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Autore: _Frame_    22/01/2017    6 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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N.d.A.

Il discorso di America conserva e rielabora alcuni punti di quello originale pronunciato da Franklin D. Roosevelt il 29 dicembre del Quaranta, il famoso “Arsenale della Democrazia”. Ovviamente l’ho completamente riscritto – almeno cinque volte, urgh – cercando di riadattarlo “alla Alfred”. Ho deciso di farglielo pronunciare il 25 perché mi piaceva l’atmosfera natalizia che mi sembrava particolarmente adatta per fare da sfondo a una scena del genere.

E con questo capitolo concludiamo il Quaranta, signori! Se penso a tutto quello che ci aspetta con il Quarantuno mi viene abbastanza male. E me ne viene ancora di più se penso che poi mancheranno altri quattro anni di guerra. (^-^") Cercherò di andare avanti con la calma di sempre, evitando di pensare a quel gustosissimo bicchiere di cicuta che chiama il mio nome dal terzo ripiano del frigorifero.  

Buona lettura!


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112. Libertà e Democrazia

 

 

25 dicembre 1940

 

Inghilterra raggiunse il bavero della giacca di America, glielo ribaltò per aggiustare le pieghe del tessuto, infilò i bottoni nelle due asole facendogli sollevare il mento per non rimanere strozzato, e strinse il nodo alla cravatta rossa strappandogli un mugugno di disapprovazione.

America guardò in basso stando con il capo chino all’indietro, alto sulle punte dei piedi per tentare di rimanere a distanza. Posò gli occhi sulle mani di Inghilterra che continuavano ad aggiustare le pieghe fra i bottoni della camicia e a lisciare le spalline della giacca indaco. Storse un sopracciglio. “Mi spieghi perché ho dovuto mettermi la giacca elegante?” Voltò lo sguardo, piegò un braccio dietro la spalla e agitò le dita per raggiungere la scapola e grattarsela, dove già sentiva prudere la stoffa. “È un discorso alla radio, nessuno mi vedrà o baderà a come sono vestito.”

Inghilterra sfilò una mano dal bavero della sua giacca e gli diede un soffice colpetto in mezzo ai capelli. “Zitto.” America sbuffò, Inghilterra lo fece voltare di profilo, tirò leggermente la stoffa della giacca lungo i fianchi per non far vedere il tessuto della camicia bianca e annuì a se stesso, soddisfatto. “Serve per trasmetterti l’atteggiamento dignitoso e diplomatico che dovrai tenere durante tutta la durata del discorso.” Fece un passetto all’indietro, incrociò le braccia al petto e flesse la testa di lato, squadrando America da capo a piedi. Piegò un mezzo sorriso, l’occhio senza benda brillò di soddisfazione. “Ecco fatto. Non ci voleva tanto per metterti elegante, no?”

America arricciò un broncio da bambino, strinse un orlo della giacca, lo rigirò guardandolo storto, e si voltò per grattarsi la scapola che continuava a prudere.

Canada sgusciò in mezzo a due dei tecnici della radio che erano chini sui pannelli, le cuffie attorno al collo e un blocco di appunti su cui uno stava scribacchiando, bisbigliò un “Scusate” che nessuno sentì e si avvicinò a Inghilterra e ad America. Zampettò alle spalle di Inghilterra mettendosi più in luce e tenne le mani strette in grembo, anche lui chinò lo sguardo facendo correre gli occhi sulla giacca di America. “Inghilterra ha ragione,” disse, mostrando un sorriso dolce. “Il completo ti dona, America. Dovresti indossarlo più spesso.”

America gli scoccò un’occhiata stupita, sollevò il sopracciglio. “Dici?” Tornò a guardarsi la schiena e piroettò di mezzo giro su se stesso.

Un uomo aprì la porta della camera di registrazione, abbassò i fogli che teneva sollevati davanti al viso e mostrò un indice ad America. “Un minuto, signore.” E tornò dentro richiamato da un secondo uomo.

America saltò sulle punte dei piedi e impennò un pollice al soffitto. “Okay!” esclamò.

Inghilterra prese un profondo respiro di coraggio. Il cuore accelerò i palpiti, si gonfiò di ansia, lo stomaco cominciò a formicolare, brividi di agitazione e nervosismo attraversarono il sangue e i muscoli, gli fecero annodare il respiro in gola. Guadagnò un’altra boccata d’aria per calmarsi. “Ora.” Avanzò di un passo verso America e gli strinse le mani sulle spalle, facendolo voltare verso di lui. Dovette salire sulle punte dei piedi per fronteggiarlo e guardarlo dritto negli occhi. “Tutto quello che dovrai fare è rimanere calmo e composto, e seguire le parole del discorso che abbiamo pensato assieme.”

America sollevò il mento, inorgoglito. “Io sono calmo. Sei tu quello che si agita.”

Inghilterra fece scivolare i palmi dalle sue spalle e restrinse le dita davanti al petto, ricominciando a tremare di nervosismo. La sua voce si inacidì di angoscia. “Mi agito perché stiamo mettendo questa responsabilità nelle tue mani.” Divenne scuro in viso, aggrottò le sopracciglia sopra la garza che teneva tappato l’occhio malato, e quello sano fulminò America come a volerlo trapassare. “Perché tutto il mondo se ne starà con le orecchie appiccicate alla radio e anche una tua minima sillaba fuori posto potrebbe – blergh!” Rigettò un fiotto di sangue che riuscì a fermare tappandosi una mano sulla bocca. Tossì tre volte di seguito, le guance sbiancarono, violenti tremori gli aggredirono la schiena e indebolirono le gambe, e lui si dovette piegare in due stringendo il braccio libero allo stomaco per placare i dolori. Tossì ancora. Rivoletti rossi gocciolarono fra le dita schiacciate alle labbra.

Canada si affrettò a sfilare un fazzoletto di stoffa dalla tasca della giacca e glielo porse, gli batté delicatamente una mano fra le scapole. “Non ti sforzare,” mormorò.

Inghilterra raccolse il fazzoletto, si asciugò un rivolo di sangue che era scivolato fino al mento, e si premette la stoffa alla bocca. Ringhiò di frustrazione, tornando rosso sulle guance, e i suoi tremori finirono soffocati dal tessuto.

America si sporse a raccogliere i tre fogli di appunti posati sul tavolo davanti ai pannelli di comando, sotto il vetro che dava sulla camera di registrazione. Sfogliò le carte, rilesse i punti del discorso, e piegò le sopracciglia in un’espressione delusa e abbattuta. “Però la gente si accorgerà se sto leggendo.” Sfogliò un’altra carta.

Inghilterra si tolse il fazzoletto dalla bocca – una macchia scarlatta ne imbeveva la stoffa – e tornò a trapassare America con uno sguardo appuntito e tagliente, anche se lanciato con un occhio solo. “E tu cerca di non farlo notare,” gorgogliò. La bocca sapeva ancora di sangue.

America sgranò le palpebre e gli occhi si illuminarono come se si fosse accesa una lampadina nel cervello. “Oh, ho trovato!” Rimbalzò davanti a Inghilterra, sollevò il braccio che reggeva i fogli, e allargò un sorriso da guancia a guancia. “E se mi inventassi un discorso sul momento?”

Inghilterra sbiancò, poi tornò nero. Aggrottò la fronte, strinse i denti fino a far stridere lo smalto, e stritolò il fazzoletto fra le unghie. “Non. Ci. Provare.”

America abbassò il braccio e tornò a gonfiare il broncio da bambino insistente. “Ma perché no?”

“America.” Inghilterra prese un respiro lungo e profondo che scese fino allo stomaco, placando i tremori. Ripiegò il fazzoletto sporco di sangue, lo infilò in tasca, e tornò ad agguantare le spalle di America. “Le tue parole potrebbero influenzare in maniera permanente l’opinione globale di questa dannata guerra, potrebbero sconvolgere o incoraggiare nazioni intere,” sollevò la fronte e lo guardò negli occhi, restrinse solo una palpebra, “e non possiamo permetterci nemmeno un passo falso.”

America gli mostrò uno sguardo offeso e deluso. “Non ti fidi di me?”

Inghilterra fece roteare lo sguardo, pronto a ribattere, ma la vocina di Canada si intromise fra loro.

“Ehm.” Canada sollevò le mani con un gesto cauto e timido per tenerli separati, mostrò ad America un sorriso di rassicurazione. “America, io credo che Inghilterra volesse dire che –”

“Siamo pronti, signore.”

L’uomo che lo aveva chiamato prima era tornato fuori dalla sala di registrazione. Tenne la porta aperta con la mano che reggeva altri fogli di carta stampata, e si mise in disparte invitando America a entrare.

Inghilterra sospirò, si massaggiò la fronte e fece correre la mano fra i capelli, strofinandosi dietro l’orecchio. “Non combinare qualche disastro dei tuoi.” Tirò di nuovo fuori il fazzoletto ripiegato dalla tasca della giacca e soppresse due colpi di tosse più fiochi, camminò verso la parete sfilando accanto a Canada e passando in mezzo a due dei fonici che si erano già messi davanti al pannello incastonato sotto il vetro divisorio.

America tornò a guardarsi la giacca sia davanti che dietro, allargò la cravatta che gli pizzicava la gola, rigirò due dei fogli che teneva fra le mani, rilesse un paio di righe, e corrugò lo sguardo in un’espressione dubbiosa. Abbassò le carte e scoccò un’occhiata a Canada. “Tu che ne dici?”

Canada si strinse nelle spalle, abbassò subito gli occhi e si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. “Io...” Stropicciò le dita fra loro. “Penso che dovresti fidarti di Inghilterra,” mormorò. Prima che America potesse far roteare gli occhi al cielo, Canada riguadagnò il sorriso. “Però...” Sollevò lo sguardo sorridente e batté le mani davanti al petto. “Però potresti anche sfruttare questa occasione per far sì che anche Inghilterra abbia modo di fidarsi di te.”

America sbatté due volte le palpebre, incuriosito. “Fidarsi di me?” Tenne gli occhi alti al cielo e si batté la punta dell’indice sul labbro inferiore, pensoso. Fidarsi, mh?

“Tra un minuto in onda, signore.”

America scosse il capo per disincantarsi e fece un balzo verso la porta aperta della saletta. “Eccomi!” Corse dentro.

Canada andò a mettersi accanto a Inghilterra, vicino al fonico, al tecnico e al direttore che già si trovavano dietro i pannelli, davanti al vetro rettangolare che dava sulla saletta di registrazione. Fogli sparpagliati coprivano i comandi di registrazione, le file di manopole e le piccole leve. Il fonico si chinò sul pannello e le cuffie gli ciondolarono dal collo, il suo braccio si tese e raggiunse una delle manopole, la girò lentamente facendo partire un sottile fischio.

America raggiunse il centro della saletta, da solo, e si mise davanti al microfono sorretto da un’asta d’acciaio. Mise in ordine i suoi fogli, riportò la prima pagina davanti alle altre e abbassò gli occhi sugli appunti del discorso, le labbra piatte, gli occhi scuri e seri, concentrati dietro le lenti.

Inghilterra prese un lungo respiro, strinse le braccia annodate al petto, e chiuse l’occhio sano contenendo una piccola smorfia di ansia che gli fece vibrare la bocca. Ti prego, non fargli fare cretinate. Ti prego, non fargli fare cretinate!

Canada si sporse con le spalle in avanti e gli rivolse un’occhiata apprensiva che Inghilterra non vide.

Il direttore aprì una mano verso il vetro, fece segnale ad America. “Meno cinque,” abbassò un dito alla volta, “quattro, tre, due, uno...” Tagliò l’aria con un gesto netto della mano.

Bling!

Una spia rossa si accese sopra il vetro divisorio della stanza di registrazione.

America chiuse gli occhi, guadagnò un respiro profondo, raddrizzò le spalle e strinse le mani attorno ai fogli che reggeva davanti al petto. Riaprì le palpebre, e il suo sguardo rivolto al microfono si fece intenso e profondo, splendette di un blu limpido e caldo, nonostante il riflesso freddo della lampada artificiale.

“Cittadini,” cominciò, “Popolo Americano e Popolo del Mondo.” Sbirciò la prima pagina che reggeva fra le mani. “I recenti avvenimenti che hanno colpito e sconvolto i pacifici equilibri globali mi spingono a...” Un primo brivido di disapprovazione gli attraversò la pelle, lo spinse a mordersi il labbro.

Lo sguardo di America volò d’istinto fuori dal vetro, superò le figure di fonico, tecnico e direttore, e incrociò il viso di Inghilterra. Inghilterra corrugò leggermente la punta del sopracciglio scoperto, gli fece un piccolo cenno con il mento e fece roteare la mano, dicendogli di andare avanti.

America rimase a labbra socchiuse, lo sguardo sbiadì nell’indecisione. “A...” Spostò gli occhi su un viso più rassicurante.

Canada gli sorrise. Un sorriso piccolo e tenero, un po’ complice, che America sentì arrivare come una spintarella di incoraggiamento sulla spalla.

America allargò il sorriso smagliante, gli occhi brillarono di entusiasmo, e ricambiò lo sguardo di complicità. Agguantò il microfono e lanciò i fogli sopra la spalla. “Mi spingono a sbarazzarmi di questo discorso e a parlarvi faccia a faccia.” Le carte svolazzarono depositandosi ai loro piedi.

Inghilterra divenne verde in viso. Si strinse le mani fra i capelli, cacciò un grido muto che lo fece rimanere a bocca aperta, e le dita scivolarono lungo le guance, tremarono contro il viso diventato bianco come farina. Barcollò di un passetto di lato e Canada gli resse le spalle, lo tenne in piedi per evitare che piombasse svenuto sul pavimento.

America tornò a mento alto e schiena dritta, petto all’infuori, mano stretta all’asta del microfono e tono deciso. “Compagni,” riprese, “alleati, amici, e anche nemici che stanno causando questo conflitto.” Rivolse l’indice al microfono. “Ascoltatemi molto attentamente perché ho qualcosa di estremamente importante da dire a tutti voi.”

Guadagnò un altro respiro profondo, placò il tono di voce troppo squillante, riaprì le palpebre e mostrò di nuovo quegli occhi profondi, quello sguardo serio e maturo che non sembrava nemmeno il suo.

“Il mondo è in guerra.” Scosse il capo. “Purtroppo non esistono parole più semplici o meno dure per spiegarlo chiaramente. È una realtà crudele, che molti di noi non meritano di vivere sulla propria pelle, ma che deve comunque essere affrontata con coraggio e realismo. Nasconderla non servirà a nulla, anzi, infonderà ancora più paura nei vostri animi che invece devono essere forti e coraggiosi per affrontare questa lotta e per trovare la forza di porle fine.”

Inghilterra riaprì l’occhio sano, sbirciò da dietro le dita che aveva schiacciato in viso per non guardare. Riprese un po’ di colorito sulle guance, si risollevò dalle braccia di Canada ma rimase appeso a una sua spalla. Canada gli diede una soffice pacca di rassicurazione, rimase con un braccio attorno alla sua schiena e gli rivolse lo stesso sorriso tranquillo che aveva mostrato ad America.

America sventolò l’indice contro il microfono. “Quello che sto per fare non sarà un discorso politico, ma un appello. Un appello che invoca la libertà, l’indipendenza e la democrazia, affinché tutte le nazioni e i popoli del mondo possano convivere nel giusto equilibrio e in una pacifica armonia che tutti desiderano.”

Ritirò la mano e se la batté sul cuore.

“Le mie parole potranno sembrarvi brutali,” scosse il capo, mostrò uno sguardo duro ma sincero, “ma non mi farò prendere dalla paura di mettere le mie idee in faccia a quelli che stanno causando questo conflitto.”

 

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Giappone rivolse la punta della stilografica alla cartina geografica illuminata dal riverbero della lampada. L’ombra della penna scavalcò la porzione azzurra di mare che si infilava fra gli arcipelaghi, e posò la sua punta sulla sezione centrale di Ford Island, un rettangolo grigio in mezzo al verde. Tamburellò l’estremità biforcuta macchiata di nero sulla lettera ‘D’ e la spostò verso l’estremità nord, dove piccoli quadratini accostati l’uno all’altro erano contrassegnati dall’insegna ‘Hangar’. Giappone premette la stilografica sulla carta e tracciò un cerchio di inchiostro nero attorno alle costruzioni affacciate al mare del porto. 

Davanti a lui, oltre i fascicoli ammassati sulla scrivania, celata dietro la penombra della lampada che brillava sulle carte, la radio continuò a parlare con la voce leggermente insabbiata di America. “Il nostro mondo sta affrontando una crisi senza precedenti,” disse. “Una crisi che, se non verrà fermata, potrà condurre alla fine della libertà per come l’abbiamo sempre vissuta.”

Giappone sollevò gli occhi dalla mappa, le punte dei capelli corvini gli sfiorarono le palpebre socchiuse, ombreggiarono il viso che rimase placido e disteso, senza una ruga. Scoccò un’occhiata buia alla radio, rimase in silenzio, e andò a cerchiare un’altra insegna ‘Hangar’, quella accanto alla pista di decollo di Hickam Field.

“Una libertà che appartiene di diritto a ogni uomo e a ogni nazione, fin dal momento della sua nascita,” proseguì la squillante voce di America. “E questa libertà sta per esservi negata.”

La punta della stilografica scivolò più a sud, scavalcò i depositi petroliferi impiantati fra le residenze e l’ospedale militare, e raggiunse la costa del porto navale. ‘Stazione navale US’. Giappone cerchiò anche quella.

“È una crisi, gente,” esclamò America, “una situazione complicata! Ma le crisi non vanno nascoste, non vanno accantonate e tantomeno ignorate, perché purtroppo non se ne vanno da sole. Vanno affrontate! E per farlo saranno necessari solidarietà, coraggio e spirito d’unione: gli stessi poteri che ci hanno sempre aiutato quando si è trattato di far fronte anche alle crisi del passato, sia politiche che sociali.”

Giappone non riuscì a fare a meno di levare gli occhi al soffitto, in un gesto compassionevole. Tornò alla mappa. Indirizzò la penna nell’insenatura che componeva la base dei sottomarini, tamburellò la punta sollevando il sopracciglio, l’aria pensosa, e passò oltre, segnando con una freccia i secondi depositi petroliferi rappresentati da una doppia fila di cerchi bianchi. Buttò l’occhio sulla pila di fascicoli alla sua sinistra, quelli raccolti davanti alla radio che continuava a parlottare nel silenzio con quel suono sgranato, e sollevò l’angolo della prima cartella gialla, svelando la tabella dati a cui era pinzata l’immagine di un aerosilurante Nakajima B5N ‘Kate’. Infilò il pollice fra i fogli, scartò anche le tabelle di un Mitsubishi A6M2 ‘Zero’ e di un Aichi D3A1 ‘Val’.

“Ebbene,” disse America, ingrossando la voce, “io oggi invoco per ben due volte il vostro aiuto e il vostro coraggio, perché mai fino a questo momento il mondo libero che ci appartiene si è trovato così in pericolo.”

Giappone richiuse il fascicolo, l’ala di carta si abbassò soffiando uno sbuffo di aria che fece sventolare la mappa già macchiata dai cerchi che aveva tracciato prima. Girò la stilografica, posò l’estremità arrotondata all’entrata dello stretto del Canale di Ford Island, e percorse la strozzatura tracciando una traiettoria invisibile verso lo sbocco di destra che circumnavigava l’isoletta. Nel movimento, il peso della croce di ferro scivolò fuori dalla manica della giacca e gli batté sul polso, scintillando sotto il riverbero della lampadina. Giappone aggrottò un sopracciglio, sollevò l’estremità arrotondata della penna dalla mappa e se la tamburellò sul labbro inferiore. Lo sguardo pensoso tracciò a mente il percorso che toccava tutti i punti cerchiati dalla penna.

“Lo scorso ventisette settembre si è mosso un importante quanto allarmante passo che potrebbe portarci a questa tremenda e pericolosa fine,” continuò la voce di America. “È accaduto, infatti, che tre potenze mondiali, due europee e una asiatica, hanno unito le loro forze con un unico obiettivo: il totale dominio del mondo.”

Giappone bloccò il movimento del polso, la mano irrigidì attorno alla penna, le unghie stridettero sulla vernice, e tirò su lo sguardo lanciando un’occhiata fredda alla radio. Gli occhi neri e profondi brillarono come punte di coltelli, le fini estremità delle sopracciglia si flessero in una sottilissima ruga di irritazione. 

“Il loro scopo è prendere possesso delle nazioni altrui, e sono disposti a usare anche la forza per ottenere questo dominio.” America alzò ancora la voce in un duro tono di accusa. “Pretendono di governare sui popoli che non li accettano, unificandoli in nome di quella che loro chiamano ‘pace globale’.”

Lo sguardo di Giappone divenne di pece. Assottigliò le palpebre, creando una maschera d’ombra sotto le ciocche della frangia, e un barlume scarlatto attraversò le iridi, le fece risplendere come lame di sangue. La mano strinse attorno alla penna, la pelle gemette.

Forse non si rende conto di quanto la sua ingenuità sia ben più pericolosa della nostra forza per il bene della sua nazione.

“Lo ammetto, lo ammetto,” disse America, “è una teoria interessante se ci pensate in un primo momento, giusto? Creare un unico popolo che abbia la forza e il dominio supremo su tutte le nazioni del mondo, in modo che le nazioni stesse non si facciano più la guerra fra di loro.”

Giappone sospirò e scosse il capo, chiuse gli occhi che tornarono neri e placidi come pozze di inchiostro. Subirai sulla tua pelle le tue stesse parole, America. Posò la stilografica sul tavolo, prese in mano la mappa geografica su cui aveva segnato i cerchi e la traiettoria invisibile, e la portò sotto il fascio della lampada. Poi temo che anche la tua voglia di parlare così tanto finirà sepolta assieme a te.

La luce abbagliò l’insegna che troneggiava sulla cima della pagina, sopra l’arcipelago di isole hawaiane.

 

PEARL HARBOR – 真珠湾攻撃(しんじゅわんこうげき)

 

Giappone trattenne il fiato, strinse leggermente le dita sull’orlo del foglio, sentendolo pesare e pulsare come la sua croce di ferro allacciata al polso. Un guizzo di eccitazione gli solleticò il cuore, anche se il viso rimase piatto e composto come una maschera di vetro.

La voce di America ormai era lontana, insignificante. “Ebbene io vi prego di non lasciarvi abbindolare da queste idee, gente.”

 

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“È giusto desiderare una pace fra popoli, ma è sbagliato chiedere a quegli stessi popoli di sottomettersi in nome della pace stessa.”

Russia sollevò un sopracciglio, lo sguardo si fece più attento, gli occhi più profondi e intensi, catturati. Intrecciò le mani sotto il mento, rimanendo poggiato con i gomiti sul tavolo, e rivolse il viso alla radio accostata al muro, accanto al caminetto che bruciava riflettendo il colore delle fiamme sulle pareti e spandendo un delizioso profumo di resina bollente. Bielorussia si sporse dalla sua sedia, fece scivolare le braccia lungo il tavolo e si strinse al gomito di Russia. Si accoccolò al suo fianco, reclinò la testa sulla sua spalla, facendo fluire i capelli dalla guancia, e anche il suo sguardo buio e freddo volò in direzione della radio. 

“Questa non è pace,” esclamò America. Anche le fiamme del caminetto parvero gonfiarsi e diventare più luminose, ruggendo nel silenzio. “È un ricatto e basta!”

Lettonia richiamò le mani che aveva teso e aperto davanti al calore del caminetto, per intiepidirle, e le chiuse contro le cosce. Strisciò di un passettino più vicino alla radio, avanzando con le ginocchia piegate a terra, e raggomitolò le ginocchia al petto facendosi più piccolo. Restò seduto accanto al caminetto, illuminato dalla danza delle fiamme rosse e arancio, con gli occhioni da cerbiatto che luccicavano di speranza e di timore.  

La radio continuò a parlare. “Toglie la libertà di scegliere a chi e a cosa appartenere, vi toglie la stessa idea di identità.”

Gli occhi di Lettonia si riempirono di una luce avvilita. Lettonia sollevò lo sguardo, lo rivolse a Estonia, in piedi accanto al caminetto, le braccia strette attorno alle spalle, la sua stessa espressione tesa dipinta sul volto. Un brivido attraversò la schiena di Estonia, gli scosse il corpo, e lui rivolse lo sguardo a Lituania, in piedi accanto alla finestra ghiacciata dalla nevicata che turbinava scricchiolando contro i vetri. Lituania sospirò, scostò gli occhi dalla radio e da Estonia, si strinse nel suo angolino di parete, e si strofinò la nuca gettando lo sguardo a terra, con aria impotente.

“Secondo l’Asse,” proseguì America, “la pace non potrebbe mai esistere fra popoli, filosofie e governi differenti, e questo è un affronto al concetto stesso di libertà.”

Anche Ucraina si lasciò catturare da quelle parole. Abbassò la tendina che aveva sollevato per scrutare la nevicata fuori dal palazzo, strinse Moldavia al petto con entrambe le braccia, raggomitolando il corpicino addormentato contro la sua spalla, e si voltò verso la radio. Gli occhi larghi di speranza, ammirati.

La voce di America si gonfiò di orgoglio. “Le differenze esistono non per essere eliminate, non per averne paura, ma per essere valorizzate e sfruttate a favore di tutti noi, anche di quelli che non le comprendono.”

Russia sollevò gli angoli delle labbra in un fine e appuntito sorriso che sfiorò le pieghe della sciarpa, infossato dalle luci rosse del caminetto. Trillò una risata divertita e compassionevole. “Che piccolo idiota.” Sollevò i gomiti dal tavolo – Bielorussia sempre stretta al suo avambraccio, il capo a riposare sulla sua spalla – e lanciò un’occhiata più scura alla radio. “Tanto potere in mano a uno come lui,” mormorò, “che non sa nemmeno come sfruttarlo.”

Bielorussia piegò un sorriso più maligno, assottigliò gli occhi, e si strinse al braccio di Russia. “Tanto ci penseremo noi a strapparglielo dalle mani.”

Ucraina rivolse a entrambi un’occhiata afflitta e avvilita, il cuore le si gonfiò di dolore. Inspirò a fondo stringendosi Moldavia alla spalla, accostò la guancia a quella del piccolo, tiepida e rigonfia di sonno. Moldavia dormiva con le gambe raccolte fra i gomiti di Ucraina, un braccino stretto al petto e uno che pendeva dietro la spalla di lei, il visetto girato e le labbra socchiuse da cui sbucava la scintilla di un canino aguzzo. Ucraina gli passò soffici carezze fra i capelli che profumavano di aghi di pino, rimase in silenzio assieme a tutti gli altri, lasciando che la radio continuasse a parlare accompagnata solo dallo scoppiettare del fuoco e dal fischio del vento ghiacciato.

“C’è chi sta già combattendo valorosamente per contrastare questi falsi ideali, come il valoroso popolo britannico che ci protegge ogni giorno e che impedisce che le malvagie potenze dell’Asse invadano anche l’Atlantico. Oppure il coraggioso popolo greco che proprio mentre vi sto parlando sta affrontando la sfida più grande di tutte: la lotta per la difesa e la salvaguardia della propria casa, della propria terra.”

I tre Baltici si guardarono di istinto, senza nemmeno pensarci, ma si separarono subito. Lettonia tornò con gli occhi a terra, rivolti in mezzo alle ginocchia premute sul pavimento, e i pugni tremanti poggiati sulle cosce. Estonia strinse di più le braccia attorno alle spalle, si strofinò il brivido che era tornato a passargli attraverso le ossa, e chinò gli occhi calando un’ombra di colpevolezza dietro le lenti. Lituania sospirò e tornò a guardare fuori dalla finestra. Gli occhi calmi ma forti racchiusero il riflesso dei vortici di neve, arsero come le fiamme che ondeggiavano nel caminetto. Difesa e salvaguardia della propria casa, della propria terra. Riaccesero la voglia di continuare a lottare.

“E anche in Asia il popolo cinese sta dimostrando tutto il suo onore nella lotta contro l’avversario giapponese,” esclamò America.

Ucraina fece un’altra carezza alla testolina di Moldavia, lo cullò tenendo le braccia avvolte al fagottino addormentato, e rivolse un tiepido sorriso a Russia e a Bielorussia. “Io lo trovo molto nobile e coraggioso da parte sua.”

Bielorussia sbuffò, si strinse a suo fratello e rivolse al muro quell’occhiata inacidita. Russia si sporse di lato per allontanarsi dalla sua presenza soffocante, ma Bielorussia non lo lasciò andare.

Ucraina rivolse gli occhi alla radio, pettinò un codino di Moldavia, e una curva di dolcezza le toccò il sorriso, lo rese più morbido e luminoso di speranza. “Un mondo dove possiamo tutti vivere in armonia,” disse, “senza doverci fare del male, o lottare per poteri e territori.” Carezzò Moldavia lungo la curva della sua schiena e chiuse gli occhi, immaginandoselo. “Sarebbe bello se si avverasse davvero quello in cui crede.”

“Vuoi fargli compagnia?” scattò Bielorussia. Tirò su il capo e indicò l’uscita della camera piegando la testa di lato. “Accomodati, va’,” ringhiò. “Sai che perdita.”

“Sorellina.” Russia le posò una mano sulla testa, Bielorussia si calmò come una fiamma in cui hanno gettato un pugno di neve. Tornò a sguardo basso, ancora nero, e gorgogliò un lamento scocciato tenendosi rannicchiata accanto al fianco di Russia.

America continuò a sparare sentenze attraverso la voce della radio. “A tutte queste nazioni coraggiose va e andrà sempre il sostegno degli Stati Uniti d’America e di tutte quelle nazioni nostre alleate che credono nella libertà.”

Lo sguardo di Russia divenne gelido, il sorriso a tenergli incurvate le labbra, gli occhi sottili e affilati, bui come un cielo notturno, e il colore delle fiamme che brillava danzando sul pallore del suo viso, scintillando fra le palpebre.  

Non vedo l’ora di poter giocare anche con te, America.

Un brivido di entusiasmo ed eccitazione gli fece ribollire il sangue, il cuore batté un palpito profondo che formicolò in tutto il corpo, gli fece prudere le mani.

Ma io non sarò l’unico da cui riceverai un bel paio di schiaffi in faccia.

 

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Cina immerse le punte di tre dita nel barattolo di balsamo aperto davanti alla radio posta sul ripiano. Raccolse l’unguento che aveva la consistenza di cera molle, lo scaldò fra i polpastrelli spandendone il forte e pungente aroma di erbe, e lo avvicinò al viso, volgendo la guancia ferita allo specchio davanti a lui. Il taglio della katana non era ancora guarito. Cina tese leggermente la pelle, sfiorò la ferita percorrendone il profilo diagonale che partiva da sotto la palpebra inferiore e attraversava lo zigomo fino a toccare il lobo dell’orecchio. La pelle era più rossa e gonfia, livida attorno alle labbra del taglio bianco, che aveva smesso di sanguinare.

Cina spalmò il balsamo sull’estremità più alta della ferita, poco più sotto la palpebra, e la sensazione di fresco gli punse la pelle viva come il tocco di tanti aghi. Strizzò la palpebra e contenne una smorfia arricciando il naso, i forti vapori delle erbe bruciarono l’interno dell’occhio facendolo lacrimare.

“Tuttavia,” esclamò la voce di America che parlava attraverso i fori della radio, “se pensate che la cosa non riguardi voi perché vivete qua al sicuro in America, oppure in Australia, o in Antartide, o in mezzo al deserto, vi sbagliate di grosso!”

Cina buttò lo sguardo alla radio, fermò la mano sporca di balsamo sopra la ferita, inarcò un sopracciglio, scettico, e tornò a spalmarsi un’altra ditata di unguento rivolgendo gli occhi al suo riflesso dentro lo specchio.

“Tutto il mondo è coinvolto in questa lotta,” disse America, “ed è dovere di ogni nazione del mondo far sentire la propria voce in questa guerra. Gli uomini compongono i popoli, i popoli compongono le nazioni, e le nazioni compongono il mondo.”

Cina fermò le dita unte ancora premute sopra il profilo della ferita che era diventata più calda e gonfia sotto il tocco del balsamo. Tornò a sollevare un sopracciglio in uno sguardo più attento e meno scettico, e rivolse quell’espressione alla radio accanto allo specchio.

“Ed è per questo che ogni uomo ha il sacro dovere di difendere la pace, a partire da te che in questo momento stai ascoltando la radio.”

Cina diede l’ultima spalmata lungo la ferita, contenne un sottilissimo gemito quando le dita toccarono un punto più sensibile – gli parve di essersi infilato la punta di un ago dentro la carne – e raggiunse il rotolo di benda accanto alle forbicine e al nastro del cerotto. Stese la garza sopra la ferita unta di balsamo alle erbe, la fece aderire, inumidendola, e tagliò con le forbicine una porzione rettangolare grande poco più del lacero.

America proseguì il monologo. “Se le Potenze dell’Asse fossero in grado di impadronirsi dell’Europa, dell’Asia, dell’Africa, dell’Australia e anche dell’America, allora entreremmo in una nuova e terribile era nella quale l’intero mondo verrà governato da queste forze malvagie alle quali dovremmo piegarci.”

Cina abbassò le forbicine, tenne la garza premuta al taglio facendovi aderire il palmo, e le parole di America rimbombarono nella sua testa – una nuova e terribile era – come l’eco dei suoi stessi pensieri. Gli trasmisero un brivido di timore attraverso il cuore. Scrutò lo specchio, a fronte bassa, qualche filo di capelli a correre sulle guance, e vide riflessi gli occhi di Giappone davanti ai quali si era ritrovato di fronte quel giorno. Occhi senza timore, avidi e scuri, che non si sarebbero fermati davanti a nulla.

“Lo so, lo so quello che state pensando,” continuò la voce di America, leggermente insabbiata attraverso la radio. “Lo so che il mio potrebbe essere un discorso che incute timore più che coraggio, perché non è mai bello affrontare la crudele realtà faccia a faccia, non è mai bello sentirsi dire che il pericolo esiste e che potrebbe aggredirvi da un momento all’altro.”

Cina scosse il capo, srotolò il nastro di cerotto, ne tagliò due pezzetti e incollò il primo lungo la benda, sigillando i vapori del balsamo che continuavano a bruciargli l’occhio sopra la ferita.

“Ma qui siamo davanti a un pericolo da cui non si può scappare,” esclamò America. “A meno che non voliate sulla Luna. E a quel punto io sarei il primo ad appendervi una medaglia al petto, lo giuro.”

Cina sollevò un sopracciglio, fermò il tocco, e il suo sguardo scattò alla radio. Rivolse all’apparecchio lo stesso sguardo perplesso che avrebbe rivolto alla faccia di America.

“Ecco, al primo che va sulla Luna gli do davvero una medaglia e – ahi! Va bene, va bene, ho capito, non serve tirarmi le matite!”

Cina emise un lungo e profondo sospiro di sconforto che gli fece ciondolare il capo fra le spalle. Si strinse una mano contro la fronte, si massaggiò le tempie, le palpebre, e spostò in disparte i fili di capelli che gli erano scivolati sulle guance. Tornò a scuotere il capo. “Che fine faremo?” si lamentò. E quel senso di demoralizzazione rimase a premergli sulle spalle come un carico di sassi di cui non riusciva a liberarsi.

 

.

 

“Ecco, al primo che va sulla Luna gli do davvero una medaglia e – ahi! Va bene, va bene, ho capito, non serve tirarmi le matite!”

Italia chiuse le mani a coppa, soppresse uno starnuto fra i palmi piegandosi in due, “Etchù!”, e tirò su col naso e raddrizzò le spalle, tornando a poggiarsi con la schiena contro la parete della baracca di legno che avevano assemblato fra le costruzioni del villaggio. Si strofinò il naso bruciante per il freddo della notte, si accoccolò con le ginocchia al petto, il suo piede urtò la radio collegata a uno degli automezzi parcheggiati lì vicino, e si scaldò le mani soffiandoci dentro un fiotto di condensa. Si strofinò le dita congelate, bluastre attorno alle unghie, e sollevò un sopracciglio ripensando alle ultime parole di America, prima di quelle sulla Luna.

Un pericolo dal quale non si può scappare...

La cicatrice fresca sul petto, nascosta dalle garze e dalla stoffa dei vestiti, ricominciò a pizzicare lungo il profilo del taglio, dove affondavano i punti intrecciati fra loro a lisca di pesce. Italia emise una smorfia di fastidio, slacciò il primo bottone della giacca e infilò la mano sotto i vestiti. Le dita ghiacciate toccarono la pelle, scaricarono una scossa di freddo, e le punte si tesero per raggiungere i cerotti che tenevano fermo lo strato di benda. Italia grattò tutt’attorno alla garza, resistendo alla tentazione di strapparsi il cerotto di dosso, di strofinarsi sopra la ferita e strapparsi tutti i punti dalla pelle che continuavano a mordicchiarlo. 

“Piantala di grattarti,” abbaiò la voce di Romano, “o ti salteranno tutti i punti.”

Italia si voltò di scatto, colto di sorpresa. Sollevò lo sguardo, e il profilo di Romano gli comparve davanti, contornato dalle luci fioche provenienti dal villaggio illuminato dai fuochi dei falò fra le casette e le tende. Un’espressione di disapprovazione a imbronciargli il volto e due gavette di alluminio fumanti strette fra le mani.

Italia abbassò lo sguardo e si diede un’altra grattata sotto i vestiti. “Mi prude tutto e brucia,” si lamentò.

Romano fece roteare lo sguardo, camminò di fianco alla radio scavalcando il cavo collegato all’autocarro ed evitando una delle antenne inclinate di lato. Si avvicinò a Italia. “Cerca di resistere,” gli disse, “non possiamo sprecare le scorte di morfina.”

“Mhm.”

Romano si sedette di fianco a Italia. Si lasciò scivolare con la schiena lungo la parete di legno, raccolse anche lui le gambe al petto, emise un sospiro di fatica che gli fece battere i denti dal freddo, e soffiò uno sbuffo di condensa bianco e denso come la neve.

Il fumo che spumeggiava dalle due gavette, gonfio e bianco, ondeggiò verso Italia e gli passò sotto il naso. Si portò dietro un solleticante buon profumo di caffè.

“Oh.” Italia impennò il viso, rivolse a Romano due occhi luccicanti di gola e si sporse ad annusare. “Caffè?”

Romano guardò dentro a una delle due gavette d’acciaio e fece ondeggiare il liquido fumante. “Fango annacquato,” si lamentò, e fece schioccare la lingua fra i denti. “Anche se è quello surrogato, almeno è caldo.” Avvicinò di nuovo la punta del naso al fumo e diede un’annusata. La bocca si arricciò in una smorfia di disgusto. “Ma puzza di tarassaco.” Porse una delle due gavette a Italia – quella con più caffè – e posò la sua in grembo, fra le ginocchia rannicchiate, per scaldarsi con l’alluminio. “Cerca di berlo anche senza zucchero, devi riprendere un po’ di energie.”

Italia mormorò un piccolo lamento. “Ooh.” Raccolse la gavetta dalle dita di Romano e guardò dentro il suo caffè, lasciandosi solleticare dal fumo. “Uffa, niente zucchero.” Posò anche lui la gavetta in mezzo alle gambe, tenendosi caldo alle cosce infreddolite dal suolo innevato, e infilò una mano nella tasca della giacca. Raccolse due boccette di vetro che tintinnarono fra loro quando le estrasse. Svitò la prima – Chinina Solfato, 20 cpr, 250mcg – fece cadere una delle pasticche nel palmo, e fece lo stesso anche con l’altra boccetta – Sulfadiazina Argentea, 15 cpr, 250mcg. Buttò le compresse in bocca e le annaffiò con una sorsata di caffè amaro e bollente. Strizzò gli occhi, buttò tutto giù, ed emise un sospiro di consolazione, sentendo la pancia scaldarsi immediatamente e spandere il tepore a tutto il ventre e il petto. Provò a sorridere. “Possiamo fare finta che sia vin brulè, dato che è Natale.”

Romano avvicinò la gavetta alle labbra e grugnì di disappunto. “Gran bel Natale del cazzo.” Tirò su una sorsata rovente che gli fece strizzare le palpebre.

Italia sorrise, scivolò più vicino a Romano, accoccolandosi al suo fianco, e gli posò il capo sulla spalla. “Buon Natale, fratellone.”

Romano sbuffò di nuovo, volse gli occhi altrove. “Sì,” sbiascicò. “Quel che è.” Prese un altro sorso di caffè e si leccò le labbra con la punta della lingua.

La voce di America riprese a parlare più chiara e limpida dai fori della radio davanti a loro, e le sue parole rimbalzarono ovattate dagli strati di neve.

“Molte nazioni, purtroppo, si sono già fatte schiacciare dalla paura, sono finite sotto le catene dell’Asse che ora le tiene prigioniere e completamente soggiogate dal suo dominio.”

Italia si irrigidì, strinse forte le dita attorno alla gavetta, le unghie stridettero sull’alluminio ammaccato, e le sue labbra caddero piatte, gli occhi scuri puntati alla radio. Anche Romano rizzò le orecchie, più attento, e ruotò la coda dell’occhio verso l’apparecchio. Lo scrutò da dietro il velo di vapore.

“Questo è quello che succede a chi sceglie di mettersi contro l’Asse e decide di contrastare la sua politica: viene eliminato!” esclamò il rimbombo della voce di America. “E l’Asse ha già dichiarato che capiterà anche a noi. Ci sta spingendo ad arrenderci, dicendoci che dovremmo aderire alla sua politica per evitare altre vittime, evitare ulteriori battaglie, e rassegnarci al semplice fatto che da ora in poi saranno queste sole tre nazioni a dominare sul mondo.”

Italia tremò contro il fianco di Romano, girò la guancia e premette la fronte alla sua spalla, si tenne chiuso nel suo angolino di dolore e angoscia che gli fece più male del proiettile del cuore o del taglio non ancora cicatrizzato. Romano se ne accorse. Gli passò una piccola carezza di incoraggiamento dietro la nuca, gli strofinò i capelli.

“Qui, davanti al mondo intero,” proseguì la voce di America, “e avendo come testimoni tutte le nazioni esistenti, dichiaro che ciò non accadrà mai. Il Popolo Americano non si arrenderà mai a una prospettiva simile e continuerà a combattere fino all’ultimo uomo, fino all’ultimo respiro.”

Romano sbuffò, schifato, e prese un altro sorso di caffè che gli rese la bocca ancora più amara. “Che stupido bastardo,” gracchiò contro il bordo di alluminio.

“Il mondo appartiene a tutte le nazioni che lo abitano,” esclamò America, “e non a tre soli popoli.”

Italia sollevò il viso dalla spalla di Romano, si tenne appoggiato con la guancia. “È solo...” Tamburellò le dita sulla superficie della sua gavetta. “Solo che loro non capiscono Germania,” mormorò, rannicchiando di più le ginocchia contro lo stomaco. “Per questo credono che quello che fa sia sbagliato.”

“E tu lo capisci?” gli chiese Romano.

Italia sollevò un sopracciglio, gli rivolse lo sguardo interrogativo sfiorandogli la guancia con la punta del naso infreddolito.

Romano girò il viso dall’altra parte, fece ondeggiare il caffè dentro la gavetta, guardò le cime delle montagne attraverso lo strato di fumo. “Tu capisci perché ci sta trascinando in questa merda?” Avvicinò le labbra all’orlo di alluminio, prese un altro piccolo sorso che sapeva di ferro.

Italia strinse le mani attorno al calore del caffè, chinò la fronte tenendo la spalla premuta a quella di Romano, lo sguardo basso in mezzo ai piedi incrociati fra la neve. Un fastidioso prurito al cuore lo spinse a grattarsi da sopra i vestiti, la bocca si arricciò in una smorfia di dubbio e disagio.

“Vi stanno convincendo che l’unico modo che una nazione ha per vivere in pace sia arrendersi e la chiamano ‘pace negoziata’,” proseguì la voce di America, sgranata attraverso i forellini della radio, “ma questa è una corruzione bella e buona, gente! Pensiamo anche solo agli stessi italiani.”

Tutti e due scattarono, trattennero i fiati, una goccia di caffè schizzò fuori dalla gavetta di Romano e gli bruciò una nocca. Lui nemmeno se ne accorse. Italia posò la gavetta in alluminio in mezzo alla neve, strisciò più vicino alla radio e tese lo sguardo, rimase in silenzio senza nemmeno respirare, lo stomaco torto di tensione.

“Loro sono i primi a subire le conseguenze di questa alleanza malvagia, anche se non lo sanno.” America prese un respiro più lungo, la voce tornò squillante e decisa. “Loro stessi sono schiavi del Popolo Tedesco che non sta trattando il suo alleato con rispetto, fiducia e solidarietà.”

Italia ricominciò a tremare, strinse le mani contro le cosce, flesse le spalle in avanti, sentendosi schiacciato dal peso di quelle parole, e si morse il labbro inferiore per trattenere i fremiti di dolore che già singhiozzavano nel petto.

Non è vero! ripeté a se stesso.

Strinse una mano sopra il cuore, sopra la cicatrice che aveva ripreso a bruciare come se si fossero strappati tutti i punti, e ingarbugliò la collana della croce di ferro attorno alle dita.

Non è vero, noi non siamo schiavi dei tedeschi, non è vero che non ci trattiamo con rispetto. Perché...

Rivolse lo sguardo appannato alla radio, restrinse le palpebre sentendo le lacrime vibrare in bilico fra le ciglia.

Perché nessuno riesce a capirlo?

America alzò ancora il tono. “E infatti li stanno lasciando morire in Grecia!”

Romano tirò su uno scarpone sporco di neve da terra e scaricò un calcio addosso alla radio. Sbam! Ci fu un fischio, e i suoni si spensero, le lancette caddero piatte nei riquadri a mezzaluna, tornò il silenzio della notte attraversata solo dallo scricchiolio dei fuochi in lontananza e dal fischio del vento che passava fra gli alberi. Romano si girò di schiena, si rannicchiò stringendosi le spalle, le ginocchia al petto, e non aprì bocca.

Italia singhiozzò un’ultima volta, senza spandere lacrime. Strisciò vicino a Romano spingendosi con i palmi fra la neve, gli cinse i fianchi incrociando le braccia attorno alla sua pancia, e gli posò il capo sulla schiena, tenendosi accoccolato a lui.

Loro due da soli, immersi in una notte buia in una terra lontano da casa, sepolti dal ghiaccio e dalla neve, distrutti dalla stanchezza, a morire di freddo e di fame.

Gran bel Natale del cazzo.

 

.

 

I freddi raggi lunari scivolavano come nastri d’argento attraverso l’aria notturna, battevano sulla finestra affacciata al cielo tinto di cobalto e frammentato dalle sagome nere dei rami degli alberi, arrampicati come grossi e piatti artigli neri appigliati al tessuto di stelle. Francia piegò il gomito sul davanzale della finestra, poggiò il mento sopra le nocche della mano accostata il viso, senza appesantirla, e volse gli occhi alla Luna che biancheggiava in cielo, come una formina appesa con un filo alle nuvole. Fece ondeggiare il calice di Pinot Nero che reggeva fra le dita, il vino laccò le sottili pareti di vetro, le bagnò di un colorito prugna, e la superficie tornò piatta, a riflettere le scintille bianche provenienti fuori dalla finestra.

La voce di America proveniente dalla radio parlò nel silenzio, sgranata ma viva, e accesa come una fiammella nella notte. “È la fine della libertà,” disse, “della solidarietà, della speranza stessa, perché questa che loro vogliono creare non sarebbe un’unione fra popoli e uomini che si trattano con rispetto reciproco, ma sarebbe un’unione forzata dettata dalla smania di potere e di conquista, e dalla malvagità.”

Francia incurvò le labbra in un piccolo sorriso, malinconico come i suoi occhi spenti che non riuscivano a riflettere l’argento delle stelle, freddo come il cuore che batteva lento e triste. Ruotò il polso, le dita flessero il calice di Pinot spandendone il profumo, e Francia accostò l’orlo alle labbra, ne assaggiò solo un piccolo sorso. Sfilò il calice dalla bocca, vi guardò attraverso, e una ciocca di capelli biondi scivolò sulla guancia, davanti alle palpebre annerite, dandogli un’aria ancora più triste. La lasciò lì. 

“È vero,” esclamò la voce di America dalla radio, “non esiste una strada senza rischi, ed è impossibile prevedere cosa accadrà una volta intrapresa la lotta totale contro l’Asse.” Un lieve trillo, come se avesse spostato l’asta del microfono o la avesse stretta più saldamente. “Sarà una battaglia dolorosa, gente, e non voglio mentirvi dicendo che non moriranno più uomini innocenti, ma non per questo dobbiamo starcene fermi a guardare, perché questo è ancora più pericoloso. E sarebbe un gesto di poco rispetto nei confronti di coloro che si stanno già battendo, sacrificando le loro vite, e noi non possiamo permettere che il loro sacrificio sia vano!”

Quella parola attraversò il cuore di Francia con un soffio e lasciò un senso di vuoto, strappandogli un battito. Francia parlò con le labbra che ancora sfioravano l’orlo del calice profumato di Pinot. Sussurrò piano, un sospiro nella notte. “Sacrificio.” Si sfilò la mano da sotto il mento, portò le dita sotto l’orlo della manica opposta, e si massaggiò i polsi avvolti in spesse bende che nascondevano le cicatrici. Si erano riaperte in piaghe, la prigionia era più stretta. Dolorosa e soffocante come la costante sensazione delle catene a grattargli i polsi e a mangiargli la carne fino all’osso.

Francia chiuse le palpebre stanche, abbassò leggermente la fronte facendo fluire i capelli davanti alle spalle, ed emise un sospiro profondo, esausto. È vero, pensò, il nostro è un sacrificio nato dal cuore, con la speranza che non sia vano.

La carne ricominciò a bruciare, sottili scosse ramificavano attraverso le braccia, mordicchiavano le piaghe sotto le bende. Francia strinse la mano attorno al polso. Per la prima volta, non riuscì a sciogliere il peso dallo sconforto che si era annodato attorno al cuore come un laccio. Provò la stessa sensazione di impotenza che lo aveva aggredito quando aveva visto Prussia voltargli le spalle e andarsene per sempre, senza riuscire a fermarlo, e quando aveva visto il corpo straziato e addolorato di Spagna accasciarsi sul pavimento, senza riuscire a sostenerlo. Impotente. Impotente e debole.

Ma quanto tempo si può vivere nutrendosi solo di speranza?

Prese un altro piccolo sorso di vino, di consolazione.

La voce di America rimase accesa, anche se disturbata dal suono sabbioso della connessione radio. “Ognuno può fare la sua parte fin da subito, perché non sarà mai troppo tardi per compiere un atto di giustizia, per un atto di solidarietà, per un atto di pace.”

Di nuovo Francia si sentì toccato al cuore, quelle parole riuscirono a risollevargli il sorriso, anche se fioco e triste.

Giustizia, solidarietà, pace.

Volse gli occhi alla luna, i capelli scivolarono dietro le spalle, e la luce argentea riuscì a risplendere nei suoi occhi che apparvero meno grigi, di nuovo azzurri come acqua.

Francia sollevò il calice di vino al cielo, un raggio di Luna batté sull’orlo del vetro e lo fece risplendere in una forte scintilla. “Contiamo su di te, America.” Guardò la Luna con malizia, proprio come se le stesse rivolgendo un brindisi. “Sii tu la voce della nostra speranza.”

 

.

 

La voce di America non si era ancora spenta, pregna proprio di quella speranza che continuava ad ardere nel suo animo combattivo.

“Però non voglio che fraintendiate le mie parole e che prendiate questo discorso come una dichiarazione di odio verso i conflitti.”

Germania intrecciò le mani davanti al viso, piegò i gomiti sulla scrivania per sporgersi di più verso la cassa di risonanza della radio che parlava in fondo al tavolo, poggiata contro il muro. Il suo sguardo rabbuiò, attento come quello di un predatore acquattato in mezzo ai cespugli. Gli occhi, sottili e azzurri come fini schegge di ghiaccio, scintillarono nell’ombra, toccati dal raggio d’argento proiettato dalla Luna che splendeva alta fuori dalle finestre.

“I conflitti sono importanti,” disse America, gonfiando la voce, “ci fanno crescere, ci fanno evolvere ed espandere. È vero, sono dolorosi. Ma lo sono perché ogni singolo cambiamento comporta dolore, anche se piccolo.” Si udì un tonfo, come se si fosse battuto la mano sul petto. “La mia è un’accusa rivolta solo verso le guerre ingiuste, perché anche un conflitto può essere giusto.”

Prussia passeggiò davanti a una delle vetrate che davano sul cielo notturno trapuntato dagli sciami di stelle, strinse le braccia già incrociate al petto, gettò lo sguardo di scatto verso la radio accesa, e sollevò un sopracciglio arricciando un angolo delle labbra in un’espressione disgustata. Sbuffò seccato. “Che razza di...”

Germania sollevò una mano, la aprì verso Prussia e gli fece cenno di stare in silenzio, senza aprire bocca. I suoi freddi occhi infossati nella penombra non si scollavano dalla radio.

“Parlando quindi da rappresentante del Governo Americano, dichiaro che i nostri cuori e le nostre forze vanno fin da subito a quei popoli che stanno combattendo per la giustizia e per l’uguaglianza non solo del proprio paese ma di tutto il mondo.”

Prussia sbuffò di nuovo, uno sbuffo amaro. Alzò gli occhi al cielo e scosse il capo, continuando a passeggiare davanti alle vetrate della camera, immerso nella luce bluastra spanta dalla notte che si rifletteva sulle finestre macchiate di ghiaccio.

“C’è la possibilità di fallire, è vero,” proseguì America, “e c’è la possibilità che gli stessi combattenti si ritrovino prigionieri. E a tutti quelli che temono questa ipotesi voglio dire questo: noi non vi abbandoneremo mai. Ed è questa la differenza fra un legame giusto e uno sbagliato,” enfatizzò. “L’aiutarsi durante le difficoltà, sostenersi anche durante i momenti più duri nei quali non sembra esserci via d’uscita. L’Asse non sta facendo questo, ed è per questo motivo che gli italiani ora si ritrovano abbandonati al loro destino in Grecia.”

Uno schiocco di fulmine attraversò lo sguardo truce di Germania, gli fece trattenere il fiato. Anche Prussia fermò di colpo la camminata e il suo sguardo volò da sopra la spalla verso la radio, restrinse gli occhi trasformandoli in due fiammelle ardenti.

Germania irrigidì i tratti del volto, la luce degli occhi trapassò l’aria premendo sulla radio un fitto e bruciante sguardo di disprezzo, le mani intrecciate strinsero e le nocche scricchiolarono, contennero i brividi di rabbia che gli fluirono nel sangue.

Prussia gli rivolse un’occhiata rassicurante, scrollò le spalle in un gesto di indifferenza, la tensione si sciolse dai muscoli. “Non ascoltarlo, West.” Camminò avvicinandosi al tavolo, spinse un fianco contro l’orlo e accavallò le gambe, le braccia sempre incrociate al petto. “Perché mai il mondo dovrebbe dare retta alle parole di uno stupido ragazzino sgusciato l’altro ieri fuori dalla terra?” Anche lui restrinse lo sguardo in direzione della radio. “Ti sta solo provocando,” disse a voce più bassa ma comunque aspra.

Germania scosse il capo. “Non sta provocando me.” Una luce diversa gli attraversò gli occhi di ghiaccio. Una luce più calma, animata da una punta di rispetto. “Sta incitando loro.”

Prussia aggrottò la fronte, stupito, e tornò con gli occhi alla radio.

“Noi saremo sempre lì per salvare e soccorrere un alleato in pericolo,” annunciò America, “e lo faremo con lo stesso spirito di patriottismo che lega le nazioni per bene, determinate ad aiutarsi e a sostenersi anche nei bui momenti di difficoltà. La forza di uomini, donne e giovani coraggiosi non sarà mai dimenticata.”

Prussia fece schioccare la lingua fra i denti e tornò a scuotere il capo, diede un colpetto d’anca all’orlo del tavolo su cui si era appoggiato e sventolò la mano sopra la spalla, come a scacciare un insetto fastidioso. “Lui non ha idea di come funzionino davvero le cose.” Camminò verso le vetrate che gli bordavano il profilo di blu con la loro luce. “Anche se nell’ultima volta è andata com’è andata con lui...” Si strinse nelle spalle e una vena di acidità gli inasprì il tono di voce. “Cos’è che ha combattuto finora? Guerre d’indipendenza, guerre civili?” Rivolse uno sguardo buio a Germania, e i suoi occhi si accesero di rosso, intensi e profondi. “Ha toccato il sangue appena con le punte delle dita, noi siamo con il sangue alla gola fin da quando siamo nati. È l’ultimo che può permettersi di fare questi discorsi.”

“Lasciamo pure che si pavoneggi,” disse Germania. Sollevò i gomiti dalla scrivania e si mise anche lui a braccia conserte, abbassò le palpebre. “Se un giorno anche America dovesse finirci in mezzo, scoprirà da solo la futilità delle sue stesse parole.”

“Nazioni, popoli, mondo.” La voce di America si fece così forte e imponente da riecheggiare attraverso le pareti della camera. “Mi rivolgo a voi con questa mia ultima dichiarazione.”

Germania fissò la radio sottecchi, Prussia si girò di profilo e la guardò di sbieco, sempre quella smorfia di appuntita superiorità ad affilargli gli occhi rossi.

Un lieve sfrigolio attraversò i fori della radio, simile al suono di un profondo respiro. Caricò l’aria di una tensione statica che punzecchiò la pelle a entrambi, fece salire la pelle d’oca, e la luce proveniente dalle vetrate si concentrò solo sul quadrante numerato dell’apparecchio, lasciando le pareti in penombra.

Le parole di America furono dure, forti, la voce così intensa e adulta da non sembrare nemmeno la sua.

“L’Asse non vincerà mai questa guerra.”

Quella frase esplose nell’aria come un colpo di proiettile.

Gli occhi di Germania e Prussia si accesero in fiamme di minaccia, i loro cuori bruciarono di odio, ombre color pece gettarono una maschera di disprezzo sui loro volti fissi sulla radio. Germania strinse forte i pugni fino a che non gli tremarono le braccia, Prussia serrò i denti facendo stridere la mandibola, brividi di rabbia gli corsero nel sangue, ribollendo e arroventandogli la pelle.

“E per questo chiedo a tutti voi di non smettere di sperare,” proseguì America con tono più morbido, di nuovo la sua vivace e squillante voce da ragazzino, “di non smettere di lottare e di credere in coloro che continuano a combattere e a morire là fuori per noi.” Un altro respiro, più breve, e l’ultima sua frase tornò a vibrare attraverso l’aria. “Il loro sacrificio passerà davanti alla Storia stessa, e la Storia stessa non scorderà mai le loro gesta.”

Prussia gettò lo sguardo a terra, sbuffò inacidito, scosse il capo, e si allontanò dalla radio a passo pesante.

Germania inspirò lentamente, la rabbia scivolò via dal suo corpo, gli raffreddò il sangue, e gli occhi tornarono di ghiaccio, calmi. Si girò di profilo volgendo lo sguardo alle finestre, alla notte nera che sfumava di indaco attraverso le vetrate. Sollevò il mento e quel riverbero si riflesse nei suoi occhi, li abbagliò di una luce viva e intensa.

Speranza, meditò, unione, sacrifici...

Ruotò lo sguardo alla radio, come fosse ancora davanti alle parole di America. Alzò l’estremità di un sopracciglio in un’espressione di superiorità.

Credi sul serio che l’Asse non conosca il significato di queste parole, America?

Strinse le mani incrociate, raccolse l’energia che fluiva in corpo dentro i palmi.

Ma anche tu ti renderai conto della nostra forza. Te ne renderai conto troppo tardi...

Aggrottò la fronte, restrinse le palpebre nell’ombra, e una luce avida gli attraversò lo sguardo, infiammandolo di determinazione.

E anche tu soccomberai sotto la potenza della nostra unione.

 

.

 

“E ora io,” proseguì America, una mano attorno all’asta del microfono, una aperta sul petto, e i piedi impennati sulle punte, “in quanto rappresentante della Nazione Americana e in quanto portavoce di tutte le nazioni e persone che vogliono vivere in libertà e giustizia...” Sollevò quello sguardo nobile rivolgendolo al vetro divisorio, ma i suoi profondi occhi azzurri non guardavano Inghilterra, non guardavano Canada. Guardavano il mondo intero. “Chiamo a raccolta questo sforzo mondiale in nome di quello che sarà un vero e proprio,” inspirò a fondo e scandì forte e chiare quelle parole, “Arsenale della Democrazia.”

Canada sorrise, gli occhi luccicarono di commozione. Quelle parole gli toccarono il cuore spandendo un piacevole calore attraverso tutto il petto. Inghilterra tenne strette le braccia al petto, sciolse leggermente il broncio che gli arricciava la bocca in una smorfia contrariata, e anche il suo sguardo si ammorbidì. Le guance che prima erano impallidite e diventate verdi di paura si imporporarono di rosa.

America scese dalle punte dei piedi, schiuse la mano dall’asta e tolse quella dal petto aprendola direttamente verso il microfono. Chiuse gli occhi, distese il suo solito sorriso pomposo che divenne più dolce e naturale. “Con la speranza che questa guerra finisca, che il bene prevalga sul male e che la Storia sappia giudicare i suoi popoli in base alle loro azioni,” uno sprizzo di energia affluì dal petto alle gambe, lo tornò a portare sulle punte, “vi auguro un Natale all’insegna della pace, dell’uguaglianza e della libertà.”

Riaprì le palpebre, e tornò lo sguardo adulto e consapevole ma anche bruciante di fiducia in quello che stava dicendo.

“Restiamo uniti.”

Un lampo di vita e di coraggio gli attraversò gli occhi. Brillarono come stelle.

“E il bene trionferà sempre.”

Inghilterra ebbe un breve sussulto, gettò d’istinto lo sguardo a terra, lontano da quegli occhi così pieni di speranza e di fiducia che brillavano come un soleggiato cielo estivo.

Il direttore sollevò la mano che reggeva un mucchietto di fascicoli, sollevò il pollice rivolgendolo ad America. “Bene. Stop!” La spia rossa si spense, il fonico si sfilò le cuffie dandosi una grattata ai capelli, raggiunse una delle manopole e la girò verso destra, facendo impennare la lancetta racchiusa in uno dei pannelli.

America scese dalle punte dei piedi, sfilò le dita dall’asta del microfono, e si posò la mano sul petto. “Fiuu.” Sospirò a lungo e tornò ad allargare il sorriso. “Che impresa.” Si sbottonò il colletto della giacca, allentò il nodo alla cravatta, e si piegò a raccogliere i fogli che aveva lasciato piovere sul pavimento.

Il direttore raggiunse la porta della saletta di registrazione e gliela aprì, lasciandolo uscire. “Un eccellente discorso, signore.”

America batté le mani davanti al petto – i fogli ancora fra i palmi – e le stelline racchiuse negli occhi rotearono spruzzando scintille di gioia. “Davvero?” esclamò, tutto orgoglioso.

Canada gli trotterellò vicino e fece un soffice applauso, un sorriso dolce e sincero a tingergli le guance di rosa. “Sei stato bravissimo, America.”

America porse i fogli che non aveva usato al direttore si posò la mano sul petto rigonfio, tirando in alto il mento. “Lo so, lo so, un vero atto eroico degno di me.”

Inghilterra fece roteare al soffitto l’occhio sano e libero dalla benda. Tenne le braccia incrociate al petto, le spalle strette, e mosse il primo passo per andarsene.

America flesse il capo di lato, gli lanciò uno sguardo da dietro la spalla di Canada, e gli corse incontro sventolando il braccio al cielo. “Inghilterraaa!” Gli si piazzò davanti, facendolo sobbalzare di un passo all’indietro. “Non mi dici bravo?” Tornò a gonfiare quel sorriso pomposo e colmo di orgoglio e di aspettativa. “Non è stato un discorso eccezionale?”

Inghilterra allontanò lo sguardo e soffiò uno sbuffo seccato. “Mh.” Sventolò la mano verso America. “Passabile, suppongo.” Lo superò passandogli di fianco, si fermò e si voltò di colpo, lanciandogli l’indice addosso alla spalla. “Ma la prossima volta che provi a fare di testa tua senza prima –”

“Ma ha funzionato, no?”

“Me lo auguro che abbia funzionato,” ribatté Inghilterra. Aggrottò la fronte e l’occhio si infiammò, il viso divenne nero. “Altrimenti ti sviterò le orecchie una a una e...”

“Oh, America.” La vocina di Canada sorprese entrambi, li fece girare. Canada giunse le mani davanti al petto, sorrise sedando la lite sul nascere. “Dato che Inghilterra starà con noi a Natale potremmo fargli assaggiare l’eggnog che abbiamo preparato.”

Il sorriso di America si stese da guancia a guancia facendo piovere una gocciolina di saliva dall’angolo delle labbra, e gli occhi lampeggiarono di gola. “Eggnog!” Impennò il braccio al cielo e saltò verso l’uscita. “Il primo bicchiere è mio!” Corse fuori dalla sala perdendosi nel turbinio dell’eco dei suoi passi.

Inghilterra scosse il capo, si massaggiò la fronte sulla quale passava la fascia dell’occhio bendato, e sbirciò da sotto le dita, lanciò un’occhiata inquisitoria a Canada. “E immagino che tu non abbia nulla a che fare con quello che ha combinato prima.”

Canada sollevò un sopracciglio, il visetto innocente e gli occhi miti.

Inghilterra si rimise a braccia conserte, tamburellò le dita e storse il sopracciglio dell’occhio sano. “Niente subdoli incoraggiamenti da dietro le quinte, no?”

Canada abbassò la fronte per nascondere il piccolo sorriso divertito che gli aveva toccato le labbra, si posò la mano davanti alla bocca. “Non credo che uno come America abbia bisogno di essere incoraggiato.” Giunse le mani in grembo, si strinse nelle spalle. “Ma forse...” Sollevò lo sguardo, i capelli scivolarono dalle guance e le ciocche bionde incorniciarono il viso sorridente. “Anche lui ogni tanto ha bisogno di sentirsi dire che sta facendo la cosa giusta.”

Lo sguardo di Inghilterra si ammorbidì, più comprensivo e anche un po’ divertito da quella complicità. Scosse il capo, emise un sospiro sconsolato, e tornò a reggersi la fronte. “Voi due...” Si avviò anche lui verso l’uscita a passo pesante. “Mi farete diventare matto prima di vedere la fine di questa dannata guerra. Se ci arriverò.”

Inghilterraaa!” La voce di America squillò attraverso il corridoio, riempì di nuovo la stanza. “Ti metto da parte l’eggnog analcolico!”

Inghilterra digrignò i denti e sventolò un pugno rigonfio contro la porta in segno di minaccia. “Non ci provare, moccioso!” Corse via anche lui.

Canada seguì entrambi, il cuore più leggero, il passo più svelto e rimbalzante, mosso da quella scossetta di felicità che gli aveva stretto l’animo.

In una nottata addolcita da fiumi di eggnog, dalle risate di America, dai sorrisi di Canada e dai brontolii di Inghilterra, salutarono il primo anno passato interamente sotto il duro e doloroso giogo della guerra che non accennava ad allentarsi.

   
 
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