Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: PawsOfFire    22/01/2017    5 recensioni
Russia, Gennaio 1943
Non è facile essere i migliori.
il Capitano Bastian Faust lo sa bene: diventare un asso del Tiger richiede un enorme sforzo fisico (e morale) soprattutto a centinaia di chilometri da casa, in inverno e circondato da nemici che vogliono la sua testa.
Una sciocchezza, per un capocarro immaginifico (e narcisista) come lui! ad aggravare la situazione già difficoltosa, però, saranno i suoi quattro sottoposti folli e lamentosi che metteranno sempre in discussione gli ordini, rendendo ogni sua fantastica tattica fallimentare...
Riuscirà il nostro eroe ad entrare nella storia?
[ In revisione ]
Genere: Commedia, Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Furia nera, stella rossa, orso bianco'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Quanto tempo ci rimaneva ancora? Due minuti, forse? Il tempo per una preghiera? 
Il bestione nascondeva il fianco molle tra gli alberi ed i cumuli di terra, mostrandoci la ben più resistente corazza anteriore. 
Noi, perfetti cretini, avevamo abbandonato le nostre postazioni per aiutare il compagno incagliato. 
Io, almeno. Molti altri si erano allontanati a fumare e bere. Solo Maik era rimasto immobile nella sua torretta, intento a scrutare le valli boschive alla ricerca della più impercettibile traccia nemica. 
Non era esattamente la fine che desideravo. Avevo fatto un veloce conto di come avrei potuto morire in questa terra dimenticata da dio. Al primo posto si piazzava, inesorabilmente, l’essere bruciato vivo. I Panzer potevano trasformarsi in trappole mortali, enormi tori di Falaride roventi che avrebbero potuto ridurci in cenere al solo tocco. Anche le esalazioni di gas non erano male, così le avevo collocate al secondo posto. 
Al terzo posto vi era tutta la marmaglia che non ero mai riuscito a classificare: pallottole volanti, lanciafiamme, bombe, fucilazione, dissenteria, itterizia, dissanguamento, ipotermia, coltellate, congiura rivoltosa dei miei uomini, fame, sete, sonno. Potrei andare avanti. 
Rivolsi i miei pensieri al passato.
 
 ╬
 
Anni ed anni indietro, per la precisione. Veterano di guerra, con la sua pipa fumante Sebastian Faust sedeva nel suo piccolo studio a tessere e filare fieri panciotti per distinti signori borghesi ed abiti sgargianti per dame eleganti della Monaco benestante. 
Ed io, otto anni compiuti, sedevo sul pavimento della sua bottega da sarto a gambe incrociate, cercando disperatamente di far passare il filo nella cruna dell’ago. Ridacchiando mio padre era solito a darmi dei buffetti sulle guance, facendo allusioni al mio piccolo e certosino lavoro, insinuando che fossi troppo giovane per fare certe cose. Poi, tirando fuori la lingua da porco mascalzone, mi descriveva i pregi della sartoria, piccoli trucchi di come piazzare strategicamente le mani sulle belle signore. “Sto solo prendendo le misure” diceva mentre mia madre, da lontano, lo fulminava. Facevano i conti a casa, sempre. “In guerra ne ho prese tante di sberle, ma mai come da sposato.” commentava, massaggiandosi la schiena dolorante senza mai smettere di ridere. 
C’erano i miei fratelli. Alfred, dannazione. Continuava a scrivermi dall’Africa. Era il miglior paracadutista che io conoscessi. Aveva imparato a nascondersi come una blatta tra sabbia, cespugli, erba e terra, mangiando serpi ed insetti giganti, sempre abbastanza lontano da non rischiare la vita ma abbastanza vicino da non essere considerato un disertore...e nessuno notava la sua assenza nel trambusto bellico. Quel gran bastardo era in calzoncini mentre io a morire dal freddo nel cuore della Russia. È ingiusto. Da bambini, quando giocavamo assieme e combinavamo qualche burla, ero sempre io a prenderle. Lui, fin dal principio, si appiattiva in qualche angolo della casa, mimetizzandosi come un camaleonte tra le tende ed i mobili, rifugiandosi nei più piccoli ed angusti spazi mai svelati della nostra abitazione. Io mi prendevo il battipanni nella schiena e la punizione in cantina. Lentamente il fottutissimo usciva dalla sua tana e, dopo qualche ora, mi portava un piccolo regalo implorando il solenne perdono. 
Poi c’era lui, Stefan. Gli rivolsi il pensiero ora che la bocca del cannone puntava a noi, così come le armi secondarie e tutto l’equipaggio nemico. 
Era un caldo settembre del 1940 e la guerra sembrava ancora vinta quando ebbi una settimana di licenza. Ironia della sorte, anche Alfred ne ebbe una. Eravamo abbastanza increduli di come avessero deciso di mostrare un po’ di pietà nei nostri confronti, lasciarci elaborare un lutto così difficile. A distanza di anni ancora non riuscivo a crederci. All’inizio sembrava quasi un gioco del cazzo, tutti tronfi e fieri nelle nostre belle su misura. Poi bam, ecco che la vita ti colpisce con un ceffone rovesciato dicendoti “E’ guerra, cazzo! Qua si muore!” Lo abbiamo sperimentato più volte nella nostra testa, sulla pelle degli altri. Fosse stato un po’ più grande, forse...nei suoi diciannove anni di gioventù sfacciata vedeva nelle grosse ali di Stuka una prospettiva di vita diversa, una specie di avventura pericolosa da cogliere a piene mani, l’inafferrabilità del vento e la vastità del cielo che di rado restituisce i suoi figli alla terra. 
Ricevemmo solo una piccola cassetta con qualche effetto personale. Difficile crederci. Se fosse scappato? Non avevamo alcun corpo sul quale piangere, ma questa è la guerra. Se riesci a concepire l’idea che centinaia di sconosciuti vogliano ucciderti beh, il resto è in discesa. 
Eppure, nella sua breve vita, lui l’aveva vissuta in pieno. Io ed Alfred abbiamo perso tempo ad inseguire fumo. Mal che andava, pensavamo, avremmo preso in mano le redini del negozio di famiglia. Il che schifo non mi ha mai fatto perché credete, nel prendere le misure alle belle signore nessuno mi eguaglia. Stefan era quello che studiava, che sognava in grande e che non perdeva mai tempo. Aveva conosciuto una brava ragazza di famiglia colta ed agiata e l’aveva sposata. Un matrimonio un po’ folle, perché lui era in Francia e lei tecnicamente aveva sposato un cappello col suo nome ma, a conti fatti, matrimonio era. È assurdo, ma funzionava così. Ringraziai il cielo per quella cerimonia inusuale perché credetemi, per quella povera ragazza ciò che seguì fu anche peggio. 
Nella mia eterna settimana di licenza la rividi. Sophie, questo il suo nome, mi si scagliò letteralmente addosso, strillando e prendendomi a schiaffi, graffiandomi come una bestia rabbiosa. Era dannatamente spaventosa con i lunghi capelli castani raccolti in una massa disordinata nel suo strazio. Ed il fatto che somigliassi al suo amato morto la rendeva pazza di rabbia. Anche mio fratello si prese la sua dose ma è un cazzo di codardo, quindi si assisteva alla surreale scena di questo ragazzone in rapida fuga, inseguito da una giovane rabbiosa e sbavante. 
Perché lui e non tu? Perché!” continuava a ripetere, picchiando i pugni sul mio petto fino a farmi perdere il fiato. Sono un bravo ragazzo, credetemi, ho dovuto agire con un po' di forza per farla rinsavire. La giovane trasalì, prima di tornare a singhiozzare in un comprensibile dolore ed abbracciarmi in un repentino cambio d’umore.
E solo a quel punto mi accorsi che dannazione, aspettava un figlio. Suo figlio, orfano ancora prima di nascere. Aveva tappezzato della sua assenza una presenza disperatamente forte, rendendo il lutto ancora più difficile da elaborare. C’era e non c’era. 
Penso ancora a lui. Tutti i cazzi di giorni. Se solo fosse stato più vecchio ed avesse finito gli studi, fosse riuscito a diventare un medico e noi, stolti, fossimo riusciti a dissuaderlo dal sogno di volare...forse ora quel bambino avrebbe ancora un padre. 
Mal che vada ha un fantastico zio. La vita va avanti…
 
 ╬
 
“Capitano Faust?” 
Questa volta mi beccai io due sonori schiaffi, che mi fecero perdere l’equilibrio.
“A cosa stava pensando? Sembrava una cosa importante” 
“Lo era infatti, lo era” commentai. Tom mi guardava dal basso verso l’alto, pronto ad un’altra sessione di schiaffi. 
Mi guardai intorno. Nel frattempo, il T-34 si era avvicinato ma, miracolosamente, non aveva fatto fuoco. Era rimasto fermo, a motori spenti, fuori dagli alberi. Dal tettuccio era uscito un soldatino vestito di nero intento a salutare qualcuno dei nostri ad ampi gesti. 
“Ehi, quello è mio cugino Joseph!” commentò Klaus, rispondendo al saluto con saltelli inaspettatamente vigorosi.
“Guarda cosa siamo riusciti a rubare!” Urlò il capocarro Joseph dall’altra parte della piana. Piccolo e tozzo anche lui, portava due orribili baffi bruciacchiati che lo facevano somigliare ad un grosso gatto spelacchiato.
“Il suo equipaggio stava riposando e noi lo abbiamo sfilato dalle loro grinfie. Non si sono accorti di nulla!” continuò. Effettivamente, dopo un secondo sguardo più attento, si poteva notare come la stella rossa fosse stata sostituita da Balkenkreuz* ridipinta da mani incapaci che, oltretutto, avevano lasciato colare la vernice lungo la fiancata del carro. In un impeto d’arte, il sedicente Picasso aveva realizzato una grossa aquila dai tratti grotteschi e vagamente cubisti frutto di incapacità e non di arte degenere, per sua fortuna.
“Abbiamo visto una luce e ci trovavamo poco lontano, così abbiamo deciso di venire a dare un’occhiata” disse il capocarro, abbandonando il mezzo assieme ad un paio di uomini. 
“Però quel burlone di Chagall ha voluto farvi uno scherzo! Siete rimasti imbambolati come dei sassi e sbiancati come fantasmi! Fantastico!” 
Chagall**, questo il soprannome del sedicente artista, era un tipo davvero particolare. A parte la spiccata propensione per l’arte, l’ometto allampanato e scarno aveva due incisivi mancanti, che compensava inserendo tra essi il pennello oppure una sigaretta così, quando fumava, non doveva utilizzare le mani. Così fumava ovunque. Dopo il primo giro di alcolici aveva messo gli occhi sulla Furia, lamentandosi di quanto fosse spoglia. 
“Non siamo nella Luftwaffe, soldato” gli rammentai mentre quello, col suo occhio un po’ strabico, osservava il carro come un bambino davanti ad un foglio bianco. 
“Ci farei una tigre. Una tigre nera e gialla. Si! Si! Con la bocca aperta che sbrana un pollo rosso” 
“Un pollo”
“Si! Si! Giallo e con la testa rossa! Peccato che...come ti chiami più tu? Bastian eh? c’ho uno zio che si chiama come te. È morto in Russia nella grande guerra. Era un bravo soldato, aveva dipinto un bel elmetto di rosso e giallo che indossava sempre. Mi chiedo perché sia morto” *** 
Avevo anche io uno zio di nome Bastian morto in Russia durante la Grande Guerra, ma non riuscì a spiegarglielo, esattamente come non riuscì ad imprimere nella sua testa il rispetto per il mio grado. 
Soffocai il malessere nell’alcool. 
“Dicevo. Che peccato che non ho i colori. Altrimenti ti facevo un’opera d’arte che poi quel tipo di Speer mi chiamava per pitturare la sua Berlino bella” 
Per fortuna, dopo aver sistemato alla buona il carro guastato, ripartimmo velocemente verso il nostro punto di interesse. Il capocarro Joseph e la sua compagnia dovevano essersi fottuti il cervello con i vapori della benzina, perché non riuscivo a concepire cotanta follia in un gruppo di cinque uomini.
Decisero però di seguirci, dato che la linea del fronte era la medesima. Dopo una confabulazione tra capicarro costata la bellezza di due bottiglie di alcool, decisi che loro sarebbero andati avanti in modo tale da depistare eventuali russi che avessero intralciato la nostra strada. 
E funzionò. D’altronde era un mio piano geniale. 
Non incontrammo nessun nemico durante il nostro tragitto, ma ciò fu di poca importanza. Il mio piano fu vincente e ciò che conta è sempre il risultato, sempre. 
Avevamo un buon ritmo, fortunatamente. Viaggiammo a lungo, riparandoci tra gli alberi e fermandoci solo per riempire i serbatoi e fare manutenzione. 
Penetrammo in territorio bellico in qualità di truppe fresche come il pesce di tre giorni. I nostri esultarono quando ci videro. Il graduato della situazione si lamentò di quanta poca considerazione gli altri avessero per lui, visto che ricevette solo sei carri con relativi equipaggi in soccorso. 
“Niente di personale” Disse l’uomo, pulendo il bocchino della pipa con la manica della divisa. 
“Guardate con i vostri occhi. I miei uomini sono stremati. Ci servono carri nuovi, sono giorni che aspettiamo” 
“Comandante” Dovevo convincerlo a tutti i costi. 
“Il mio non è un carro qualsiasi. Siamo una compagnia ad altissima efficienza, dotati di sistemi di combattimento all’avanguardia. Pochi ma buoni, si fidi.” 
“Pochi ma buoni un corno. Questi sono siberiani. Fanno sul serio. Stia attento.” Mi ammonì, lanciandomi uno sguardo carico di disprezzo. Ero convinto che il mio charme e la mia parlantina da conquistatore di folle lo avrebbe convinto, invece mi sbagliavo. Mi abbandonò affranto al mio sporco mestiere, tornando a fumare la pipa in quello spiazzo d’erba che definivano accampamento. 
Tra i veterani di quella linea di fronte circolavano le peggio leggende. Si diceva che quei russi selvaggi divorassero i cadaveri dei nemici. Ciò allettava le disgustose e perverse fantasie di Maik, che vedeva in quel tipo di nemico una specie di bestia selvaggia da uccidere, impagliare ed esibire in salotto come fosse una testa di cervo.
 
 
In tutto quel trambusto avevamo un’ottima visuale dell’ambiente circostante: appostati su una specie di collinetta, i soldati avevano eretto una trincea di fortuna scavando un fosso e recintandolo di pali appuntiti. Da lì potevamo osservare la vallata che conduceva ad irti boschi di pino ed un piccolo villaggio squassato dalla guerra, oramai abbandonato. 
“Abbiamo a che fare con delle bestie” mi disse un soldatino emaciato con l’elmetto piegato da un colpo d’arma da fuoco, mentre riempiva il fossato con dell’acqua. Ne avevo visti tanti di fronti ma quello rasentava la pugna medievale. 
In questo contesto continuavo a non capire perché avessero richiesto la presenza di alcuni carristi per un fortino di fortuna. La Furia era tragicamente incespicata sul colle, un po’ triste in compagnia di quei tre Stug e del carro russo ridipinto. 
In serata venni convocato dal Comandante di Compagnia. Aggrottato in un malcontento meditabondo, l’uomo osservava una cartina disegnata a mano, fumando la sua pipa vuota. 
“Dunque”, Disse, inspirando il non-fumo “Voi vi posizionerete qua. Uno per lato in protezione dell’accampamento. Non faticherete a riconoscere il nemico. Indossano una folta pelliccia bruna, talvolta bianca o grigia. Non uscite dai carri e, soprattutto, non mostrate loro paura. Punteranno alle vostre gole, poco ma sicuro. Amano combattere corpo a corpo. Se verrete colpiti, piantate loro un coltello in pancia e cercate di coprire la ferita. Amano l’odore del sangue. 
“E’ tutto. Tra dieci minuti in postazione, attaccano ogni notte. Sono arguti” 
Sembravano terrificanti, non c’era ombra di dubbio. Ma la faccenda puzzava più di tutti noi messi assieme. Data la pericolosità della missione, decidemmo all’unisono di non far utilizzare a Maik la mitraglietta esterna, ma lui si rifiutò categoricamente, preferendo una dignitosa morte sbranato da un selvaggio siberiano piuttosto che un vile riparo. 
Calò la notte.
Acquattati nei nostri carri aspettavamo l’arrivo del nemico.
 “Pelliccia bianca o grigia. Brutali e violenti. Sparare senza esitazione” Ripetei ai miei uomini. Eravamo piuttosto rilassati. Per precauzione ci eravamo sparati un paio di pastiglie. Andava tutto bene. 
Posizionati alla destra dell’accampamento, osservavamo la vallata silenziosa. 
“Intravedo il giallo dei loro occhi” Mugugnò Becker dall’altra parte della linea, preparandosi a fare fuoco. 
Era tutto pronto. 
La battaglia stava per iniziare.
 
╬ 
 
Fin quando non ci accorgemmo che il selvaggio nemico siberiano non era altro che un nutrito gruppo di lupi famelici che intelligentemente avevano imparato a penetrare nelle nostre linee per divorare i nostri uomini. Fu umiliante per noi sparare a delle bestie. Erano numerosissimi, certamente, ma rimanevano sempre lupi. E fu ancora più disdicevole quando scoprimmo che molti uomini erano periti sotto le loro zanne e trascinati nel folto bosco. 
“Capitano, io mi rifiuto! È umiliante!” Disse Tom, abbandonando la sua postazione. 
“Non provi a disertare, Weisz” Lo rimproverai. Il giovane mugolò insoddisfatto, prima di tornare a stiracchiarsi come un gatto nella sua poltrona da pilota. 
“Starò bravo e tranquillo a dormire finché questa puttanata non sarà finita “Si calò il cappello e schiacciò un lungo pisolino. Non che noi avessimo molto daffare: dopo un’ora di sparatoria decisamente diluita i lupi si erano più che dimezzati, nonché ritirati nei boschi. 
Fingemmo di continuare a sparare di comune accordo. A rotazione, ogni mezz’ora, un carro diverso doveva sparare un colpo di cannone, fingendo un combattimento in corso. Il resto dell’equipaggio poteva dormire scomodamente. 
Quando finalmente giunse l’alba i fuochi cessarono. Molti lupi giacevano a terra e tra i nostri si contavano una decina di dispersi, frutto della selezione naturale, immagino. Maik insistette per recuperare una bestia dal manto particolarmente bello. Non riusciva a concepire il fatto che non fossero veri nemici ma animali. Per lui restavano russi, per questo decise di conciarne uno e ricavarci un cappotto. 
Il Comandante, stranamente ben riposato, ci chiamò nuovamente, complimentandosi con noi per il nostro efficace lavoro, nonostante fossimo
numericamente inferiore. 
“Così quei bastardi smetteranno di attaccare ogni notte. Non potete immaginare quante perdite abbiamo subito in questi ultimi giorni”
Questa volta fui io a lanciare uno sguardo di pietà ai miei sottoposti, cane compreso, i quali ricambiarono con uno sguardo carico di comprensione.
Com’era folle il mondo.
 
 



 
Note finali:
*Balkenkreuz: Croce di ferro stilizzata, simbolo della Wermacht, ovvero le forze armate tedesche. 

**Forse qualcuno interessato all'arte conosceva quel pittore e gli aveva dato quel soprannome in senso dispregiativo, viste le doti decisamente poco artistiche del carrista. All'epoca tutta l'arte che non era classica, soprattutto quella di avanguardia, veniva considerata bandita e.…intascata dai gerarchi nazisti, nonostante venissero disprezzate. Contestualizzato nella loro epoca, quindi...
***Chissà perché eh. Immagino fosse perfettamente invisibile. Spero almeno che non si trattasse dell'elmetto a punta.
 
 
   
 
Leggi le 5 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: PawsOfFire