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Autore: Duchannes    26/01/2017    1 recensioni
E poi eccoci qui, ancora persi in quel limbo infinito in cui non smettevamo di correrci incontro o di correre lontani l’uno dall'altro. Questa volta ero stato io a rincorrerti, perché sostenere tutto il mio mondo da solo era diventato insopportabile e avevo bisogno di respirare. Non mi hai fatto domande, non mi hai accusato di averti chiuso fuori, hai semplicemente aperto le braccia e hai permesso che mi ci nascondessi dentro.
Louis loves Harry. Harry loves Louis.
Genere: Angst, Fluff, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Styles, Louis Tomlinson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La pazienza, casa nostra, il contatto, il tuo conforto
 
 
“Sarà la pioggia d’estate
O dio che ci guarda dall’alto.

Sarà che non esci da mesi, sei stanco
hai finito e respiri soltanto.

Per pesare il cuore con entrambe le mani
mi ci vuole un miraggio.

Quel conforto che
ha a che fare con te.”

-Tiziano Ferro, Il conforto.

(Ascoltatela prima di leggere)
 
Avevamo finito di fare l’amore da pochi istanti, la mia pelle era ancora pregna del tuo odore, ancora calda per tutti i baci che ci avevi seminato e umida per il sudore che ci aveva ricoperti nonostante il freddo che penetrava dalla porta completamente spalancata. Mi avevi pregato di chiuderla, quando il freddo ti aveva fatto rabbrividire più del piacere che ti stava asfissiando, ma io ti avevo detto di no e ti avevo stretto contro il mio corpo per provare a riscaldarti. Tu mi avevi lasciato fare perché sapevi quanto il freddo mi facesse sentire vivo davvero, l’unica cosa che riusciva a farmi stare bene con me stesso, dopo di te.

Non ci vedevamo da un po’, dalla volta in cui era successa la cosa peggiore che potessi immaginare, avevo perso la persona più importante al mondo e di quella ferita ne portavo ancora i segni, freschi sulla pelle, quelli che forse non si sarebbero chiusi mai. Mi ero chiuso in mesi di silenzi dove non ti avevo lasciato entrare, avevo sbarrato la porta e mi ci ero raggomitolato contro, sanguinante, troppo debole per poter affrontare quell’amore che mi dimostravi tutte le volte, anche solo con i tuoi occhi.

E poi eccoci qui, ancora persi in quel limbo infinito in cui non smettevamo di correrci incontro o di correre lontani l’uno dall’altro. Questa volta ero stato io a rincorrerti, perché sostenere tutto il mio mondo da solo era diventato insopportabile e avevo bisogno di respirare.

Non mi hai fatto domande, non mi hai accusato di averti chiuso fuori, hai semplicemente aperto le braccia e hai permesso che mi ci nascondessi dentro. Era forse quello il tuo sbaglio più grande, lasciarmi entrare tutte le volte come se il dolore e la solitudine non fossero mai passate di lì e tutto fosse sempre fermo allo stesso punto.

E forse eravamo fermi davvero, chiusi in quella stanza di cui mi avevi consegnato la chiave, lasciandomi libero di scappare via ogni volta che volevo. Quella da cui non ero mai riuscito ad uscire, spingendomi però negli angoli più estremi, in prossimità ma non in vicinanza. Cercando di stare lontano, dalla mia paura più grande: il tuo amore.

Mi spaventava il modo cieco in cui mi hai sempre amato, quel modo intenso, distruttivo che certe volte finiva per farti a pezzi, ma che tu continuavi a nutrire, come un bambino di cui ti prendevi cura. Quell’amore che a volte respingevo, cercando di avvolgerlo e soffocarlo per spingerlo lontano da me, e che tu invece tenevi in piedi con entrambe le mani, con coraggio. Sostenendolo per entrambi, per quando avrei avuto voglia di tornare indietro e di sentirlo scivolare su tutta la mia pelle, per farlo penetrare in fondo dove solo tu certe volte eri riuscito ad arrivare.

Mi ero rivestito in fretta, infilando il paio di jeans che era finito accartocciato sul pavimento e il tuo cardigan, quello che mi stava così grande da aver dovuto ripiegarlo due volte intorno ai miei polsi, che però mi faceva sentire a casa, perché era come stare tra le tue braccia, l’unico mio conforto.

I miei capelli erano un ammasso indistinto che ricadeva morbido sulla mia fronte, mi ero seduto su quella sedia in fondo alla stanza, ancora una volta lontano da te, distanza che odiavi con tutto te stesso. Odio che percepivo dai tuoi occhi fermi puntati su di me dal letto disfatto in cui ancora giacevi tranquillo.

Stringevo una sigaretta tra le labbra che avevo appena acceso, mentre contemplavo la vegetazione  selvaggia che si stagliava di fronte quella casetta immersa nel nulla più totale, quella che era diventata un po’ nostra anche se non ci apparteneva legalmente. Quella che ci aveva visti litigare una volta, mentre mi dicevi che non sopportavi più di vedere quella versione patetica di me stesso che ero diventato. Mentre mi dicevi di mangiare con tono imperioso, quasi isterico di fronte all’idea che stessi perdendo peso, abbandonandomi a me stesso.

Perché qualsiasi cosa stessi facendo nella tua vita, girare il mondo, abbandonarti alla fotografia o scrivere canzoni, tirarmi sul dal baratro in cui certe volte mi rifugiavo era l’unica cosa che non riuscivi a smettere di fare. Lasciavi tutto e correvi da me, perché sentivi di dovermi proteggere da me stesso certe volte, e tu era la mia unica via d’uscita. Harry Styles era lo scudo che Dio mi aveva fornito contro la vita, contro me stesso e il dolore che sapevo sempre infliggermi.

Lei diceva sempre che con te ero un bambino capriccioso in cerca dell’attenzione della propria madre, che batteva i piedi contro il pavimento, impertinente, finché non la riceveva tutta per sé. Ed io non potevo contraddirla, perché ero assuefatto dalla voglia di avere tutta la tua attenzione su di me, di sentirti completamente mio. Ero egoista con te, e questo è quello che non riesco mai a perdonarmi, né a controllare.

Tu lo sapevi, ma non ti era mai importato, l’unica cosa di cui ti importava più di tutto ero io, riuscivi a metterti da parte certe volte, per questo scappavo lontano, perché non potevo permettere a me stesso di rovinarti. Anche se poi quella distanza mi pesava come un macigno sulle spalle, non te l’avevo mai detto, ma per tutto il tempo in  cui ti stavo lontano, nel mio piccolo mondo non smetteva di piovere neanche un secondo, il cielo mi dava le spalle e non sopportava di non essere vicino al mio sole personale.

Mentre ero seduto a fissare la vegetazione selvaggia tutta intorno a noi, ero stato colpito da una folgorazione e allora avevo afferrato la chitarra poggiata nell’angolo e l’avevo adagiata sul mio grembo, per riuscire a trasformare in musica tutti quei pensieri che mi stavano vorticando nella testa. E la musica era scivolata tra le mie dita, in una melodia forte ed incisiva. Quella che avevo composto in quei giorni in cui il tuo pensiero era stato un chiodo asfissiante puntato nella mia testa.
Le parole erano sgusciate fuori dalla mia lingua senza che riuscissi a trattenerle e:

 
Eh, è il modo in cui ti muovi in una tenda,
in questo mio deserto.

 
Avevo sussurrato, sotto il tuo sguardo attento, ipnotizzato. Io avevo lasciato la melodia scorrere ancora, mentre mi giravo a guardarti dritto negli occhi e un’altra frase scivolava via dalle mie labbra:
 
La pazienza, casa nostra, il contatto, il tuo conforto
 
Avevo visto i tuoi occhi brillare, accesi da quell’amore che a volte sapevo lanciarti contro con forza spietata, fino a sopraffarti e a ripagarti di tutto quello che tu mi donavi costantemente, con impegno.

Non avevi sopportato più di starmi lontano, così eri sgusciato fino alla mia sedia per sentirmi da vicino, io ti avevo lasciato fare, inerme sotto quegli occhi che mi incatenavano, una prigionia dolce e bellissima, di cui ero grato. Hai lasciato scivolare la chitarra via dal mio corpo e ti sei inginocchiato di fronte a me per potermi guardare dritto negli occhi. Le tue mani avevano afferrato il mio viso, per tenermi fermo e assicurarti che tutto quello che stavi provando mi arrivasse.

Ti amo mi avevi sussurrato, e non me lo dicevi da tanto, troppo tempo. Avevo chiuso gli occhi per assorbirlo, e una lacrima era scivolata via dai miei occhi, silenziosa, ma portando dietro di sé un gran frastuono. L’avevi raccolta con il tuo pollice e poi avevi stretto le tue braccia intorno al mio busto, schiacciandomi contro il tuo corpo, in un incastro che aveva sempre funzionato alla perfezione.

 
Dove non c’era più spazio tra noi,
e io non ero solo in prossimità del tuo amore,
ma vicino con tutto me stesso.




 
Note dell'autore:
Hi guysssss (accento di Chiara ferragni) (che inglese di merda, chiara)
Non so da dove sia uscita, so solo che io smetto di credere ai larry poi Louis posta una foto del genere e io scrivo di loro due. Come per magia.
So di star pubblicando solo queste deliranti os da un bel po', ma per i proggetti grossi c'è da aspettare. Ho già tanto materiale, ma voglio prima concludere per pubblicare. Quindi nell'attesa infinita, nel caso qualcuno fosse ancora all'ascolto (ne dubito fortemente) dovete accontentarvi di questi piccoli deliri fluff. (ma chi ti legge oh, illusa)
Non ho molto da dire, solo che il cardigan sopracitato è il cardigan gucci che Harry indossava in aeroporto qualche giorno fa e di cui abbiamo solo un video sfocato (shame on you paparazzi) (non ve lo linko perché non sono capace.)
E la canzone è di Tiziano Ferro, e se l'avete ascoltata come da me suggerito lì in alto, avrete notato il fatto che è disseminata un po' in tutto il testo, al di là delle citazioni.
Stop, dalla regia è tutto, se ancora mi leggete, fatemi sapere, vi voglio bene, altrimenti sad me. Se volete scrivermi su twitter, i'm: wolfsouI (quella finale è una i in maiuscolo)
Bye (accento inglese giusto) 

 
   
 
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