturato la casetta di Možajsk, diceva ancora.
La verità era che avrebbe voluto cancellare in un colpo solo tutti i ricordi: uno spietato reset senza backup.
Aveva tenuto solo una piccola foto in scala di grigi del loro matrimonio, la fede nuziale, e un quadretto con la cornice in argento che immortalava nonna Evgenia mentre danzava sulle note della Cenerentola. Tutto il resto, avrebbe voluto che scomparisse all’istante in una nuvoletta di fumo, se solo fosse stato possibile.
Voleva sbarazzarsi dei suoi vestiti: dalle tute blu scuro con le bretelle che usava in officina, alle splendide gonne di tulle rosa confetto che indossava nelle serate di gala del teatro Bol'šoj.
Voleva sbarazzarsi del suo diadema in cristalli Svarovski, della sua collezione di tazzine da tè in porcellana, persino dei suoi pesci rossi: un tuffo nel laghetto di Izmaylovo Park, e tanti saluti.
E sì, voleva sbarazzarsi anche di quell’ingombrante specchio, che altro non serviva se non a ricordargli i tempi ormai lontani in cui rifletteva l’immagine di nonna Evgenia, con le gambe lunghissime fasciate nella calzamaglia e i piedi costretti nelle scarpe da ballo azzurro pastello, che piroettava per ore e ore di fronte alla sua gemella virtuale.
Yuri, troppo piccolo per capire, aveva sorriso a quella proposta, aveva sorriso così tanto che i taglietti sulle labbra screpolate dal freddo si erano aperti e avevano iniziato a sanguinare. Ma poi, era arrivato suo padre.
«Cosa se ne fa di quello specchio, papà? Non è mica una femmina, me lo vuoi far diventare frocio? E poi non ci sta nella sua camera».
Yuri non ricordava per quanto avesse pestato i piedi per terra, pianto e urlato che lui quello specchio lo voleva, lo voleva a tutti i costi! Ricordava solo che era riuscito ad averla vinta e che, a un certo punto, nonno Nikolai l’aveva preso in braccio, gli aveva strizzato le guance e gli aveva detto:
«Non ti preoccupare, vedrai che lo facciamo entrare in camera, Yurochka. Se non entra dalla porta, entrerà dalla finestra».

Non era certo uno specchio all’ultima moda, aveva gli angoli sbeccati, la cornice di legno sverniciata e mangiucchiata dai tarli, e il vetro aveva bisogno di una bella ripulita, ma Yuri lo trovava semplicemente meraviglioso.
Quando ripassava le sue piroette davanti a quello specchio, si sentiva come la matrigna di Biancaneve. Specchio specchio delle mie brame, chi è il piccolo pattinatore più bravo del reame?
Era lui, Yuri lo sapeva che era lui. Glielo ripetevano tutti, sempre, praticamente da quando aveva provato i pattini per la prima volta, quattro inverni prima, sul laghetto ghiacciato fuori città.
E glielo ripeteva ogni volta anche lo specchio di nonna Evgenia.



Mandò giù l’ultimo biscotto e riprese a cantare con la sua vocetta squillante da bambino, mentre si perdeva in una catena infinita di volteggi e giravolte. Con le orecchie tappate dalle cuffie, stonava ancora di più, ma in compenso l’immedesimazione era alle stelle. Il parquet scheggiato della sua camera diventava una lastra di ghiaccio, le calzine antiscivolo diventavano delle lame.
«Ven de uoooorl gos rong…»
Questa era la fase più lenta, in cui si fermava al centro della pista e alzava un braccio verso il cielo. Era anche il momento in cui doveva piegare la testa verso l’alto e si trovava costretto a fissare le luci dello stadio del ghiaccio: in quel momento si sentiva come un gatto abbagliato dai fari di un auto in corsa.
«Ai chen stil meichit rait…»
Le tre scivolate successive le faceva completamente alla cieca. Una trottola bassa, una sequenza di passi midline e una serpentina, e poi il punto chiave, il punto più difficile: il triplo toe-loop.
Yuri saltellò da un piede all’altro e roteò su sé stesso, e per poco non andò a sbattere contro l’armadio alle sue spalle. Una cuffia gli era sfuggita dall’orecchio, proprio nel momento più enfatico della canzone.
La sua cameretta era decisamente troppo piccola per simulare un triplo toe-loop.
Gonfiò le guance, mandò indietro la canzone e fece ripartire tutto da capo.

«Cosa stai facendo?»
Era stato colto in flagrante. Con la gamba sinistra molleggiata in alto, il braccio destro che afferrava l’orecchio opposto e tratteneva la testa piegata sulla spalla, il piede destro che traballava sulle punte.
Yuri sentì il cuore accelerare. Si strappò all’istante le cuffie dalle orecchie, nascose l’mp3 dietro la schiena e cercò di ricomporsi. Si voltò e si ritrovò a fissare gli occhi verdi di suo padre. Occhi da inquisitore.
Non pensava che i suoi genitori tornassero a casa così presto… o forse aveva perso la cognizione del tempo ed era rimasto più di quanto pensasse davanti a quello specchio?
«Niente papà», rispose con tutta l’innocenza di cui era capace, mentre ripensava ai compiti che avrebbe dovuto fare, al borsone che avrebbe dovuto svuotare, e ai dolci che non avrebbe dovuto mangiare prima di cena.
«Ma non stai facendo i compiti, come avevi promesso».
«Non è vero, li ho fatti!»
«Fammeli vedere allora», aveva sentenziato suo padre, chiudendogli ogni via di fuga.
A quel punto, messo con le spalle al muro, Yuri abbassò talmente tanto la testa che quasi arrivò a toccare lo sterno con il mento. Non aveva mai sentito così tanto il peso di una bugia su di sé.
«Papà, domani inizia il Campionato», disse finalmente, con una voce talmente flebile che dubitava persino che suo padre l’avesse sentito.
«I patti erano che dopo l’allenamento facevi i compiti. Mi sembrava anche che tua madre ti avesse detto di mettere in ordine la tua borsa. Non hai fatto nemmeno quello».
Mentre era impegnato ad arrossire e a studiarsi la punta dei piedi, Yuri udì dei passi leggeri attraversare il corridoio. Non gli rimaneva che sperare nell’aiuto della mamma.
«Io e papà siamo molto arrabbiati, Yuri», intervenne sua madre, Karina Zykova, affacciandosi alla porta della cameretta con ancora il cappotto addosso, i suoi lunghi capelli biondi raccolti sotto un berretto di lana. «È un mese che non porti i compiti alla maestra, hai preso due note di cui non sapevo nulla, hai persino falsificato la mia firma…!»
Anche la mamma era arrabbiata. Questa volta non l’avrebbe passata liscia.
«Tira subito fuori il diario e fammi vedere», disse suo padre. Non aveva alzato eccessivamente la voce, ma aveva proferito quella richiesta in un tono talmente autoritario che non ci sarebbe stato alcun bisogno di ripeterla una seconda volta.
Yuri scattò come un soldatino richiamato all’ordine, e sentì il cuore fare una capriola. Lasciò cadere il lettore mp3 per terra, con la canzone che usciva ancora dalle cuffie, e andò a recuperare da sotto il letto il suo zainetto di scuola. A quel punto le mani gli tremavano, gli tremavano talmente tanto che provò per due volte ad aprire la cerniera, senza riuscirci.
Al terzo tentativo riuscì finalmente ad aprirla e, dopo aver rovistato un po’ tra l’astuccio e i libri, estrasse dalla tasca principale un diarietto tutto scarabocchiato, con una tigre bianca in copertina cui era stato ricalcato il contorno con la penna.
Consegnò direttamente nelle mani di suo padre le prove del delitto, e questi prese ad esaminarle senza lasciarsi sfuggire nemmeno una pagina.
«Yuri litiga con il suo compagno di banco durante la lezione di matematica. Complimenti davvero», disse, dopo che ebbe trovato la prima nota.
«Ha cominciato lui, la nota l’ha data anche a lui…!» tentò di giustificarsi Yuri. Un tentativo a dir poco patetico.
«Yuri non ha fatto i compiti per tre volte. Anche qui è stata colpa del tuo compagno di banco?»
Yuri si zittì all’istante, e abbassò nuovamente lo sguardo. Cominciava a sentire le lacrime pungere agli angoli degli occhi.
«Sai cosa ti dico?» disse ad un tratto suo padre, chiudendo di colpo il diario con un sonoro schiocco, noncurante che la mamma stesse ancora finendo di leggere. «Tutti i compiti che non hai fatto questa settimana li fai ora, adesso. Assieme a quelli che ti hanno dato per la prossima settimana. Inizia a tirare fuori i quaderni».

NO!

Yuri si sentì letteralmente afferrare dal panico.
Sapeva che suo padre non era d’accordo che lui facesse tutte quelle ore settimanali di pattinaggio, non era mai venuto a vedere le sue gare e sapeva che non gliene importava nulla, ma non poteva essere così cattivo da impedirgli di andare a Mosca, domani.
Non avrebbe finito tutti quei compiti nemmeno se avesse lavorato ininterrottamente fino alla mattina successiva, e Yakov si era raccomandato che andasse a letto presto…
«Mamma, ti prego… domani inizia il Campionato…» pigolò, ormai giunto sulla soglia della disperazione. Non gli rimaneva altra soluzione che sperare nella comprensione della mamma.
E, miracolosamente, Karina sembrò comprendere. I suoi occhi castani si addolcirono, e un’ombra di sorriso spuntò sulle sue labbra sottili rotte dal freddo.
«Daniil, te ne sei dimenticato? Domani dobbiamo portarlo a Mosca, ha una gara importante», disse, cercando di far ragionare il marito.
Karina Zykova aveva sempre desiderato che suo figlio diventasse uno studente modello, voleva che intraprendesse una carriera universitaria e che trovasse un lavoro più dignitoso e redditizio del suo. Ma, al tempo stesso, aveva il buonsenso di capire che il cuore di Yuri batteva sul ghiaccio delle piste di pattinaggio, non certo tra i libri e i banchi di scuola.
Daniil Plisetsky ponderò per un momento le parole della moglie e gli occhi lucidi del figlio, finché non decise di aggiustare il tiro.
«Benissimo, dal momento che invece di fare i compiti non hai fatto altro che pattinare, vorrà dire che domani arriverai primo. Se non torni a casa con una medaglia, le prendi. E poi smetto di pagarti le lezioni, vediamo se ti torna la voglia di studiare».



Quella sera, Yuri si era presentato a cena, ma non aveva detto una sola parola per tutto il tempo.
Si era seduto come al solito sullo sgabello che il nonno aveva costruito appositamente per lui (ci aveva persino inciso sopra le sue iniziali!), e si era limitato a mangiare a capo chino quello che gli era stato presentato davanti, mentre i suoi genitori commentavano le notizie del telegiornale e non sembravano dare troppo peso ai suoi silenzi.
Aveva trangugiato un piatto intero di minestrone, poi si era chiuso in bagno e aveva vomitato tutto quanto nel water. Compresi i biscotti del pomeriggio.
«Kotik, va tutto bene?»
«Da, mama».
Si era sforzato di mantenere ferma la voce, anche se era a carponi sulle piastrelle umide del bagno, con le mani che stringevano l’asse del wc e lo stomaco attanagliato dai crampi.
«Vai a letto, domani devi alzarti presto».

Yuri Plisetsky aveva obbedito. Si era sciacquato la bocca e i denti, aveva indossato il pigiama di fustagno anche se gli grattava la pelle, aveva persino messo i cerotti sulle vesciche. Poi si era infilato sotto le coperte, ma non era riuscito a prendere sonno prima di mezzanotte.
I suoi genitori, nella stanza accanto, avevano litigato fino a notte fonda, convinti che lui fosse già nel mondo dei sogni.

«Daniil, non puoi dirgli una cosa del genere… lo sai che lui ci tiene molto».
«Non me ne frega niente se ci tiene. Ha otto anni, e fa quello che gli dico io. È tutta colpa tua e di mio padre che lo incoraggiate con queste cazzate. Quando ha vent’anni che fa, la puttana sul ghiaccio? Lo volete capire che è un maschio? Io voglio che studi e che impari un lavoro serio».
«Anch’io voglio che studi, ma Yakov Feltsman allena la Nazionale Russa, se allena anche Yuri ci sarà un motivo, no?»


*




La mamma aveva puntato la sveglia alle sette, ma una telefonata improvvisa svegliò la famiglia Plisetsky esattamente un’ora prima.
Yuri saltò giù dal letto senza accendere la luce, e nel buio non si curò di cercare le pantofole. Zampettò fino alla porta della camera e la aprì di uno spiraglio. Sua madre, in vestaglia e con i capelli arruffati, era andata a rispondere.
«Pronto? Ah sei tu… va tutto bene?»
Chi poteva essere a quell’ora del mattino? Il nonno? Non gli venivano in mente altre persone a cui la mamma potesse rivolgersi con un informale e quasi annoiato "ah sei tu".
Ma perché chiamava così presto?
Forse voleva solamente accertarsi che la sua gara si tenesse quel giorno… sì, doveva essere certamente così. Forse si era confuso con i turni femminili, e voleva accertarsi del giorno e dell’ora del suo short program. O forse non era sicuro del luogo.
Yuri era ormai convinto di questa sua teoria, e aveva addirittura sorriso tra sé e sé, pensando che tra poche ore avrebbe pattinato di fronte a nonno Nikolai, e che dopo la gara lui l’avrebbe portato a mangiare le frittelle che cucinavano sul momento nelle bancarelle di piazza Manežnaja, e allora lui gli avrebbe raccontato delle minacce del papà, delle note della maestra, e di quanto fosse agitato per il libero di domani…
«Oddio… sì, sì ho capito… a… aspetta, ti passo tuo figlio… DANIIL!»
La mamma schizzò in camera, abbandonando la cornetta senza curarsi di appoggiarla di fianco al telefono, e questa rimase penzolante a mezz’aria. Yuri deglutì e la fissò per lunghi istanti, prendendo seriamente in considerazione l’idea di uscire nell’ingresso e afferrarla.
Nel frattempo, sentiva le voci concitate dei suoi genitori provenire dalla loro stanza, ma non riusciva a capire cosa dicevano.
Pochi istanti dopo, suo padre fece irruzione nell’ingresso e recuperò il telefono.
«Papà? …sì, sì veniamo subito. Tu cerca di stare calmo nel frattempo».
A quel punto, Yuri non poté più trattenersi e uscì nel disimpegno, trovandosi subito di fronte la figura altissima di suo padre. Indossava solo una canottiera e un paio di mutande di lana, aveva le occhiaie sotto gli occhi e i capelli grigi gli ricoprivano la testa come un informe cespuglio di rovi.
«Tu che ci fai qui? Fila a letto».
Suo padre non era arrabbiato questa volta, era solo molto molto agitato. Lo capiva anche Yuri, mentre lo guardava infilarsi distrattamente il cappotto di montone sopra la canottiera, per poi ripensarci e andare a recuperare dalla camera due maglioni di lana.
Yuri non demorse e lo seguì fin dentro la sua stanza, per scoprire che anche la mamma si stava vestendo in fretta e furia.
«Cos’è successo al nonno?»


*




Stavano correndo sulla vecchia Moskvich 412 di Yakov, e Yuri nel sedile dietro, con la cintura che gli stritolava lo stomaco e il borsone da pattinaggio che gli cadeva addosso ad ogni curva, stava morendo d’ansia.
Erano in ritardo di venti minuti, non avrebbe nemmeno avuto il tempo di fare riscaldamento, a malapena avrebbe avuto il tempo di allacciare per bene i pattini.
Per ottimizzare i tempi aveva già indossato il body sotto la tuta: era il suo costume preferito, anche se Yakov lo chiamava sempre kroshka elf quando lo indossava, perché era tutto verde con i ricami dorati, e aveva anche un minuscolo campanellino cucito sulla manica destra.
Quando finalmente arrivarono di fronte all’Ice Palace, Yakov lo scaricò davanti all’entrata come se fosse un pacco postale, e Yuri corse. Corse con talmente tanta foga che questa volta il ghiaccio e lo sbilanciamento dato dal borsone lo tradirono, e capitombolò sull’ultimo gradino, battendo forte il ginocchio destro.
«Yuuuuuuuuri!» una ragazzina con dei lunghissimi capelli rossi raccolti in una coda di cavallo uscì dalle porte a vetri del palazzetto, e gli andò incontro per aiutarlo. «Ma dove ti eri cacciato? Yakov ha detto che veniva a prenderti... Il tuo turno è tra quindici minuti», disse, mentre con una certa urgenza si issava il suo borsone sulle spalle. A differenza sua, non faceva nessuna fatica a sollevarlo.
«Lo so, Mila, non ho bisogno di aiu-» troppo tardi. Mila Babicheva aveva già oltrepassato le porte a vetri ed era partita alla volta degli spogliatoi maschili, con la coda di cavallo che le dondolava all’impazzata sulla schiena.
Yuri non ebbe altra scelta che seguirla, e fu allora, quando si rimise in piedi e tentò di stare al suo passo, che si accorse che il ginocchio gli faceva male. Non era un dolore insopportabile, ma sarebbe stato comunque un problema. Pregò solamente che il vestito sotto non si fosse strappato.

Il corridoio degli spogliatoi era intervallato da una serie di oblò che davano direttamente sull’arena, e Yuri non poté fare a meno di dare un’occhiata oltre il vetro. Gli spalti erano affollati, e il primo pattinatore della scuola di San Pietroburgo stava già eseguendo il suo short program.
Sentì il ginocchio tremare, e contemporaneamente percepì con chiarezza la tensione montargli nello stomaco. Non si rendeva mai realmente conto di dover sostenere una gara, fin quando non si trovava in mezzo a quell’atmosfera frenetica e competitiva, fatta di litigi, cattiverie soffiate alle spalle, caviglie slogate, pianti isterici, punteggi gonfiati. Certo, c’erano anche le cose belle, ma in quel momento a Yuri proprio non venivano in mente.
Quando finalmente raggiunsero lo spogliatoio, Mila scaricò la sua borsa sulla prima panca che trovò libera e non perse tempo a congedarsi.
«Ora corro sulle tribune, non vedo l’ora di vedere quanto sarai bravo Yurochka! In bocca al lupo», disse, strizzandogli l’occhio. I suoi occhi erano talmente blu che parevano due gocce rubate dalle profondità dell’oceano.
Yuri non fece in tempo a dire beo, che la ragazzina scomparve oltre la porta, lasciandolo in compagnia di un altro gruppetto di pattinatori ancora intenti a cambiarsi d’abito. La differenza era che tutti loro erano assistiti dai rispettivi coach, i quali li aiutavano con l’acconciatura, con le allacciature dei pattini, ripassavano assieme a loro il programma, o semplicemente dispensavano incoraggiamenti.
Lui era solo, solo con un borsone grande il doppio di lui che riusciva a malapena a sollevare.
Yakov Feltsman non lo aveva ancora raggiunto. Erano arrivati tardi, e molto probabilmente non era riuscito a parcheggiare vicino allo stadio. O peggio, stava ancora imprecando alla ricerca di un parcheggio.
La paura di dover scendere in pista da solo diventava sempre più concreta ogni secondo che passava.
Yuri si guardò intorno, ricevendo in cambio solo gli sguardi poco amichevoli degli altri ragazzini. D’altro canto lui non era mai stato interessato a stringere amicizie con i suoi "colleghi", senza contare che la maggior parte di loro erano invidiosi perché lui, pur essendo il più piccolo, era di gran lunga il più bravo.
«Plisetsky è arrivato?» una donna bassa e magra come uno stecco si affacciò allo spogliatoio. Aveva sotto i denti una gomma da masticare e sembrava sull’orlo di una crisi di nervi. Di fatti, non appena adocchiò la sua testolina bionda, batté forte le mani e sbottò: «su su! Non sei ancora pronto? Inizi tra cinque minuti! Ma dov’è finito Yakov… Ninaaa! Ci pensi tu a questo bimbo che deve gareggiare adesso?»
Yuri sobbalzò, iniziò a slacciarsi le scarpe da ginnastica, poi si tolse i pantaloni della tuta e rimase con solo la felpa addosso, perché l’edificio era pieno di spifferi e voleva tenere per quanto possibile i muscoli al caldo prima di iniziare. Ma, con anche la felpa indosso, stava tremando e non era sicuro che fosse tutta colpa del freddo.
La signora con la gomma da masticare che gli aveva detto di muoversi era scomparsa, e la fantomatica Nina che aveva mandato a chiamare non era mai arrivata.
Yuri estrasse i suoi Etoile dall’apposita custodia, e li infilò. Sapeva allacciarseli da solo, ma di solito occorreva sempre che Yakov desse una stretta finale al nodo, per assicurarsi che non si slacciassero. Se si fossero slacciati durante l’esibizione, sarebbe stato un disastro.
Yuri guardò il nodo che aveva fatto, per nulla convinto. Ma ormai non c’era più tempo.
Mise le protezioni di plastica sulle lame, poi si alzò in piedi e uscì dallo spogliatoio.

Più si avvicinava alla pista, più gli faceva male la pancia. Si guardava intorno nella speranza di vedere comparire Yakov, o la mamma, o addirittura il nonno.
Ma il nonno era in ospedale, era il motivo per cui i suoi genitori erano usciti in fretta e furia di casa, quella mattina. Era il motivo per cui avevano dovuto chiedere a Yakov di venirlo a prendere per accompagnarlo alla gara. Era il motivo per cui ora lui si trovava ad affrontare una delle competizioni più importanti della sua vita da solo, e ogni passo che faceva gli sembrava di non ricordare più i salti, le trottole, le sequenze di passi… aveva dimenticato persino il ritornello della canzone.
Ma ormai era arrivato al confine con il ghiaccio, e il ragazzino che lo precedeva stava ricevendo gli ultimi applausi.
Ancora un minuto e sarebbe stato il suo turno. E non era pronto. Non era affatto pronto.

Qualcuno che non era Yakov gli toccò la spalla e gli porse un sorso d’acqua che lui rifiutò, scuotendo forte la testa.
«Ci sei Plisetsky? Tocca a te».
Era letteralmente paralizzato.
La mamma aveva fatto di tutto per rassicurarlo quella mattina.
Non ti preoccupare Kotik, adesso portiamo il nonno in ospedale ma non è niente di grave, vedrai che questo pomeriggio sarà già a casa. Così gli aveva detto, mentre il papà correva da una parte all’altra della casa e gettava alla rinfusa dentro uno zaino oggetti di prima necessità, come una coperta di lana, un thermos pieno di caffè americano, un vecchio cellulare nokia di quelli che non si scaricavano mai, un pacchetto di gallette di riso, dei fazzoletti di carta.
Yuri non aveva creduto nemmeno per un secondo che sarebbero tornati nel pomeriggio.
«Yuri Plisetsky esegue Dreams to dream».
Sentiva la voce nel microfono che lo annunciava, come se provenisse da un’altra dimensione. Qualcuno gli aveva tolto la felpa dalle spalle, e ora non riusciva a tenere ferme le gambe.
Gli ritornò in mente la faccia di suo padre, quando la sera prima lo aveva minacciato di non pagargli più le lezioni di pattinaggio, se non fosse tornato a casa con una medaglia.
Sentì una mano spingerlo sulla schiena, ma lui non aveva ancora tolto le protezioni dai pattini e non accennava a muoversi, era come inchiodato sul posto. Il ginocchio destro gli pulsava, le gambe gli tremavano talmente tanto da fargli male, e aveva lo stomaco contratto. Tutto il sangue gli era defluito dalle guance, doveva avere l’aspetto di un fantasma.
Gli scappava la pipì.
Anche se doveva ancora entrare in pista, sentiva lo sguardo di una buona parte degli spettatori puntato su di sé. Il chiacchiericcio cominciava a serpeggiare tra gli spalti.
«Yuri? Che c’è, non stai bene? Yuri? Ma…! Torna subito qua!»


*




«Gli avevo detto di far slittare la sua esibizione se non fossi arrivato in tempo… razza di incompetenti!» borbottò fra sé Yakov Feltsman, mentre perlustrava tutto il palazzetto alla ricerca del suo piccolo pattinatore scomparso. Quando era riuscito finalmente a parcheggiare e a raggiungere l’Ice Palace, si era precipitato a bordo pista, sicuro di trovare Yuri assieme agli altri bambini, in attesa che lui gli stringesse i lacci dei pattini. Invece aveva solo trovato una donna acidissima sui quarant’anni che continuava a blaterare qualcosa riguardo all’impossibilità di modificare la scaletta, e due inservienti che stavano dando lo straccio per terra. La felpa di Yuri era abbandonata sulla balaustra.
C’era anche Nina Krjukova, un’ex allieva di Yakov che, in seguito a un brutto incidente, aveva dovuto abbandonare prematuramente la sua carriera, e ora aveva messo le sue radici nel palazzetto di Mosca. Assisteva a tutte le gare e a tutti gli allenamenti di tutte le categorie, e si illudeva di poter tornare anche lei a volare sul ghiaccio, un giorno. Peccato, sarebbe potuta diventare una vera campionessa, ma non c’è niente di peggio di chi sbatte contro il muro dell’impossibilità e, invece di cercare un altro orizzonte, passa tutta la vita a piangerci contro.
«Questo macello l’ha combinato lui?» le aveva chiesto Yakov, accennando alle due donne che stavano pulendo il pavimento in gomma antiscivolo a bordo pista.
«Pfft, sai quante volte ho visto la stessa scena? Ecco perché odio le gare dei mocciosi», si era intromessa nuovamente quella strega ossuta fissata con la scaletta.
«Signora mia, le assicuro che non è un evento così infrequente anche nelle gare degli adulti, e qui stiamo parlando di un bimbo che a otto anni riesce a farmi un triplo axel, ma che stamattina ha avuto un momento di panico. E ora continuate pure a dedicarvi alla vostra dannatissima scaletta».
Senza dire altro, Yakov aveva afferrato la felpa di Yuri, congedandosi dalla Krjukova, dalla megera, e da quel forte odore di varechina, e aveva iniziato a cercarlo.
Avrebbe dovuto capirlo fin da subito che non era nelle condizioni di gareggiare. Quella mattina, in macchina, avrebbe dovuto notare che era troppo silenzioso, ma era troppo maledettamente impegnato a fare lo slalom tra il traffico e a lanciare maledizioni contro tutte le macchine che facevano meno dei settanta all’ora.
Yuri era quello che sbuffava, che diceva svogliatamente di sì a tutte le regole che gli venivano imposte per poi non rispettarne nemmeno una, che afferrava l’mp3 senza ringraziare. Quello era Yuri Plisetsky, non il bambinetto pallido e spaventato che era andato a prelevare nella sua casetta di Možajsk poche ore prima, che metteva la cintura di sicurezza senza protestare, che non diceva una parola...

Lo ritrovò in uno spogliatoio deserto e gelido. Era seduto su una panca, completamente al buio. Yakov, non appena notò il contorno della sua figurina esile, accese subito la luce.
«Ti sei messo in punizione da solo?» disse, tentando di sdrammatizzare. Diamine, anche quando si impegnava non riusciva ad addolcire più di tanto la voce.
Yuri non rispose, allora Yakov decise di avvicinarsi. Non era certo la prima volta che si trovava a gestire situazioni del genere, ma temeva di non essere mai diventato bravo.
Gli venne istintivo mettergli la felpa sulle spalle, perché non avevano acceso il riscaldamento in quell’area, e Yuri indossava solo il costume da gara, per di più bagnato.
Si ostinava a fissare i propri piedi, coperti solo dal sottile tessuto elastico delle calze tecniche. Si era tolto i pattini e li aveva abbandonati per terra, come se non volesse avere più niente a che fare con loro. Yakov cercò di non pensare a quell'ipotesi.
Si era di nuovo rinchiuso in quel guscio di silenzio, così anomalo per lui. Con le mani artigliava il bordo della panca, era bianco in volto e tremava, tremava tanto.
Bastava guardarlo un secondo negli occhi, anche se erano parzialmente nascosti dalla frangetta bionda, per capire che era spaventato, e che in quelle condizioni non avrebbe mai potuto gareggiare.
«Adesso è tutto finito…» mormorò, dopo qualche secondo di attesa. Aveva pronunciato quelle poche parole con una tale tristezza, che Yakov sentì male al cuore.
«Ma cosa dici Yuri! Vedrai, ci alleneremo insieme io e te, ti farò imparare un programma molto più bello».
Ma Yuri scosse la testa con tale vigore che Yakov dovette mettergli un braccio attorno alle spalle per calmarlo. Aveva preso a singhiozzare.
«No no no! Papà non mi pagherà più le lezioni… è tutto finito! La canzone era perfetta, il vestito era bellissimo… e io ho rovinato tutto! E il nonno non tornerà questo pomeriggio dall’ospedale, lo so che la mamma mi ha detto una bugia…!»
Yakov lo sapeva che prima o poi sarebbe esploso. Lo sapeva che tutto quel silenzio non poteva durare. Perché Yuri non era un bambino che rimaneva congelato nelle proprie paure. Yuri si sfogava, Yuri si sbloccava, proprio come stava facendo ora. Per questo, Yakov era sicuro che sarebbe diventato un campione.
Gli venne spontaneo sorridere. Anche se, quello che per lui era un sorriso, da fuori doveva sembrare soltanto uno sbuffo.
«Forse tuo nonno non tornerà dall’ospedale questo pomeriggio, ma sta meglio di quello che credi. Mi ha telefonato poco fa, mi ha detto di dirti che stava bene, e che ti faceva tanti auguri. Che ne dici se ora andiamo a trovarlo, ti va? E poi vorrei anche fare due chiacchiere con tuo padre».
Yuri rimase qualche secondo interdetto, con la testa china, e grossi goccioloni di lacrime che gli cadevano in grembo. Poi, finalmente, annuì.
Yakov allora lo sollevò tra le braccia, perché il buonsenso gli suggeriva che sarebbe stata un'ulteriore tortura farlo camminare tra la gente con il costume inequivocabilmente bagnato. Con l’altra mano recuperò i pattini, che erano quasi più pesanti del loro proprietario. Yuri era leggero come un uccellino.

Lo portò in una stanzina appartata che veniva usata come infermeria. Dopo averlo adagiato su una sedia di plastica, andò a recuperare dal suo borsone degli abiti di ricambio. Poi lo lasciò da solo, perché potesse togliersi i vestiti sporchi e indossare quelli asciutti in tutta tranquillità. Nel frattempo, andò a cercare un'infermiera, che solitamente durante le gare importanti come quella veniva pagata per stare tutto il giorno al palazzetto. Fortunatamente, l'infermiera si rivelò una persona comprensiva e premurosa.
Si era precipitata all'istante da Yuri, gli aveva controllato i riflessi, gli aveva saggiato la fronte, gli aveva fatto alcune domande di accorgimento. Poi, dopo avergli dato una scompigliata di capelli e un leccalecca alla fragola, gli aveva dato via libera.

Yuri non aspettava altro per balzare giù da quella sedia di plastica, e uscire dall’Ice Palace assieme a Yakov. Erano saliti nuovamente sulla Moskvich 412, ed erano partiti alla volta dell’ospedale.
Yuri, seduto questa volta sul sedile davanti, aveva ancora il visetto rosso di pianto, i capelli arruffati, e tirava su con il naso. Ma il suo viso era molto più sereno, di tanto in tanto tirava fuori la lingua e assaggiava il leccalecca, i suoi occhi verdi erano ancora un lago di lacrime, ma non erano più impauriti come prima.
Guardandolo, Yakov lo sapeva, anzi ne era sicuro, che Yuri Plisetsky non si sarebbe fermato davanti a questa prima, vera caduta.
Guardandolo, Yakov era sicuro che sarebbe diventato grande.
No, anzi: il più grande.


*




«Dalla Russia, ecco a voi il vincitore del Barcellona Grand Prix 2015, Yuri Plisetsky! Aprirà questa serata di Gala pattinando per voi sulle note di Dreams to dream».
Yakov aveva sentito dietro le quinte molti che criticavano la scelta del brano.
«È una canzone per bambini, presa da un film per bambini, cantata da un bambino. Non è certo adatta per la serata di Gala del Grand Prix».
«Forse Plisetsky crede di essere ancora nei juniores...»

Ma Yakov sapeva, e lo sapeva davvero solo lui, cosa significava per Yuri pattinare su quella canzone.
Non aveva mai provato a rifarla. Dopo che era stato squalificato dal Campionato di Russia del 2008, avevano iniziato ad allenarsi in anticipo per il Campionato del 2009, a cui aveva partecipato con due programmi inediti, portando a casa la medaglia d’oro e un punteggio vertiginoso.
Ma Dreams to dream era rimasta nel cassetto, come un sogno, appunto, o come un momento buio della sua vita che Yuri voleva dimenticare.
Ora, con il titolo di Campione del Mondo che gli pesava dolcemente sulle spalle, Yuri aveva avuto il coraggio di aprire quel cassetto, e ritirare fuori quella canzone, quel programma che, anche se era troppo semplice per lui, perché pensato per il Yuri Plisetsky di sette anni prima, aveva deciso di mantenere invariato.
Perché voleva dire a tutti che aveva realizzato i propri sogni, e che ora, mentre scivolava sul ghiaccio scuro seguito da quel disco di luce, ora, mentre guardava in faccia il proprio pubblico e si preparava a danzare, ora non aveva davvero più paura di niente.












© tsuyer




   
 
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