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Autore: Old Fashioned    24/01/2017    18 recensioni
Siamo in Sudan, durante la guerra mahdista. Il tenente Grosvenor, che qualcuno ha già conosciuto, si imbatte in un collega intenzionato a recarsi presso un'oasi per fare rilievi archeologici. Si offre di accompagnarlo.
La situazione, una volta raggiunto il posto, si presenterà un po' meno semplice di quanto i due si sarebbero aspettati.
Genere: Avventura, Commedia, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: L'Ottocento
- Questa storia fa parte della serie 'Grosvenor'
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LE ROVINE DI MEROE



Nonostante gli appellativi altisonanti, tra i quali si annoveravano Perla del Mar Rosso e Città di Corallo, non è che Suakin fosse esattamente il Giardino delle Esperidi.
Era un piccolo agglomerato di case fatiscenti con strade polverose, un chiassoso mercato costantemente afflitto dal tanfo del pesce esposto al sole e poco altro.
Da lontano si distingueva solo per il minareto dipinto di verde e per le innumerevoli tende di varie sfumature dal bianco al caffellatte che costituivano l’insediamento militare britannico.
Essa però appariva di incomparabile bellezza ai soldati che vi arrivavano dopo aver trascorso alcuni mesi nell’inclemente deserto del Sudan a combattere contro i mahdisti.
Per quanto miseranda, infatti, la cittadina era un luogo dove si trovavano ombra e acqua, se non in abbondanza, almeno in quantità sufficiente ad un essere umano di poche pretese.
Aveva inoltre l’inestimabile pregio di essere un luogo relativamente sicuro, in cui non si doveva costantemente temere di beccarsi una pallottola mahdista.
Dulcis in fundo, Suakin offriva anche generi di conforto. Certo bisognava accontentarsi, ma era pur sempre qualcosa di meglio della carne di capra insipida e dell’acqua limacciosa delle oasi.
La Città di Corallo, quindi, era generalmente reputata dalle truppe inglesi un bellissimo posto.
Di questo parere era senz’altro il giovane tenente Eldred Grosvenor, che si trovava lì assieme al suo reparto, il neo-costituito British Camel Corps, in attesa di sfidare col suo fedele e gibboso animale le silenti immensità del deserto.
Essendo lì da poche settimane non si era mai addentrato fra le dune per più di qualche decina di miglia, più che altro aveva compiuto pattugliamenti intorno alla città, ma già quelle brevi escursioni – due, tre giorni al massimo – gli avevano fatto apprezzare sommamente al suo ritorno tutte le bellezze del piccolo porto sudanese.
C'era il gin & tonic, per esempio. Non che il gin usato per prepararlo fosse eccellente – era un inquietante intruglio che per chissà quale via traversa dell'intendenza militare arrivava fin lì da Bangalore – comunque accompagnato ad un'adeguata dose di acqua tonica e limone si lasciava persino bere. Non c'era ghiaccio, ma gli addetti al circolo ufficiali conservavano le bottiglie sul fondo di una specie di pozzo, per cui la temperatura delle bevande, paragonata a quella esterna, era accettabilmente fredda. La vita è una questione di relatività, in fondo.
C’erano anche altri generi di conforto, ovviamente, ma il giovane ufficiale si dedicava con entusiasmo al primo, sostenendo che la bevanda lo aiutava a meditare. Interrogato sull’argomento di tali meditazioni, era solito fornire risposte evasive che avevano a che fare con la vita e i massimi sistemi.

Grosvenor stava giusto meditando all’approssimativa ombra di un palmizio quando vide passare il tenente John Greenfield della cavalleria leggera.
L’ufficiale era vestito di tutto punto, con tanto di borracce d’acqua e mappa della zona sottobraccio, e stava conducendo per le redini il suo cavallo bardato come se avesse dovuto arrivare fino alle sorgenti del Nilo.
“Salve collega,” lo apostrofò, levando il bicchiere nella sua direzione in un elegante gesto di saluto, “dove ve ne andate di bello?”
Provava un’istintiva simpatia per il tenente Greenfield, e stranamente la cosa non aveva nulla a che fare con certi suoi gusti. O meglio, non che avrebbe disdegnato di portarselo a letto se l’occasione si fosse presentata, ma poiché l’occasione aveva tutta l’aria di non volersi presentare, se n’era fatto allegramente una ragione e si limitava ad una cameratesca amicizia.
Greenfield si fermò. “Ho la giornata libera. Vado a visitare delle rovine,” gli disse, rivolgendogli un sorriso vagamente imbarazzato. Lo guardò aspettandosi che lo deridesse o mettesse in dubbio la sua salute mentale come probabilmente doveva aver fatto ogni altro militare della guarnigione.
Grosvenor invece gli restituì il sorriso e disse: “Rovine? Che bisogno c’è di prendere il cavallo per vederle? Qui è pieno di rovine.”
Con gesto ampio indicò la città, dove in effetti almeno un terzo degli edifici era costituito da fatiscenti vestigia di un passato che doveva essere stato molto più opulento del presente.
Il circolo ufficiali che in quel momento stava dissetando Grosvenor era la metà diroccata di un palazzo in stile moresco che doveva risalire perlomeno a due secoli prima. I blocchi di corallo bianco che lo componevano spuntavano dall’intonaco scrostato come ossa calcinate.
“Questa è una rovina, per esempio,” continuò indicando la costruzione, “e bella grossa. Potreste contemplarla mentre bevete un gin tonic in mia compagnia. Scommetto che anche il vostro cavallo ve ne sarà grato, povera bestia.”
Greenfield abbassò lo sguardo. “No, grazie. Siete molto gentile ma preferisco non bere alcolici con questo clima.”
“Sciocchezze,” rise Grosvenor, “un po’ di sano alcol fa bene con qualsiasi clima. Però vi do ragione, bere questo gin è un vero attentato alla salute. Secondo me lo fanno i mahdisti distillando le ossa dei loro santoni e poi ce lo spacciano come proveniente dall’intendenza militare. È il loro modo di eliminare le truppe inglesi.”
Finì il bicchiere in un unico lungo sorso, poi disse: “Ma a parte gli scherzi, Greenfield, dove ve ne andate così equipaggiato?”
“La gente del posto dice che a nord-ovest c’è un’oasi con delle rovine antiche, vorrei andare a visitarle.”
Lo sguardo di Grosvenor assunse una vaga parvenza di serietà. “Mica vorrete andarci da solo, vero?” s’informò.
“Sì, perché?” Di fronte allo sguardo critico dell’altro, Greenfield si giustificò: “Nessuno dei colleghi voleva accompagnarmi.”
“Com’è possibile?”
“Sembra che non provino grande interesse per l’archeologia.”
“Valli a capire,” sospirò Eldred. Poi tornando approssimativamente serio aggiunse: “Collega, non è il caso che vi avventuriate da solo là in mezzo. È pieno di mahdisti.”
“No, non vengono fin qui, è troppo vicino alla guarnigione inglese. E poi starò attento.”
“Non dubito che starete attento, ma credo sia meglio che portiate qualcuno con voi. Anzi, verrò io stesso!” E senza dare all’altro il tempo di replicare aggiunse: “No, non c’è bisogno che mi ringraziate, è un piacere aiutare un collega in difficoltà. Dove avete detto che andiamo?”
“Oasi di Ar’bat, quindici miglia a nord-ovest della città. Ma davvero, non vi disturbate, tenente Grosvenor.”
“Assolutamente nessun disturbo! Solo il tempo di trovarvi un cammello decente e sono a vostra disposizione. Sapete montare uno di quegli animali, spero.”
“Ma io…”
“Beh, siete un cavalleggero, è chiaro che sapete farlo. In fondo non è tanto diverso da un cavallo, se non si tiene conto della gobba.”
“Veramente io vorrei andare con il mio cavallo.”
“Giammai. Volete azzoppare quella povera bestia? In mezzo alle dune ci vuole un dromedario.”

“Che rovine sarebbero quelle che andiamo a vedere?”
Greenfield esitò qualche secondo prima di rispondere. Non aveva ancora preso confidenza con l'andatura ondulatoria del Camelus Dromedarius e aveva l'impressione di trovarsi sulla coperta della Victory durante la battaglia di Trafalgar.
“Potrebbero essere le rovine di un insediamento collegato al regno di Kush,” disse infine.
Grosvenor andò a frugare tra le sue sparpagliate reminiscenze scolastiche, ma non trovò nulla di interessante. “Il regno di Kush?” ripeté perplesso.
“Un regno che si è sviluppato lungo il Nilo dall'800 al 350 Avanti Cristo. Ne parla anche la Bibbia.”
“Ah, allora siamo a posto,” commentò Grosvenor con un sorriso ironico, quindi aggiunse: “Non sono una cima in geografia, ma mi risulta che il Nilo sia piuttosto distante da qui, collega.”
“È vero,” ammise l'altro, “ma ho potuto vedere una statua che i locali hanno preso in quell'oasi, e lo stile è del tutto simile a quello dei reperti rinvenuti a Meroe. Quelli che ho visto sui libri, voglio dire.”
Così parlando il tenente Greenfield aveva in parte abbandonato il suo contegno schivo e lasciava trasparire una gioiosa aspettativa. “Se riuscissi a confermare che tra i due insediamenti vi sono delle correlazioni sarebbe una scoperta straordinaria,” disse con un brillio di entusiasmo negli occhi.
“È per questo che avete con voi tutto quel materiale da disegno?” chiese Grosvenor occhieggiando la voluminosa cartella che l'altro aveva a tutti i costi voluto portarsi dietro.
“Ho intenzione di fare una mappa del sito e qualche schizzo.”
“Sapete anche disegnare, Greenfield?”
“Un po'.” Il cavalleggero lo confessò vagamente imbarazzato, come se si trattasse di una cosa assai sconveniente.
“Beato voi, io non so nemmeno tenere in mano una matita dalla parte giusta.”
Continuarono a cavalcare fianco a fianco in silenzio. I dromedari producevano un soffice scalpiccio sulla sabbia, che unito al tinnire dei finimenti e allo scricchiolio del cuoio delle selle era l'unico rumore che si sentiva. Il sole picchiava spietatamente e il cielo era un'uniforme distesa di smalto turchese.
“Mi piace il deserto,” disse Greenfield guardandosi intorno. Erano ormai lontani dalla città, e tutt'intorno c'erano solo dune di varie tonalità dall'ocra al crema, che diventavano color terra di Siena bruciata in lontananza e infine cinabro e indaco scomparendo all'orizzonte. Qua e là crescevano arbusti contorti.
“Guardate, una gazzella!” esclamò Grosvenor puntando il dito verso una bestiola simile a un daino.
Greenfield la seguì con lo sguardo mentre si allontanava saltando agilmente. “Mi chiedo dove trovino da mangiare, povere bestie,” disse.
“Probabilmente nell'oasi dove stiamo andando.” rispose l'altro. Controllò ancora una volta la bussola e aggrottò le sopracciglia.
Considerando che alla partenza Grosvenor non era esattamente sobrio, Greenfield ebbe la fugace e raccapricciante visione di due scheletri in uniforme britannica dispersi nel deserto del Sudan con accanto una cartella da disegno e un bicchiere (vuoto) di gin tonic. “Siete sicuro che sia la direzione giusta?” azzardò.
“Certo che lo sono,” rispose l'altro, “è questa dannata bussola che non vuole decidersi a mostrarla come si deve.”
Mio Dio, pensò allarmato Greenfield. Cominciava a temere di aver fatto il più grosso errore della sua vita ad accettare la compagnia di Grosvenor. Immaginò sua madre in gramaglie che riceveva la comunicazione della sua morte. Disperso nel deserto. La Patria vi ringrazia.
“Fatemi vedere quella bussola, volete?” chiese cautamente tendendo la mano.
L'altro sorrise. “Scherzavo,” gli rispose, “questa bussola funziona perfettamente. Era solo per ravvivare un po' la traversata.”
“Cosa? Volete dire che non ci siamo persi?”
“Alla pelle ci tengo, collega. Facciamo una corsa coi cammelli?”
“Cosa?”
“Coraggio, è facile. Basta stringere le ginocchia, il resto lo fanno tutto loro. A chi arriva prima a quella roccia là in fondo?”
“Ma neanche per sogno!” protestò Greenfield dopo un attimo di stupore, “ho qui l'inchiostro, i fogli, i pennini e tutti gli strumenti di misura. Rischierei di fare un disastro.”
L'altro si strinse nelle spalle. “Va bene,” brontolò, “niente gara.” Poi, dopo una pausa: “Lo sapete perché i dromedari girano sempre con quell’aria di sussiego? Intendo dire, con la testa alta e tutto quanto.”
“No, perché?”
“Gli arabi dicono che è per via del fatto che solo loro conoscono il centesimo nome di Allah.”
“Davvero?”
“Sì, dicono che sono così sdegnosi perché se ne vantano. Come se a un dromedario gli potesse fregare qualcosa del centesimo nome di Allah.”
“E quale sarebbe?”
“Ah, non lo so. Lo sanno solo i dromedari.”
Questa volta Greenfield non poté impedirsi di scoppiare a ridere.
Grosvenor pensò che era davvero carino quando rideva, poi per distrarsi da quel pensiero alzò il binocolo e scrutò l’orizzonte. Indicò una specie di puntino in lontananza e disse: “La nostra oasi. Era ora, cominciavo a temere che sarei finito arrosto.” Porse lo strumento al collega. “Volete dare un’occhiata?”
L’altro cercò di utilizzarlo, ma il dromedario ondeggiava a tal punto che dopo un po’ glielo restituì accontentandosi di guardare a occhio nudo. “Ora so perché preferisco i cavalli,” brontolò.
“I cammelli sono brave bestie,” gli rispose Grosvenor, “sono brutti come la fame, ombrosi e scoordinati, si direbbe che Dio li abbia creati in un momento di profondo malumore, eppure non c’è niente di meglio per attraversare un deserto. Lo sapete che possono bere fino a venticinque galloni d’acqua in dieci minuti? Vorrei poter fare la stessa cosa col gin tonic.”

L’oasi di Ar’bat cominciò a delinearsi all’orizzonte. Il puntino divenne una macchia e pian piano il suo indefinito colore scuro si rivelò un insieme di tonalità di verde. Comparvero le palme da datteri, e tra esse mura diroccate color ocra.
“Sembra che le rovine dopotutto ci siano,” disse Grosvenor.
“Ne dubitavate?”
“Diciamo che i locali hanno un concetto della verità piuttosto elastico.”
Si avvicinarono ulteriormente. A parte lo stormire lieve delle fronde, il luogo era perfettamente silenzioso, tanto che lo scalpiccio dei due cammelli sembrava il fragore di un esercito in marcia. “Ha l’aria di essere disabitata,” constatò Greenfield.
Annullata la distanza, le piante che da lontano sembravano rigogliose apparvero rade e inselvatichite. I canali d’irrigazione, semidiroccati e ingombri di detriti, erano secchi. Qua e là si notavano le vestigia di abitazioni ed entrambi si resero conto che erano quelli i muri color ocra che avevano visto avvicinandosi.
“Mi avevano detto che c’erano delle statue,” protestò Greenfield deluso. Nonostante tutto si guardava ansiosamente intorno, alla ricerca delle agognate rovine.
“Forse saranno qui in giro,” rispose l’altro con tono rassicurante, “ci riposiamo un po’ all’ombra e andiamo a fare una piccola ricognizione, che ne dite?”
Non pensava che lì intorno ci fossero rovine antiche, chissà cos’avevano visto o creduto di vedere i sudanesi con cui Greenfield aveva parlato, però il collega aveva assunto un’espressione così avvilita che Grosvenor gliene avrebbe volentieri costruita una di sana pianta, per il solo gusto di vederlo sorridere di nuovo.
Smontarono dalle rispettive cavalcature, gironzolarono un po’ in una specie di radura circondata da palme. Anche all’ombra il caldo era opprimente e non si muoveva un filo d’aria. “Che silenzio,” disse Greenfield guardandosi intorno. Non era mai stato in un’oasi e probabilmente se l’era immaginata diversa. Più simile a quelle che aveva visto nei libri illustrati, magari. Con più verde, campi coltivati e una generale impressione di frescura che lì mancava completamente.
Diede un calcio a un sasso polveroso e ripensò alla gazzella che avevano visto poco prima. Chissà se sarebbe venuta lì a bere? Ma a bere dove, poi?
“Non vedo la sorgente,” disse a voce alta.
“Là in fondo.” Grosvenor indicò una macchia di vegetazione particolarmente fitta e rigogliosa. “Anzi, facciamo bere i dromedari, già che ci siamo. È sempre meglio averli pieni.”
Condussero i due animali alla pozza d’acqua e mentre essi si dissetavano si sedettero poco lontano, su una pietra liscia che aveva tutta l’aria di essere stata in tempi antichi un architrave o un sedile.
“Magari ci stiamo appoggiando il deretano, sulle rovine,” disse Grosvenor, picchiettando con le nocche il blocco di pietra.
“Dite che questo è tutto ciò che resta dell’insediamento?”
Il primo si strinse nelle spalle. “Almeno non perderete troppo tempo a fare gli schizzi e la mappa.”
“No, sono sicuro che ci dev’essere qualcos’altro.”
“D’accordo, frugheremo quest’oasi da cima a fondo e troveremo ogni singolo sasso nabateo presente.”
“Nabateo? Che c'entrano i nabatei?”
“Sono nella Bibbia.” Poi, dopo una pausa: “Ci sono, vero? In ogni caso intendevo dire le rovine di quel regno che avete menzionato. Ma prima mangiamo qualcosa, sto morendo di fame. E di sete.”

Consumarono le provviste che si erano portati dietro. Greenfield, che era ansioso di cominciare le ricerche, mangiò in fretta e furia e buttò giù qualche sorso d’acqua. Quando si dichiarò pronto, Grosvenor era ancora a metà del pasto. “Aspettate un attimo,” protestò, “ho bisogno di calma, se mi fate mangiare troppo in fretta mi viene l’ansia. Sono una creaturina cagionevole, io.”
“Mentre voi finite vado a cercare le rovine.”
“Hanno aspettato per venti secoli, non credo che venti minuti in più o in meno facciano una gran differenza. Venite a bere un altro po’ d’acqua piuttosto.”
“No, davvero. Siete molto gentile ma preferisco fare un giro qui intorno.”
Senza attendere risposta Greenfield si allontanò verso est con la sua cartella sottobraccio.
“Bah, cavalleria,” commentò il tenente Grosvenor fissando le frasche tra cui l’altro era sparito “sono troppo agitati, non riescono mai a starsene fermi in santa pace.”
Finì di mangiare con tranquillità, poi si alzò e si stirò voluttuosamente. Ora bastava dare sfogo alla natura e poi sarebbe stato un pomeriggio decisamente perfetto. Si addentrò fra le piante con tutte le intenzioni di irrigare l’arido suolo desertico, e poiché il collega si era diretto verso est ebbe la delicatezza di andare a ovest.
Fatti pochi passi, salì su una piccola cresta e una volta che fu in cima si offrì ai suoi occhi uno straordinario spettacolo: in un avvallamento naturale del terreno vi era una distesa di magnifiche rovine. Non avrebbe saputo dire se fossero quelle che stava cercando Greenfield, ovvero le vestigia del regno di Vattelapesca, ma di sicuro erano un’incredibile scoperta archeologica.
Ebbe naturalmente l’impulso di andare a chiamare subito il collega, ma poiché in quel momento anche un altro impulso, di natura corporale, si stava facendo prepotentemente sentire, decise di soddisfare per primo quello.
Si mise dunque in una posizione dalla quale avrebbe potuto vedere bene le rovine, e contemplandole con fare ameno si accinse a svuotare la vescica.
Nel corso dell'operazione lasciò vagare lo sguardo assorto sull'avvallamento: vi era un edificio principale che senza dubbio doveva essere stato un tempio. Gli ornamenti delle pareti erano quasi completamente scomparsi, ma restava ancora un bell’assortimento di statue umane ed animali. Intorno c’erano altre costruzioni più piccole, una specie di piramide, un buco tondo che poteva essere un pozzo e bandiere nere.
Grosvenor rimase interdetto. Bandiere nere?
Le bandiere nere sono quelle dei mahdisti, si disse.
Fece scorrere di nuovo lo sguardo sulle rovine, e questa volta si premurò di farlo con l'occhio del soldato e non con quello dell'archeologo: rifiuti, escrementi, impronte di animali, i resti di un bivacco. Un paio di piedi umani che spuntavano da dietro una duna!
“Oh, cazzo,” mormorò.
Ora che guardava meglio, riusciva a scorgere mahdisti dappertutto. Decine, addirittura centinaia, tutti accampati tra le rovine. Non sapeva per quale miracolo non si fossero ancora accorti di lui, ma sospettava che non fosse il caso di sfidare ulteriormente la sorte.
Greenfield! fu il primo pensiero che gli attraversò la mente.
Il tenente Greenfield era in giro a cercare reperti, serenamente inconsapevole di trovarsi nel bel mezzo di un covo di mahdisti assetati di sangue.
Se li avessero presi li avrebbero uccisi, con ogni probabilità in maniera lenta e dolorosa, godendosi la loro agonia come la gente normale si sarebbe goduta uno spettacolo di teatro il sabato sera.
Si ricompose e scivolò via più silenziosamente che poté.
Stava giusto per sospirare di sollievo quando alle sue spalle echeggiò un grido allarmato: l'avevano scoperto.
“Maledizione!” ringhiò. Non c'era bisogno di scomodare von Clausewitz per stabilire che l'unica cosa da fare era tagliare la corda più velocemente possibile.
“John!” urlò, alle sue spalle echeggiarono altre grida e qualche colpo d'arma da fuoco “John! Qualsiasi cosa stiate facendo, fosse anche disseppellire il pitale di Re Salomone, smettete di farla e saltate sul vostro cammello!”

John Greenfield sedeva nel folto di una macchia. Aveva finalmente ritrovato la gazzella e in mancanza di rovine la stava ritraendo.
La bestiola, che non si era accorta della sua presenza, aveva brucato per un po' i radi fili d'erba poi si era accucciata, ed era così immobile che sembrava quasi si fosse messa in posa apposta per lui.
Le grida di Grosvenor la fecero saltare in piedi e scomparire tra le frasche proprio quando il disegno stava per essere ultimato.
Greenfield si girò con un sospiro verso la provenienza dei clamori. Il suo collega era un caro ragazzo, simpatico e generoso, ma alle volte era davvero troppo espansivo.
In quel momento Eldred Grosvenor saltò fuori da una macchia di vegetazione come un tappo di champagne.
“Per fortuna che vi ho trovato!” ansimò, “muovetevi, non c'è un minuto da perdere!”
“Che succede?”
“Mahdisti! Decine, centinaia di Mahdisti. Tutto il dannato esercito di Osman Digna.”
“Cosa? Qui?”
“No, a Piccadilly Circus! Muovetevi, tagliamo la corda finché siamo in tempo!” esclamò Grosvenor per tutta risposta.
L'altro non trovò nulla da eccepire nella proposta ed entrambi corsero alla radura dove avevano lasciato gli animali.
Vi giunsero contemporaneamente ad un nutrito gruppo di mahdisti. Ci fu un istante di immobilità cristallizzata in cui i due ufficiali e gli uomini del Mahdi si fissarono attoniti, poi Grosvenor afferrò il collega per un braccio e partì di corsa verso i dromedari.
“Non alzatevi in piedi, bastardi!” urlava rivolto ai due animali.
Essi gli rivolsero uno sguardo infastidito continuando a ruminare.
Inseguiti da una torma di sudanesi schiamazzanti, i due balzarono sulle rispettive cavalcature. “Adesso in piedi, dannato sacco di pulci!” esclamò Grosvenor, annaspando per agguantare le redini.
“Ehi, come si fa a far alzare in piedi questo coso?” domandò Greenfield.
L'altro gridò una parola in arabo e le bestie si sollevarono mandando orrendi bramiti, poi rimasero ferme con aria di sussiegoso fastidio.
“Un altro motivo per preferire i cavalli, dannazione!” imprecò Greenfield, che aveva quasi rischiato di essere disarcionato nel movimento.
“Tenetevi stretto!” disse l'altro per tutta risposta.
“Ma se sono fermi!” replicò il primo, fissando preoccupato il nutrito gruppo di mahdisti che si stava dirigendo verso di loro. Echeggiò qualche sparo.
Me ne devo crepare seduto su un cammello fermo, pensò angosciato il tenente di cavalleria, mentre immaginava i commenti dei colleghi alla notizia di un simile decesso.
In quel momento Grosvenor gridò qualcosa che somigliava a Hathathat! e calò con forza una canna d'India sui quarti posteriori del dromedario di Greenfield.
Immediatamente i due animali partirono pancia a terra galoppando come se avessero avuto il diavolo alle calcagna, mentre alle loro spalle i mahdisti appiedati sparavano urlando.
Con le pallottole che fischiavano nelle orecchie, gli inglesi facevano del loro meglio per stare in sella ai dromedari.
“Sembra di essere su un carro con le ruote quadre!” protestò Greenfield sobbalzando. Non aveva altro a cui tenersi che il pomo della sella, e a quello era aggrappato come se fosse in bilico su un precipizio. “Il mio regno per un cavallo,” grugnì all'ennesima botta dell'arcione contro i suoi attributi.
“Resistete, Greenfield, li stiamo seminando!” esclamò Grosvenor con il consueto ottimismo.
Con una certa fatica l'altro si girò e vide che in effetti stavano distanziando gli inseguitori. Considerò sgomento che non sapeva come fare per rallentare il dromedario. Che faccio, si chiese perplesso, aspetto che si stanchi? Rischio di arrivare a Suakin così. Speriamo che almeno si fermi quando arriva al mare.
Giusto per scrupolo si guardò di nuovo alle spalle. “Devo darvi una notizia, Grosvenor,” disse.
“Sì, cosa?”
“Ci inseguono.”
“A piedi? Lasciate che corrano. Ormai saremo fuori tiro.”
In quel momento una pallottola passò ronzando tra i due.
Grosvenor assunse un'espressione addirittura costernata. Si girò e vide che alle loro spalle vi era un gruppo di mahdisti montati su dromedari. “Cazzo, ci inseguono!” protestò.
“Era quello che intendevo dire,” rispose Greenfield.

“D'accordo, non facciamoci prendere dal panico,” disse Grosvenor dopo un po', “mica possono arrivare fino a Suakin.”
“Ritengo che il loro obiettivo sia catturarci prima che ci arriviamo noi,” rispose l'altro.
“E che se ne fanno di due inutili tenenti?”
“Tanto per cominciare evitano che gli inutili tenenti riferiscano che l'oasi di Ar'bat è piena di mahdisti.”
“Acuta osservazione, collega.”
Questa conversazione da strateghi del Quartier Generale si stava svolgendo da un dromedario al galoppo all'altro, con nutrite scariche di fucileria che crepitavano alle loro spalle.
“La mira in groppa a un cammello è pessima,” disse Grosvenor con tono rassicurante, e in quel momento una pallottola gli bucò la borraccia, che era appesa a due pollici dalla sua coscia. “Beh, quasi sempre,” precisò.
I nemici dietro di loro erano una ventina, troppi per avere qualche speranza di cavarsela in uno scontro. L'unica cosa da fare era continuare a correre sperando che prima o poi si stancassero e rinunciassero all'inseguimento.
“Non ci lasceranno mai andare,” disse Greenfield esprimendo ad alta voce il pensiero di entrambi, “non possono rischiare che riferiamo al Comando quello che abbiamo visto.”
“Non ci hanno ancora presi, comunque,” replicò l'altro.
“Quanto può correre un dromedario?”
“Stiamo per scoprirlo.”
“Volete dire che non lo sapete?”
“Non l'ho mai reputata una nozione fondamentale per un gentiluomo.”
L'ennesimo susseguirsi di spari costrinse i due a ritirare la testa fra le spalle. “Questa gente non è affatto sportiva,” protestò Grosvenor con aria offesa.

La disordinata fuga continuò, sollevando un nuvolone di polvere nell'aria immota del deserto. I mahdisti stavano guadagnando terreno. Il gruppo si era allungato ed era diventato simile ad una rada colonna, solo quelli più vicini ai due inglesi sparavano, ma i colpi stavano diventando sgradevolmente precisi.
“Giuro che se ne esco intero mi prendo una sbronza di tre giorni,” brontolò Grosvenor, frustando il suo esausto dromedario.
“Non che sia una cosa insolita per voi,” commentò Greenfield.
“Giusto. Una sbronza di una settimana.”
L'altro non poté evitare di sorridere fra sé e sé. Le persone normali in situazioni del genere si raccomandavano a Dio promettendo buone azioni in cambio dell'aiuto, Grosvenor invece faceva voto di ubriacarsi.
“Beh, se ne usciamo penso che una bevuta me la farò anch'io,” disse.
“Ci sbronzeremo insieme allora.”
Probabilmente quello era il modo giusto di rivolgersi alla divinità, perché un attimo dopo spuntò da dietro una duna una pattuglia del British Camel Corps in missione esplorativa, probabilmente attirata sul posto dalla colonna di polvere sollevata dall'inseguimento. A quella vista i mahdisti capirono che la situazione si metteva male. Spararono qualche altro colpo giusto per non fare la figura dei conigli, poi fecero un brusco dietro front e ripartirono verso l'oasi.
I nuovi arrivati si mossero per inseguirli, ma i due ufficiali li fermarono. “Dobbiamo riferire al comando che l'oasi di Ar'bat ospita alcune compagnie di mahdisti,” disse Greenfield, preciso come al solito.
“I mahdisti? Qui?” chiese stupefatto il tenente che comandava la pattuglia.
“Tutto il dannato esercito di Osman Digna,” precisò Grosvenor.
“Sarà il caso di riferirlo al comando, allora.”
“Direi di sì.”

I due rientrarono a Suakin increduli di essere ancora vivi, tutti d'un pezzo e senza altri buchi a parte quelli che la Natura aveva fornito loro alla nascita.
Mentre John Greenfield voleva riferire subito al comandante della guarnigione quello che avevano visto, Grosvenor si diresse deciso verso il circolo ufficiali.
“Non venite con me, Eldred?” chiese stupito il cavalleggero.
“No di certo, il vecchio penserebbe che sono ubriaco – e sarebbe una maligna insinuazione, dal momento che non lo sono ancora – e non crederebbe a una sola parola di quello che dico. Io vado al circolo, così mi metto avanti col lavoro. Ho detto che sarei stato sbronzo per una settimana e intendo tenere fede da subito all'impegno preso.”
“Però siete stato voi a vederli.”
“Li avete visti anche voi, mi pare.”
“Sì, certo. Ma voi avete visto anche il loro accampamento.”
Grosvenor fece spallucce. “Oh, niente di che. Bivacchi, bestie da soma. Qualche tenda in mezzo alle rovine…”
“Rovine?” lo interruppe Greenfield fissandolo ansioso.
Di fronte a quello sguardo anelante Grosvenor non ebbe cuore di dire la verità. “Beh… due sassi,” borbottò, “niente di che. Sassi polverosi. Anzi, se non fossi stato attento non mi sarei neppure accorto che erano rovine.”
“Non c’erano piramidi?”
“No. Neanche mezza.”
“Statue?”
“Figurarsi. Era solo un mucchio di sassi.”
“Avrei comunque voluto vederli” sospirò l’altro deluso.
“Oh, non vi siete perso niente, collega,” gli assicurò Grosvenor, cercando di distogliere il pensiero da quanto Greenfield fosse carino anche con quell’aria triste. “Proprio niente. Ne sareste rimasto assolutamente insoddisfatto, ve lo garantisco.”
“Davvero?”
“Sul mio onore,” rispose Grosvenor, facendo del suo meglio per assumere un’espressione di totale sincerità.
L’altro sospirò di nuovo. “Beh, questo mi rincuora,” disse dopo un po’, “almeno non avrò il rimpianto di essermi perso qualcosa di bello.”
“Potete giurarci. Solo sassi polverosi. Così polverosi che mi hanno fatto venire voglia di un gin tonic.”
“Voi avete sempre voglia di un gin tonic.”
“È una maligna esagerazione. Quando dormo non bevo, per esempio.”

I due ufficiali riferirono quanto avevano visto, e questa forse è la ragione per cui i libri di storia non riportano battaglie intorno a Suakin.
Probabilmente perché vistisi scoperti, i mahdisti preferirono dedicarsi ad altri obiettivi.
Quello che possiamo dire con certezza è che Grosvenor fece del suo meglio per tenere fede al voto formulato con tanto fervore durante la sua precipitosa fuga dall’oasi di Ar’bat.
Il tenente Greenfield venne meno al suo proposito di non bere alcolici nei climi caldi, ma il gin di Bangalore si rivelò superiore alla sua abnegazione ed egli si limitò a un paio di brindisi con il collega, rimanendo peraltro sobrio come un reverendo.
Delle rovine non sappiamo nulla, e la teoria che il regno di Kush si estendesse fino ai confini occidentali del Sudan attende ancora una conferma.
   
 
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