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Autore: Seagullgirl    27/01/2017    0 recensioni
Arianna ha ventisette anni ed è insoddisfatta della sua vita.
Nessuno sembra capirla, e lei non fa niente per farsi capire.
La strada per la felicità a volte è più ripida di quanto ci immaginiamo, e a volte non è nemmeno quella che ci eravamo aspettati.
Ma se non ci lasciamo andare, tutti possiamo trovare quella giusta.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Voglio che resti
 



 
A Manuela, che merita tutto ciò che il suo cuore desidera.
Buon compleanno, picciridda mia.
 
 

Atto I


 
                        “ Love is so short, forgetting is so long. ” 

– Pablo Neruda
 
 



Arianna aveva ventisette anni e nessun fidanzato.
La cosa non era un problema; molte tra le sue amiche non ce l’avevano e anzi avevano deciso di sfruttare la cosa come scusa per uscire più spesso tutte assieme a divertirsi. Purtroppo però, il concetto di “divertimento” di Arianna divergeva leggermente da quello delle sue coetanee.
Per loro un sabato sera ben riuscito non era tale se non si andava in discoteca o al pub, solitamente per bere e ovviamente per cercare di rimorchiare – o farsi rimorchiare – da qualche ragazzo disperatamente alla ricerca di qualcuna con cui passare la notte.
Non che ogni sera se ne andassero con uno diverso, intendiamoci. Il loro era più che altro un desiderio di farsi notare, di dimostrare a loro stesse quanto ancora fossero  “ scopabili “ ( così avevano detto dopo il decimo shot di tequila ) nonostante non fossero più delle ragazzine, di dimostrare a qualcuno dei loro ex – nella loro mente –che non erano da buttare, che ancora avevano tanto tempo davanti per trovare qualcuno e che la loro vita sentimentale era pronta a ripartire da un momento all’altro.
Per Arianna, invece, il sabato sera perfetto consisteva nell’andare al cinema a vedere un bel film, magari a mangiare una pizza, ridere e scherzare con gli amici, o anche semplicemente starsene a casa a leggere un buon libro o a scrivere.
Sì, perché lei si era laureata in Lettere ormai da quattro anni, eppure ancora sentiva di non aver combinato nulla.
Non era riuscita a trovare il lavoro che desiderava, né tantomeno qualcuno che le pubblicasse il libro che aveva scritto durante gli anni dell’università.
Giulia, una delle sue più care amiche, le diceva di continuo di non angosciarsi troppo; “ sei giovane”, ripeteva, “ hai ancora tanto tempo per farti conoscere”.
Sapeva che lo diceva per cercare di rincuorarla, ma questo non la faceva stare meglio, anzi. Più il tempo passava più lei si sentiva una fallita.
Aveva solo ventiquattro anni, avrebbe dovuto preoccuparsi solo di cosa mettersi per le feste e di quale fosse l’ultimo gossip del gruppo, ma tutto ciò a cui riusciva a pensare era ben diverso: nessuna prospettiva di un futuro lavorativo, nessuna storia d’amore in arrivo e, al momento, nemmeno niente nel frigo.
 
 
                                                                 ***
 
 
 
 
Soffiò sulle candeline dell’enorme torta alla frutta che le colleghe dell’ufficio le avevano comprato, e un coro di “ auguri “ e applausi si levò nella stanza.
Un ventotto dai colori pastello troneggiava proprio al centro del dolce, fiero, e lei lo guardava con un sorriso emozionato.
Erano successe tante cose in quell’ultimo anno: aveva trovato lavoro in una piccola redazione, un giornale che si occupava perlopiù di notizie locali, niente di che, ma l’ambiente era confortevole e la paga decente.
Aveva conosciuto Paolo, aspirante giornalista sportivo in erba dai capelli ricci e neri come il carbone, e se ne era innamorata.
Non avrebbe voluto; si sa che gli uomini sono tutti stronzi, però non era riuscita ad evitarlo. Paolo era così premuroso, così galante e passionale che nemmeno in cent’anni sarebbe riuscita ad opporsi troppo a lungo allo sbocciare di quell’amore.
Inoltre, recentemente, Giulia le aveva annunciato di essere incinta.
Quando lo aveva saputo aveva lanciato un grido così acuto che dall’altra parte del ricevitore l’amica aveva perso la funzionalità del timpano per qualche minuto.
Le aveva raccontato che Corrado, il suo fidanzato storico, quando l’aveva scoperto prima era scoppiato a piangere e poi era uscito di casa come in una sorta di trance, tornando solo mezz’ora dopo con una quantità di giochi e accessori per bambini assolutamente irragionevole.
Arianna era rimasta altrettanto commossa quando l’amica le aveva chiesto di fare da madrina al futuro bimbo o bimba, e naturalmente aveva accettato con grande onore.
Le sembrava così strano che in quel momento tutti fossero felici, lei compresa, che aveva paura finisse tutto da un momento all’altro.
Poi guardava Paolo, però, e si rendeva conto che bastava il suo sguardo a farla stare subito meglio; non c’era altro luogo dove avrebbe voluto essere se non le sue braccia, nessun’altra voce che avrebbe voluto sentire se non la sua prima di addormentarsi.
 
Nessun altro uomo che avrebbe mai potuto amare di più.
 
 
 
***
 
 
 
La Chiesa era semplice, spoglia, fatta di pietra.
Lo stile era medioevale, ma stranamente non era tetra.
Forse era l’occasione che glielo faceva sembrare più gioioso, o forse era dovuto alla bella giornata di primavera che era riuscita a far infiltrare i raggi del sole fin in fondo alla navata; in ogni caso, mentre reggeva quella stoffa bianca e ricca di ricami tra le mani, si sentiva piuttosto felice.
Certamente non per sé stessa, quello era ovvio, ma per Eloisa, la piccola dalle guance paffute e rosee che teneva in braccio ormai da venti minuti.
Giulia era bella come sempre, anche dopo aver partorito: il biondo dei suoi capelli sembrava addirittura più lucido e il suo sorriso più caldo, da quando la bambina era venuta al mondo.
Corrado, accanto a lei, non era da meno; impettito nel suo completo nuovo – che probabilmente aveva usato solo in due occasioni, il suo matrimonio e quel battesimo – tratteneva a stento l’emozione e lanciava spesso sguardi fugaci nella direzione della figlia, quasi temesse che Arianna potesse lasciarla cadere da un momento all’altro.
Lei, da parte sua, sorrideva, e tutto sommato era felice di essere lì. Anche per lei la nascita della figlioccia era stata un’emozione forte, pur se attenuata dall’orribile periodo che stava passando.
Lei e Paolo si erano lasciati qualche mese prima, in seguito ad una discussione che era partita proprio da un discorso riguardante un tema simile.
Arianna aveva sempre desiderato una famiglia, dei figli e un uomo accanto a lei che la facesse sentire protetta e amata. Forse era un po’ all’antica per certe cose, ma era stata cresciuta così e faceva parte di lei, come tante altre cose.
Era insicura per natura e timorosa di carattere, oltre che poco incline ai litigi.
Tendeva ad evitare le situazioni spiacevoli, se poteva, soprattutto nei rapporti amorosi, e poi finiva sempre nello stesso modo: scottata.
Non che i suoi fidanzati fossero dei santi, anzi. Sembrava avere un particolare talento per trovare ragazzi allergici alle definizioni, così diceva.
Quando li conosceva sembravano le persone più carine del mondo, ma poi, con il passare del tempo, diventava sempre più chiaro che avevano paura di prendere un impegno serio con qualcuno. O con lei, pensava.
Così fuggivano.
In un modo o in un altro, spesso nei modi più fantasiosi mai conosciuti ed elaborati dall’essere umano, uno dopo l’altro, tutti, fuggivano.
E così anche Paolo.
Dopo ore di urla e strilli, lui si era improvvisamente acquietato, aveva guardato fuori dalla finestra per qualche minuto e poi “ È meglio finirla qui “, aveva detto.
Solo quattro parole; le uniche che Arianna non avrebbe mai voluto sentire, ed era sparito.
Andato, per sempre.
Fuori dalla sua vita.
Come tutti prima di lui.
 
Adesso reggeva Eloisa in braccio, e sorrideva. Era un sorriso di circostanza, perlopiù, ma era anche un modo per contrastare il dolore che aveva dentro.
Guardò gli occhi di quella che un giorno sarebbe stata una donna come lei, e sorrise ancora di più.
« Ti auguro di essere felice, piccolina » mormorò con la voce un po’ roca.
Avrebbe voluto poter fare come le tre fatine della Bella Addormentata nel Bosco e farle quel dono, per assicurarsi che almeno per lei ci sarebbe stato il lieto fine, ma non poteva.
Nessuno può darti una simile certezza.
 
 
 
                                                                    ***
 
 
 
 
« E adesso cosa pensi di fare? »
La voce di sua mamma risuonava fredda e severa, nella cucina silenziosa di casa sua, e questo le metteva ancora più ansia addosso.
« Non lo so, sinceramente » rispose con onestà.
Quella era sempre stata un’altra delle sue qualità totalmente inutili: non riusciva a dire bugie, nemmeno a fin di bene. Era sempre stato un problema, e ancora, a trent’ anni, si chiedeva come qualcuno potesse considerarlo un pregio.
« Hai già mandato dei curriculum da qualche altra parte? » domandò indefessa sua madre, continuando a girare il sugo con tutta la concentrazione di cui era capace.
« Sì, ho contattato un paio di giornali, qualche sito web e anche una piccola casa editrice locale, sto aspettando che mi rispondano » spiegò lei sistemandosi nervosamente le ciocche di capelli più corte dietro le orecchie.
« Non è facile trovare lavoro di questi tempi, lo sai »
Teresa annuì. Lo sapeva. Era proprio per quello che si era incazzata così tanto quando sua figlia era voluta andare a tutti i costi a fare Lettere.
“ Sei intelligente, potresti fare qualunque cosa! Perché proprio una facoltà che ti porterà ad essere disoccupata a vita? “
 
Arianna non lo sapeva.
Anzi, sì, lo sapeva, ma non aiutava.
Aveva iniziato a scrivere racconti a soli cinque anni, e da allora non aveva più smesso. Finito il liceo – rigorosamente classico – aveva espresso il desiderio di studiare Lettere moderne, e sua mamma glielo aveva caldamente sconsigliato.
“ Finirai sotto un ponte!” minacciava, “non troverai lavoro, lo sai come stiamo messi in Italia, la cultura non paga! “
Ovviamente lei, come qualsiasi ventenne, l’aveva ignorata, forte della sua passione e della sua ingenua convinzione di poter cambiare le cose. Sapeva che era difficile, ma era proprio quello a farla intestardire ancora di più.
Nel lavoro, come nella vita privata, aveva sempre scelto la strada delle cause perse.
 
Se fosse stata più furba forse avrebbe scelto Giurisprudenza, Ingegneria, Economia.
Se fosse stata diversa.
 
Ma a lei piaceva così.
O almeno lo credeva, prima di ritrovarsi a trent’anni suonati senza un lavoro e con affitto e bollette da pagare.
E senza un fidanzato, ovviamente.
« Dovresti trovarti un uomo, sai? » rincarò la dose sua mamma, del tutto inopportuna come sempre.
« E per far che? » finse indifferenza.
L’unico argomento sul quale sapeva mentire era quello. A nessuno, nemmeno alle sue amiche più strette, aveva mai confessato quanto le pesasse stare da sola, anche se temeva che loro l’avessero intuito da sole.
La sua non era mancanza di indipendenza, ma semplicemente un bisogno patologico d’amore. Sapeva stare da sola, se necessario: in fondo lo era sempre, anche quando capitava che le piacesse qualcuno. Durava sempre poco con tutti, e ormai non sapeva più se la colpa fosse loro o sua, che non sapeva farli innamorare davvero.
Il suo psicologo l’aveva definito così: bisogno patologico d’amore.
Non sapeva se fosse una cosa brutta o meno, ma la trovava piuttosto vera.
Aveva sempre sentito come un rimescolio all’interno della cavità toracica, fin da giovane, come un’energia che cresceva, al centro del petto, una piccola supernova pronta ad esplodere da un momento all’altro. Sentiva dentro di sé una sorgente infinita, immensa, implacabile. Il bisogno di essere amata, ma soprattutto di amare.
Forse era per quello che sceglieva per sé tutti i casi più gravi: inconsciamente pensava di poterli curare con il potere dell’amore. O di poter amare per entrambi.
« Hai già trent’ anni, tra un po’ dovresti pensare a mettere su famiglia, no? » continuò Marina senza staccare gli occhi dai fornelli.
Arianna si concentrò su una venatura particolarmente interessante del tavolo.
« Non ho nemmeno un lavoro, mamma, non mi sembra il momento di pensare a questo »
 
E comunque, anche se lo fosse stato, la sua sfortuna non sembrava volerla mollare.
Dopo Paolo c’era stata qualche altra storia, ma mai niente di veramente serio.
Ogni tanto lui risbucava dai meandri oscuri del passato, mandando qualche messaggio per le feste o il suo compleanno, o addirittura le telefonava, e lei non aveva il coraggio di riattaccare, per cui spesso si ritrovava a fissare il cellulare per qualche minuto, immobile, aspettando che smettesse di suonare.
E poi scoppiava a piangere.
Non lo aveva mai dimenticato davvero, anche se con tutti faceva finta che fosse così.
Si può mentire a tutti, ma mentire con sé stessi è da stupidi.
Nonostante si fosse comportato da immaturo, vigliacco e stronzo, quello che aveva provato per lui era stato come una malattia. Come la varicella.
Prima o poi guarisci, ma i segni ti rimangono.
 
Adesso c’era Fabio, ma già sapeva che era un altro di quelli che non sarebbero durati.
Uscivano insieme solo da qualche mese, e anche se si trovava molto bene con lui era chiaro come il sole che erano troppo diversi e non ci sarebbe mai potuto essere nient’altro che una semplice amicizia.
Inoltre, non era tipo da passare da un letto all’altro ( anche se negli anni forse un’avventura le era capitato di concedersela ) ma anche il sesso le mancava.
Le mancava farsi abbracciare prima di addormentarsi, avere qualcuno a cui augurare la buonanotte, qualcuno con cui ridere mentre si ha già gli occhi chiusi, qualcuno verso cui allungare il piede la notte quando fuori c’è un temporale o hai fatto un brutto sogno.
Ovviamente tutto questo non lo aveva mai detto a nessuno, forse nemmeno al suo psicologo, eppure non smetteva di pensarlo.
Bisogno patologico d’amore.
 
Assurdo come in un mondo così pieno di dolore tutti abbiano paura di amare.
 
 
 
 
 

 

 
Atto II
 
 
“ A volte ci vuole tanto coraggio a vivere
 quanto a morire ”
 
 


Il vento gelido le colpiva le guance come uno schiaffo in moto perpetuo, facendole diventare sempre più rosse.
Era il 31 dicembre, e mancavano solo poche ore alla fine dell’anno.
I suoi amici l’avevano invitata ad una festa in un locale del centro soltanto poche ore prima, senza preavviso, e lei aveva accettato di raggiungerli esclusivamente per non starsene a casa sul divano mentre in TV davano il concerto di Gigi d’Alessio e qualche presentatore faceva il conto alla rovescia con finto entusiasmo.
In realtà, però, non aveva alcuna voglia di festeggiare.
Non ne aveva nessun motivo: l’anno che stava finendo era stato un altro ammasso di delusioni e speranze finite nel cesso, e quello che stava per arrivare non si prospettava di certo migliore.
Avrebbe compiuto trentadue anni esattamente tra tredici giorni e quattro ore, e ancora non c’era nulla che stesse andando come si era immaginata.
Non c’erano uomini nella sua vita, in quel momento, se non Ferdinando.
Erano amici dai tempi del liceo e lui aveva sempre avuto una cotta per lei, che però non era mai stata ricambiata.
Forse sarebbe stato meglio se l’avesse accontentato, invece di mettersi con tutti i deficienti con cui era finita in quegli anni. Sicuramente sarebbe stato un fidanzato attento, premuroso e pronto a prendersi le sue responsabilità, al contrario di quegli stronzi.
Invece non l’aveva fatto, perché Ferdi – come lo chiamava affettuosamente da sedici anni – era un ragazzino paffutello e biondiccio che pendeva dalle sue labbra, e si sa che le donne guardano sempre nella direzione sbagliata.
All’epoca si riteneva in qualche modo migliore, almeno esteticamente, con i suoi capelli neri e gli occhi grandi, perciò non si era mai interessata a lui in quel senso.
Adesso però Ferdinando aveva venti chili meno, una specialistica in medicina legale e sei mesi di fidanzamento alle spalle con una certa Cristina, una collega dai capelli rosso fuoco conosciuta durante uno stage all’estero.
E lei? Lei cosa aveva?
Solo un altro anno in più e molta meno energia.
Si sentiva sfinita da così tanto tempo che non si ricordava nemmeno più cosa si provasse a stare bene, ad essere felici.
Dopo aver perso il vecchio lavoro ne aveva trovato un altro, in una piccola rivista di pubblicazione locale, ma era stata licenziata pochi mesi dopo per problemi di budget e personale in eccesso.
Aveva provato a rimandare curriculum da tutte le parti, ma non c’era stato verso. Non era facile trovare qualcuno che l’assumesse, specialmente adesso che non era più una neolaureata. Roma sembrava tanto grande e ricca di opportunità, ma in realtà certe volte ti faceva sentire solo e disperato; un puntino in una città - in un mondo- che non aveva nulla per te.
 
Camminava da una ventina di minuti, ormai, lentamente ma senza mai fermarsi, stretta nel cappotto blu scuro che le avevano regalato per Natale.
Aveva lasciato la festa in anticipo, non riuscendo più a sopportare il caldo artificiale e tutti quei sorrisi forzati delle persone che le auguravano buon anno mentre le passavano accanto, molti senza nemmeno riconoscerla davvero.
I tacchi le facevano male ai piedi, ma non le importava. Il dolore l’aiutava a dislocare quello che sentiva dentro, al centro del petto, allo stomaco e su fino alla testa.
Un’oppressione, una sofferenza che non riusciva a spiegare.
Aveva smesso di parlare con sua mamma da tre mesi; dopo l’ultima litigata, quando le aveva detto che non ne combinava mai una giusta e che era un peso per suo padre - il quale aveva rinunciato ad andare in pensione continuando a lavorare per poterle dare una mano con i soldi - aveva lasciato la casa dei suoi genitori in silenzio, a testa bassa, e aveva guidato fino a casa piangendo, trattenendo a fatica i singhiozzi.
Era una delusione per i suoi genitori e anche per se stessa.
Di tutte le cose che si era ripromessa di fare, di tutti i progetti che aveva da ragazzina, di tutta la speranza e la gioia di scrivere, di provare, di mettersi in gioco, non era rimasto più niente.
E come se non bastasse - si ritrovava a pensare- Giulia si era trasferita in periferia con suo marito ed Eloisa, ed erano l’esemplificazione della famiglia felice. Quando in televisione passavano la pubblicità del Mulino Bianco pensava a loro e sorrideva. Almeno la sua migliore amica era felice, anche se adesso era costretta a vederla molto meno.
Aveva smesso di chiamarla nel cuore della notte quando stava male, perché non voleva più disturbarla. Anche se una parte di lei la odiava perché era riuscita ad ottenere tutto quello che desiderava senza difficoltà, la verità era che non voleva essere la macchia nera in tutta quella luce. Non voleva che i suoi problemi e malumori alterassero l’umore dell’amica, né tantomeno lo scorrere normale delle sue giornate.
Le faceva male, certo, doversi tenere tutto dentro, ma ormai era passato così tanto tempo dall’ultima volta che era stata bene che era riuscita pian piano a costruirsi un guscio e rimanervi dentro, imparando anche a fingere abbastanza bene da ingannare chiunque.
Da fuori, infatti, Arianna sembrava stanca, talvolta un po’ giù di morale, ma tutto sommato tranquilla e piuttosto soddisfatta della sua vita.
Era questo che tutti pensavano, riusciva a leggerlo nei loro occhi.
Lasciava che ci credessero; ormai non avrebbe saputo nemmeno più da che parte cominciare per togliersi quella maschera, per dire cosa le stava succedendo davvero.
 
Stava morendo dentro.
Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto che passava.
Le notti scorrevano interminabili, concedendole solo un paio d’ore di sonno mal sfruttate, e le giornate sembravano annebbiate come quando apri gli occhi sott’acqua.
Non c’era più niente, nella sua vita, che le desse la spinta per andare avanti, né per ricominciare.
Era un peso per i suoi genitori; una figlia fallita, inutile. Era un peso per gli amici, che ormai non la conoscevano più, perché si nascondeva da anni per paura che la lasciassero sola se avesse detto la verità: che era infelice.
 
Questa è una verità che nessuno dice mai: l’infelicità spaventa le persone.
È come se fosse contagiosa, una malattia. Se sei infelice e lo dimostri, pian piano tutti si allontanano.
Così Arianna aveva cercato di evitarlo, di nasconderlo, e a quanto pare c’era riuscita fin troppo bene.
Adesso erano tutti estranei per lei. Lei stessa, si sentiva un’estranea al suo corpo.
 
Continuava a camminare, andando avanti nella lista: era una delusione per i suoi, un peso per gli amici, un’ombra per il mondo, incapace e inutile nel suo lavoro, indesiderata da chiunque provasse ad amare.
Ogni uomo a cui aveva donato il suo cuore glielo aveva spezzato, riducendolo in brandelli sempre più piccoli, come fossero coriandoli.
Tante persone l’avevano delusa, in quegli anni, senza mai una vera ragione.
L’avevano abbandonata senza dirle perché. Senza spiegarle come si facesse.
E a lei era toccato raccogliere i cocci, ogni volta. E riprovare di nuovo. Tirare ancora i dadi.
“ Ritenta, sarai più fortunato”.
Come al superenalotto.
 
Voltò l’angolo, e pochi metri dopo imboccò ponte Vittorio Emanuele II, senza una meta precisa.
La strada era poco trafficata rispetto al solito, e quelle che c’erano sembravano troppo ubriache per prestarle attenzione.
Arrivò fino al centro e si fermò, in una sorta di trance.
Non aveva idea del perché fosse lì, di come ci fosse arrivata e di dove inconsciamente stesse cercando di andare, ma non le importava.
Si appoggiò al parapetto di marmo antico, puntando lo sguardo sull’orizzonte.
Il Tevere era piuttosto pieno in quel periodo; aveva piovuto molto e l’acqua doveva essere davvero fredda, considerati i quattro gradi di quella sera.
Splendeva al riverbero dei lampioni, in una luce soffusa e delicata che faceva sembrare la sua superfice seta pregiata.
La statua accanto a lei, parte decorativa del ponte, era altrettanto bella e imponente.
Il bianco del marmo, il blu scuro del cielo, il giallo caldo delle luci: tutto questo la faceva sentire piccola e impotente.
Aveva fallito.
Con sé stessa, con la bambina e la ragazza che era stata.
Non importava quanto ci provasse, non era mai abbastanza e ormai era evidente.
Aveva solo trentadue anni, ma quella sensazione di non avere un posto nel mondo la perseguitava da troppo tempo, e in cuor suo sentiva che non se ne sarebbe mai andata.
Lei non aveva un posto, era superflua. Solo un puntino insignificante.
Come una goccia in quell’immenso e bellissimo fiume.
 
Con la mano destra si ancorò alla statua alla sua destra e issò il piede sulla balaustra, tenendosi in equilibrio con il braccio disteso.
Una folata di vento gelido la scosse, intorpidendo ancora di più le sue mani e la sua faccia.
Ormai non sentiva più il naso nè le guance, e le lacrime che erano scese involontariamente su di esse, congelando, le rendevano ancora più insensibili.
Si diede un’altra spinta e salì sul parapetto liscio con entrambi i piedi, ondeggiando lievemente.
Non aveva mai sofferto particolarmente di vertigini, ma sapeva che in un altro momento si sarebbe comunque spaventata a stare in piedi lassù: il bordo era largo a malapena quanto i suoi piedi e la superficie liscia non le dava di certo il massimo della stabilità.
Ironicamente, nessuno sembrava notarla, nemmeno adesso che era in piedi su un ponte, ad un passo dal vuoto.
Forse era davvero invisibile come le era sempre parso d’essere: una specie di allucinazione collettiva di sua madre, suo padre e dei suoi pochi amici.
Sentiva di non esistere affatto.
Non più, almeno.
 
Fece un respiro profondo, nella speranza che l’aria gelida nei polmoni le provocasse abbastanza disagio da farle cambiare idea, da ricordarle che era ancora viva, ma così non fu.
L’ossigeno bruciava, era come veleno per lei. Il dolore aumentava sempre di più, mentre l’alcool che aveva ancora in corpo le faceva tornare in mente tutti i momenti orribili che aveva passato negli ultimi anni e tutte le persone che in qualche modo l’avevano spinta ad essere lì in quel momento.
In realtà, se doveva essere sincera, non credeva nemmeno fosse colpa degli altri, se era arrivata a tanto.
Era solo colpa sua: era lei che non era stata in grado di essere chi avrebbe voluto, di far innamorare un uomo di sé come lei si innamorava di loro, di intraprendere la carriera che desiderava fino in fondo.
Era colpa sua.
Era lei che non era abbastanza.
“ Prima o poi passerà “ le avevano detto ogni volta che aveva fallito in qualcosa.
Ogni volta che soffriva.
“ Passerà”.
Una volta ci credeva. Quando era una bambina, pensava che un bacio sulla ferita guarisse tutto. Adesso sapeva che non era così.
No, non passerà.
 
Non sapeva quanto mancasse alla mezzanotte: forse poco, forse era già passata.
In ogni caso, espresse un desiderio. L’ultimo.
Lasciò andare la presa, mentre muoveva un altro passo in avanti, oltre il solido marmo.
Forse, finalmente, stavolta si sarebbe avverato.
 
 

 
 
 
 
 
 
 
 

Atto III
 
 
 
" I survived because the fire inside me
 burned brighter than the fire around me "
 
Joshua Graham 
 
 
 
 
Riusciva a vedere solo luce.
Aveva sempre pensato che la questione del Paradiso fosse tutta una storiella inventata da Dante per poter scrivere il suo libro senza ripercussioni, ma a quanto pare non era così.
Tutto intorno a lei era bianco; un bianco così accecante che a malapena riusciva ad aprire gli occhi.
Sempre che in Paradiso si possa avere il concetto di occhi, dato che fanno parte del corpo mortale.
 
« Ari » mormorò una voce in lontananza, riecheggiando nel vuoto.
Si sarebbe voluta guardare attorno per cercare di comprendere da dove venisse, ma le era impossibile. Non riusciva nemmeno a capire dove si trovava esattamente, né se le dimensioni e i riferimenti a cui era abituata potessero valere nell’aldilà.
Aveva sempre immaginato che non esistesse un “su” e “ giù” o una destra e una sinistra, nel luogo che c’è oltre questa vita.
 
« È cosciente? » sentì domandare, sempre in lontananza, dalla stessa voce.
« Ancora non del tutto, ci vorrà un po’ di tempo perché l’effetto dei farmaci si dissolva » rispose qualcun altro, mandandola sempre più in confusione.
Chi era a parlare? E soprattutto a cosa si riferivano? Cosciente? Farmaci?
 
Si sforzò di aprire di più gli occhi, combattendo contro il bagliore accecante che continuava a colpirle la retina.
Improvvisamente, qualcosa le toccò la mano.
Poteva percepire chiaramente un corpo caldo, soffice e liscio che si intrecciava alle sue dita, tentando di riportarla verso di sé.
« Ari, mi senti? Sono qui, tesoro »
Quella voce le era così familiare, eppure non riusciva a capire di chi fosse.
Si sentiva tremendamente stordita, come se non potesse ricordare neppure il suo nome o come era finita lì.
Strizzò gli occhi e si concentrò sulla sensazione di calore che percepiva.
Quando li riaprì, la luce la colpì solo per un momento, accecante, poi tutto si mise a fuoco da solo.
 
Accanto a lei c’era sua mamma, con una mano nella sua, che la stringeva forte come se avesse paura che potesse scivolare via da un momento all’altro, mentre in fondo al letto spuntava – avvolto in un camice bianco come la luce che la disturbava – un medico dal volto sconosciuto, che la osservava con aria seria da dietro la cartella che teneva in mano. « Bentornata » la salutò spiritoso.
 
Arianna tentò di muovere la testa, ma la sentiva incredibilmente pesante, come se qualcuno l’avesse riempita di sassi e gliel’avesse ricucita addosso.
Sicuramente sarebbe stato un ottimo modo per affondare più velocemente quando ci si buttava da un ponte di quindici metri.
Sua madre scoppiò a piangere, evidentemente distrutta dalla tensione nervosa, e farfugliò preghiere e ringraziamenti indistinti mentre le abbracciava e accarezzava le gambe, disperata.
 
Lei continuava a non capire.
Perché era lì? Perché non era morta nell’impatto?
L’ultima cosa che ricordava era di essere salita sul parapetto ed essersi lasciata andare nel vuoto, dopodiché più nulla. Sforzandosi le pareva di poter percepire anche la sensazione di toccare violentemente l’acqua gelida, ma non ne era del tutto sicura.
 
« Mamma » balbettò confusa e spaesata, con voce roca.
Teresa alzò la testa, gli occhi arrossati dal pianto e due profonde e violacee occhiaie a far loro da cornice.
Chissà da quanto tempo non dormiva.
« Quanto ho dormito? » domandò, non riuscendo a formulare la frase che avrebbe voluto pronunciare in realtà.
Perché sono viva?
« Tre giorni, amore » soffiò con un filo di voce lei, riprendendo ad accarezzarle la mano libera.
« È stata molto fortunata » intervenne il medico, che nel frattempo era rimasto in disparte in silenzio. « Di solito con un salto da quell’altezza e in quelle condizioni climatiche la gente muore, o comunque rimane in delle brutte condizioni »
 
Brutte condizioni. Era il termine clinico per “ paralizzato” o “ in stato vegetativo “.
Aveva sempre odiato quel parlare per sottigliezze dei dottori; come se le persone non sapessero che ci sono cose peggiori della morte a questo mondo.
« Come avete fatto? » domandò, fiduciosa che avrebbe capito a cosa si riferiva.
Come avete fatto a salvarmi? Chi vi ha detto di farlo?
Per un attimo gli occhi freddi e distaccati dell’uomo la scrutarono, come se stessero cercando di capire cosa le passasse per la testa, poi si abbassarono nuovamente sulla sua cartella clinica. « Un ragazzo ti ha visto buttarti e ha chiamato subito i soccorsi. Quando sei arrivata eri in ipotermia e riportavi numerosi traumi, ma fortunatamente siamo riusciti a renderti stabile. Adesso sei in terapia intensiva; probabilmente nelle prossime ore ti sentirai frastornata, non preoccuparti, è dovuto all’effetto della sedazione che deve svanire. Se dovessi avvertire un qualunque altro disturbo oltre a questo, non esitare a chiamarci. Tra un paio d’ore passerà un mio collega a controllare che vada tutto bene, ma per ora direi che sei fuori pericolo. »
 
Le parole di quell’uomo le risuonarono in testa come avrebbero fatto in una stanza vuota; non era nemmeno sicura di avere capito del tutto ciò che aveva detto, ma non le importava. Era viva, questo era il succo.
Si era buttata da un ponte in pieno inverno, nel centro di Roma, e non aveva nemmeno provato a nuotare. Voleva morire.
Ma era ancora viva.
Sentì sua madre ringraziare il medico con prodigalità e dirle che sarebbe andata a chiamare suo padre per dirgli che si era svegliata e di raggiungerle, mentre il dottore si avviava verso l’uscita della camera, lo sguardo sempre fisso sui suoi documenti.
« Sa, dopo vent’anni certe cose ancora mi sorprendono » aggiunse fermandosi improvvisamente, proprio sulla porta.
Non aveva idea di cosa stesse parlando, né era sicura che si stesse rivolgendo a lei, ma non riuscì a trattenersi dal parlare. « Cosa? », domandò.
 
L’uomo alzò la testa guardandola dritta negli occhi, sebbene fosse abbastanza lontano da lei. « Come siano strani i misteri della vita. Passiamo anni ad imparare come salvare le persone, pensiamo di saperlo fare, e invece poi alcuni muoiono lo stesso. Mentre altri… » fece una pausa, e Arianna sentì i suoi nervi tendersi, pronti alla scoccata finale.
Altri che non se lo meritano sopravvivono. Lo dica. Non sia vigliacco.
 
« Lo dica pure, non m’importa » mormorò, per quanto la sua gola secca glielo permettesse.
Non abbassò lo sguardo, anzi, lo tenne ben fermo sul suo, come per dimostrargli che non aveva paura. Non c’era bisogno che indorasse la pillola anche a lei come era abituato a fare con tutti i pazienti. Lei aveva già capito come funzionava la vita.
Per questo si era buttata.
 
« Noi medici ci illudiamo di avere un enorme potere: influenzare la vita, influenzare la morte. Prevedere quando qualcuno può farcela e quando invece è destinato a morire. » dichiarò con un tono vagamente amareggiato, come se non condividesse quella visione. « Eppure, con l’esperienza poi impariamo che ci sono cose su cui neppure noi abbiamo nessun potere » sorrise malinconico, lasciandole vincere la sfida di sguardi.
Non riusciva a cogliere a pieno la sua espressione da quell’angolazione, ora che aveva ripreso ad analizzare i fogli che teneva in mano, ma la sua voce sembrava meno fredda e inflessibile di prima. Adesso aveva un certo calore, come se non stesse più parlando da medico, ma da semplice essere umano.
« Se c’è una cosa che ho imparato nella mia carriera, è che ognuno di noi sceglie quando lasciarsi andare » spiegò, senza muoversi mai di un passo.
« Le sembrerà strano » continuò, « ma quando le persone decidono di morire è come se si spegnessero. E tu puoi fare di tutto per cercare di riportarle indietro, ma non ci riesci. È così che funziona il libero arbitrio. »
 
Per qualche istante calò il silenzio; l’unico rumore che si sentiva era il gocciolio della flebo che Arianna aveva al braccio.
« Dottore » mormorò infine, « io ho scelto, di buttarmi »
Stavolta fu lei ad abbassare lo sguardo.
Ammettere una cosa del genere davanti a chi l’aveva salvata le sembrava – nonostante tutto – un po’ egoista.
La pausa che seguì le sembrò interminabile: non aveva il coraggio di guardarlo negli occhi e scoprire quello di cui la stavano accusando.
« Lo so » dichiarò infine, con estrema delicatezza e allo stesso tempo sicurezza nella voce.  « Ma non ha scelto di lasciarsi spegnere ».
 
 
 
***
 
 
 
 
Giulia era seduta sulla poltrona a fianco del suo letto, Ferdinando accanto a lei, appollaiato su una sedia. La sua figura ormai longilinea e fin troppo sviluppata in altezza lo faceva sembrare un uccello accovacciato su di un ramo.
« Dite qualcosa » li pregò Arianna, rompendo il silenzio.
Entrambi avevano lo sguardo rivolto altrove, come se volessero evitarla. Non lo sopportava. Perché erano lì, se ce l’avevano così tanto con lei?
Giulia abbassò la testa e tirò su con il naso. « Perché lo hai fatto? » mormorò con voce spezzata. « Non hai pensato a tua mamma? Ai tuoi amici, a tutte le persone che ti vogliono bene? » domandò con rabbia, ma le lacrime agli occhi.
Non sapeva cosa rispondere.
Sì, ci aveva pensato.
No, non l’aveva fatto.
Non lo sapeva nemmeno lei.
Quando decidi di suicidarti scatta qualcosa, nella tua testa, e semplicemente non pensi più.
Ferdinando alzò gli occhi su di lei, guardandola intensamente, come per capire cosa le passasse per la testa. « Perché non ci hai detto che stavi così male? » domandò mortificato.
Arianna non sapeva cosa rispondere. Non voleva ferirli più di quanto non avesse già fatto.
« Ti ha fatto una domanda » incalzò arrabbiata Giulia, alzandosi in piedi, le braccia incrociate al petto.
« Non pensavo che avreste capito. Non volevo addossarvi un peso che era solo mio. Non volevo rovinare la vostra vita. Voi stavate bene » spiegò.
Improvvisamente le sembrò tutto così stupido.
I suoi amici erano lì, preoccupati, sull’orlo delle lacrime, sua madre non aveva dormito per tre giorni aspettando che lei si risvegliasse.
Voleva mettere fine alla sua sofferenza con quel gesto, e invece tutto ciò che aveva fatto era stato procurarne di più a coloro che la amavano.
« Certo, e saremmo stati così bene senza di te, vero? » esclamò sull’orlo della crisi Giulia, aggredendola come non aveva mai fatto prima. « Ma che cosa cavolo dici, Arianna? Noi ti siamo sempre stati vicini, sai benissimo che puoi fidarti di noi! Se tu ce ne avessi parlato, se avessi provato a dirci come ti sentivi, noi… »
Stavolta fu lei ad interrompere l’amica, presa da un ardore simile – e allo stesso tempo diverso – a quello che l’aveva spinta a buttarsi da quel ponte.
« Voi cosa? Avreste risolto ogni cosa? Avreste tirato fuori una bacchetta magica e mi avreste trovato un motivo per cui andare avanti? » urlò, tanto da provare dolore alla gola ancora irritata.
Calò di nuovo il silenzio, nessuno osava muoversi o guardare gli altri negli occhi.
Arianna sentiva il naso pruderle, come quando stava per piangere, e la gola bruciarle più del dovuto. Si sentiva debole, in colpa, triste e distrutta fisicamente.
Non voleva litigare con i suoi amici, non voleva dire loro cose che sapeva già che li avrebbero feriti, così come ferivano lei.
Dopo qualche minuto, che parve interminabile, Giulia raccolse la borsa che aveva abbandonato sulla sedia e uscì dalla stanza, senza fiatare.
Ferdinando rimase seduto a pochi metri da lei con le mani giunte e le caviglie incrociate, l’aria pensierosa e preoccupata.
« Almeno tu non odiarmi, per favore » mormorò debolmente lei con gli occhi già umidi.
Lui alzò la testa, rivelando uno sguardo timido e spaventato che non ricordava di avergli mai visto prima. Sentì una stretta al cuore; era colpa sua se stava così.
« Odiarti? » balbettò, sorpreso. « Perché mai io dovrei odiarti? » le chiese, spostandosi sulla sedia più vicina al letto. « Sono io a doverti chiedere scusa, semmai. Tutti noi. Non ci siamo accorti che stavi così male, e per poco non ti perdevamo. È colpa nostra. »
La sua voce si spezzò sulle ultime parole, mentre le prendeva la mano ancora piena di tubi e vi posava un lieve bacio sopra. Arianna gli accarezzò i capelli e la guancia, sperando di non essere troppo fredda. La sua pelle gli pareva di fuoco, al confronto.
« Non è colpa vostra, Ferdi. Probabilmente non è colpa di nessuno, ma solo sfortuna» quasi ridacchiò, dicendolo. « È solo che mi sembrava di non avere più niente. Voi avete tutti qualcosa che vi rende felici: un lavoro che vi piace, dei figli, una famiglia, qualcuno che amate e che vi ama… e io cos’ho? Niente. Ho trentadue anni e non ho un lavoro, per i miei sono un peso e non c’è nessuno da cui tornare a casa la sera né con cui costruire una famiglia mia. Lo so che voi ci siete sempre stati, ma anche se è brutto da dire non mi bastate più. Voi avete la vostra vita, e anche io ne voglio una mia. Vorrei solo essere felice… »
In quel momento scoppiò a piangere, singhiozzando come non aveva mai fatto prima e aggrappandosi a Ferdinando come un naufrago si aggrappa a qualunque cosa galleggi. Stettero così, in silenzio, per qualche minuto, mentre Arianna piangeva e buttava fuori tutto quello che si era tenuta dentro negli ultimi mesi.
Alla fine lui le porse qualche fazzoletto e si fece fare un po’ di posto accanto a lei nel letto, sedendosi.
Le accarezzò i capelli con dolcezza, aspettando che il suo respiro si regolarizzasse, senza mia lasciarle la mano. « Lo so che è un brutto momento, ma passerà, vedrai. Ti aiuteremo a superarlo » promise.
Lei tirò su con il naso, muovendo appena le dita racchiuse nella mano di lui.
« Lo so che passerà. È proprio questo il punto. Che nella mia vita tutte le cose debbano sempre passare. Io voglio che restino. » mormorò.
 
Passò qualche secondo, in cui il silenzio li avvolse entrambi come una coperta. Era piacevole starsene lì, fermi e abbracciati, ma fuori c’era la vita vera ad aspettarli; ad aspettare Arianna.
Ferdinando avrebbe voluto avere davvero una bacchetta magica per aiutarla, ma purtroppo non ne possedeva una, così come non aveva il dono di farla stare meglio.
Per quanto gli costasse ammetterlo, entrambi sapevano che a questo mondo, se vogliamo salvarci, dobbiamo farlo da soli.
Tutto ciò che ci è concesso è un po’ di compagnia.
« Allora è questo che devi fare » mormorò lui alla fine, posandole un bacio sui capelli, « trovare qualcosa che duri per sempre ».
 
 
 
 

 
 
 
Epilogo
 
 
 
 
                                                                                          " Life is 10% what happens and 90% how you react to it ”
 
 – Charles R. Swindoll 
 
 
 
 
Il cliente da lei chiamato è al momento occupato. Lasciate un messaggio dopo il bip.
 
« Mamma, sto andando in ospedale adesso, ho preso un taxi. Ci vediamo lì. Vai piano, mi raccomando, manca ancora un bel po’! A dopo »
 Cliccò sull’icona rossa della cornetta e lasciò andare il cellulare all’interno della borsa accanto a lei.
Una contrazione la colse di sorpresa, facendola gridare. « Mi scusi » disse rivolta all’autista non appena il dolore fu passato.
« Ma le pare, signorina » le sorrise lui di rimando dallo specchietto retrovisore.
« È maschio o femmina? »
Arianna si teneva la pancia, una mano sopra e una sotto il ventre gonfio, tentando di respirare ritmicamente nella speranza di alleviare leggermente il dolore.
« Non lo so, volevo che fosse una sorpresa » sospirò appoggiando la testa tra il finestrino e il sedile.
« Come ai vecchi tempi, eh? Bella scelta, ha fatto bene. Ci vuole un po’ di mistero, nella vita. Un po’ d’avventura! »
Arianna sorrise della sua espressione e di quel tono gioioso. Quel viso rotondeggiante, i capelli brizzolati e la barba lunga che aveva gli davano un’aria paciosa e simpatica.
Chissà cosa avrebbe detto se avesse saputo che circa due anni prima aveva tentato di suicidarsi.
Era una cosa di cui solo pochi erano al corrente, e con il tempo si era convinta sempre di più che la maggioranza delle persone sarebbe stata a dir poco sorpresa nel sapere fino a dove si era spinta, in passato.
A vederla ora, sembrava la persona più tranquilla del mondo.
Se ne stava seduta in un taxi con il suo pancione enorme e una borsa patchwork colorata che conteneva metà del suo armadio, e non era minimamente scossa se non dal dolore delle doglie, che ormai erano ad intervalli di cinque minuti l’una dall’altra.
Nessuno avrebbe mai detto che fosse un ex aspirante suicida, anzi. Sembra la migliore futura mamma del mondo.
 
« Buona fortuna » la salutò il tassista una volta arrivati, sporgendosi dal finestrino.
« Grazie » gli sorrise lei di rimando, facendo un cenno con la mano.
« Vedrà che la renderà felice. I figli sono sempre la nostra salvezza »
Quelle parole la colsero di sorpresa, tanto da lasciarla immobile sul marciapiede per qualche secondo. Le sue labbra si incurvarono in un sorriso involontario, e sospirò.
Un’altra contrazione, però, rovinò quel momento.
 
La sala parto non era grande, e oltretutto Arianna non la vide molto bene, concentrata com’era sullo spingere fuori dal suo utero un bambino di ben tre chili.
Sua mamma, Teresa, pianse dal primo momento in cui mise piede in ospedale fino a quando le misero suo nipote in braccio, alle sette e trenta precise del mattino.
Suo marito Claudio aspettò in corridoio come un padre ansioso, anche se in realtà era il nonno. Si fece scappare anche lui una lacrimuccia e baciò sua figlia con dolcezza, congratulandosi per lo splendido lavoro.
 
Arianna, dal canto suo, era così stremata e scossa da non riuscire bene a capire cosa fosse realmente successo.
Il dottore fece uscire tutti dalla stanza per farla riposare, in attesa che le riportassero suo figlio dopo i controlli di routine, e la rassicurò sulla perfetta salute del bimbo.
Si addormentò senza accorgersene, e fu risvegliata solo dal lieve mugolio di un fagotto bianco che una donna con addosso un camice rosa stava avvicinando al suo letto.
« Eccolo qui » le sorrise, porgendoglielo con destrezza.
Lei, dal canto suo, lo prese come se fosse stato di porcellana, assicurandosi con apprensione di non lasciargli andare la testa.
« È bellissimo » si congratulò l’infermiera, facendole un enorme sorriso.
Arianna la sentì solo di sfuggita; era troppo impegnata ad osservare quello splendido batuffolo che aveva tra le braccia, ancora mezzo addormentato e sconvolto dall’evento, che si agitava leggermente, inconsapevole.
Socchiuse leggermente gli occhi e agitò la manina contro il suo petto, piangendo.
Lei lo avvicinò al viso e lo cullò, facendogli sentire la sua voce per calmarlo.
Due grosse lacrime di gioia le rigarono le guance.
 
Se due anni prima qualcuno le avesse detto che quella sarebbe stata la sua scelta, non ci avrebbe creduto.
Decidere di fare un figlio da sola, con l’inseminazione artificiale, dopo un anno come quello che aveva passato lei, sembrava da pazzi.
Eppure, adesso che poteva stringerlo a sé, aveva la dimostrazione che era anche la cosa migliore che avesse mai deciso di fare.
 
Era vero, quello che le aveva detto quel medico in ospedale: lei credeva di voler mollare, ma in realtà non si era mai spenta del tutto.
Nonostante la sofferenza, la fatica e i problemi, dentro di lei ardeva una fiamma ben più resistente di quel che lei stessa aveva creduto, e da allora aveva deciso di darsi da fare per farla tornare a splendere alta come prima.
Era andata in terapia e aveva cominciato a parlare dei suoi problemi con i suoi amici e la sua famiglia. Da qualche mese era stata assunta in una casa editrice minore ma ben avviata, che si occupava soprattutto di narrativa per bambini e ragazzi, aveva fatto pace con Giulia – che da allora la chiamava due volte al giorno – e adesso aveva anche un bellissimo bambino, che era la sua nuova ragione di vita.
La migliore che avesse mai avuto.
Inspirò quel meraviglioso profumo di bebè che emanava la sua pelle e sorrise, felice.
Non aveva ancora un fidanzato, quello era vero, ma per la prima volta in vita sua sentiva che non le importava affatto.
Adesso aveva Luca, ed era sufficiente.
Qualche anno prima – diversi, ormai, a dire il vero – era stata convinta del fatto che non avrebbe amato mai nessun uomo più di Paolo.
Glielo aveva detto in un orecchio molte volte e ne era sempre stata convinta, fino ad allora.
Ma adesso era cambiato tutto.
 
Dopo essere sopravvissuta a quel salto nel vuoto, era scattato qualcosa nella sua testa, come una leva.
Aveva trovato dentro di sé la forza di ricominciare, di andare avanti per davvero, di iniziare a ricostruire la sua vita partendo da se stessa e da ciò che desiderava di più al mondo: essere felice.
Aveva sempre voluto diventare mamma, ma si era sempre illusa di non poterlo fare da sola, senza un uomo al suo fianco.
Poi aveva capito che invece non ne aveva alcun bisogno.
La strada per la felicità a volte non è quella che immaginavamo, ma questo non vuol dire che non possa essere persino migliore.
 
Guardò suo figlio, accoccolato contro il suo seno, e si sentì la persona più felice dell’universo. Completa, come non le era mai successo.
« Mi sbagliavo, sai? Sei tu l’uomo della mia vita» mormorò, accarezzando la sua piccola testolina con dolcezza, « e ti giuro che non amerò mai nessuno più di te. Tu sei il mio per sempre ».
 
 
 
 

 

" Accadono cose che sono come domande, passa un minuto oppure anni, e poi la vita risponde. "
 
                                                                                                    - Alessandro Baricco
   
 
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