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Autore: Michan_Valentine    27/01/2017    0 recensioni
Calardir ha un nome da elfo, usa le pitture di guerra e ha un compagno animale. Ma è un uomo, ha un obbiettivo e nasconde un segreto di cui non conosce l'entità.
In una terra divisa, superstiziosa e governata da un re invasore, le strade percorse da chi cerca con ogni mezzo di determinare il proprio destino s'incontrano in un quadro più ampio e delineato invece da tempo. Qualcosa di ancestrale e sopito nella memoria dell'umanità si agita nelle profondità della terra e negli animi di chi può avvertirne il potere, tirando gli invisibili fili di una trama che potrebbe sconvolgere il mondo conosciuto e portarlo definitivamente alla rovina.
Tentativo di "high fantasy" con tutte le eccezioni del caso.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Non-con
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 Capitolo 3 - La Cerca
“Aiuto! Aiutatemi per favore! Non voglio morire così! Aiuto!”
Una coppia di tordi schizzò fuori dagli arbusti e spiccò il volo, dileguandosi attraverso le fronde degli alberi. Velkan invece arrestò il passo, sollevò il capo e drizzò le orecchie.
Era allarmato, lo sentiva. Di rimando Nadire si pose sottovento e s’acquattò dietro una grossa roccia ricoperta di muschio. In lontananza percepiva ancora il richiamo di uno scoiattolo; uno squittio acuto, costante, talvolta modulato in un breve gorgheggio. Il resto della fauna taceva. Le foglie invece stormivano di tanto in tanto, cullate dalla brezza.
Velkan non si attardò oltre e si dileguò nel sottobosco con la coda ondeggiante e il muso basso.
“Aiuto, vi prego! Mi fa male la caviglia! Aiutatemi, vi assicuro che non lo farò più! Sarò bravo! Chiederò scusa a Maksim e terrò le mani a posto!”
Nadire scivolò lentamente fra le foglie cadute, il baricentro basso, la sinistra poggiata al suolo e la destra stretta sull’elsa del pugnale. A giudicare dalla voce doveva essere un ragazzino; umano di sicuro, considerando la zona.
Non si fidava. Chiedere aiuto era spesso un mero trucco per attirare i gonzi nelle imboscate. Possibile che avesse altri compari nascosti tra la vegetazione.
Si mantenne bassa e si spostò ancora, distendendo cautamente le gambe con la leggerezza di un ragno. Nel mentre analizzò il terriccio e notò una scia di foglie smosse. S’inoltrava nel bosco, lì da dove provenivano le urla. S’avvicinò ulteriormente alla pista e la studiò, scansando con le dita i sassi, gli arbusti e il muschio che le erano d’intralcio. C’erano due serie d’impronte che s’incrociavano.
La prima era di un bipede. L’umano. La seconda apparteneva a un cinghiale. Di taglia considerevole, almeno a giudicare dalla profondità delle tracce. Più avanti c’erano invece segni confusi, di trascinamento.
S’immaginò la scena. Il ragazzo doveva essere caduto proprio lì. Aveva poi arrancato con le mani e con i piedi per rialzarsi e continuare a scappare. Era indubbiamente passato attraverso il pungitopo che stava più avanti con la bestia alle calcagna, come suggerivano i rami spezzati e ormai divelti dell’arbusto. Impronte di altri umani erano invece assenti.
“No! No! Aiuto! Non ti avvicinare! No! Stai indietro, bestiaccia! Stai indietro!”
Velkan.
Nadire sospirò e lasciò l’elsa del pugnale, rilassando le membra. Il ragazzo era indubbiamente sfuggito alla carica, se aveva ancora tanto fiato da sprecare. Si concentrò e sfruttò il legame col lupo per osservare la situazione dal suo punto di vista.
Le immagini le arrivarono alla mente rapide e sfocate, ma rivelatrici. Il terriccio, le fronde, l’improvviso dislivello roccioso, da cui l’animale s’affacciava. L’umano stava seduto tra le foglie e i sassi, sul fondo dell’avvallamento. Un salto di quattro metri al massimo. Agitava le braccia in aria nel tentativo di scacciare il lupo e faceva goffamente leva con la gamba destra per arretrare. Evitava invece di poggiare il piede sinistro.
Si alzò, sistemò meglio arco e faretra dietro la schiena e si diresse da quella parte. Velkan la stava già aspettando ai margini del dirupo, le orecchie dritte e gli occhi ambrati puntati su di lei. Dal fondo del dislivello risalivano invece gli strepiti del ragazzino.
Nadire serrò le labbra in una linea dura. Che fastidio. Raggiunse il bordo e s’affacciò oltre, adocchiando con freddezza la causa del trambusto. Quello sollevò la testa e la fissò di rimando, con un misto di sorpresa e speranza impresso negli occhi. Lo vide deglutire, distendere la fronte e dischiudere le labbra. Una, due volte prima di riuscire a parlare.
“Un… un elfo?”
Non rispose. Né si mosse. Quello deglutì un’altra volta, forse indeciso sul da farsi.
“T-ti prego. Tirami fuori da qui,” la supplicò poi.
Era sporco, magro e vestito di stracci, con i capelli arruffati incollati al viso. Non aveva più di tredici anni, constatò; e non portava armi. Neppure un pugnale, poiché tra sé e il lupo aveva interposto solo le braccia. Quindi non si era inoltrato nel bosco per cacciare. Il cinghiale meno che mai.
Gracile com’era poteva sperare di acchiappare qualche lepre a mani nude, ma contro una bestia di tale portata non avrebbe avuto possibilità anche armato di lancia. Dalla sua borsa, poi, spuntavano carote e melanzane. Non funghi, come sarebbe stato più ovvio in un contesto boscoso. Ciò cancellò dalla mente di Nadire l’idea residua del cacciatore e tratteggiò senza ulteriori dubbi quella del ladruncolo.
“Sei di Melcent?” domandò, secca.
“Come? I-io… non lasciarmi qui. Morirò. Non riesco a poggiare il piede a terra, sono caduto e…”
“Rispondi.”
Il ragazzino sussultò e sbatté le palpebre come se l’avesse schiaffeggiato. Poi tornò con lo sguardo a lei, si fece più piccolo e annuì.
“Hai visto uno straniero biondo, circa venticinque anni, con della pittura simile alla mia sul viso?”
“No,” rispose l’altro, riavviandosi i capelli, “ma forse Erofey sì. Non so se è il tizio che dici tu, ma una settimana fa l’ho sentito urlare. Tutta Melcent l’ha sentito. A proposito di uno straniero che ha infilato le mani nelle sottane di sua cugina.”
Serrò le labbra in una linea ancora più dura. Era lui. Non le servivano altri dettagli. Arretrò e si diresse all’albero più vicino.
“No! Aspetta! Non andare! Non lasciarmi da solo con questa bestia! Digli di non mangiarmi! Diglielo!”
Velkan ringhiò e il ragazzino strillò.
Nadire scosse la testa. Era rumoroso ed era un umano; ma forse poteva tornarle utile come lei sarebbe tornata utile a lui. Uno scambio equo.
Raggiunse la quercia, ai cui piedi pose arco e faretra. Estrasse la corda dalla sacca che portava a tracolla e l’avvolse rapidamente attorno al tronco, cui l’assicurò con un nodo ben saldo. Tornò al margine dell’avvallamento e se la passò fra le gambe, la schiena rivolta alla frattura. Avvolse il capo libero della fune attorno alla coscia sinistra e se lo fece risalire lungo il petto. Infine lo piegò sulla spalla destra dimodoché penzolasse lungo la schiena e lo agguantò saldamente con la mano libera.
Così imbracata si calò agilmente, lasciando che la fune scorresse sugli arti e ne sostenesse il peso durante la discesa. Velkan l’osservò dall’alto, seduto al margine del dislivello con la testa inclinata e l’espressione attenta, curiosa.
Nadire lasciò andare la corda quando poggiò i piedi sul fondo. A passo di marcia raggiunse il ragazzo e s’inginocchiò accanto a lui per constatarne le condizioni. Ora che lo vedeva da vicino poteva notare i graffi e le abrasioni che aveva su viso, mani e avambracci.
“C-che fai?”
Gli scoccò un’occhiataccia. Poi allungò le mani e gli afferrò la gamba. Quello s’irrigidì appena, ma le lasciò ugualmente saggiare le condizioni dell’arto.
Palpò la coscia, il ginocchio e lo stinco, strappandogli un sussulto e qualche sibilo solo in prossimità della caviglia. Era gonfia e dolorante, ma non le sembrava che ci fosse qualcosa di rotto. Probabile che si trattasse di una mera distorsione.
“Pensi che guarirà?” le domandò il ragazzino, la fronte aggrottata e le sopracciglia piegate in un’espressione preoccupata. “Le gambe mi servono. Se non corro non mangio. Non è mica semplice il mio mestiere. Sempre a guardarsi le spalle! È per questo che sono finito addosso al cinghiale. Ero così impegnato a controllare dietro che non ho controllato avanti.”
Poco ma sicuro. Dopotutto per scappare non aveva guardato nemmeno dove stava dirigendosi; e il pavimento gli era mancato da sotto i piedi.
“Non ci credi? Guarda che me la sono vista davvero brutta! Magari quel mostro è ancora nei paraggi. Avresti dovuto vederlo! Era enorme! Aveva occhi piccoli e luminosi. Malvagi. E due zanne grosse così!”
“Stai fermo. E zitto,” ribatté.
Le chiacchiere non le interessavano. Specie se erano le farneticazioni di un ladruncolo da quattro soldi. Il diretto interessato obbedì, ma continuò a fissarla con insistenza mentre frugava nella sacca e recuperava le bende. E se in principio il ragazzino l’era parso spaventato, ora le sembrava unicamente incuriosito. Forse non aveva mai visto un mezzelfo. Non c’era da stupirsi, dacché era molto giovane e conosceva ancora così poco della vita. Beh, almeno aveva imparato che non bisognava mai disturbare i cinghiali.
“Mi chiamo Orest,” si presentò inaspettatamente quello, contravvenendo all’ordine di tacere.
Nadire non rispose; non lo guardò nemmeno. Invece gli arrotolò la stoffa dei calzoni sul polpaccio e gli mise completamente a nudo la caviglia tumida.
Faccia da mantide. È così che vi chiamano,” continuò Orest. “Io no, eh! E poi tu sei a posto. Cioè, non sembri un insetto. Non hai quelle… cose!” soggiunse, muovendo freneticamente le mani innanzi a sé nella goffa imitazione di una mantide. “Soprattutto non sei verde. Sarà per gli occhi, forse… o per la mascella allungata, chissà. Io trovo che siano eleganti. Particolari.”
Nadire inarcò le sopracciglia e spiegò il lembo della benda con un gesto secco. Questa non l’aveva ancora sentita, più abituata a epiteti come selvaggi o mangia bacche.
“Cos’hai usato per dipingere il viso e le braccia? Terra? Deve essere utile per mimetizzarsi. Voi vivete nei boschi, no? Ho sentito che alcuni di voi si sono integrati, più a Nord. Scommetto che a te il cinghiale non t’avrebbe visto. Dici che se mi sporco la faccia di fango posso fregare i cani di Maksim?”
Che idiozia! Stavolta non lo zittì. Né gli scoccò un’occhiataccia. Semplicemente gli afferrò la caviglia dolorante senza un minimo di delicatezza e cominciò a fasciargliela stretta il più possibile. Quello strizzò gli occhi, incassò la testa nelle spalle e sibilò di dolore. Soprattutto chiuse il becco.
Nuovamente cullata dallo stormire delle fronde la mezzelfa terminò il bendaggio, l’annodò per bene e si sollevò. In quella maniera il moccioso avrebbe quantomeno potuto poggiare il piede a terra.
“Alzati,” sentenziò.
Non aspettò. L’afferrò saldamente per il bavero e lo trasse a sé. Orest saltò in piedi e ondeggiò leggermente prima di riacquistare l’equilibrio. Non era molto più basso di lei, constatò.
Nadire gli diede le spalle e tornò alla corda. Forse più avanti l’avvallamento si ammorbidiva, ma non aveva il tempo di prendersela comoda e di costeggiarlo per tutta la lunghezza. Per sicurezza afferrò la fune e se la strinse attorno alla vita; poi piantò mani e piedi sulle asperità della roccia e risalì lentamente, sfruttando gli appigli disponibili.
Appena raggiunse la cima Velkan le andò incontro e l’annusò. Nadire gli riservò un veloce buffetto; dopodiché tornò a rivolgersi al moccioso, che la fissava dal basso con l’espressione stupita di chi aveva appena assistito a un prodigio. Si tolse l’imbracatura, fece un cappio sull’estremità libera della corda e gliela lanciò.
“Infilaci le braccia e stringilo attorno al petto.”
Orest zoppicò fino alla fune, afferrò il cappio ed eseguì con riluttanza. Poi la guardò e corrucciò le sopracciglia.
“Non posso scalarla! Mica sono nato e cresciuto in una foresta! Qui ci sono finito per caso. Che ne so io di come si fanno ‘ste cose? Frego le uova, le verdure e qualche pollo, quando ci riesco. Tutto qua!”
Che fosse estraneo a quei luoghi l’aveva capito da subito; ma erano problemi suoi.
Aveva già perso troppo tempo con lui e insegnargli a scalare le pareti rocciose era l’ultima delle sue intenzioni, ammesso di riuscirci. Perciò afferrò la fune e se l’avvolse per due volte sul palmo della mano. Tirò e face pressione sui piedi, sfruttando soprattutto il peso del corpo. La fune si tese e il carico del ragazzino si fece sentire nella sua completezza.
Strilla e imprecazioni risalirono il dislivello, ma le ignorò. Nadire raggiunse la quercia cui era assicurata la fune, i piedi che le affondavano nel terriccio a ogni, faticoso passo. Scivolò una, due volte per via dell’umidità. Infine piegò l’estremità che teneva fra le dita sul tronco dell’albero, così da ricavare appoggio e un minimo di sollievo. Tese ulteriormente i muscoli, strinse i denti e fece scorrere la fune su di esso a più riprese, il sudore che le si addensava sulla fronte, sul petto e lungo la schiena.
“No! Fermo! Va’ via! Via! Stupida bestiaccia! Stai lontano da me!” strillò il moccioso.
Girò la corda attorno al tronco e si sporse a guardare.
Orest aveva raggiunto la cima e Velkan l’aveva agguantato per la casacca, tirandolo verso la cresta con le ganasce. Dal canto suo Nadire avrebbe avuto molto da dire sull’effettiva intelligenza dell’uno e dell’altro, ma evitò il superfluo e fermò la fune all’albero.
Tornò al margine del dislivello e aiutò il lupo, mentre Orest cercava di aggrapparsi con le unghie e con i denti a qualsiasi cosa, sassi, foglie e terra, forse terrorizzato dall’idea di precipitare una seconda volta.
Lo tirò agilmente su e il moccioso rotolò sulla cima, posizionandosi supino lungo il margine dell’avvallamento. Ansimava ed era tutto sudato, quasi a faticare fosse stato lui e non viceversa.
Pappamolle.
Lo lasciò fare, concedendogli qualche istante per allentare la tensione. Raccolse la ciocca ribelle che le era scivolata sul viso e se la portò sulla sommità della testa. La sistemò fra le chiome intrecciate e la fermò nuovamente sulla nuca con uno dei tanti rametti che le adornavano il capo.
Ne approfittò anche per controllare l’equipaggiamento. L’armatura di cuoio era a posto, constatò saggiando gli spallacci e le protezioni degli avambracci. Passò le dita sul pugnale che teneva in vita. Si chinò e fece altrettanto con il coltellino che nascondeva nello stivale per qualsiasi evenienza. Erano a posto. Si aggiustò le imbottiture di pelliccia, umide di sudore, e strinse meglio la cintura intrecciata di pelle. Infine recuperò l’arco, la faretra che aveva lasciato tra le radici della quercia e si premurò di raccattare anche la corda.
Sciolse i nodi e valutò i danni che la canapa aveva riportato, sfilacciandosi in più punti per via della frizione. Avrebbe dovuto procurarsene un’altra il prima possibile.
“In piedi, forza,” fece, osservando distrattamente Orest.
Quello si era coperto gli occhi con l’avambraccio ed era rimasto immobile da che era risalito. Gli si avvicinò e lo colpì sul fianco un paio di volte con la punta dello stivale. Il ragazzino mugugnò e non si mosse. Velkan giunse a darle manforte e gli lappò invece la faccia.
Soltanto allora Orest balzò a sedere, permettendole di sfilargli il cappio e di riporre così la corda.
“Lupi, cinghiali, dirupi!” protestò quello nel frattempo; poi sputazzò un paio di volte. “È la prima e ultima volta che mi nascondo in un bosco! Meglio la gattabuia! Mangio gratis e senza rimetterci l’osso del collo!”
“In piedi,” reiterò, insensibile ai lamenti. “Devi portarmi da questo Erofey.”
Orest si passò la mano fra i capelli e la fissò dal basso col sopracciglio alzato.
“Sicura?” chiese poi.
Non rispose. Tese il braccio e cercò di acchiapparlo nuovamente per il bavero, intenzionata a rimetterlo in piedi. Tuttavia il ragazzino si ritrasse e frappose le mani nel mezzo, i palmi esposti.
“Ho capito, ho capito! Faccio da solo,” disse; poi si alzò goffamente. “Tutto sommato credo che tu non corra rischi. Certo, lui è un uomo ed è molto più grosso di te. Ma è stupido. E in quanto a forza bruta nemmeno tu scherzi. Le maniere, invece… non so chi sia messo meglio!”
Nadire s’accigliò, lanciandogli l’ennesima occhiataccia. Di rimando l’altro si fece più piccolo.
“Non mi hai detto come ti chiami,” si giustificò, stretto nelle spalle.
“Nadire,” borbottò la mezzelfa.
 Orest sollevò il capo e le sorrise. Sembrò illuminarsi.
“È un bel nome. Un nome da elfo!”
Moccioso! Gli diede le spalle e s’incamminò.
Velkan le trotterellò accanto e la sorpassò, scomparendo più avanti nella boscaglia. Probabile che stesse perlustrando la zona. Il moccioso invece le strillò di aspettare, ma l’ignorò. Scansò un nugolo di funghi e proseguì, facendosi strada tra gli arbusti. Il passo dell’altro era pesante e discontinuo, dietro di lei; e sempre più lontano.
Nadire incappò in un cespuglio di biancospino, con i candidi fiori che facevano capolino fra gli aculei. Il limitare del bosco non doveva essere lontano, ormai. Ciononostante si poggiò sul ginocchio, estrasse il pugnale e si fermò a raccogliere i boccioli, premurandosi di non intaccare l’arbusto più del necessario. Le sarebbero tornati utili come rimedio. In più non avrebbe seminato la sua guida.
Dei lievi fruscii l’avvisarono del ritorno di Velkan. Il lupo sgusciò fra la vegetazione e si fermò a una decina di passi da lei, il capo eretto e le orecchie dritte. La stava aspettando. Riprese il cammino e Velkan scomparve nello stesso cespuglio da cui era sbucato.
Lo ritrovò ai margini del bosco che fissava i dintorni, seduto sulle zampe posteriori. A giudicare dalla posizione del sole mancava poco a mezzogiorno. Nadire l’affiancò, si schermò il viso con le dita e strinse gli occhi.
Oltre si stendevano prati e campi ben delineati, frazionati dagli sterrati che collegavano le abitazioni contadine al fulcro del villaggio. Alcune macchie verdi indicavano invece i frutteti della zona. I tetti di Melcent prendevano posto più in là, sulla via principale, stretti gli uni agli altri a formare un agglomerato di paglia. Tutt’attorno brulicavano piccole sagome in movimento. Umani.
I passi incerti e pesanti di Orest ne preannunciarono l’arrivo. Non attese oltre.
“Resta qui,” fece, il tono basso e cupo.
“Non dici a me, vero?!” esclamò il moccioso.
Nadire mandò gli occhi al cielo e riprese il cammino. Velkan non si mosse, ma quando s’allontanò lo sentì guaire. Non si voltò. A passo di marcia discese il leggero pendio e tagliò per i prati, seguita dalle proteste di Orest.
“Fermati! Non dovevo essere io a fare strada?”
Dai campi le teste di molti si sollevarono a guardare. Qualcuno esclamò da lontano, qualcun altro si sbracciò, ma non capì le parole. Né si premurò di approfondire. Il ragazzino urlò qualcosa in risposta.
Raggiunse la strada che il sole era alto nel cielo. Lungo il percorso incappò in un carro colmo di fieno e trainato da buoi. Ondeggiava, complici le ruote che di tanto in tanto deviavano sui vecchi solchi scavati nel terreno.
“Salta su!” suggerì il ragazzino. “E poi dammi una mano a salire. Non ce la faccio più!”
Era la prima idea decente che gli veniva in mente; perciò raggiunse il carro, vi poggiò i palmi e si issò, prendendo posto a sedere senza che il conducente se ne accorgesse, vuoi per l’ingombro costituto dal carico, vuoi per il rumore delle ruote che battevano lo sterrato.
Orest aveva allungato il passo, ma arrancava malamente lungo il cammino, zoppicando e sibilando di dolore. Sudava; e tanto. Nadire l’agguatò per gli avambracci appena possibile e lo trasse a sé, facendogli posto. Quello s’aggrappò al margine del carro e s’issò, assecondando il movimento. Poi si lasciò andare sul fieno, trasse un profondo, lungo sospiro e giacque inerte a occhi chiusi. Doveva essere esausto.
Durante il tragitto il ragazzino si lasciò scappare più di un grugnito, ma quando le prime abitazioni di Melcent le sfilarono accanto gli assestò un colpo nel costato, stavolta col gomito.
“Portami da Erofey,” reiterò.
Quello si svegliò di soprassalto e si guardò freneticamente attorno, manco temesse un attacco. Poi la fissò, realizzò e ricadde supino sul fieno.
“Erofey, sì. Dammi un istante ancora. La caviglia pulsa da impazzire.”
Nadire pazientò. Si guardò attorno e analizzò le casupole del villaggio.
Erano di legno, fango e paglia. La maggior parte degli abitanti era invece costituita da vecchi, donne e bambini. Gli uomini dovevano essere per la maggior parte sui campi, a lavorare la terra. Capre e polli scorrazzavano per i vicoli. Lungo una delle strade intercettò delle piccole bancarelle, con le tende colorate che spiccavano sul livore generale. Lì la concentrazione di umani era maggiore, soprattutto a giudicare dal vociare.
Non si stupì quando incappò in facce curiose che la fissavano di rimando, analizzandola come lei stava analizzando i dintorni. Doveva apparir loro fuori luogo. Dopotutto quanto la circondava la faceva sentire proprio così. Di conseguenza si domandò cosa lui fosse venuto a fare in un posto simile. Sospirò.
“Ci siamo,” le comunicò d’improvviso Orest.
Il ragazzino balzò giù dal carro in movimento e barcollò in avanti, sbracciando goffamente nel tentativo di non cadere. L’imitò, ma a differenza del moccioso atterrò agilmente e trovò perfino il tempo di afferrarlo per i vestiti e aiutarlo così a riacquistare l’equilibrio. Con un cenno del capo Orest le indicò la forgia che stava sul lato della strada.
Si sviluppava come estensione di una modesta abitazione e prendeva posto su una piattaforma di legno, pietra e fango. Era delimitata da una staccionata e coperta da una tettoia di paglia, mentre grossi tronchi sorreggevano l’intera struttura. Del fumo usciva dal comignolo sulla sommità.
Un uomo sulla trentina con un grembiule di cuoio stretto in vita armeggiava col mantice, i tizzoni che si ravvivano all’interno della fucina a ogni, poderoso soffio. Il riverbero della luce gli metteva in evidenza le masse muscolari madide di sudore di braccia e schiena. Era grosso, probabilmente forte come un toro.
Istintivamente Nadire schioccò il collo con un rapido movimento del capo e serrò la mandibola. Poi si lasciò Orest alle spalle a salì i gradini della pedana.
Erofey non l’aveva vista. Si avvicinò, mentre l’altro batteva il ferro. Prima su un lato, poi sull’incudine e infine sull’altro lato, mantenendo il ritmo costante e serrato. Sfruttò il frastuono e raggiunse le spalle dell’omaccione senza farsi notare. Si era messa anche sottovento, notò. Scosse leggermente la testa. Le veniva così naturale che quasi non se n’era accorta.
“Ehi!” chiamò, mani sui fianchi.
Erofey sollevò il capo, come se avesse sentito una mosca ronzargli nell’orecchio. Poi raddrizzò la schiena, tralasciò il lavoro e si voltò a fronteggiarla, martello alla mano. Da vicino era ancora più alto e più massiccio di quanto avesse calcolato in principio. Per guardarlo in faccia fu infatti costretta a sollevare la testa.
L’uomo aveva capelli e barba incolti, faccia squadrata e occhi piccoli, sotto un unico, imponente ciuffo di sopracciglia nere che quasi li faceva scomparire. Il collo era massiccio come quello di un toro. Puzzava anche come uno di quelli. E la guardava con durezza. Si lasciò squadrare in lungo e in largo, affatto turbata; poi quello grugnì e sfoderò un sogghigno sghembo.
La mezzelfa inarcò il sopracciglio.
“Orecchie a punta, eh! Non se ne vedono molti,” esordì quello, adoperando l’ennesimo modo di dire. “Beh, non m’interessa. Ma se ti serve qualcosa devi parlare col mio vecchio. È in casa. Perciò vattene e lasciami lavorare.”
Ciò specificato l’omaccione fece per tornare all’incudine e al pezzo di metallo appena abbozzato che vi stava sopra. Non gliene diede il tempo. Nadire allungò il braccio e l’afferrò vigorosamente per la spalla. Quello s’irrigidì e la puntò nuovamente, fronte aggrottata.
“Si può sapere che vuoi?”
“Giorni fa hai incontrato un uomo biondo con della pittura sul viso. Dimmi com’è andata.”
Aveva premura. Molta. E non si era fatta scrupolo a stringere, tradendo forse l’impazienza. Quell’Erofey era l’unico tramite che aveva e non poteva lasciarselo sfuggire.
Il diretto interessato grugnì una seconda volta, indurì l’espressione e con la mano libera si disfò bruscamente della presa. Poi avanzò di un passo. Era grosso. Incombente. E la superava in altezza tanto del petto quanto della testa. Ciononostante la mezzelfa non indietreggiò. Anzi, continuò a fissarlo dritto negli occhi con determinazione.
“Sempre la stessa storia. Prima quelli di Helientar, ora tu. Ma a quanto pare non sei una sacerdotessa,” sibilò l’uomo. “Perché lo stai cercando, eh? Faccia da mantide. Voi selvaggi siete originari delle foreste a Nord e siete dei cacciatori. Perlopiù, almeno. Ma chissà… forse fra voi c’è chi s’intende di sortilegi. Di magia. E questo spiega che cosa ci fai qui,” fece una pausa e avanzò di un altro passo, “non è così… strega?”
Nadire sgranò gli occhi, colta alla sprovvista. E non perché l’energumeno avesse nominato i sacerdoti del Luminoso. Aveva messo in conto delle grane. E sapeva che gli umani erano sciocchi. Ma mai si sarebbe aspettata simili illazioni.
Istintivamente si guardò attorno e si assicurò che nessuno avesse sentito. Tanto più che un capannello di curiosi stava adocchiandola di lontano, lungo lo sterrato. Fra essi riconobbe Orest.
Non sapeva come si erano svolti i fatti riguardanti la cugina, ma l’allusione di Erofey poteva significare solo due cose. Guai. E che lui non s’era premurato di nascondere la propria natura.
“Non sono una strega.”
Lo sottolineò con calma, ma l’interlocutore non le parve convinto. A ragione, in effetti, dacché nessuna strega avrebbe confermato di essere una strega, con l’eventualità di essere bruciata viva.
Erofey sbuffò dalle narici come un toro arrabbiato e rinsaldò la stretta sul martello, indeciso sul da farsi e nondimeno ostile.
La mezzelfa diresse lo sguardo nuovamente alla folla, poi ancora sul fabbro. Infine indirizzò la destra alla borsa; ma Erofey interpretò il gesto come pericoloso, perché giunse improvvisamente a capo dei dubbi e sollevò il braccio armato.
L’ombra le si proiettò sul viso prima ancora del colpo. Un brivido le scivolò lungo la colonna vertebrale. Nadire contrasse i muscoli delle gambe, piantò i piedi a terra e scartò di lato. Il martello le fischiò accanto e concluse il suo arco nel vuoto. Erofey si bilanciò in avanti, assecondando lo slancio, e le offrì suo malgrado il fianco e la schiena. Non era un combattente, valutò; ma era forte, probabilmente resistente. E sottovalutarlo sarebbe stato un azzardo.
Gli assestò una pedata sul sedere, allontanandolo da sé. L’omaccione caracollò in avanti e impattò contro la staccionata che delimitava la piattaforma della forgia, emettendo un sonoro grugnito. Il legno invece tremò e scricchiolò sotto la mole dell’uomo e quasi pensò che si sarebbe spezzato.
Erofey impiegò poco per riacquistare l’equilibrio. La fronteggiò, raddrizzò le spalle e gonfiò il petto. Era più furioso di prima e le vene gonfie del collo, le sopracciglia inarcate, il colorito rossastro del viso lasciavano poco ai dubbi. Tuttavia nei suoi occhi c’era una luce diversa, che invero rivelava incertezza. E paura.
Nadire si spostò cautamente indietro e pose l’incudine fra sé e il fabbro, senza mai perderlo di vista.
“Sono qui per parlare,” affermò; e fece un altro passo indietro.
Il tacco dello stivale impattò contro qualcosa.
“Chiudi la bocca!” ringhiò l’altro. “Pensi che sia uno stupido? Non ci casco più! Niente trucchi, stavolta! Niente chiacchiere, niente gesti, niente… polveri strane!”
Erofey avanzò a grandi falcate, macinando la distanza che li separava. Nadire poteva sentirne il fiato grosso, il tonfo dei piedi sulla piattaforma di legno e l’odore pungente della pelle, accaldata e madida di sudore. E ancora una volta si chiese cosa lui avesse combinato per scatenare in quell’uomo una tale avversione.
Probabilmente con una o due botte in testa il bestione si sarebbe calmato, ma azzuffarsi non rientrava propriamente nei suoi primari obbiettivi. Senza contare che di quel passo avrebbe finito per inimicarsi l’intera comunità.
La mezzelfa abbassò il baricentro, tenne i riflessi pronti e lanciò un’occhiata ai suoi piedi. Adesa allo stivale c’era una tinozza colma d’acqua. Serrò la mandibola e puntò l’avversario. Ormai prossimo, Erofey scattò, aggirò l’incudine e sferrò un’altra, rude martellata.
Nadire scavalcò la tinozza e saettò oltre la traiettoria del colpo, mentre l’omaccione si sbilanciava nuovamente in avanti e finiva col piede dentro il recipiente. Il fabbro sbandò, pestò la tinozza a terra e avanzò goffamente di qualche altro passo. Finché con un tonfo e un gemito strozzato crollò lungo disteso. Il martello gli sfuggì di mano e scivolò lontano.
Nadire rilasciò il fiato e andò con lo sguardo ai curiosi più intraprendenti, che si erano avvicinati alla staccionata per controllare meglio la situazione. Qualcosa l’agguantò per la caviglia; e sentì il pavimento mancarle da sotto i piedi, vide il mondo vorticarle furiosamente attorno.
Impattò al suolo l’istante successivo. Strinse i denti e sibilò di dolore, dirigendo le iridi dorate su ciò che l’aveva trascinata a terra. Erofey la fissava di rimando con le narici dilatate e i denti scoperti in una sottospecie di ringhio, non fosse per i baffoni che andavano a nascondergli le gengive. Teneva la mano stretta alla sua caviglia e nei suoi occhi lampeggiava un solo, terribile intento.
Esitò, indecisa sul da farsi. L’omaccione ne approfittò e la trascinò sulle assi del portico. La mezzelfa cercò appiglio con le dita, percepì il legno grezzamente lavorato scorrerle sotto i palmi, sotto i polpastrelli e le schegge infilarsi nella pelle, ma non riuscì nell’intento. Erofey la sovrastò con la sua mole e l’afferrò per la gola, schiacciandola al suolo e strozzandole il respiro.
Gemette e portò le mani al braccio attentatore, cercando di sfuggire alla morsa. Il fabbro invece andò con la mano libera al fodero di cuoio che teneva assicurato in vita e le sottrasse il pugnale, che sollevò prontamente sopra la testa.
Nadire osservò con orrore la lama puntare contro di lei e sentì lo stomacò contrarsi, i brividi scivolarle lungo la colonna vertebrale. Poi il colpo calò, dritto contro il suo ventre. Serrò i denti fino a farli scricchiolare. Si contorse, sfuggì alla morsa che la teneva bloccata e con uno scatto si girò sul fianco. Seguì uno schianto secco che le si conficcò soprattutto nella coscienza, mentre il sudore le scivolava gelido lungo la schiena.
Stavolta non esitò, nemmeno pensò alle eventuali conseguenze. L’istinto era più forte della ragione; e il desiderio di pestare l’aggressore era ormai diventato una necessità.
Con un colpo di reni assestò una decisa testata sul naso dell’uomo. Quello strabuzzò gli occhi, batté le palpebre e vacillò, forse colto di sorpresa. Di sicuro frastornato dal colpo.
La mezzelfa ne approfittò. Piegò il ginocchio, glielo piantò sullo sterno e spinse. Lo scaraventò di lato, in un capovolgimento delle posizioni, e lo sovrastò ponendosi a cavalcioni del suo corpo con la sua più minuta stazza.
Lo sforzo l’insidiò e il mondo le vorticò attorno come impazzito, vuoi per la testata, vuoi per la stanchezza. Il fabbro l’osservò di rimando dal basso e sollevò con urgenza una delle grosse braccia, probabilmente nel tentativo di colpirla alla bene e meglio e togliersela di dosso.
Nadire strinse i denti, frappose l’avambraccio sinistro nel mezzo e intercettò l’arto attentatore; dopodiché caricò il pugno col destro e glielo schiantò direttamente sul grugno. All’impatto seguì un grugnito di dolore e del formicolio che le si propagò dalla mano fino alla spalla. Ciononostante non esitò e lo colpì ancora e ancora, finché il naso di Erofey divenne un grosso grumo rosso e viola.
La mezzelfa percepì appena il bruciore diffondersi all’altezza delle nocche. Sotto di lei, l’omaccione s’inarcò, si contorse nel tentativo di liberarsi. Nadire ondeggiò e con orrore vide le dita dell’uomo correre al pugnale infisso nelle assi.
Fu più veloce, afferrò l’arma, l’estrasse e gliela pose di taglio lungo la gola, quel tanto da recidergli la pelle soltanto; e un rivolo cremisi scivolò lungo la linea del collo taurino.
Di conseguenza sentì le membra sottostanti irrigidirsi, mentre il petto del fabbro si alzava e si abbassava vistosamente in cerca d’aria. Erofey rilasciò anche le braccia e le adagiò sul pavimento, perpendicolari rispetto al corpo. Nei suoi occhi, però, bruciava ancora il fuoco della rivalsa. E anche un pizzico di disprezzo.
Col mento alto e la mandibola contratta, Nadire continuò a fissarlo di traverso dalla posizione sopraelevata, senza spostare la lama. Avrebbe potuto sgozzarlo come un capriolo… La mano le tremò, mentre il sudore le si asciugava addosso e i muscoli spasimavano al di sotto della pelle, carichi d’anticipazione. Deglutì. Il vociare degli astanti la richiamò all’attenzione quel tanto da scuoterla dai primari istinti.  
“Ora mi lascerai infilare la mano nella sacca e guarderai quanto ho da mostrarti. Poi mi dirai quello che voglio sapere,” sentenziò, fissandolo dritto negli occhi con freddezza. “Ti è chiaro?”
Premette un po’ di più sulla gola del fabbro, come incentivo. L’altro s’accigliò maggiormente, ammesso e non concesso che fosse possibile, e perseverò in silenzio per qualche istante. Infine annuì con un grugnito.
Una strega l’avrebbe molto probabilmente già arrostito, per cui riteneva lampante come il sole che lei non rientrava nella categoria; ma con quell’individuo era meglio non dare nulla per scontato.
La mezzelfa allentò leggermente la pressione della lama e infilò la mano libera nella sacca di cuoio. Individuò a tentoni la pergamena che cercava e l’estrasse con un gesto secco. La pose innanzi agli occhi di Erofey, dimodoché potesse constatare di persona il contenuto del documento; e vide chiaramente i lineamenti dell’omaccione distendersi in un’espressione di stupore.
“Questo…” il fabbro si umettò le labbra spaccate e andò con lo sguardo dalla pergamena a lei. “Questo è…”
Annuì, constatando che l’altro aveva riconosciuto il viso ivi ritratto alla prima occhiata.
Dunque non c’erano più dubbi: l’uomo che aveva infastidito la cugina di Erofey era proprio lui. E ancora una volta l’aveva mancato di un soffio. Incurvò ulteriormente le labbra verso il basso, in un’espressione di puro disappunto. E frustrazione.
Nadire rilasciò il fiato, esitò ancora un po’ a lama sguainata e infine rinfoderò anche il pugnale. Si alzò e barcollò suo malgrado da un lato, lasciando l’altro libero di muoversi. Quella testata non era stata uno scherzo nemmeno per lei.
“Una cacciatrice di taglie, uh,” constatò il fabbro, adocchiandola dal basso.
C’era ancora del sospetto nel suo sguardo. E del rancore. Poteva bene immaginare perché; e il sangue gli scendeva a fiotti dalle narici, raggrumandosi sui baffi e ai lati della bocca.
Dal canto suo la mezzelfa aprì la mano e la richiuse una, due volte, cercando di scacciare l’intorpidimento e il bruciore. Si era sbucciata le nocche, constatò. Il fabbro invece si mise a sedere sulle assi e scrollò la testa come un cane bagnato avrebbe fatto col proprio pelo, forse nel tentativo di riacquistare lucidità.
Nadire percepì dei passi avvicinarsi e girò leggermente il capo da quella parte, adocchiando la situazione da sopra la spalla. Il gruppo di curiosi si era fatto ancora più prossimo e uno di essi, un uomo sulla quarantina col viso segnato dal sole, li aveva praticamente raggiunti sulla piattaforma; e andava freneticamente con gli occhi dall’uno all’altra.
“È tutto a posto? Dobbiamo… chiamare la milizia?” chiese il nuovo venuto, riferendosi al fabbro e aspettandone il responso.
Nadire s’irrigidì. In quel caso la situazione sarebbe degenerata ulteriormente, tanto più che erano volate affermazioni pesanti da parte di Erofey; e se la maggioranza l’avesse ritenuta una strega avrebbe fatto una fine a dir poco spiacevole. E la ragione poco poteva contro la paura.
Istintivamente tornò con le dita all’elsa del pugnale. Tuttavia il fabbro s’alzò in tutta la sua considerevole altezza, la superò barcollando e si frappose nel mezzo. Il nuovo venuto fece un passo indietro.
“Non ho bisogno d’aiuto,” stabilì Erofey; e si passò il dorso della mano sulla bocca. “Io e faccia da mantide la risolviamo fra noi, a modo nostro. Fuori dai piedi!”
Per un attimo si chiese se a parlare per lui fosse l’orgoglio; di maschio e di umano messo di recente a tappeto da un mezzelfo femmina. Probabile, sancì, ma non gli interessava finché la questione poteva tornarle utile.
Osservò con durezza il terzo incomodo allontanarsi e ricongiungersi al gruppetto che stava più in là, sullo sterrato ai piedi dei gradini. Non riuscì a capire le parole, ma quando quello finì di parlare i curiosi cominciarono a disperdersi. Di rimando Nadire allontanò le dita dal pugnale, sciolse di poco la morsa dei muscoli e tornò a concentrarsi esclusivamente su Erofey.
Quest’ultimo ricambiò con ostilità, il grosso monociglio inarcato; poi tirò sonoramente su col naso, sfoderò una smorfia e scatarrò. Il grumo di sangue le mancò di pochissimo gli stivali. La mezzelfa non rispose alla provocazione, impassibile; e perseverò in attesa di quanto voleva sapere.
“Non mi piaci. Affatto. Ma sei fortunata, perché quello stronzo lì,” il fabbro fece un cenno in direzione della pergamena che stringeva fra le dita, “beh, quello mi piace ancora di meno. E se avessi saputo che era ricercato dalla Baronia dell’Anguilla Nera, stai certa che a quest’ora eri disoccupata. Signorina.”
Nadire inarcò il sopracciglio. Erano parole audaci che ne rivelavano unicamente l’ignoranza. Poteva dimostrarsi spavaldo per lenire la precedente sconfitta, ma se l’avesse conosciuto come lo conosceva lei non si sarebbe mai espresso in quella maniera, per quanto i Reali offerti potessero fargli gola.
“Raccontami di lui.”
Erofey si strinse nelle spalle. Si allontanò, passò accanto alla forgia e si diresse verso l’angolo più estremo del portico. La mezzelfa l’osservò chinarsi. Quando il fabbro riacquisì posa eretta, impugnava nuovamente il suo martello.
“Mio zio l’ha trovato con le mani fra le sottane di mia cugina. L’ha stuprata. Così gli ho dato un pugno e l’ho sbattuto in cella. Lui non ha reagito.” Erofey tornò al pezzo di ferro abbandonato sull’incudine. “Pensavo che fosse della capitale. Uno di quei bastardi Thyatiani che s’atteggiano a padroni del mondo quando non sanno nemmeno allacciarsi le scarpe. Mi sbagliavo.”
“Dov’è tua cugina?”
Parlarle le sarebbe servito per racimolare altri dettagli. Erofey non sollevò lo sguardo da quanto stava facendo. Scrollò le spalle, agguantò l’estremità del pezzo di ferro con un panno tutto chiazzato e l’infilò fra i tizzoni ardenti.
“A Tilmit, dall’altra parte del Verdarzillo. Per fortuna il suo promesso sposo si è dimostrato comprensivo e non l’ha ripudiata.” Il fabbro azionò il mantice e i tizzoni all’interno della fornace avvamparono, colorandosi di nuovo rossore; poi l’adocchiò da sopra la spalla. “Senti, quel… tizio è sparito la sera stessa. Ha usato le sue diavolerie e ha lasciato Melcent assieme a un mezzuomo, un ladruncolo da quattro soldi con la voce stridula. Non so altro. E mia cugina nemmeno. Perciò adesso togliti dai piedi e lasciami lavorare. Io non mangio bacche per sopravvivere.”
Nadire s’accigliò ulteriormente a quell’ultima battuta, ma non replicò. Dopotutto anche lei era solita ai luoghi comuni e riteneva gli umani poco più di caproni puzzolenti; e le eccezioni si contavano sulle dita di una mano.
E così… lui era apparso in quel paesino e si era trattenuto una sola giornata. Ancora una volta la domanda le si delineò nella mente: perché? Su quel punto il fabbro non era stato di grande aiuto e dubitava che la risposta risiedesse nel mero interesse carnale per la cugina di quest’ultimo.
Strinse i pugni, la mascella e osservò Erofey ancora per un po’, mentre estraeva il ferro incandescente, lo posizionava nuovamente sull’incudine e afferrava il martello con la mano libera. Indugiare non serviva a niente, se non ad aumentare il distacco fra e lei e lui.
Diede le spalle alla forgia e si allontanò in direzione dei pochi scalini che la separavano dallo sterrato.
“Ehi, faccia da mantide!” La voce grossa di Erofey le arrestò il passo che aveva appena disceso il primo gradino. “Quell’essere merita di bruciare assieme a quelli come lui. Ma la sua testa in particolare vale 100 Reali d’oro. Che cosa ha fatto?”
Nadire trasse un profondo respiro e si umettò le labbra, senza voltarsi; poi strinse i pugni e disse: “Si è intrufolato nel palazzo di Caleb Sempernus, il Primo Consigliere del Barone Ludwig. Ha sgozzato sua moglie e i suoi figli dinanzi ai suoi occhi, gli ha mozzato mani e piedi e l’ha lasciato a dissanguarsi sul pavimento… mentre il feudo tutto ardeva e anneriva fino a consumarsi.”
Il silenzio seguì l’affermazione, perlomeno da parte di Erofey. E la mezzelfa immaginò perfettamente l’orrore nascere e crescere sul viso massiccio dell’altro assieme alla consapevolezza di averla scampata brutta.
Solo poi – dopo interminabili attimi, uno più greve dell’altro – il battere cadenzato del martello sancì il termine dell’incontro. Nadire deglutì dolorosamente, ancora immobile sulle scale. Infine rilasciò la morsa delle dita, rilassò i muscoli di braccia e mascella e raggiunse lo sterrato.
Si concesse anche un sospiro, guardandosi attorno e riflettendo sul da farsi. Un capannello di cinque donne le passò accanto, facendosi strada fra i polli che scorrazzavano per l’aia, e la squadrò da capo a piedi. Le sentì ridacchiare, ma non capì di cosa stessero parlando. Forse la mossa più logica era chiedere informazioni presso la taverna, dove probabilmente lui si era fermato per mangiare e bere un boccale di birra.
Non fece in tempo a pensarlo che Orest le si affiancò, con gli occhi grandi e colmi di sorpresa. Il sorriso gli illuminava il viso sporco, rivelando gli incisivi grandi e accavallati l’uno all’altro. La mezzelfa batté le palpebre e inarcò il sopracciglio, domandandosi cosa avesse da essere così… entusiasta, ecco.
“Gliele hai suonate!” esordì il ragazzino; e spiò in direzione della forgia, facendosi scudo di lei. “Nemmeno ci credo! A Melcent se ne parlerà per mesi. Lo sai quanti scappellotti mi ha dato quel bastardo? Sarei potuto diventare scemo! In molti avrebbero voluto dargli una lezione. Dovresti vedere quando quello perde ai dadi, è…”
Nadire non aspettò che il moccioso finisse di parlare e si allontanò. Non le interessavano i pettegolezzi di paese, né che tipo di persona fosse quell’Erofey quando perdeva ai dadi. E il fabbro era già stato fortunato che non gli aveva spaccato la faccia a suon di pugni.
Istintivamente, mentre s’allontanava a grandi passi, si portò la mano al ventre, lì doveva aveva rischiato di essere accoltellata, e indugiò in una carezza. Sospirò nuovamente. Dietro di lei, sentì distintamente i passi del ragazzino seguirla da presso. Aggrottò le sopracciglia.
“Togliti di torno, moccioso,” lo redarguì senza nemmeno fermarsi; erano pari, dopotutto, e non c’era motivo di proseguire per la stessa strada.
Il diretto interessato fischiò, ma non smise di andarle dietro, almeno a giudicare dai passi irregolari e leggermente strascicati.
“Sul serio sei femmina? La differenza fra te ed Erofey sta nei peli. Ma per il batacchio non ci metterei la mano sul fuoco,” commentò l’altro, strappandole un piccolo sbuffo d’insofferenza; eppure le era sembrato di essere stata abbastanza chiara nei confronti degli scocciatori. “E poi sei sicura che sai dove stai andando? Sei una forestiera, dopotutto.”
“Questa non è Mirroden. Troverò la strada,” ribatté.
Un sibilo le raggiunse improvvisamente l’orecchio, facendole palpitare le palpebre inferiori. Ne seguì un altro, cui Nadire riservò più attenzione.
Voltò il capo da quella parte. Sullo sterrato si apriva un vicolo laterale, situato fra due abitazioni di pietra e fango che lo schermavano dai raggi del sole. Assottigliò lo sguardo e perlustrò la penombra del passaggio.
Scorse una catasta di legna da ardere, descrisse con disgusto il rigagnolo giallognolo che solcava la polvere del vicolo e intercettò la sagoma furtiva di un ratto. Solo poi si accorse che il mucchio di stracci abbandonato lungo la parete non era spazzatura. Un vecchio sdentato e dai capelli arruffati la fissava di rimando con occhi piccoli e attenti. Brillanti. E il sorriso sghembo che gli piegava le labbra le lasciò intuire che volesse qualcosa proprio da lei.
La mezzelfa esitò, immobile sullo sbocco fra le abitazioni. Lo straccione sollevò il braccio scheletrico e le fece cenno d’avvicinarsi con la mano. Qualcosa, invece, le finì contro l’istante successivo. Orest. Nemmeno si spostò e mandò gli occhi al cielo, mentre il ragazzino si lamentava dietro di lei.
“Sei di pietra!” piagnucolò.
Nadire l’ignorò e s’infilò all’ombra del vicolo, gli occhi puntati sul viso sornione del vecchio. Il lezzo d’urina le fece arricciare il naso prima ancora di raggiungerlo, ma quando gli fu a pochi passi l’odore dell’alcol e di sudore raffermo la fecero addirittura vacillare; e quasi si portò la mano davanti a naso e bocca.
Il vecchio non vi badò, tossì e s’incurvò come se dovesse ricacciare perfino i polmoni; dopodiché sputò a terra e tornò a fissarla dal basso. Il suo viso rugoso e macchiato dall’età era incrostato di fango e polvere.
“Ho sentito che cerchi uno straniero biondo. Perché non fai vedere anche a me quello che hai fatto vedere al fabbro? Non sono giovane e piazzato come lui, ma di cervello sono molto più lesto… e se mi offri da bere, scoprirai che la mia lingua lo è ancora di più.”
“Se ti offro ancora da bere non riuscirò a distinguere il tuo biascicare.”
Il vecchio si strinse nelle spalle e sollevò le sopracciglia. Spesse rughe d’espressione andarono a segnargli la fronte.
“È un rischio,” si grattò il mento ispido con la delicatezza di un cane pulcioso, “ma sottovaluti la mia esperienza in campo. Intanto la prospettiva è soggettiva. E io sono più lucido da ubriaco. Di sicuro più sincero e bendisposto.”
Nadire scosse leggermente il capo e incrociò le braccia al petto, soffermandosi ad analizzare l’uomo, la situazione e la presunta proposta.
Poteva essere un millantatore, ansioso di tracannare un goccio in più e per questo disposto a spergiurare qualsiasi sciocchezza. Oppure poteva davvero aver visto o sentito qualcosa di rilevante. Dopotutto non si era lasciato sfuggire nemmeno la discussione alla forgia… e lei non riteneva la moneta degli uomini così preziosa.
Orest la raggiunse suo malgrado e le si pose di fianco, mani sui fianchi.
“E questo è Cheslav, il nostro cantastorie di fiducia. Perché quando beve troppo canta a squarciagola. E dato che beve tutto il giorno, canta tutto il giorno. Più che cantare gracchia, però,” spiegò il ragazzino. “Che ti ha chiesto in cambio di una ballata? Quelle che conosce lui sono tutte sconce, comunque. La sua preferita è ‘Le zinne di Donna Rosa, fiore di nome ma non di fatto’. Ma ‘sta tizia non esiste, se l’è inventata lui.”
Il vecchio tossì e sputò.
“L’unico che lavora di fantasia sei tu, bamboccio mio. E a parte le rime, il resto è tutto vero. In carne, ossa e zinne!”
Nadire mandò gli occhi al cielo per la seconda volta. Cominciava a essere stufa della situazione, della perdita di tempo e degli umani in particolare. A volte erano talmente elementari, istintivi, da confondersi col resto della fauna per gli atteggiamenti primordiali. E Velkan sapeva controllarsi di più, se si considerava che mai si sarebbe scagliato contro i suoi stessi simili. E poi chiamavano gli elfi selvaggi…
Rilasciò il fiato e infilò la mano nella borsa. Afferrò il rotolo e lo porse a Cheslav. Quello inarcò il sopracciglio. C’era scetticismo sui lineamenti spigolosi del suo viso e anche un pizzico di disappunto.
“La moneta, prima,” precisò il vecchio, sollevando il mento.
Nadire strinse la mascella e continuò a fissarlo imperturbabile, espressione severa, inamovibile; finché l’altro scrollò il capo, rantolò e le strappò di mano quanto stava porgendogli. Il vecchio si portò il foglio innanzi alla faccia, ridusse gli occhi a due fessure e quasi ci finì contro col naso, tanto vi si era avvicinato. Probabile che non ci vedesse poi questo granché.
“È lui,” commentò infine. “Qui è più giovane, ha le guance piene e lineamenti meno marcati. Ma è lui senza dubbi. Anche senza quella roba sulla faccia.”
Roba?”
“Sì. Insomma, quel segno nero sugli occhi. Così, di traverso,” precisò Cheslav, accompagnando la spiegazione passandosi orizzontalmente indice e medio sulle palpebre. “Un po’ come quelli che hai tu sulla fronte e sulle braccia. Per la Grande Tenebra, sembra che tu ti sia rotolata nel fango assieme ai maiali!” commentò infine, sciorinando il bando per aria. 
La mezzelfa captò a stento l’ultima illazione. Schiuse le labbra, deglutì e le richiuse. Possibile che…? Fremette da capo a piedi, allungò il braccio e si riappropriò bruscamente della pergamena, strappandola dalle mani adunche del vecchio. Strinse i pugni e il foglio s’accartocciò fra le sue dita.
“Sei sicuro che fosse… nero?” sibilò.
Il vecchio batté le palpebre, la fronte distesa a una tavola piatta e il braccio scheletrico ancora per aria. Poi Cheslav lasciò cadere l’arto lungo il fianco e annuì, senza mai distogliere gli occhi dai suoi. Sembrava serio. E sincero; ma ciò non l’aiutò a rassicurarsi. Accanto a lei, Orest fece un passo avanti e andò con lo sguardo dall’una all’altro.
“Perché, che c’è di strano? Non che trovi normale sporcarsi di proposito, eh!” blaterò il moccioso, grattandosi la testa.
“Che altro sai di lui?” chiese Nadire, senza degnare il più giovane di uno sguardo.
“Era il mio dirimpettaio,” rispose Cheslav, facendo spallucce. “Di cella, s’intende. Tipo belloccio, sì. Di sicuro Erofey ti avrà già raccontato di come si è dato da fare con la sua impulsiva e ardimentosa cuginetta dietro la locanda, no? Comunque se n’è andato. Lui e quel nanerottolo, il borseggiatore. Sono usciti di prigione come niente fosse, alla faccia di noialtri poveracci. E poi è successo un fatto strano…”
Nadire s’accigliò maggiormente e, ammesso che fosse possibile, sfoderò un’espressione ancora più dura. E attenta.
“Non ci vedo granché, ma ci sento benissimo,” precisò il vecchio “Certo, non ero lì, ma quella voce non la dimenticherò così facilmente. Mi ha messo i brividi; e solo il Luminoso sa in che lingua parlava! Poi le guardie hanno smesso di urlare, non so se mi spiego,” il vecchio si umettò le labbra e scosse la testa, come se stesse esitando o ricacciando il timore; poi strabuzzò gli occhi, li appuntò dritti su di lei e soggiunse. “È davvero… un mezzosangue?”
Nadire serrò la bocca in una linea sottile e continuò a fissare l’interlocutore dall’alto in basso con estrema freddezza, affatto intenzionata a corrispondere alle aspettative. Tanto più che l’altro aveva ampiamente dato aria alla bocca senza tuttavia riferirle nulla che non avesse già immaginato da sé; e a giudicare dalla reazione di Erofey non c’erano dubbi in proposito: lui aveva usato il suo potere senza curarsi delle conseguenze.
“Le tue informazioni non valgono nemmeno il tempo che hai impiegato per riferirle,” sentenziò in risposta; e ripose la pergamena accartocciata in borsa.
Allo stesso modo diede le spalle a Cheslav, al vicolo, e s’incamminò da dove era venuta. Nel farlo assestò una brusca spallata a Orest, che barcollò all’indietro e finì col sedere per terra, pronunciando un sonoro e avvilito “ehi” di protesta. Non si fermò, capo eretto e sguardo dritto innanzi a sé.
“Ah-ha. La signorina è frettolosa come i sacerdoti di Helientar che sono passati prima di lei,” la voce melliflua del vecchio l’inseguì e la raggiunse che stava per mettere piede sullo sterrato principale. “Non ti ho forse detto che ci sento benissimo? Ciò che non sai è che in questo buco dimenticato dagli Dei io conosco tutti e tutti mi conoscono. Non vuoi sapere che cos’altro hanno sentito queste vecchie e stanche orecchie? Perché io a quel bicchiere di birra ci tengo moltissimo. E quei cazzoni che campano a pane, fede e acqua non mi hanno sganciato nemmeno un pezzo di bronzo.”
La mezzelfa arrestò il passo e voltò leggermente il capo all’indietro, quel tanto che le bastava per lanciare al vecchio un’eloquente occhiata da sopra la spalla.
“Ultima occasione, vediamo se riesci a convincermi,” decise; ma non tornò sui propri passi.
L’altro ricambiò con uno sguardo malizioso altrettanto intenso e si aprì in un sorriso sdentato. Nella penombra del vicolo i suoi occhi sembravano addirittura brillare sotto alle spesse e irsute sopracciglia.
“Il tuo bello se n’è andato quella notte. Non so se sia ancora in compagnia del mezzuomo, ma è probabile che abbiano attraversato il Verdarzillo assieme. E non è finita qui… perché c’è una terza persona che ha abbandonato Melcent quella stessa notte. Dar’ya Rakova, la figlia del mugnaio. Sua madre era una brava donna, intelligente, soprattutto. Ed era la dama di compagnia di Lady Ilyana, la signora di Arthia. Suo padre dice che quella sera la guardia incaricata è venuta a prenderla per portarla a palazzo,” Cheslav si strinse nelle spalle, “non so tu, ma se io dovessi dirigere i piedi da qualche parte, andrei lì. Dai Sulescu.”
Arthia.
Nadire arricciò impercettibilmente gli angoli della bocca verso l’alto. Infilò la mano dentro la sacca e stavolta ne estrasse un pugno di monete. Nemmeno le contò; semplicemente le lanciò in direzione del vecchio e di Orest, ancora seduto fra la polvere a gambe divaricate.
Si allontanò definitivamente che il ragazzino stava strillando qualcosa a proposito di dividere il profitto, dacché era stato lui a condurla lì. L’aria pulita della strada principale l’accolse e arrecò sollievo tanto al suo olfatto quanto ai suoi polmoni. E così i sacerdoti l’avevano preceduta; senza tuttavia accaparrarsi quel piccolo, rilevante dettaglio. Buon per lei.
Accelerò il passo, incupì lo sguardo e puntò all’orizzonte. Oltre i tetti di paglia di Melcent s’intravedeva il colle e la foresta che aveva attraversato, dove Velkan la stava aspettando. Più su il cielo appariva così terso da ferirle gli occhi. Al solo pensiero sentì le membra rilassarsi, a dispetto degli sguardi e dei commenti che le persone le lanciavano dietro al semplice passaggio.
Doveva sbrigarsi. Non sapeva che cosa avesse intenzione di fare con Dar’ya Rakova o perché c’entrassero i Sulescu, ma se lui si era allontanato in compagnia di così tante persone rintracciarlo sarebbe stato più semplice. Senza contare che un tizio con della pittura nera sulla faccia era facilmente individuabile. Un comportamento assai imprudente. Scosse la testa e stavolta sospirò. Quindi aveva davvero intenzione di…
Gli occhi del cacciatore non guardano al futuro, puntano nel buio e all’oscuro traguardo che l’attende al termine della cerca.
La definizione le tornò alla mente d’improvviso e quasi la stordì col suo significato. Sentì il petto gonfiarsi, la gola serrarsi in un saldo nodo e gli occhi pungere; ma non permise a una sola emozione di oltrepassare il suo ferreo autocontrollo. E l’espressione del suo viso restò impassibile.
Ciononostante, mentre sfrecciava fra le abitazioni e gli abitanti del piccolo villaggio, tornò con la mano al ventre e lo carezzò. E il cuore le fece male una volta di più.
Ok, stavolta ci ho messo davvero una vita per pubblicare, lol. Sto cercando d'introdurre pian piano personaggi e dettagli di trama e di ambientazione, spero in maniera uniforme e, soprattutto, non troppo noiosa. >-<
La trama forse fatica a venire fuori, me ne rendo conto, ma ci sono così tanti avvenimenti in ballo che scegliere cosa mostrare e cosa no è davvero difficile. E mentre Calardir persegue i propri obbiettivi, qualcun altro è invece sulle sue tracce, perseguendo i propri.
Non vorrei spiegare troppo e vorrei che a parlare per me fossero le righe della storia, per cui la smetto qui, con la sola anticipazione che prima o poi il quadro diverrà più chiaro, seppur più ampio, e che eventi e personaggi si ritroveranno nel quadro generale (*Iblys saluta con la mano scheletrica* Mi annoio... =w= ndIblys). O almeno questo è ciò che mi propongo di fare. xD
Se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate finora... o se ci sono eventuali errori, passaggi poco chiari o altro. :) Alla prossima!
CompaH
   
 
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