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Autore: FuoriTarget    28/01/2017    7 recensioni
Sequel di Relazione clandestina. Credo sia necessario leggere la prima parte per comprendere la storia, ma siete liberissimi di tentare l'impresa.
La vita ha portato i due protagonisti ad allontanarsi completamente dopo una storia d'amore travagliata. Complici il lavoro, lo stress, le bollette da pagare e le rate del mutuo, ognuno dei due è annegato volonariamente nella propria solitudine. Cosa succederà se il matrimonio dei loro migliori amici li costringerà a incontrarsi dopo molti anni? E sopratutto se la sfortuna decide di intervenire rimescolando le carte in tavola?
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Travolti da un insolito destino


Capitolo 9




Era da poco iniziato dicembre e la città brillava in pieno fervore natalizio, c’erano le gigantesce decorazioni luminose di Harrod’s, quelle psichedeliche di Carnaby Street, l’albero immenso di Trafalgar e il London Eye pronto per il capodanno.
Casa loro invece non era stata addobbata per quel Natale visto che non l’avrebbero passato lì, solo un microscopico alberello di plastica se ne stava sconsolato e spoglio sul davanzale della finestra del salotto. L’aveva messo Kate che adorava il Natale in modo viscerale, contro il parere di Manuel, per ricordagli delle feste aveva detto. Come se tutto il resto della città illuminata a giorno 24 ore su 24 potesse farglielo dimenticare.
Era un sabato mattina, forse l’alba, quando venne svegliata da uno strano rumore nel corridoio che all’improvviso era cessato. Non poteva essere Manu perchè quel suono era pericolosamente simile a un paio di tacchi da donna contro il parquet.
Lasciò il letto con uno scatto da velocista mentre ancora formulava queste ipotesi, inforcò la vestaglia di lana e si affacciò come un segugio nel corridoio facendo appena in tempo ad incrociare lo sguardo con una bionda che si stava chiudendo il portone alle spalle.
L’ennesima ragazza che sgusciava via alle prime luci dell’alba, la quarta nelle ultime due settimane e dopo quasi un anno di solitudine. Sospirò voltandosi verso la porta di fronte alla sua, la fuggitiva l’aveva lasciata socchiusa, la scostò leggermente per vedere se lui fosse sveglio, ma lo trovò mezzo nudo e ronfante al centro del letto. Le lenzuola erano sfatte e i suoi vestiti giacevano a terra alla rinfusa, una scena vista e rivista ma che credeva ormai sorpassata.
Quando molte ore dopo sua maestà il principe di casa decise di graziarla con la sua regale presenza, Kate aveva già riordinato mezza casa, fatto il bucato e la spesa, pulito il bagno e persino scambiato due chiacchiere sul pianerottolo con la loro vicina. Sua magnificenza si presentò ai sudditi in mutande e calzini, un olezzo alcolico attorno che avrebbe steso un elefante, con un gnugnito che reclamava caffè e la peggior aria scazzata degli ultimi mesi. Kate da bravo ciambellano di corte gli versò una tazza di brodaglia nera e chiuse le tende per permettergli di aprire almeno gli occhi, ma non gli risparmiò le parole che meditava da alcune ore.
-Fai sul serio? E’ la quarta che vedo uscire all’alba nelle ultime due settimane?
-La quinta…- osò brontolare lui con le labbra ancora sulla tazza.
Roteò gli occhi al cielo di fronte a quella dichiarazione da orgoglio testosteronico offeso, Manuel poteva giocare al playboy con tutti tranne che con lei.
-Cos’è una sorta di sfizio da trentenni prendersi la sifilide entro la fine dell’anno? Oppure hai qualche reminescenza da adolescente arrapato?
Lui ancora mezzo addormentato la guardò come se avesse parlato cinese.
-Capisco che nell’ultimo anno non hai avuto molto tempo per uscire con qualcuna e capisco anche l’impossibilità di impegnarsi in una relazione, ma ancora non ti è passato lo sfizio della sveltina?
Manuel la guardava con un solo occhio aperto ed evidente perplessità: - E poi guardati?! Quanto hai bevuto? Devi smetterla di uscire con Andrew, lui fa una vita da cane randaglio, tu hai un lavoro te lo ricordi?
Istintivamente annuì senza sapere a che cosa stesse rispondendo.
-Te lo ricordi che domattina hai un aereo per Amsterdam?
Questo l’aveva capito, e no, non lo ricordava.
Qualcosa nella sua espressione però doveva averla fatta incazzare ulteriormente.
-Manuel ti prego... – inizò a lagnarsi con un tono esasperato – Anzi no, lascia stare, fai quel che ti pare.
All’improvviso gli tolse la tazza dalle mani per gettarla nel lavandino con malgrazia e gesticolando sbraitò parole assurde: -E poi è meglio così. Sfogati ora, prima di rivederla, tanto stavolta non avrà certo tempo per star dietro alle tue moine visto che è incinta.
Incinta?
Istintivamente qualcosa si accese nel suo cervello, comprese il soggetto della frase, ma si limitò a fulminarla.
Qualunque cosa le avesse risposto in quello stato sarebbe stato un punto a suo favore. Era così che funzionava con lei: dirle di farsi gli affari suoi era inutile perchè non l’avrebbe fatto, fingere di non capire di cosa stesse parlando la incentivava a rigirare il dito nella piaga, darle corda e negare era lo spunto per permetterle di psicanalizzarlo e infine mandarla a quel paese di nessuna utilità visto che gli avrebbe riso in faccia. Quindi tentò la via dell’indifferenza.
-La cosa non mi riguarda.
Kate sghignazzò in risposta a quella frase.
-Come credi – gongolò – Partiamo tra due settimane, hai tutto questo tempo per convincerti che sia vero.
Il giorno dopo Manuel si sentiva ancora come se gli avessero trapiantato lo stomaco al contrario, ma partì per Amsterdam come da programma, ci furono due aste di scarsa importanza alle quali partecipò con riluttanza, i pensieri che vagavano di continuo alla discussione con la sua migliore amica. Passò tutto il tempo libero a girovagare per quella città sconosciuta sferzata da un vento gelido, cercò conforto in un paio di locali, persino in uno streap club, con esito insoddisfacente.
Il cervello non si spegneva più, gli saliva solo la nausea al pensiero di un altro sogno che l’Italia gli aveva strappato.
Non era bastata la vita bucolica di Jack che gli era stata sbattuta in faccia, non era bastata la casa proprio come la sognava lui, ne la moglie e il figlio che lo aspettavano a casa a braccia aperte proprio come aveva immaginato Manuel per se stesso. No, ora persino lei, l’unica che avesse mai ricoperto un ruolo da protagonista nei suoi sogni, persino lei gli aveva voltato le spalle portando in grembo il figlio di un altro.
Si rendeva conto del suo delirio di onnipotenza e dell’egoismo delle sue pretese, ma l’alcol e la solitudine non facevano altro che acuire quel senso di inadeguatezza che lo perseguitava da giorni; era come un mal di pancia, un malessere che non passava mai e se ne stava lì sempre, sul fondo delle sue giornate per tormentalo.
Kate aveva ragione, ora Alice aveva altro a cui pensare, non poteva curarsi di lui, ne di tutto il rancore ne degli stupidi rimpianti che avrebbe voluto rinfacciarle, e lui avrebbe fatto meglio a seppellirli sotto strati e strati di indifferenza prima di rivederla.
 
La sera prima del volo per l’Italia in casa c’era un clima strano, non di tensione, anzi nonostante tutto c’era un silenzio ovattato e rilassato.
Manuel non era entusiasta della partenza. Come l’estate precedente però non aveva avuto voce in capitolo per decidere: Kate aveva chiamato Kendra la segretaria dell’ufficio, chiesto quando sarebbero iniziate le loro ferie e prenotato i biglietti senza chiedergli nulla, presentandogli solo la data della partenza, un biglietto aereo e una lista di regali da acquistare. E lui semplicemente si era adattato.
Dopo cena la sua valigia giaceva ancora vuota sul pavimento al centro della stanza.
Kate l’aveva trovato lì, impalato sul suo letto davanti all’armadio aperto, lo sguardo perso nel nulla e le mani in grembo.
Non aveva osato fare domande.
-Google dice che nevicherà - Manuel non le rispose, si limitò ad un cenno distratto mentre la osservava affaccendarsi nel suo guardaroba.
In mezz’ora aveva accatastato maglie camicie e maglioni nella valigia, svuotato il suo cassetto della biancheria e rivoltato le scatole con l’abbigliamento invernale. Gran parte dei suoi effetti personali erano già pronti in una busta in bagno e lei si era limitata a sistemarla nel bagaglio così com’era visto che Manuel li teneva sempre pronti per i viaggi di lavoro. Ogni tanto lo interpellava per chiedere se preferiva un capo o l’altro, a volte Manuel le rispondeva, altre volte si limitava a monosillabi, altre a seguirla con gli occhi e ignorare alla gran parte delle sue domande. Gli aveva riempito persino la tracolla con pc tablet e tutti i suoi trastulli lavorativi, preparato le scarpe e i vestiti per il giorno dopo. Le rivolse solo poche domande: le chiese se avesse preso cuffia, sciarpe e i suoi occhiali da sole e infine si chiuse sotto la doccia e filò a letto senza più degnarla di una parola fino al mattino successivo.
Il giorno dopo si era stampato in faccia la miglior espressione da odio-il-mondo-e-mordo del suo repertorio, quindi Kate l’aveva lasciato ribollire nella sua acidità per tutto il viaggio, scambiando con lui le poche frasi necessarie.
Questa volta per economizzare erano atterrati a Milano ed avevano noleggiato una macchina per raggiungere Verona e per potersi spostare senza l’aiuto degli Zonin durante la permanenza, tutto ad opera di Kendra ovviamente.
Di nuovo ritrovarsi in poche ore catapultati in un luogo dove il mondo parla finalmente la lingua dei tuoi pensieri, era stato destabilizzante, dove le insegne, i cartelloni e qualsiasi parola attorno a te ha il sapore familiare di qualcosa che non richiede nessuno sforzo per essere compresa, che parla di te, del tuo passato e dei tuoi ricordi. Stavolta inoltre non c’era nessuno ad aspettarli fuori dal gate e a distrarlo dai suoi pensieri.
Kate si era già fatta consegnare le chiavi della Fiat a noleggio, aveva firmato tutti i documenti e persino comprato del cibo, mentre lui ancora si guardava attorno in bilico tra follia e realtà, poi l’aveva letteralmente trascinato fino all’uscita del terminal e gli aveva anche ordinato di caricare i suoi mille bagagli in macchina.
Si era risvegliato dall’assenza di reattività che lo accompagnava dalla sera precedente quando l’aveva vista salire tutta entusiasta e con un sorriso enorme sul sedile del guidatore, forse era stato l’istinto di sopravvivenza, perchè in un istante le aveva ordinato con un solo sguardo di cambiare posto. Indignata e brontolante lo lasciò guidare per poi voltarsi e ridere sotto i baffi.
 
Casa Zonin si era prevedibilmente trasformata in un fastidioso nugulo di perfezione natalizia. Appena arrivati la sua bastarda migliore amica si lasciò scappare un gridolino estasiato alla vista della casa decorata esternamente da file di lucine bianche e Manuel non potè che imprecare contro Jack che non aveva nulla di meglio da fare che farsi schiavizzare dalla moglie.
L’interno era una sfacciata riproduzione della casa di Babbo Natale, di cui in tutta probabilità Cici andava fierissima: subito vennero investiti da un olezzo di dolci appena sfornati e vaniglia che ormai doveva essere permeato fino nei muri e dalla magnificenza di un albero di natale tutto rosso e oro alto fino al soffitto. Il salotto sembrava esser stato preso d’assalto da uno stuolo di decoratori con la mania dei finti rami d’abete, mentre la cucina fortunatamente ancora manteneva la sua integrità e li attendeva piena di lecornie preparate dalla padrona di casa.
Li accolsero col solito calore i fratelli Zonin e la buon anima di Chiara che ancora li sopportava entrambi, mentre Tommy giocava con sul tappeto e li degnò appena di un breve saluto con la manina. Jack lo abbracciò stretto e Filo lo travolse con un urlo cavernicolo e un mezzo pugno sulla schiena.
-Ti sei portato la citrosodina? Perchè Cici sta cucinando già da tre giorni, non so se usciremo vivi da queste feste - scherzò il più vecchio dei due con un’occhiata ridanciana verso la donna.
La cognata lo minacciò di lasciarlo a digiuno fino a Pasqua mentre li raggiungeva dalla cucina col suo solito candore mammesco, i capelli le erano cresciuti un po' in quei pochi mesi, il suo sorriso invece era come sempre caldo e accogliente. Lo abbracciò stretto e come in luglio lo ringraziò di essere lì con loro. Cici come la sua casa, odorava di biscotti caldi, vaniglia e di un sapore buono che non ti si scollava più dal naso.
-Che è successo ai tuoi capelli?- gli chiese passando una mano tra la criniera disordinata che sfoggiava il suo ospite d’oltremanica.
Manuel non era mai stato uomo da badare ai suoi capelli ne al suo look, fosse stato per lui li avrebbe rasati a macchinetta tutti uguali per praticità. Per sua fortuna per tutta la vita aveva sempre avuto attorno donne accorte e consapevoli del suo valore estetico, che avevano scelto per lui come si conveniva: prima sua madre, poi Sonia, dopo di lei Alice ed ora infine Kate.
Con Alice li portava cortissimi con la cresta, all’epoca andavano di moda così, negli ultimi anni invece più lunghi, ordinati e pettinati per esigenze di lavoro. Ora era tornato alla sua vecchia zazzera spettinata. Le spiegazioni erano arrivate da Kate metà in inglese metà in italiano, prima che lui potesse aprir bocca.
Un’ora dopo non erano già più ospiti appena arrivati ma parte integrante della vita domestica, Kate cucinava insieme a Cici mentre Manuel, in qualità di traduttore, doveva rimanere a distanza d’orecchio, quindi si aggirava in calzini per la cucina con una tazza di tè in una mano, l’ipad nell’altra e un biscotto alla cannella in bocca.
La cena, come nelle sane abitudini Zonin, era stata abbondante e ricca di colesterolo e grassi insaturi, eppure gli uomini a tavola avevano spolverato tutti i piatti sotto al sorriso compiaciuto della cuoca; si era parlato più che altro delle imminenti feste natalizie e dei progetti per capodanno dei quali gli ospiti ancora non erano informati. Più che chiacchiere familiari, Manuel si era visto coinvolgere in un vero e proprio concilio di guerra in cui Chiara era il generale supremo delle truppe che impartiva ordini ai suoi ufficiali: c’erano liste di compiti dedicate ad ognuno, una tabella di marcia sulla lavagna della cucina, il menù completo del giorno di Natale stampato e plastificato appeso al frigo e una fitta rete di collaboratori da tenere controllati. Ordinaria amministrazione in casa Zonin.
Aveva così scoperto che la loro tradizione voleva che passassero il Natale tutti lì, nella grande sala da pranzo degli Zonin senior: Cici e sua suocera avevano innescato la nuova consuetudine del “più siamo meglio è” da quando si erano trasferite in campagna.
-Non è più un pranzo di Natale, sembra più la mensa dei poveri single bisognosi d’affetto - aveva commentato Filo scatenando l’ira della cognata e l’ilarità del fratello.
Quindi oltre al padre di Cici, sua nonna, un paio di cugini e i suoceri, sarebbero arrivati anche: Charlie, che da quando sua madre era morta non parlava più a suo padre e si rifiutava di seguirlo alla Corte Carlini per il pranzo, Alice e la sua pancia in fuga dalle malelingue Aroldi, Andre che era orfano assieme la sua ragazza direttamente da Padova, Paolo da solo e in reperibilità per l’ospedale e dulcis in fundo tutto il clan della famiglia di Laura e Lorenzo genitori compresi, ovvero altri sette.
Le padrone di casa viaggiavano secondo il resto della famiglia, tra stati di euforia e totale disperazione da ormai due settimane, anche se ora già subodoravano la possibilità di assoldare Kate come nuova sguattera mentre Manuel la compativa con un sorrisetto di scherno.
Il Natale dagli Zonin si prefiguarava di certo impegnativo, ma di sicuro si sarebbero fatti parecchie risate.
Seguendo la rigida scaletta operativa del Caporale Maggiore Chiara Zonin, le donne passarono l’intera antivigilia di Natale a cucinare come se dovessero nutrire un esercito di Unni affamati da un mese, e mentre Filo si era dato alla macchia, Jack, Manuel e il persino il piccolo Tommy furono incastrati in un tour di commissioni che sembrava non avere fine. C’erano centrotavola da ritirare, parenti da salutare a cui consegnare ceste e regali e carenze di ingredienti dell’ultimo minuto a cui sopperire, il tutto in una Verona sovraffollata e sovreccitata come Manuel non la vedeva da parecchi anni.
La sera del 23 passarono una bellissima serata a bere birra davanti al camino mentre Cici finiva d’impacchettare gli ultimi regali per il figlio e Filo aggiornava gli ospiti sui disastri natalizi avvenuti negli ultimi anni: c’erano state fidanzate impacciate raccattate all’ultimo minuto, un collega di Charlie che sarebbe stato solo e Cici aveva insistito per invitare e che alla fine ci aveva provato spudoratamente con suo marito, Lori e Jack ubriachi prima della nascita dei rispettivi figli che finivano a culo all’aria nella neve, Alice che qualche anno prima si era messa in testa di preparare la zuppa inglese e ci aveva messo il sale anzichè lo zucchero e Filo che dopo anni di figure di merda a furia di riciclare regali alle stesse persone, si era messo a regalare bottiglie di vino a tutti.
Anche Manuel e Katelin avevano raccontato le loro festività passate insieme. Cominciando dalla prima, un giorno orrendo nei ricordi di Manuel che dopo un pranzo natalizio disastroso solo con suo padre, si era ritrovato ubriaco fradicio sullo zerbino della sua amica ad implorarla in un italiano impastato di riportarlo a casa; lei non ci aveva capito molto, ma l’aveva messo a mollo nella vasca, lavato da tutto il sudiciume che si portava addosso e dentro e l’aveva costretto a letto per tutto il giorno successivo. Raccontarono della faccia di Manuel al primo Natale a Greenwich dai suoi, quando la madre di Katelin gli presentò tutta orgogliosa il suo pudding e lui quasi si spaccò i denti trovandoci una monetina portafortuna all’interno. O dell’anno in cui Manuel dopo pranzo si era addormentato durante il discorso della Regina e si era preso uno scappellotto dalla nonna.
Intanto fuori la pianura si ricopriva di neve preparandosi così egregiamente ad un Natale con i fiocchi.
 
Il giorno successivo la maratona culinaria di Cici si concluse appena prima di pranzo e riprese poco prima di cena dando così ai suoi sottoposti una mezza giornata di riposo. Jack se la filò appena possibile per ritirare il bracciale di brillanti che aveva comprato alla moglie mentre Kate trascinò il suo migliore amico per mercatini di Natale ignorando la sua palese reticenza.
Era passato ormai metà pomeriggio quando rientrando trovarono Cici in piedi in mezzo alla cucina con Tommy in braccio e il cordless sulla spalla che parlava tutta concitata al telefono e intanto scriveva a velocità supersonica sul cellulare.
-Sì, ho sentito arrivare Jack… eccolo è appena entrato - con ampi gesti fece segno ai tre di raggiungerla e mollò il figlio in braccio a suo padre mentre annuiva all’invisibile interlocutore -Richiamami se hai problemi e dagli un bacio da parte mia.
Chiuse la convesazione e guardò sfibrata il marito.
-Cos’è successo stavolta?
-Tuo fratello! Era in giro con Alice, non ho capito come sia successo, è scivolato su una scala e si è slogato di nuovo la caviglia. L’ha portato lei al pronto soccorso, pare sia una cosa leggera questa volta, gli hanno messo un bendaggio e dovrà usare le stampelle dieci giorni.
L’impressione di Manuel fu che fossero abituati a certe situazioni.
-Come diavolo ha fatto?
-Non l’ho capito, Ali era parecchio incazzata.
Jack mollò il figlio di nuovo alla madre e cominciò a frugarsi nelle tasche della giacca che non si era nemmeno tolto: -Vado a riprenderlo. In che ospedale sono?
-Non serve, lo sta riportando qui lei di corsa perchè i suoi l’aspettano a Lazise stasera.
Ed eccola lì la frase che Manuel stava aspettando con tutti e cinque i sensi all’erta.
-Che coppia di impediti! - brontolò Jack sfilandosi la giacca.
Non la vedeva da mesi. Sopratutto non la vedeva dalla notte che aveva passato nel suo letto. Era un ricordo vivissimo nella sua mente eppure sigillato in cassetto chiuso a varie mandate di chiave. Poi aveva saputo della gravidenza e anche quella storia aveva richiesto un cassetto con una grossa serratura, ma ora non stava nella pelle all’idea di vederla nemmeno lui sapere spiegarsi perchè.
Nella sua mente doveva avere già un pancione enorme, non sapeva davvero un cazzo di gravidanze, però lei era così esile che la immaginava già bella rotonda. Magari anche con qualche chilo in più su quelle costole ossute, l’immagine era in un certo senso sensuale nella sua mente.
L’arrivo dei due sventurati si palesò dieci minuti più tardi con un gran trambusto di chiavi, imprecazioni e oggetti che rotolavano a terra.
I coniugi Zonin corsero alla porta a dare assistenza lasciando indietro Manuel e Kate ad osservare la scena: novanta chili di cestista tutto muscoli e poco cervello varcarono la soglia usando come stampella uno stuzzicadente di carne e ossa di appena cinquanta chili, di cui dieci di capelli, in bilico su uno stivale con tacco. Definirli fantozziani sarebbe stato riduttivo.
In qualche modo dopo aver fatto cadere un paio di soprammobili di Chiara, guadagnarono il divano su cui si gettarono entrambi senza grazia; Alice ansiamava come se avesse appena corso i 100 metri mentre il suo assistito imprecava sottovoce contro tutto l’universo conosciuto.
Manuel a dispetto della preoccupazione di tutti gli altri sorrideva giulivo. L’ultima visita gli aveva lasciato un’immagine di Alice sempre composta, imbalsamata, quasi plastificata. Mentre in quel momento gettata scomposta a pancia sotto sul divano, con i capelli spettinati, le guance accese dal freddo e dalla fatica e le mani ancora saldamente aggrappate alla falda del cappotto di Filo, gli ricordava la ragazza dei suoi incubi, quella col vestito blu che dispettoso si muoveva nel vento assieme ai suoi capelli.
-Allora coglione che hai combinato? - Jack con le mani sui fianchi interpellò il fratello con l’ombra di una risata nella voce.
-Ma niente sono inciampato - imbarazzato tagliò corto per cercare di rimettersi dritto con l’aiuto di Chiara.
Alice riprese fiato in tempo per polemizzare al suo indirizzo: -Dilla tutta!
Ghignante si rivolse agli amici: -Eravamo alla fine dalla scala mobile, ma gli è passata accanto una tizia con una microgonna e un profumo orrendo e lui come un coglione si è girato per inseguirla, ma ha imboccato la scala mobile in senso opposto ed è volato piedi all’aria.
Gli altri scoppiarono a ridere come pazzi, il minore degli Zonin intervallava risate e insulti mentre Manuel dovette sedersi perchè gli mancava l’aria. Chiara aveva portato del ghiaccio dalla cucina e stava sistemando la gamba del cognato su un cuscino assieme a Kate, ma non riuscivano a trattenere le lacrime.
La foto del ferito, inviperito col mondo ovviamente fece il giro dei loro amici entro sera. Quella storia sarebbe rimasta negli annali, l’avrebbero raccontata per anni anche ai nipoti.
Sistemato Filo sul divano con il nipote a tenergli compagnia, Alice guardò l’orologio e scattò in piedi.
-Devo scappare i miei mi aspettano – recuperò compostezza e afferrò la borsa dal divano.
Con grande disappunto di Manuel non si era nemmeno tolta il cappotto, la curva del suo ventre era appena percettibile sotto gli strati di stoffa.
-Posso prendere la tua macchina?
Filo alzò le spalle: -Tanto dove vuoi che vada?!
-Non è il caso che te ne vai in giro con quel catorcio da sola, e sta anche iniziando a nevicare di nuovo. Ti accompagno io.
Jack stava già trafficando con l’attaccapanni, quando s’intromise sua moglie: -Scusa ma mio padre ti aspetta tra mezz’ora.
Ci fu una mezza discussione familiare tra marito, moglie, Alice e Kate. Manuel invece si era isolato in un momento di intimità tra lui, una scatola di biscotti al cioccolato appena sfornati da Cici e un livello particolarmente difficile di Angry Birds, non aveva quindi assistito finchè Kate non aveva tirato fuori il suo nome.
-Manu why don’t you take her?
-Where?- non aveva nemmeno alzato la testa dall’ipad, aveva perso il filo della conversazione molti minuti prima.
-I don’t know, to her parents’ house i suppose.
Manuel alzò la testa dallo schermo per trovarsi quattro sguardi puntati addosso, chi dubbioso, chi ansioso, chi guardingo. E finalmente comprese in cosa la sua migliore amica l’avesse incastrato.
 
-Mi dispiace che tu sia stato costretto ad accompagnarmi.
-Non è un problema - mugugnò manifestando la solita scarsa propensione alla conversazione.
Rimasero in silenzio a lungo, all’inizio fu un silenzio teso, fatto di sospiri colpetti di tosse e movimenti impercettibili, poi lentamente si trasformò in una quiete morbida e rilassata.
Alice pensava ai regali di natale che ancora doveva impacchettare e alla cena che l’aspettava, piena di parenti che avrebbero guardato storto il suo ventre arrotondato, pronti a sparare a zero su di lei.
Intanto lui guidava tranquillo, una mano sul volante e una sul cambio, si guardava attorno, le luci di Natale avevano preso possesso della città mentre gli abitanti scomparsi festeggiavano in famiglia.
Non gli dispiaceva più di tanto quella situazione.
All’improvviso un rombo e una moto li sorpassò a tutta velocità passando a pochi centimetri dalla fiancata. Manuel imprecò in un misto di italiano e inglese che fece sorridere la sua compagna di viaggio.
-Ma tu guarda questo coglione!
Alice ridacchiò apertamente.
-Una volta guidavi anche tu così - indignato la guardò storto e sbuffando riprese a fissare solo la strada.
-Forse - rispose una volta ritrovata la dignità: -Ma io sapevo quel che facevo al contrario di quello.
Di nuovo lei non potè trattenere la risata sentendo quel tono offeso.
-La tua moto? Venduta?
-Sì ho dato via la Honda anni fa, adesso ho una Kawasaki.
-E immagino che la guidi sempre con prudenza e saggezza – l’ironia di Alice non lo colpì, era evidente che fosse impegnato in altri pensieri.
-Non la guido quasi mai. A casa non saprei dove tenerla, la lascio quasi sempre da mio padre.
-Non avete il garage?
-Avere un garage da noi è un lusso, in auto è un casino girare. Kate ha quella di sua madre ma usiamo quasi esclusivamente la metro o il taxi.
-E con la guida a destra come te la cavi?
Quella conversazione era ridicola, stavano parlando di auto, di casa, di garage. Possibile? Erano banalità, cose di cui non le importava nulla, eppure non riusciva a smetteredi fargli domande o assecondare le sue, non riusciva a smettere di aver voglia di sentire quelle cavolate uscire dalla sua bocca, per sentire la sua voce.
-All’inizio è un casino, specialmente nel traffico. Però ci si abitua, mio padre non so se saprebbe più guidare un auto normale, io invece a casa guido talmente poco che sento ancora la differenza.
‘A casa’ Manuel parlava di Londra come di casa sua e diceva ‘da noi’ per parlare dell’Inghilterra. In un certo modo questo le provocava un dolore sordo in fondo allo stomaco. Non poteva negare almeno a se stessa che tanti anni prima per un certo periodo aveva nutrito in segreto la speranza che prima o poi lui tornasse, se non da lei almeno da loro. Non sperava nel ritorno di un amore che non aveva ormai più nulla di recuperabile ma ci sperava per Jack e Filo sopratutto, che si comportavano spesso ancora come amanti tradite, e per Sonia e suo marito che l’avevano cresciuto come un figlio. Ed ora un po’ ora ci sperava per suo figlio, non avrebbe mai conosciuto suo padre ma almeno l’avrebbe avuto inconsapevolmente vicino e avrebbe potuto far parte della sua vita.
Scelse ancora una volta di tacere, di sfoderare la falsa Alice sorridente e compiacente, un sorrisetto e una frase gradevole.
-Sono contenta di sentirti chiamare Londra ‘casa’, non è facile trovare un posto da poter chiamare così.
Ripensò al tatuaggio che aveva visto quella notte sulla sua spalla e a tutti quei numeri. Manuel forse meritava un po’ di tranquillità. Chi era lei per strappargliela via?
Rimase in silenzio parecchio, tanto che non si aspettava più nemmeno una risposta, temeva di aver fatto un passo falso sollevando un argomento spinoso giocandosi ogni altra possibilità di conversazione.
-Beh non è sempre così – grattava il volante con un’unghia mentre parlava e faceva pause più lunghe – A londra andare a correre è come fumarsi un pacchetto di sigarette intero. Il cibo se non fa schifo è perchè fa male a parte poche eccezioni, che comunque sono troppo costose per le mie tasche. Ci sono momenti in cui ancora non capisco quello che mi dicono, sopratutto gli scozzesi, e tutti mi dicono che ho un accento orrendo. E poi il tempo è una merda, piove sempre e se non piove comunque pioverà il giorno dopo e quello dopo ancora. Uno strazio.
Alice sghignazzava tra se perchè Manuel si lamentava da sempre delle stesse cose, era ancora uno che apprezzava una bella teglia di lasagne e una giornata di sole nonostante cercasse di passare per un sofisticato trentenne londinese.
-Però là ci sono Kate, mio padre, ho un lavoro stimolante, dei vecchi amici Matt e Andrew e qualche altro svitato. Non è perfetto ma è casa mia.
Se prima aveva creduto di rivedere uno spiraglio dei loro ventanni, quella fu una colata di bile nello stomaco.
-Capisco – finse un sorriso accomodante ma provava tutt’altro.
Si ricompose mentalmente e decise che quella conversazione era proprio quello che ci voleva per mettere una pietra sopra ai suoi sogni di famiglia. Non gli avrebbe detto nulla, non si sarebbe fatta convincere da Filo, Manuel aveva un’altra vita e i suoi sogni si stavano realizzando. Magari prima o poi sarebbe tornato in Italia, ma non sarebbe stata lei a costringerlo.
Non lo meritava, era caduto tante volte e si era rialzato, era diventato un uomo intelligente e interessante, non gli avrebbe scaricato addosso anche questo fardello. Si chiese perchè vedeva questo in lui e non l’uomo che l’aveva lasciata col cuore spezzato. La risposta era lì nel groppo che le era salito in gola, non aveva voce perchè non voleva dargliela, non si poteva permettere nemmeno di concederegli parola, ma sapeva che voleva dirle che non avrebbe mai smesso di amarlo.
Tutta quella tensione ricadde come un peso sul suo stomaco e le salì la solita nausea.
Piombò il silenzio nell’abitacolo come se le preghiere di Alice per un po’ di tregua si fossero avverate, nessuno parlò per parecchi minuti fino a che Manuel non le chiese indicazioni sulla strada, di nuovo si scambiarono poche semplici frasi di circostanza.
Alice si accarezzava la pancia sovrapensiero, gesto che non passò inosservato al suo accompagnatore, per distrarsi dai tumulti nello stomaco pensava a sua madre a suo padre, a cosa l’aspettava quella sera, in un altro universo avrebbero potuto essere una coppia felice in attesa di un bambino, che avrebbe passato la vigilia alla casa al lago dei suoceri.
Le scappò un sospiro.
Dopo molti minuti di mutismo, vinto dalla curiosità fu Manuel a parlare.
-Hai poi scoperto il sesso?
Presa alla sprovvista non capì la domanda, troppo presa dai suoi pensieri e quella rivolta che le tormentava le viscere. Lo cercò con lo sguardo, solo un verso interrogativo in risposta.
-Il sesso del bambino. L’hai scoperto?
-Ah sì, è maschio – altro crampo, e quelle non erano farfalle. Il suo intero apparato digerente stava facendo a pugni col peritoneo. Che diavolo aveva mangiato quel pomeriggio con Fil?
-Scelto il nome? – c’era l’ombra di un sorriso nel tono della frase.
-No, per ora sono in alto mare.
Il tormento divenne insopportabile, quasi le toglieva il respiro da ogni sussulto. Qualcosa sembrava bloccato tra lo stomaco e i reni, una specie di doloroso groviglio: -Puoi accostare per favore?
Manuel allarmato si accorse solo allora delle mani premute dall’alto sul ventre, come a volerlo distendere: -Stai male?
-Non so, c’è qualcosa di strano.
-Cazzo! Vuoi che andiamo in ospedale?
Il panico lo stava già invadendo. Che cavolo ne sapeva lui di disturbi delle gravidanze?
-Ma no, vorrei solo prendere una boccata d’aria.
Si fermarono sul ciglio della statale in uno spiazzo ghiaiato tra i campi. La macchina non era ancora ferma che Alice schizzò giù a farsi frustare i polmoni dall’aria ghiacciata di dicembre.
Due respiri profondi e i dolori scomparvero.
Cos’era successo?
-Stai meglio?
Manuel era sceso dall’altro lato e stava appoggiato al tettuccio della macchina, la guardava con una tale tensione. Persino lei percepiva il senso di irrequietezza che emanava.
-Non saprei dire - si guardò lo stomaco in cerca di risposte - E’ passato ora.
-Che faceva?
-Chi?
-Lui. Il bambino no?
Illuminata di comprensione, si sciolse nel sorriso più bello che Manuel avesse mai visto e scoppiò a ridere frugando con la mano sotto il cappotto.
-Era lui - sospirò sollevata.
Manuel la guardava in bilico tra la voglia di strozzarla e di correre a baciarla. Nel dubbio si accese una sigaretta.
-Che faceva?
-Non so, è la prima volta che si muove così tanto. Si è girato dall’altra parte credo, mi sembra di sentire un peso diverso da questa parte.
Spostava il peso da un piede all’altro, si toccava la pancia in cerca di risposte. Il dolore completamente scomparso ora.
-E’ vagamente inquietante.              
-Già.
Ciò che era veramente inquietante era l’idea che fosse capitato proprio nel primo momento di contatto tra lui e suo padre. Era solo una vaga e assurda ipotesi ma ora era lei a guardarlo con gli occhi pieni di panico. Il suo fagiolino era lì, lei lo sentiva, a volte si altre no, a volte credeva di averlo sentito calpestare allegro la sua vescica, erano movimenti brevi e difficili da percepire se non in momenti di quiete e concentrazione. Quando le altre gestanti ne parlavano al corso preparto lei le guardava inquieta, non capiva se era una sua carenza di sensibilità o se lui fosse un tantino pigro.
Ora invece eccolo qui, a trotterellare nei suoi visceri proprio al cospetto di suo padre.
Fagiolino astuto.
Tornò verso la macchina con il cervello, il cuore, lo stomaco, il sangue, tutto in subbuglio.
-Sicura che non vuoi andare all’ospedale?
Eccolo lì maledetto fagliolino, si stava agitando di nuovo.
-No non credo sia nulla di anomalo, solo inaspettato.
Rientrarono entrambi in auto, Manuel parlava, lei non lo sentiva, ma sentiva chiaramente qualcuno reclamare attenzioni.
Ebbene forse era ora di dargli quello che voleva, probabilmente non ne avrebbe avuto mai più occasione.
-Senti qui - prima che potesse cambiare idea o anche solo riflettere su ciò che stava per fare, afferrò il polso di Manuel mentre tentava di inserire la marcia.
Basito e titubante si ritrovò intrappolato dal suo sguardo incoraggiante con il palmo sul ventre bello rotondo.
-Veramente i..-
-Aspetta, anzi no parla! - Alice di nuovo lo guardò con quel sorriso tutto denti e luce negli occhi.
-Ma che dovrei dir..- si bloccò.
Eccolo lì.
Sotto la mano qualcosa si era mosso, non era un vero e proprio calcio o qualcosa di definito, ma appena percettibile. Schizzò via come scottato e la guardò inquieto e boccheggiante.
Ridacchiava lei, tutta pimpante ora che aveva compreso i piani del suo fagiolino.
Non potè fare a meno di sorridere anche lui, la cosa era strana e questa volta davvero inquietante eppure l’istinto lo portò a posare di nuovo la mano su quel ventre in ascolto di ciò che all’interno vi cresceva quatto quatto. Sentì un movimento, meno intenso del precedente, più morbido ora.
Il fagiolino era più calmo, comprese Alice che ne percepiva forse per la prima volta in pieno la consistenza. Si muoveva placido come se dopo essersi girato stesse cercando la posizione.
-Lo senti? – domandò Alice piena di aspettativa.
Manuel chiuse gli occhi e annuì con un cenno.
Era emozionato, una cosa strana, inspiegabile gli stava montando dentro. C’era gelosia, per quel bambino che in un modo perverso e insensato avrebbe voluto fosse suo, e rabbia, una rabbia cieca verso l’uomo che l’aveva lasciata sola con un bambino. Ricordò gli anni della sua adolescenza senza sua madre e con suo padre impegnato a gestire il proprio lutto lontano da lui, anche quel bambino sarebbe cresciuto così? E poi c’era quel senso di protezione che lei gli aveva sempre ispirato, voleva che lei stesse bene, fosse felice. L’aveva sempre voluto, anche quando le aveva voltato le spalle era stato per lei. Ora sarebbe stata felice? Sola col suo bambino?
Non voleva mostrarle quel turbamento quindi con poche frasi liquidò il tutto e riportò l’auto in strada per poter restare solo il prima possibile.
Il viaggio si era concluso nel silenzio. Alice aveva compreso di aver fatto un passo falso e temeva più di tutto che una spia di allarme si accendesse nel cervello di Manuel. Mentre lui turbato oltre ogni dire avrebbe voluto solo cercare il primo volo per Londra per mettere più terra possibile tra se e tutto ciò che lei era in grado di scatenergli dentro.
Si erano salutati in fretta con la consapevolezza che il giorno dopo sarebbe stato un lungo Natale.
 
Il 25 dicembre Manuel aveva dormito fino a tardi, facendosi svegliare da un calcio nel fianco di Kate che era salita a trascinarlo fuori dalle lenzuola con un sorrisone mefistofelico.
I colori tenui della stanza, le tende alle finestre, la lampada sul comodino non erano familiari e riaccesero il suo cervello alla realtà: non era a casa sua.
Niente tè brodoso per colazione, ma un bell’espresso nero, corposo, saporito.
Niente pudding molliccio e puzzolente, ma pandoro e crema al mascarpone.
Niente silenziosa mattinata d’ozio in mutande, ma Tommy festoso e urlante, Fil impaziente e armato di stampelle e una ventina di ospiti in arrivo.
Non aveva ancora deciso se esserne felice quando Kate gli saltò sullo stomaco e cominciò a sbraitargli addosso insulti per la sua carcassa pigra e ciondolante.
Scese in cucina ancora mezzo traumatizzato dal risveglio, dove lo attendevano una gloriosa tavola coperta di ogni bendidio, Chiara sorridente e le facce fameliche di tre Zonin affamati. Tutti sapevano che avrebbe tenuto un bel vaffanculo stampato in faccia per tutta la giornata, li omaggiò quindi di un grugnito ben poco espressivo e prese posto nell’unica sedia vuota senza degnarli di ulteriori parole.
Il breve intervallo fino al pranzo fu un caleidoscopio di individui che sfilavano dentro e fuori dalla casa, quasi tutti pieni di pacchi, smancerie e curiosità per lui che rassegnato elargiva convenevoli a gettone, i più familiari sghignazzavano davanti alla sua aria scazzata ricevendo dita medie in risposta, ma per sua fortuna al solito c’era Kate per colmare le sue lacune sociali.  
L’arrivo di lei alla tenuta lo colse impreparato: era arrivata in auto da sola avvolta dal mento alle ginocchia in un rigoroso cappotto nero, calze nere e stivali pure. Era ancora nel parcheggio e di sicuro non si era accorta di lui che stava fumando in giardino in fuga dal club degli estrogeni riunito nella cucina di Cici. Una folata di vento l’aveva investita mentre litigava con alcune buste nel baule, i capelli sciolti lunghi fino quasi alla vita avevano preso vita nel vento agitandosi nell’aria come serpenti, i bordi del cappotto sventolavano scoprendo le cosce magrissime avvolte nella lycra nera eppure una mano pallidissima e minuta era scivolata a proteggere la pancia. Poi in un momento tutto era finito, il vento si era placato e le aveva permesso di scaricare i pacchi e avviarsi verso la casa. Jack era accorso dal portone principale ad aiutarla, si erano abbracciati e baciati sulle guance, non si era accorta di lui che come un pirla era rimasto a guardarla impalato al freddo con una sigaretta spenta tra le dita. Per un istante aveva rivisto quei capelli sparsi sulle lenzuola sotto di lui.
Pur di non incontrarla e di non pensare, si fece coinvolgere nei ferventi preparativi di tavoli, tovaglie, bicchieri e pietanze. Il risultato finale fu un tavolone pacchianamente coperto di addobbi rossi e oro, con più fronzoli che stoviglie sopra, e una serie di centritavola orrendi e ingombranti a cui Filo aveva già proposto di far fuoco più volte.
La consolidata alleanza Chiara-Katelin-Filippo colpì di nuovo al momento dell’assegnazione dei posti e lui si ritrovò dopo un serie di spostamenti inspiegabilmente sbattuto di fronte ad una Alice visibilmente a disagio.
Il pranzo fu oltre le sue più abbondanti aspettative. Già ai primi lui, Andre, Filo e Jack avevano dato fondo alle teglie con un paio di bis ciascuno, sui secondi Manuel aveva toccato attimi di commozione davanti alle cotolette ripiene della signora Zonin e al pensiero dell’orrendo pudding della nonna di Kate a cui era scampato. Di nuovo si era distinto per voracità insieme ai fratelli, Andre e Paolo che sembrava non mangiare da una settimana.
Nonostante le tragiche premesse di assegnazione dei posti, la conversazione si era mantenuta viva e piacevole. Laura gli aveva raccontato in bisbigli la situazione tra Charlie e suo padre, Lorenzo annuiva e farciva di insulti alla famiglia Carlini ogni volta che l’interessato pareva distratto, Fil aveva messo su il solito teatrino per raccontare le tragiche vicende che lo avevano costretto all’uso delle stampelle, armi improprie nelle sue mani che usava per minacciare gli altri commensali e farsi portare altro cibo.
Come sempre il dopo pranzo fu uno strazio di sonnolenza per gli adulti e una scusa per darsi alla pazza gioia con i regali ricevuti per Tommy, i suoi cugini e i figli di Lorenzo.
Alice sembrava avvolta da un’aria funerea, completamente vestita di nero anche sotto al cappotto, a tavola aveva parlato in sussurri quasi sempre con Paolo di lavoro e di soldi, solo alla fine del pasto aveva incrociato il sguardo per un attimo. Gli aveva rifilato il solito sorriso di plastica falso e cortese, niente a che vedere con quello che le aveva visto in viso la sera prima mentre qualcuno scalciava dal pancione. Non si erano rivolti nemmeno una parola se non un cenno di saluto iniziale. Non le aveva fatto auguri, ne consegnato il regalo che avevano comprato per lei, non l’aveva guardata ne da vicino, ne da lontano. Tutta la curiosità che aveva provato nei gioni precedenti era scomparsa davanti all’esplosione di ciò che credeva di aver rinchiuso nei cassetti della sua memoria. Pensava ad Amsterdam di essere riuscito a sigillare bene quel groviglio di filo spinato che giaceva nel fondo delle sue viscere, invece dalla sera prima con un misero calcetto quel bambino l’aveva tirato fuori con un bel botto.
Il resto della giornata si erano tenuti a distanza: prima Alice rinchiusa in cucina e Manuel impegnato in una battaglia di gusci di noci con Filo, poi con conversazioni agli antipodi della stanza. La sera al momento dei saluti Alice aveva fatto di tutto pur di evitarlo, ma sarebbe apparsa infantile  persino ai suoi stessi occhi.
Lo trovò da solo mezzo assopito nel salotto di Cici mentre tutti erano impegnati altrove e colse l’occasione.
-Mi dispiace per ieri sera, ti ho trascinato nel mio entusiasmo e probabilmente ti ho messo in imbarazzo - prese fiato e gli rifilò una delle sue maschere preferite, il sorriso di plastica tutto occhioni e ciglia che sbattono.
Manuel avrebbe anche apprezzato la sua scaltrezza se non fosse stato per quell’espressione beota sul suo volto. Aveva sempre odiato fin dall’inizio quei giochetti, fin da quando Jack gliel’aveva presentata in un corridoio delle Stimate e lei aveva inclinato il capo come una cazzo di bambola di plastica. E gli aveva fatto salire la voglia di strapparle quel sorrisino dalle labbra a morsi.
-Sei incinta dell’ultimo stronzo che ti sei scopata e pensi che quello in imbarazzo sia io?
Subito dopo se n’era pentito, e non poco. Era stanco, aveva mangiato e bevuto troppo, e lei con quelle moine lo faceva incazzare di brutto. Sapeva di averla ferita consapevolmente, ma era troppo amareggiato dall’idea di essere diventato ai suoi occhi solo uno dei tanti a cui propinare le sue maschere. Credeva di poter essere trattato almeno da amico o era bastata una notte di sesso per farle dimenticare tutto, per farlo crollare dal piedistallo su cui aveva resistito per tutto questo tempo, per renderlo di nuovo uno dei tanti?
Le labbra di Alice ora fremevano e non un tremore che prelude al pianto bensì molto peggio. Lei ce l’aveva una risposta, lì pronta per lui, pronta per fargli male.
Sarebbe bastato dirgli “Beh si da il caso che quello stronzo sia tu. Ma non preoccuparti non ti farò nemmeno alzare un occhio su mio figlio”.
Invece no. Aveva inspirato forte dal naso e ingoiato con quell’aria tutte le urla che avrebbe voluto spalmargli addosso. Sapeva che in quel modo avrebbe rovinato tre vite in un sol colpo, quindi gli aveva rifilato un sorriso di miele e zucchero e aveva sbattuto due volte le ciglia.
Questo l’avrebbe fatto incazzare come non mai.
-Perfetto. Quindi non ritengo di dovermi preoccupare di averti recato imbarazzo - ancora un sorriso e poi si era voltata con la grazia con cui era arrivata - Meglio così.
E avrebbe pianto, e anche tanto. E urlato e imprecato contro tutti gli uomini, ma non lì, non davanti a lui.
Erano ancora molto bravi a quel gioco, un gioco di lame affilate come rasoi che colpiscono dove sanno di far male.
-No.
Manuel si alzò dal divano in cui era sprofondato e la fermò bloccandole il braccio. Le cose non dovevano andare così, non questa volta. Non a trent’anni.
-Scusami – aspettò che si voltasse verso di lui, non lo guardava negli occhi ma in un punto indistinto del collo, tanto gli bastava – Ho detto una cosa tremenda, non so come mi è uscita ma mi fa ancora incazzare quando mi guardi con quella faccia di plastica.
Ora sì che era in imbarazzo, ma si costrinse a non mollare la presa.
Alice spiazzata abbandonò la sua maschera per odiarlo con sincerità: - Sei un tale stronzo. Avrei dovuto tirarti un pugno!
A Manuel quasi venne da ridere immaginandosi l’esile ragazza tentare un gancio destro sulla sua mandibola, si sarebbe spaccata qualcosa di sicuro.
-Mi sono scusato.
Lo trovò a guardarla con quel sorriso un po storto che sapeva essere il suo sorriso da “non puoi essere arrabbiata con me se ti guardo come se tu fossi l’unica al mondo”, aveva passato tre anni a tentare di dimenticare solo quell’espressione. Maledetto lui.
-E inoltre per quanto riguarda ieri sera, non ero in imbarazzo. Davvero.
Di nuovo il sorrisetto. Alice si chiese se lo facesse di proposito o fosse un riflesso incondizionato il tentativo di sedurre qualsiasi donna.
-Bene allora - gli rivolse un sguardo orrendo, infuocato e aggressivo che a Manu piacque tantissimo.
Quella era la ragazza che l’aveva fatto innamorare a diciannove anni, che l’aveva trascinato fuori da una vita mediocre senza aspettative.
-E per la cronaca non mi imbarazza essere incinta, anche se sono sola.
Quella era l’Alice che lo faceva impazzire.

   
 
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