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Autore: IwonLyme    23/01/2017    2 recensioni
‘Il Principe’ è un racconto sulla libertà, sul significato che essa ha soprattutto per il giovane Nivek, protagonista e narratore, che verrà messo a confronto fin da subito con la bellezza di essa, la sua importanza e, almeno per lui, il suo difficile raggiungimento. Non è facile essere liberi e Nivek desidera talmente tanto esserlo che romperà ogni regola per raggiungere questo scopo.
Tuttavia ciò che inizia come un gesto ribelle e di rivalsa gli costerà proprio ciò che da principio inseguiva e si troverà catapultato in una realtà ed in un mondo molto più duro e severo di quanto non fosse suo nonno ed il villaggio in cui viveva da emarginato. Una guerra contro un re malvagio ed un padrone pronto a legarlo per sempre a se stesso saranno le cause delle sue vicissitudini che lo porteranno a riflettere sulla propria vita, sul vero scopo di essa e sulla sua nuova condizione: essere un Drago Domato.
“[…] tutto sta nel comprendere che qualcosa non ci è davvero tolto se noi non lo lasciamo andare via.”
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Grazie per esservi interessati alla mia storia. Vi auguro buona lettura! Alla fine ho lasciato alcune informazioni sul seguito. 

Il Silenzio del Drago - Parte I

Credevo che mio nonno mi impedisse di fare le cose che più mi piacevano. “Non uscire dal villaggio!”, “Non andartene per il bosco da solo!”, “Non uscire di casa senza permesso!”, “Non parlare con persone che non sono del villaggio!”, insomma, tutto si racchiudeva nella frase, almeno a mio parere, “Non osare divertirti!”. Io volevo fare tutto ciò che lui mi diceva di non fare. Credo che ad un certo punto non importasse più nemmeno cosa lui mi proibisse, che in me nasceva lo spirito di ribellarmi. Fu così che una volta finii per lanciarmi da un piccolo strapiombo rompendomi una gamba e ferendomi in diversi modi. Avrei dovuto capire allora che ciò che lui desiderava per me era solo che restassi al sicuro.
Di per sé disubbidire divenne la mia più grande specialità e la mia prima preoccupazione ogni mattina appena sveglio. Essendo ancora minorenne, cioè non avendo raggiunto i ventun anni di età, non potevo uscire dal villaggio da solo, così ero relegato tra quelle case che di entusiasmante avevano solo il ben più che probabile pericolo di cadere a pezzi. Il mio villaggio era in montagna, dunque faceva molto freddo, quando uscivi al mattino un gelido vento di tristezza e solitudine ti sbatteva contro la porta togliendoti tutto il calore che avevi nel corpo. Non avevo mai incontrato nessuno all'infuori degli abitanti tristi e soli di quel luogo e pensai, realisticamente, che a quell'altezza nessuno sarebbe venuto a cercarci.
La mia casa si trovava verso est rispetto al centro del paese, era piccola e si affacciava sul bosco scuro che scendeva giù, fino ai piedi della montagna. Vedere un così sconfinato paesaggio ogni giorno mi faceva sentire piccolo e fin troppo trascurabile. Odiavo essere ritenuto una nullità, non essere considerato. Lo odiavo perché così era come mi trattava mio nonno.
Mio nonno era un uomo carismatico, vecchio, sì, ma conservava un'aura di forza e determinazione che, attraverso quei suoi occhi scuri, traspariva con vigore, lasciandoti credere potesse fare qualsiasi cosa. Era quello che avrei definito “un uomo tutto di un pezzo”, ma dire che mi amasse o che fossimo in buoni rapporti è dire una completa falsità. Io lo odiavo. Mi rimproverava, mi metteva sempre alle strette facendomi notare solo i miei difetti, che conoscevo, per carità, ma sembravo avere solo quelli. Per lui ero una trascurabile e senza dubbio dimenticabile disgrazia. Era giovane per essere un nonno, però non aveva mai giocato con me, non aveva mai sopportato la mia vista per troppo a lungo. Gli unici ricordi buoni che ho di lui è quando da piccolo mi raccontava quelle noiosissime storie sui nostri avi, le nostre tradizioni e le nostre leggi. Le raccontava con lo stupore nello sguardo, fierezza stretta nel pugno e una sorta di rammarico perso tra le labbra. A cinque anni sapevo ormai perfettamente a menadito la storia di Ian il Temibile e il Perfetto Uccisore. Insomma un bambino non proprio normale.
Capii perché mio nonno mi odiava in quel modo, lo capii quando gli chiesi di mio padre. Mio padre era un tabù, tabù per il villaggio, tabù per mio nonno, tabù per me che non ne sapevo nulla. Nessuno parlava di mio padre. Mio padre era certamente la prima ed unica ragione per cui mio nonno mi odiava. Non conoscevo nulla di lui, non il nome, né perché non fosse più al villaggio, né cosa l'avesse portato alla scelta di abbandonarmi alle cure del padre di mia madre lasciandomi solo immerso nell'odio più insensato ed allo stesso tempo più reale. I genitori dei pochi bambini che c'erano nel villaggio non volevano che io giocassi con i loro figli, ero solo ed emarginato. Chiesi a mio nonno se in me ci fosse qualcosa di sbagliato, lui mi guardò dall'alto della sua robustezza con due occhi freddi e non rispose una sola parola, ma bastò quello sguardo per farmi capire che ero io ad essere sbagliato e non qualcosa in me.
Avevo un solo amico all'epoca, il suo nome era Elmer, ed era il figlio del capo del villaggio, motivo per cui molti smisero di emarginarmi. Elmer era solare, forte, un ragazzo che sapeva incutere timore soltanto guardandoti. Era il tipo di figlio, o nipote, che tutti avrebbero desiderato. Perfetto, circondato sempre da un'aura di importanza con quei suoi occhi azzurri profondi e quel suo fisico statuario. Era più grande di me di due anni ed era già diventato maggiorenne. Io l'avrei seguito quell'anno. Il momento in cui lo diventò fu stressante ed allo stesso tempo molto triste. Credevo che, inserito all'interno di quella società di adulti che vedeva in me una compagnia sbagliata, se non addirittura un'esistenza completamente odiosa, fosse portato a non voler più essere mio amico, a non volermi al suo fianco poiché rovinavo quella splendida immagine che lui riusciva a dare di sé. Inutile dire che Elmer non mi abbandonò. Ero ancora un buon amico per lui, sebbene sembrasse guardarmi con occhi diversi.
Quando si diventa maggiorenni si viene introdotti nella società degli adulti. Ti viene insegnata la lingua degli avi, le usanze, le leggende ed i più profondi segreti della nostra società. Elmer li aveva ovviamente imparati e sembrava aver appreso qualcosa, credevo riguardo mio padre, che l'avesse fatto riflettere su di me e quasi mi compatisse. Era difficile sapere di far pena a qualcuno per qualcosa che nemmeno avevo il diritto di chiedere.
Il padre di Elmer, il capo del nostro villaggio, era l'uomo più alto e prestante che io avessi mai visto. Io non ero molto alto, nemmeno piccolo, ma di certo non ero un energumeno gigantesco con una faccia truce e poco divertente. Mi chiesi più di una volta come fosse possibile che Elmer, alto, snello e bellissimo, fosse nato da quel colosso. In ogni caso suo padre non mi trattò mai come una completa nullità, anzi, sembrava avermi quasi in simpatia, sebbene credo che digrignare i denti non possa definirsi un vero e proprio sorriso. Non ci impedì mai di trovarci, anzi, vedendomi a casa sua sembrava più sollevato, tranquillo forse che non fossi fuori a fare danni. Si comportava più lui da mio parente di quanto non facesse il nonno.
Grazie alle leggende che mi erano state raccontate capivo bene la necessità di vivere nascosti, di escluderci dal mondo in un modo così totale, sarebbe stato pericoloso, addirittura fatale, se la nostra ubicazione fosse stata scoperta, tuttavia vivere in gabbia, imprigionato tra quelle case, era qualcosa che non riuscivo a sopportare. Il sentimento scavalcava la razionalità nel mio animo di ragazzo. A volte sapere di sbagliare non è sufficiente. Io volevo essere libero e tutte quelle costrizioni mi impedivano di vivere. Fossi stato amato e ben visto come Elmer lo era, ne sono sicuro, non avrei mai provato la necessità di andarmene, di vedere aldilà del bosco per scoprire se ci fosse qualcuno che sarebbe stato in grado di amarmi per ciò che ero. Lì, in quel villaggio, non servivo a nessuno.
Credo sia comprensibile volessi fuggire, andarmene, ma alla fine un rimasuglio di coscienza mi impediva di farlo, o forse era paura. C'era qualcosa che però mi avrebbe dato la libertà “legalmente” e, forse, grazie a quello sarei finalmente riuscito a farmi accettare: diventare maggiorenne. Essere ammesso alla conoscenza del popolo, andare a caccia, imparare la nostra lingua, forse in quel modo anche io sarei stato parte del villaggio. Né il nonno, né nessun altro poteva impedirmi di compiere ventun anni e finalmente il giorno si avvicinava. In me cresceva l'eccitazione. Essere ciò che ero nato per diventare, finalmente libero.
Una leggenda del mio popolo racconta che il primo di tutti noi, il nostro avo più antico, nacque senza forma, senza nemmeno un vero e proprio nome, divenne poi ciò a cui era destinato. Così il fiume del fato ci conduce a ciò che siamo destinati ad essere e lui era destinato a far nascere la nostra gente, ad essere il primo di tutti noi. Lento, diceva sempre mio nonno, il flusso delle acque ti indicherà la via, a volte sembrerà ignota, burrascosa perfino, ma alla fine, quando tutto sarà calmo, capirai cosa da sempre il fato aveva in mente per te. Nasciamo per un motivo ben preciso ed io credevo di sapere bene per cosa ero nato.
Credevo di essere nato per essere libero.
 
La primavera lasciò il passo all'estate. Sebbene la neve si fosse abbassata, il freddo pungeva le ossa, le tormentava. Raggomitolato sotto le coperte del mio letto tentavo di dormire ancora, ma ormai ero ben sveglio. Avrei dovuto alzarmi, camminare per una casa vuota, fissare il bosco e sentirmi piccolo ancora una volta. Avrei dovuto cedere alla monotonia della mia vita ancora per un giorno, capire e sopportare.
A volte, immerso tra quelle coperte, mi chiedevo cosa mio padre avesse mai potuto fare di così sbagliato per farsi odiare, e di riflesso far odiare me, in un modo così palese e profondo. La mia mente vagava dopo quel pensiero e cadeva ancora nel silenzio, augurandosi forse di non ripetersi una domanda così difficile e che non avrebbe trovato risposta. Non avrei voluto sapere cose orribili su mio padre, solo non volevo che mi riguardassero così da vicino. Ero forse io mio padre? Non lo ero, eppure mi sembrava di sbagliare tutto ogni giorno. Era come se la mia esistenza ripetesse lo sbaglio di mio padre all'infinito, ogni giorno che avevo di vita quello sbaglio si ripeteva, ed ero io a ripeterlo, inconsciamente, poiché non potevo decidere di non esistere o di essere diverso da ciò che alla fine ero.
Caduto in quel baratro di pessimismo prendevo così la decisione di alzarmi. Togliersi le coperte di dosso, solo quel gesto, era una prova di volontà e mi ci volevano almeno due tentativi prima di farmi coraggio e sfilarmi davvero dal caldo giaciglio ed infilarmi velocemente nei vestiti pesanti per recuperare il calore corporeo perduto. Vestito e pettinato andavo a fare colazione. Se ero fortunato il nonno mi aveva lasciato del pane, se invece non lo ero ci sarebbe stata solo un po' d'acqua da scaldare su un fuoco che andava acceso con pazienza. Quel giorno non fui fortunato. Andai così a prendere della neve fuori, nel piccolo giardino che c'era davanti alla mia casa, e vidi le impronte del nonno che a metà vialetto svanivano. Sospirai. Il giorno in cui anche io avrei potuto farlo era ormai vicino. Mi sentii subito più felice e rincuorato. Me ne tornai dentro con il mio pentolino pieno di neve. Afferrai quindi alcuni ciocchi di legno e li misi nella stufa. La accesi e ci piazzai sopra il pentolino. Mi sedetti per la lunga attesa.
I miei pensieri dondolavano così dal mio crudele destino, al mio imminente cambio di vita per poi tornare al pessimismo della mia condizione che non ero sicuro sarebbe cambiata. Essere, mi dicevo, uno come te comporta odio perfino quando non è più necessario. Non sapevo cosa significasse essere “uno come me”, ma credevo fermamente che ce ne dovessero essere altri. Non potevo essere l'unico appestato che il suo villaggio scansava. Immaginavo il mio villaggio mentre si incontrava con un altro villaggio della nostra razza, tutti avevano un doppione, due Elmer affascinanti, due nonni burberi, due capi del villaggio giganteschi ed io ed il mio clone, le pecore nere. Quel pensiero mi faceva deprimere ed allo stesso tempo la trovavo la situazione più buffa che sarebbe mai potuta capitarmi. Trovarmi lì con il mio doppio a parlare delle nostre sventure e dirci: “Una volta ho immaginato che il mio villaggio si trovasse con un altro villaggio ed io avessi così l'opportunità di conoscere uno tale e quale a me, pazzesco no?”.
Di solito il pentolino che sobbalzava sopra la stufa mi risvegliava dai miei assurdi viaggi mentali. Mi alzavo, lo versavo in una tazza ed appoggiavo quest'ultima sul tavolo deserto, per poi lasciarmi di nuovo cadere sulla sedia. Così fissavo i piccoli riflessi luminosi che la luce candida della montagna procurava al piccolo specchio d'acqua nella mia tazza. Fino a poco prima era stata neve, ora era lì, dentro la mia tazza. Lei, solo trasportata dal vento, aveva fatto più strada di me ed aveva certamente visto più cose. Io la bevevo, ma non ne venivo dissetato, la mia era sete di tutt'altro tipo.
Il silenzio cadeva nei miei pensieri e, mentre sorseggiavo l'acqua, il vento batteva contro le finestre chiuse, rumoreggiava come un fiume in piena e imperversava tra gli alberi del bosco. Un'altra giornata noiosa e senza molto senso. Un'altra giornata passata a fare il conto alla rovescia. La mia preoccupazione di trovare un modo per non rispettare le raccomandazioni del nonno si era mutata nell'ossessione di diventare maggiorenne, nulla sembrava più importante. Credevo che fosse una cosa che mi era dovuta. Nessuno è obbligato a volerti bene, a trattarti come meriti, ma loro mi dovevano quel diritto, anche io sarei diventato parte della società degli adulti anche senza il loro benestare. Pensavo che nulla me l'avrebbe impedito. Era impossibile che il mio villaggio non seguisse le tradizioni, impossibile, e nemmeno nel mio caso ci sarebbe stata un'eccezione.
Mi alzai dal tavolo e mi preparai ad uscire di casa. Fuori il vento ondeggiava, la neve cadeva fine e si fermava a terra, dormiente. Il piccolo giardino era percorso tutt'intorno da una staccionata robusta, oltrepassarla aveva sempre significato trasgredire le regole. In quel momento il cancelletto lasciato semiaperto da mio nonno mi sembrava, più verosimilmente, una via d'uscita, un nuovo mondo pronto ad accettarmi. La neve ricopriva quasi interamente tutta l'erba, che avevo visto ben poche volte nella mia vita. Sul lato destro, vicino alla staccionata, c'era un grande albero, molto alto, in quel momento, come in quasi ogni periodo dell'anno, era coperto anche lui di bianco. Aveva delle foglioline sottili, pungenti come aghi, ed io non lo ricordo mai verde, nemmeno quando la neve non c'era, era sempre bianco nei miei ricordi, come se quello fosse di fatto il suo colore.
Se di mio padre non si poteva parlare, di mia madre conoscevo molte cose. Immaginavo perché il nonno odiasse mio padre, pensavo che ne avesse ogni ragione se per causa sua la mamma era come la ricordavo. Tuttavia mi era incomprensibile come anche io potessi essere nel torto ai suoi occhi. Mio nonno amava mia madre, era la sua figlia prediletta, l'unica figlia che avesse. Quando mia madre era ancora in vita il nonno era diverso, attanagliato dal dolore, ma più gentile. La mamma morì quando compii sei anni. Il nonno da quel momento mutò nell'uomo burbero che mi crebbe. Credo che lui pensasse di non aver più nulla al mondo, io non ero importante.
Quell'albero così vecchio e rugoso, ma così brillante e di un colore così assurdo per un albero, mi ricordava mia madre. Lei, che, dopo avermi dato alla luce, non era stata più molto lucida, ora lo so, lo chiamava “il Principe”. Da giovane, così mi disse, su quell'albero aveva incontrato un principe, alto e bellissimo, con gli occhi come il cielo, pieni di nuvole. Mi disse che insieme a lui era uscita dal villaggio, aveva scalato le stelle e corso sull'arcobaleno, insieme a lui aveva quasi toccato il sole. Io, a quel punto della storia, le chiedevo che fine avesse fatto quel principe. Lei mi rispondeva sempre che probabilmente era ancora lì sull'albero ed aspettava che lei salisse di nuovo. Allora io domandavo ancora perché lei non ci andasse. Lei placida mi guardava e sospirando concludeva che ormai non poteva più toccare le nuvole. Nei miei pensieri quell'albero rimase il Principe che mia madre ricordava con tanto affetto e nostalgia, ma non provai mai il desiderio di scoprire se la sua storia fosse vera o meno, forse proprio perché alla fine sapevo già la risposta.
Mio nonno dunque aveva perso una figlia, ed ora certo si comprende di più il suo astio ed il suo brutto carattere, però, pur comprendendo io stesso che lui avesse di fatto qualche ragione, io non volevo sottomettermi a quel fato così ingiusto, volevo poter vivere la mia vita a modo mio e libero finalmente toccare anche io le più bianche nuvole.
 
La sera giunse inaspettata, come se l'attenderla una giornata non l'avesse resa scontata, anzi, così impensabile era stata la sua venuta da renderla speciale. Il nonno e gli altri adulti stavano arrivando. Io avevo preparato la cena. Il giorno dopo sarebbe stato il mio compleanno, il mio ventunesimo compleanno. Aspettai il nonno vicino al tavolo volendo chiedergli alcune cose. Se non avessi voluto parlare con lui me ne sarei tornato nella mia camera e non mi sarei mai accorto del suo ritardo. Di solito rientrava appena faceva scuro, mangiava e se ne andava a letto. Invece quella sera tardò. Quella sera non entrò dalla porta di casa insieme al buio.
Non vedendolo arrivare, cominciai a pensare. Il sospetto ed uno strano presentimento mi morsero immediatamente lo stomaco. Il nonno che tardava il giorno prima del mio compleanno, del compleanno che mi avrebbe reso maggiorenne. Prima l'ottimismo mi disse che probabilmente era andato a prendermi qualcosa, qualche regalo anticipato che mi avrebbe facilitato il giorno dopo. Questo pensiero riuscì a tranquillizzarmi per qualche istante. Tuttavia poi il pessimismo parlò con voce chiara sussurrando alla mia mente il sospetto che in realtà qualcosa stesse cambiando, che, odiato com'ero dal nonno, non potesse essere andato a prendermi un regalo, bensì, essendo un anziano, a cambiare quelle tradizioni così ferree che mi avrebbero assicurato un posto nel villaggio.
L'agitazione mi colse veloce, come se già tutto fosse avvenuto. Senza pensare, senza prendere nulla per coprirmi, uscii al gelo della sera a cercarlo. La nostra casa era leggermente divisa dal resto del villaggio, così c'era un piccolo sentiero che mi avrebbe portato alle altre case. Lo percorsi correndo e mi sembrò di farlo in pochissimo tempo. Andai nell'unico luogo in cui avrei potuto ricevere informazioni: a casa di Elmer. Se Elmer era tornato sicuramente mi avrebbe detto dove invece era rimasto il nonno. Corsi veloce in quella direzione, verso nord-ovest. Attraversai la piccola piazzola, e poi eccola là, piccola ed abbarbicata su alcune rocce, coperta di neve, con le luci accese. Elmer e suo padre erano tornati. Probabilmente la madre stava servendo la cena. Sfregai le mani tra loro, colto da un brivido. La mia camicia svolazzava al vento gelido ed i miei stivali erano coperti di neve. Ormai ero arrivato. Mi avvicinai camminando più che correndo e mi fermai sulla soglia, sotto la piccola tettoia che copriva l'ingresso.
Avrei bussato. Sicuramente l'avrei fatto. – Lui non può diventare maggiorenne. Saremmo dei pazzi ad introdurlo alle nostre leggi ed alle nostre usanze! Queste non sono le sue! – La voce di mio nonno risuonò cupa e dura attraverso il legno della porta fermando le mie dita.
– Lo capisco, Murray, ma alla fine lui è uno di noi. – Disse calmo il padre di Elmer chiamando mio nonno per nome.
– Fandonie! Fandonie, Oswin, lui non sarà mai come noi! – Ribatté ancora il nonno. Il mio cuore batteva forte e mi sentivo scivolare nella disperazione come se infine immaginassi, sapessi anzi che le mie preghiere mai si sarebbero esaudite. Il mio destino era diverso da ciò che avevo desiderato.
– Potrebbe stupirti quanto noi siamo simili in realtà, mio figlio è suo amico, mio figlio sa che in Nivek non c'è nulla di diverso. – Gli rispose. Sentii il nonno grugnire in disappunto.
– Chiediamolo a lui, allora! Chiediamo a lui se Nivek può diventare maggiorenne. – Oswin sospirò.
– Elmer, allora? – Disse con un tono duro al figlio assecondando mio nonno. Ci fu un attimo di silenzio, poi Oswin aggiunse: – Un giorno sarai tu il capo di questo villaggio e tu dovrai prendere queste decisioni, voglio la tua sincera opinione, da questo dipenderà il destino di Nivek. – Il fiato era fermo nella mia gola e non osavo nemmeno mugugnare. Elmer era il mio giudice. Improvvisamente mi sentii felice, allegro perché lui era mio amico, mi avrebbe aiutato. Pensai che il nonno sarebbe rimasto deluso. Ormai era fatta. Sarei diventato maggiorenne. Le mie paure svanirono ed il mio spirito spiccò un balzo in alto. Mi sembrò di impazzire di gioia … ma un presentimento mi colse il ventre quando lui non rispose in fretta.
– Credo che non debba diventare maggiorenne, padre, lui è diverso da noi. Senza alcun dubbio non è …
– Visto! Come dicevo! – Esultò Murray.
Il respiro trattenuto mi uscì veloce dalle labbra, come se fosse l'ultimo. Elmer mi aveva tradito. Elmer mi aveva emarginato ed escluso in un modo tanto crudele da superare tutti gli altri. Non sarei mai stato parte di quel villaggio. Nessuno mi voleva lì. Nessuno aveva bisogno di me.
Le sue parole mi echeggiarono nelle orecchie, rimbombarono fino a scavarmi nell'animo, erano incise nella mia mente, ormai non potevano più essere cancellate. Ero condannato, lì, in quel limbo per sempre, non sarei mai stato nessuno. Non avrei mai vissuto come desideravo.
– Bene, allora credo che il nostro discorso sia concluso. – Mi risvegliò la voce del nonno.
– Murray … sei sicuro che vuoi impedirgli di essere uno di noi? Vuoi ancora escluderlo da tutto? Lui non è un …
– Oswin, ti ho ceduto il mio posto, non la mia autorità, sarai anche il capo del villaggio, ma finché non morirò sono io a dettare legge qui. – La porta scattò. Per l'agitazione non mi ero mosso. Le mie ossa erano come gelate lì, davanti a quel legno che ora si apriva davanti a me. Gli occhi del nonno mi penetrarono come pugnali. Credo che la scena, vista da fuori, fu molto penosa. Io ero in piedi, dietro la porta, con le braccia strette sul corpo per il freddo, mentre mio nonno stava uscendo dalla casa di Oswin con ancora uno sguardo percorso dall'adrenalina della battaglia vinta. Fu in quel momento che capii che io e lui eravamo diversi, non ci saremmo mai compresi.
Mio nonno mi guardò fisso negli occhi ed io feci lo stesso, ci fissammo, ma in due modi profondamente dissimili. In lui non c'era rimorso, dispiacere che avessi sentito, lui mi guardava e sembrava sussurrarmi “Così stanno le cose.”. Io, invece, gli rivolgevo due occhi delusi, arresi e per la prima volta disperati. Perché non mi voleva? Perché ero così inaccettabile?
Sentii una sedia scricchiolare. La figura di Oswin cominciò ad apparire dietro mio nonno. Mi risvegliai, non era tutto fermo, tutto si muoveva intorno a me, mentre la mia mente era bloccata, gelata dal freddo della neve. Non so cosa feci, ma mi ritrovai a correre, correvo per il villaggio e non mi sentivo nemmeno io. Le mie gambe si muovevano senza che io le comandassi. Il fiume del mio destino si muoveva veloce sotto i miei piedi.
– Nivek! Nivek! – La voce di Oswin risuonava come un tamburo attraverso l'aria fredda. – Non uscire dal villaggio, Nivek! – Ancora una volta volevano imprigionarmi. Non volevano né accettarmi né lasciarmi andare, era proprio questo che odiavo, pretendevano che io rimanessi lì, tra quelle sbarre, senza ribellarmi, senza voler fuggire via.
– NIVEK!
In lontananza vidi la mia casa. Ero andato lì, che alla fine desiderassi essere prigioniero di quelle persone? Tra quelle mura avevo vissuto, avevo visto mia madre morire, avevo sperato e pianto. Tra quelle mura avevo vissuto la mia vita, tutta la mia vita da solo. Forse era giunto il momento di arrendermi.
Poi no, i miei piedi corsero oltre la mia casa e finalmente, come mille volte avevo sperato, come mille volte avevo sognato, mi trovai davanti al bosco scuro che ogni mattina, anche quella mattina, avevo guardato con invidia, con stupore di bambino. Lì non c'erano alberi con principi, lì c'era un futuro, la libertà che io avrei guadagnato con le mie mani. Sapere di sbagliare a volte non basta a fermarti. Buttarsi tra quegli alberi significava tradire il villaggio, significava trovarsi in pericolo.
Tutte le notti avevo sentito la bizzarra musica degli alberi, il frusciare straniero del vento sperando un giorno di riconoscere quelle voci come mie, come amiche e note, sperando di vedere abbastanza da sapere molte cose, sperando di vivere a pieno tutto ciò che avevo. Tutte le notti mi ero addormentato con una speranza nel cuore, stretto in mano il desiderio di un fato sconfinato e bellissimo. Tutte le notti avevo sperato in una vita libera.
Il bosco era lì. Il bosco finalmente mi chiamava.
– Nivek! Non uscire! No! Nivek! – Oswin stava arrivando, mi avrebbe legato ancora, imprigionato. Odiato. Come uno schiaffo gli occhi del nonno mi si pararono di fronte. Come un pugno le parole di Elmer mi colpirono lo stomaco. Non avevo nessuno lì. Nessuno aveva bisogno di me.
Il primo passo oltre il villaggio, fuori, fu difficile, ma una volta cominciato non riuscii più a smettere. Correvo a perdifiato, correvo lontano, via per sempre da quella vita, via da quelle preoccupazioni, via da tutto ciò che non avrei mai desiderato. Lasciato il villaggio non mi importò più nemmeno di guardare gli alberi, di osservare la notte, di chiedermi se fosse un bel posto, l'unica cosa che importava era allontanarmi sempre di più, così che pensai fosse completamente inutile essere scappato se l'unica cosa che riuscivo a fare era di fatto scappare sempre di più. Mi fermai colto, credo, anche da rimorso. Ripresi fiato dopo la lunga corsa. Ero fermo in mezzo al bosco, fuori dal villaggio, fuggito, ma ancora vicino per tornare. Ero fuggito. Non volevo tornare, ma non volevo nemmeno scappare più in là. Cosa avrei fatto? Vestito di poco, senza nulla più se non i miei pensieri, cosa avrei fatto? Sarei morto nel freddo dell'inverno. Morirai, mi dissi. Tornare indietro sarebbe stato peggio di morire però.
– Nivek! Dove sei? È pericoloso! – Oswin mi aveva seguito fuori dal villaggio. Sentirlo vicino mi mise in agitazione. Ricominciai a correre giù per il bosco, verso i piedi della montagna. Come mai mi seguiva? Era così attaccato a me? Non riuscii a pensare al perché il padre di Elmer mi seguisse con tanta insistenza, volevo rimanere solo ed era quello che cercavo. Volevo credere di poter decidere di me stesso.
Correndo non mi accorsi di quanta strada stessi percorrendo. Ormai ero scosso dai brividi, infreddolito dal vento e dalla neve. Non c'era nemmeno molta luce. La luna non bastava a mostrarmi il cammino. Ero andato addosso ad alcuni alberi e mi ero ferito le mani. Forse dovevo fermarmi, tornare, vivere tranquillo. Ma no, non dovevo. Era tutto ciò che avevo sempre desiderato: uscire dal villaggio, vivere libero. Il mio destino mi aveva condotto lì, era lì che dovevo proseguire.
Inciampai in un masso e caddi a terra rovinando sulle ginocchia. Gemetti. La neve bassa mi coprì ed il gelo mi fece tirare dritto in piedi. Le gambe tremavano per la fatica e il dolore mi annebbiava la mente. Oswin era finalmente tornato indietro, pensai. Poi un fruscio alle mie spalle mi fece sussultare. Mi aveva raggiunto? Ero in trappola. Di nuovo in trappola.
– Perché devo accompagnarti a pisciare proprio non lo capisco! – Grattò una voce estranea.
– Qui è pieno di animali, potrebbero attaccarmi, e poi è troppo buio … – Mugugnò un altro uomo.
Mi voltai. Alla debole luce di una torcia due uomini si stavano dirigendo nella mia direzione. Il cuore cominciò a battermi forte nel petto. Loro non erano persone del villaggio, loro erano estranei. Non dovevo farmi vedere da loro. Non dovevo lasciare mi scoprissero. Gli stivali erano immersi nella neve ed i piedi bagnati erano pezzi di ghiaccio. Fermarmi aveva fatto sì che la stanchezza si riversasse sulle spalle e sulle gambe. Feci per muovermi e nascondermi dietro un albero, abbastanza al buio per non farmi vedere, ma il ginocchio mi lanciò una fitta e gemetti. – Hai sentito? – Chiese il secondo uomo, quello più basso.
– Cosa? – Gracchiò quello più alto sbadigliando.
– Un gemito. – Mormorò più piano l'altro.
Tutti e due si fecero zitti, pronti ad ascoltare. Rimanere lì mi avrebbe fatto scoprire, ma muovermi mi avrebbe tradito.
– Nivek! – La voce acuta di Oswin si fece largo tra il silenzio. Era ancora sulle mie tracce, così lontano dal villaggio solo per me. Presi un respiro.
– Hai sentito? Cos'ha detto? Una voce! – Esultò quello basso.
– Taci, non capisco! – Lo ammonì il compagno. Non potevo permettere che lo prendessero, che lo catturassero per una mia colpa. Ero io ad essermi allontanato.
I due uomini erano troppo vicini per non accorgersi di me se avessi parlato e così prendermi, ma Oswin scendeva veloce per il bosco e avrebbero preso lui al mio posto se non l'avessi avvertito. Sapevo, ancora prima di pensarci, la scelta che avrei preso alla fine. – Oswin! Scappa! Scappa! Vattene! Estranei! – Urlai con quanto fiato avessi in gola riversando in esso il dolore delle ginocchia e la disperazione che mi ero portato dietro per tutta la corsa.
La torcia dei due si giro subito verso di me, illuminandomi fermo tra la neve. Mi avevano visto. Sentii un fruscio e vidi Oswin scappare via dal bosco. – Eccolo! Prendilo! Prendilo! – Cominciò ad urlare l'uomo più basso. Quell'altro mi balzò addosso e mi sbatté nella neve, mi tirò le braccia dietro la schiena. Il gelo mi aveva preso la faccia. Ero troppo stanco per combattere. L'uomo mi tirò dritto e mi spinse avanti dopo avermi legato con la cintura che teneva i suoi pantaloni pesanti. – Non posso crederci! Finalmente! Erano giorni che speravamo di prenderne uno! È giovane, vero? Quanto? Bello, vero? Molto bello?
– Taci, così fai troppa confusione, farai allontanare gli altri, se ci sono ancora. – Lo ammonì l'uomo che mi tirava.
– Sì, scusa, sì, certo. – Mormorò l'altro senza togliermi gli occhi di dosso.
La torcia, lasciata in mano all'uomo più piccolo, illuminava fiocamente il bosco che tanto avevo sperato di vedere. Non ero nemmeno libero da un paio d'ore che ero già nelle mani di qualcun altro. Avevo paura, non mi vergogno ad ammetterlo. Non sapevo cosa avessero intenzione di farmi, né cosa volessero da me, ma, grazie alle leggende di mio nonno, potevo immaginare il mio destino. Ripensare a mio nonno in quella situazione mi procurò dolore. Lì, legato, niente sembrava più così grave se l'unico suo desiderio era che non mi succedesse quello che alla fine mi stava succedendo. Ero stato un pazzo a fuggire. Ero stato un pazzo a desiderare più di quello che il fato mi aveva concesso. Mi maledissi. Avrei continuato a farlo se non fossimo arrivati all'accampamento dei due uomini.
– Ne abbiamo trovato uno! – Annunciò l'uomo alto dietro di me. Nessuno rispose. – Ehi! Alzatevi! Ne abbiamo trovato uno! – Come se fossero sempre stati svegli, si sollevarono quattro uomini e si avvicinarono agli altri due.
– Ne avete preso uno! Com'è? Com'è?
– Non l'abbiamo ancora guardato bene. – Disse l'uomo più basso.
– Yorick! Yorick! Vieni a vedere! – Chiamò uno tra il gruppo.
– Sì, sì … fatemi passare. – Rispose una voce bassa e seccata dietro gli altri. Si fecero da parte e mi trovai davanti un uomo con una grossa cicatrice su uno dei due occhi, gli percorreva tutta la testa e si spingeva anche sul petto. – Avvicina la torcia, deficiente. – Freddò l'uomo più basso. Quello frettoloso la avvicinò al mio viso. – Mm … – Sussurrò l'uomo afferrandomi il volto tra due dita e rigirandolo da parte a parte. – … hai freddo, vero? – Disse. Afferrò uno dei suoi compagni per il braccio. – Prendi una coperta! – Quello corse subito a prendergliene una. Me la appoggio sulle spalle e me la strinse sul petto senza però dire a quello alto di slegarmi. Senza troppe cerimonie, poi, mi afferrò i capelli che, legati in una treccia, erano rimasti sulla mia schiena. Li tirò avanti. – Che bizzarro scherzo del fato … – Aggiunse tra sé e sé. – Mi afferro di nuovo il viso e mi guardò negli occhi.
– Parli, ragazzo? – Mi chiese. Tutti si sporsero come a voler udire qualcosa di mai udito prima. – Forza! Parla! – Mi esortò l'uomo. Le mie mani fredde e legate mi trattenevano dal parlare con chiunque ed il suo aspetto mi faceva desistere dal farlo soprattutto con lui. Sospirò.
– È giovane, molto giovane. – Concluse. – Forse troppo per essere apprezzato, ma non ne ho mai visto uno così, potrebbe essere buono solo per far corazze, altrimenti potrebbe essere il più grosso affare della nostra vita da Cacciatori.
– Dunque cosa ne facciamo, Yorick? – Chiese l'uomo basso impaziente.
– Domani. Parliamone domani. Ora continuiamo a dormire. Con tutto il casino che avete fatto di certo non ce ne saranno altri lì fuori. – Rispose sbadigliando e grattandosi la testa dalla parte senza la ferita. L'uomo basso seguì gli altri, mentre quello alto mi tirò, prese delle corde e mi legò ad un albero con ancora la coperta sulle spalle.
– Resta qui e prega i tuoi dei che tu non sia buono solo per far corazze. – Mi disse mentre mi legava stretto al tronco. Poi si rimise in piedi e si riunì agli altri. Si rimisero tutti a dormire.
Tentai di muovere le mani, ma erano legate troppo strette. Sollevai il capo e alzai gli occhi al cielo. Forse era il mio destino restare imprigionato, intrappolato dagli altri. La neve non cadeva più, il cielo era buio e la luna brillava con così tanta forza da farti venire la voglia di toccarla. Le stelle luccicavano debolmente, il vento soffiava e sembrava danzare di disperazione. Non potendomi muovere per impegnare i pensieri, ero costretto a ragionare. Non sarei dovuto fuggire dal villaggio. Ogni mattina mi sarei svegliato sapendo il mio destino, conoscendo verso dove i miei piedi ed il fiume della mia vita mi avrebbero condotto. Forse avrei dovuto alla fine arrendermi a quella vita tranquilla. Ogni mattina mi sarei svegliato al sicuro, sicuro di avere una vita. L'ignoto si dipingeva davanti a me quella notte e non era più così eccitante come mi era sembrato. Avevo guardato il Caso dalla stanza sicura che era la mia vita programmata, dicendomi che doveva essere bellissimo vivere in quella libertà assoluta, che il Caso era molto meglio. Però, una volta dentro, l'ansia di non sapere era talmente pressante da non permettermi nemmeno di trovare il bello che tanto avevo visto.
Sospirai e lasciai che il mio corpo si ammorbidisse legato a quell'albero. Se fosse stato l'abete candido fuori dalla mia casa, di certo il Principe mi avrebbe salvato. Sarebbe sceso da lì e mi avrebbe portato via, a scalare le stelle e correre sull'arcobaleno. Su quell'albero tuttavia non viveva nessun principe. Ero solo, solo in mezzo a quel bosco. Ero sempre stato solo, ma immerso tra la mia gente. Sebbene nessuno mi amasse e fossi, di fatto, lasciato da parte, non ero mai stato solo come in quel momento. Niente sembrava famigliare ai miei occhi. Non la neve, che conoscevo bene. Non gli alberi, che avevo guardato così a lungo. Nemmeno il cielo, che sapevo essere sempre lo stesso in ogni parte del mondo. Un attimo può cambiare il mondo.
Guardai le figure degli uomini stese a terra, addormentati intorno al fuoco. Dove mi avrebbero condotto era un mistero. Cosa fossero era un'incognita ai miei occhi di giovane. Ero sempre stato sicuro che nel mondo il mio posto fosse ben segnato, ben scavato, quella notte cominciai a pensare che nemmeno il fato sapesse cosa farsene di me. Forse era arrivata la mia fine. Ancora prima di cominciare.
Il vento soffiò forte per un istante e mi sembrò di udire le urla della mia gente, spaventata e sconvolta da quello che era avvenuto. Mi sembrò di sentirli ruggire di dolore e disperazione. Sollevai il viso al cielo ancora una volta e, perdendo lo sguardo nel blu profondo, mi accorsi di come la luna brillasse maestosamente e di come le stelle le danzassero attorno senza emettere alcun suono. La calma del mondo mi rendeva tranquillo, sebbene i miei pensieri fossero tormentati. Cercai di farmi coraggio e riguardando i tronchi di quegli alberi scuri cominciai a pensare che lì fuori non era così male. Dovevo accettare quello che il fato mi avrebbe donato.
Fiducioso cominciai a sperare ancora. Non si può certo dire fossi uno arrendevole. Cominciai a sperare con la paura ancora salda nel cuore. Se ci fosse stato un posto, lontano o vicino, sperduto, piccolo o grande, minuscolo, un qualsiasi luogo in quell'intero mondo in cui non mi sarei mai più sentito solo, allora l'avrei cercato, avrei fatto di tutto per arrivarci, per avere tutto ciò che la mia vita poteva offrirmi.
Non c'erano Principi pronti a salvarmi. C'ero io e davanti a me il mondo, l'ignoto più assoluto e la paura più cieca di esso.

La storia de 'Il Principe' è gia conclusa e ho deciso di pubblicare i capitoli a scadenza casuale (spero di riuscire a tenere il ritmo di due capitoli a settimana). Il racconto è diviso in tre parti principali che io poi ho suddiviso in capitoli. Il Silenzio del Drago è la prima parte della storia.
Scrivo storie da un po' di tempo ma non ho mai avuto il coraggio di pubblicarle limitandomi a farle leggere agli amici più intimi. Spero quindi che il primo capitolo vi sia piaciuto e sarei davvero felice se seguiste anche gli altri. 
Grazie per il tempo che avete speso e spero nelle vostre opinioni in merito.
Iwon Lyme
   
 
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