I
primi due mesi di convivenza fra Sherlock ed Emily erano trascorsi piuttosto in
fretta e calmi. In quell’arco di tempo nulla di eclatante era accaduto e la
cosa aveva dato modo ai due nuovi coinquilini di approfondire la propria
conoscenza, per quanto possibile. In quei giorni, infatti, il rapporto fra la
studentessa e il detective non aveva preso svolte decisive. Sherlock aveva
avuto fra le mani cinque diversi casi a cui lavorare, cosa che gli aveva dato
la possibilità di non mostrare troppo del suo lato da sociopatico iperattivo
alla ragazza. Emily, invece, aveva seguito passo passo
il detective nella corretta conclusione delle indagini con entusiasmo
crescente, alternando le lezioni allo studio sui libri e all’analisi sul
diretto interessato per la sua tesi. In quei mesi aveva avuto modo di
immergersi nel mondo di Sherlock Holmes, qualcosa in continuo bilico fra
l’intrigante, il misterioso e il deduttivo, un mondo che l’aveva sorpresa e che
la esaltava sempre di più. Frequentando Sherlock aveva approfondito l’amicizia
con John Watson – e che si era dimostrata una persona ancora più apprezzabile
rispetto alle sue più rosee aspettative – con la moglie Mary – donna capace,
intelligente e pratica - e perfino con
Molly e Lestrade – che le piacevano di più a ogni nuovo incontro. La nuova vita
della ragazza a Baker Street si stava dimostrando entusiasmante e ogni giorno
che trascorreva in quelle mura si trovava sempre più desiderosa di passare lì
dentro l’eternità. Per quanto Sherlock fosse instabile nell’umore, facilmente
irritabile e anestetizzasse la noia con metodi discutibili lei era felice di
averlo come coinquilino. Allo scadere del suo secondo mese si sentiva parte di
quella casa e aveva notato, con sua piacevole sorpresa, che anche il detective
sembrava considerarla in tale maniera. Non che le dedicasse attenzioni
particolari, ma rispetto ai primi giorni di convivenza, Emily si era accorta
che Sherlock aveva iniziato a vivere nella consapevolezza di condividere la
casa con qualcuno. Una parte della ragazza – piuttosto piccola e insicura –
avrebbe giurato che il merito fosse esclusivamente di quel primo faccia a
faccia vinto da lei sull’uomo, quando il motivo della loro disputa era la
parete ingombra di fogli di carta, riconducibili al “loro” primo caso.
Quella
parete, da cui Emily pensava fosse iniziato realmente tutto, era tornata a
essere spoglia solo poche settimane dopo quella sera. La metà del muro che la
studentessa aveva strenuamente difeso – incrementando in quel momento
l’interesse che il detective provava per lei – si era poi svestita poco a poco
delle carte e degli articoli di giornale. Tuttavia non erano stati eliminati,
ma riposti con cura dalla ragazza in una valigetta – nascosta sul fondo del suo
armadio – come ricordo.
Fuori
dal civico 221B il clima si era irrigidito in quei due mesi; aveva dato l’avvio
a quello che pareva già essere un inverno freddo, mentre la pioggia,
immancabile su una Londra novembrina, bagnava la città a intervalli regolari.
Quel venerdì pomeriggio, dopo le quindici, l’acqua sembrava non volerne sapere
di smettere di scendere sulla città. Un vento freddo sferzava l’aria e fra il
via e vai di persone lungo Baker Street, il riconoscibile ombrello giallo di
Emily si faceva strada accanto a uno grigio dalla trama scozzese. Nulla sarebbe
sembrato insolito, se non fosse stato che l’ombrello giallo e la sua luminosa
nota di allegria, erano fra le mani di Sherlock Holmes.
L’uomo
si faceva largo lungo il marciapiede, cercando nella tasca del cappotto il
mazzo di chiavi per poter rientrare e togliersi dalla strada – e dalle persone
– il più in fretta possibile. Accanto a lui John parlava del più e del meno,
senza aspettarsi esattamente una risposta dall’altro.
Entrarono
al 221B, salutarono Mrs. Hudson e percorsero la rampa di scale fino in cima.
Una volta dentro John si fermò, si guardò intorno e senza riuscire a
trattenersi disse: «Mi sembra difficile credere che Emily ti permetta di
lasciare questo casino ovunque.»
Sherlock
lo guardò, confuso. «Non dovrebbe sembrarti strano. Non è molto diverso da
quando vivevi qui tu.»
«Lo
vedo. È solo che lei è una ragazza e mi pare tanto ordinata. Pensavo che almeno
con una donna in casa avresti smesso di lasciare le tue cose in giro. Giusto
per buona educazione.»
Il
detective sollevò un sopracciglio, dopodiché con l’ombrello, indicò un punto
del soggiorno. Accanto al tavolino una pila di voluminosi libri, dispense e fogli
era ammonticchiata malamente, in un ammasso disordinato e traballante.
«Come
puoi ben vedere neanche lei è molto ordinata. I suoi libri sono sparsi ovunque,
ma da leggere sono interessanti. Ora capisci come mai non è ossessionata
dall’ordine?»
«Almeno
il frigorifero è sgombero da resti umani?» chiese John, incerto. L’ultima
scoperta su Emily lo aveva lasciato un po’ confuso, soprattutto perché non
aveva fatto mai caso prima alla cosa.
Sherlock
fece una smorfia, borbottò qualcosa e, incrociando l’occhiata dell’amico,
rispose rassegnato: «Al momento non ho cadaveri a disposizione.»
La
risposta fu sufficiente a tranquillizzare un minimo John. Il fatto che qualcuno
dovesse convivere in quella casa insieme a Sherlock non lo faceva stare sereno,
soprattutto perché lui sapeva bene a cosa si andava incontro nel condividere lo
stesso tetto del detective. Cominciò a sfilarsi la giacca quando sentì
l’ingresso di casa aprirsi. Si trattava certamente di Emily, ma la foga con cui
stava salendo le scale, per un momento, lo fece dubitare del fatto che si
trattasse realmente di lei. Tuttavia dalla porta, nel soggiorno, comparve
proprio la ragazza, il cappotto imbevuto d’acqua, i capelli zuppi e una luce
furente negli occhi. Josh rimase sconvolto appena la vide. Rivoli rossi le
rigavano il volto, scendendo dalle tempie. Anche Sherlock si accorse del rosso
che macchiava il viso della coinquilina, ma la sua reazione fu decisamente più
controllata di quella del medico, dato che aveva perfettamente capito cos’era
successo a Emily.
La
ragazza raggiunse il detective con un paio di falcate decise, gli strappò di
mano l’ombrello che lui ancora teneva e lo guardò dritto in faccia. «Sono certa
che uno come te fosse molto comico con un ombrello giallo per strada.»
«Emi
che ti è successo?» chiese finalmente John, preoccupato.
Lei
lo guadò, poi tornò a dedicare la sua attenzione al detective. «Sherlock sa
benissimo cosa mi è successo» disse, prendendo ad agitare l’ombrello sotto al
naso dell’uomo. «Questo è il mio
ombrello, Sherlock. Non a caso lo tengo sempre in camera mia, per evitare che
mi succeda questo!» tuonò, indicando la sua faccia.
Improvvisamente
fu chiaro anche per John. I capelli di Emily erano tinti e quel rosso che le
rigava il viso non era sangue come lui, in un primo istante, aveva temuto, ma
la colorazione dilavata dai capelli.
Il
detective non replicò – cosa positiva, pensò John, poiché c’era il rischio che
lui volesse ugualmente aver ragione nonostante fosse nel torto – ma rimase a
guardare Emily, in un gioco di sguardi teso. La ragazza, alla fine, si arrese;
sbuffò infastidita e si avviò verso la sua camera annunciando: «Vado ad
asciugarmi.»
Appena
scomparve lungo la rampa di scale John si voltò verso Sherlock e lo guardò
corrucciato. «Se lo sapevi, perché le hai preso l’ombrello?»
Il
detective sollevò gli occhi al cielo. «John, per favore, evita di farmi la
paternale. Se Emily voleva evitare di farsi scolorire i capelli in faccia
poteva benissimo chiedere un ombrello a Mrs. Hudson.»
«Potevi
chiederglielo tu.»
«E
deviare la perfetta traiettoria lineare che porta dalle scale alla porta?
Cielo, no. Hai visto che ombrello avevo quando siamo usciti e non hai detto
niente, perciò parte della colpa è anche tua» concluse con indifferenza,
svestendosi finalmente del cappotto.
John
si irrigidì, represse il desiderio di dare un pugno in piena faccia all’amico e
ispirò a fondo, tentando di calmarsi. «Senti, Sherlock, Emi è una brava ragazza
e mi piace, molto. Almeno con lei, almeno per una volta, potresti cercare di
essere meno te stesso del solito?»
«È
la richiesta più sbagliata che tu possa farmi» rispose immediatamente l’altro
in tono ovvio. «Emi sta scrivendo un tesi su di me. Chiedermi di “essere meno
me stesso del solito” significherebbe falsare il suo lavoro.» Si sistemò la
camicia, con fare vittorioso. «E noi non vogliamo che ciò accada» concluse.
John
rimase a guardarlo, fortemente infastidito. Alla fine sbuffo e si arrese
all'evidenza che Sherlock non avrebbe mai cambiato una sola virgola di sé pur
di far felice qualcuno.
«Fa'
come vuoi. Ma io adesso vado a parlarle. E sappi che lo faccio nella speranza
di riuscire a parare il culo a te.»
«Ammirevole.»
Il
medico ignorò la provocazione di Sherlock e si avviò lungo le scale, verso la
sua ex stanza. Arrivato davanti alla camera di Emily, si fermò. Sentì il suono
del phon e dedusse che la ragazza si stava asciugando i capelli nella speranza
che questi non macchiassero ulteriormente il suo viso o degli abiti puliti.
Provò a bussare ma non ricevette risposta, così optò per infilare la testa
nella camera e dare un'occhiata. Emily era seduta sul letto, il volto coperto
dalla vaporosa massa di capelli rossi, non più bagnati ma solo umidi. L'aria
del phon li faceva muovere come fiamme in un gioco ipnotico. Il medico si
schiarì la voce un paio di volte prima di ricevere l'attenzione della ragazza.
Emily lo notò, spense il phon e gli sorrise.
«Si
può?» domandò lui. Attese il via libera ed entrò nella stanza con tutto il
corpo. La ragazza lo invitò a sedersi accanto a lei, battendo alcuni colpi
leggeri sul copriletto. John la raggiunse, si sedette e sfregò un paio di volte
le mani sulla superficie dei suoi jeans, pensando a cosa dire.
«Un
manicomio vivere con Sherlock, visto?» si decise a dire infine, nella speranza
che scherzare sull'avvertimento che lui le aveva fatto al loro primo incontro
potesse servire a qualcosa.
Emily
rise e la cosa aiutò molto John a
distendersi. Non aveva ancora imparato bene a consolare una giovane che ne
aveva bisogno, ma gli conveniva imparare se sperava di diventare un buon padre,
un giorno.
«Non
sono arrabbiata con Sherlock, John. Ma è molto dolce da parte tua voler mettere
una buona parola su di lui.»
L'uomo
si irrigidì. Guardò Emily perplesso e disse: «Io non sono venuto qui per
mettere una buona parola su Sherlock. Anzi, se tu fossi arrabbiata ti darei
perfettamente ragione.»
Ripensò
un momento a quello che aveva appena detto, rendendosi conto di aver mentito su
tutta la linea: era proprio per sperare che Emily non si arrabbiasse con
Sherlock che l'aveva raggiunta.
«Beh
ma anche se fosse? È il tuo migliore amico, è comprensibile che tu voglia
prendere le sue difese.»
John
fece per replicare, prese fiato e si apprestò a dire la sua. Borbottò qualche
parola poi si bloccò di colpo. «Aspetta un momento» disse serio. «Li hai fatti
tu questi?»
Il
medico teneva gli occhi fissi sulla parete di fronte a loro. Due mesi prima non
era così, avrebbe potuto giurarlo. In quell'arco di tempo la carta da parati
era stata lentamente sostituita da foglietti di carta, localizzati in un unico
punto ma che lasciavano già intendere di essere intenzionati a invadere anche
lo spazio intorno a loro. Erano disegni. Piccoli acquerelli dipinti con pochi
tocchi decisi; disegni a tratteggio fatti con pennino o penna a sfera su
foglietti di carta improvvisati, angoli di articoli di giornale, retro di
scontrini. I soggetti erano vari, persone principalmente e fra tutti spiccava
l'immagine di Sherlock Holmes. Il detective era ripreso in diverse pose: mentre
suonava il violino, leggeva, o guardava da qualche parte. Su di lui c'erano bellissimi
acquerelli, ma anche rapidi lavori fatti a tratto. John li guardò tutti, finché
un altro non attirò totalmente la sua attenzione. Era un acquerello eseguito
con sicuri gesti di pennello, le figure contornate da inchiostro nero,
l'atmosfera sospesa e l'amore palpabile: erano lui, Mary e la loro bambina.
«Ti
piacciono?» chiese poi Emily.
La
ragazza riportò John alla realtà. Lui la guardò colpito. «Quando li hai fatti?»
domandò anziché rispondere.
«Oh,
quando riesco. Di solito abbozzo i ritratti dal vero e poi li coloro la
mattina, prima di andare a lezione. Mi piace molto farli. Ti piace quello di te
e Mary? Puoi tenerlo se vuoi, ne sarei felice.»
«Sono
tutti meravigliosi, Emi. Sei bravissima.»
La
ragazza sorrise, raggiante. «Grazie.»
«Hai
studiato arte?»
«No,
nulla del genere. Sono solo appassionata.»
«E
anche molto talentuosa» rispose lui, alzandosi e staccando il ritratto della
sua famiglia. Emily gli aveva permesso di portarlo a casa e lui lo avrebbe
fatto, gli piaceva troppo. Diede un'occhiata anche agli altri lavori; gli
acquerelli su Sherlock erano altrettanto belli. Uno dell'uomo che suonava il
violino, poi, gli parve un quadro miniatura.
«Sherlock
sa che lo disegni?» domandò incuriosito.
La
ragazza si strinse nelle spalle. «Sicuramente» rispose tranquilla. «Mi macchio
sempre le dita quando lavoro con il pennino, dubito che Sherlock non l'abbia
notato. Forse non gli interessa.»
John
annuì appena a quelle parole, tornò a sedersi accanto a Emily, il disegno fra
le mani.
«Sai,
John» prese a dire poi la ragazza. «Sono piuttosto certa che Sherlock abbia già
capito tutto di me, o per lo meno quasi tutto. Eppure io, in questi due mesi,
sono riuscita a capire così poco di lui.»
Puntò
lo sguardo sui suoi disegni, zittendosi. John riuscì a percepire una leggera
nota di amarezza nel tono della sua voce. Cercò qualcosa da dire, ma Emily
pareva non aver bisogno di essere consolata.
«Credevo
sarebbe stato più semplice, lo ammetto. Mi sono illusa che sarei riuscita a
raccogliere sufficienti informazioni su di lui solo perché sono stata capace di
fare un buon lavoro scrivendo di altri geni – geni a modo loro, erano pur
sempre assassini. Forse ci sono riuscita solo perché altri avevano già parlato
di Jack lo squartatore o Ted Bundy,
forse questa volta ho voluto esagerare nel cercare di afferrare una psiche come
quella di Sherlock, una psiche mai affrontata prima.» Sospirò, scuotendo
leggermente la testa. «Ho raccolto così poco materiale. Non credevo di
sentirmelo dire, ma è una delle persone che mi riesce più difficile da
comprendere, nonostante sia quello che desidero capire meglio di chiunque
altro.»
John
si voltò appena per osservare il profilo della ragazza. Non gli parve
demoralizzata, solo pensierosa.
«Non
so a quanto possa servire,» le disse infine, «ma sebbene conosca Sherlock da un
po’ di anni e sia, assurdamente, il mio migliore amico, sono certo di non
capirlo alla perfezione il più delle volte nemmeno io. Insomma, lo hai visto
anche tu: cambia idea di continuo, a volte non parla per giorni, altre tende a
essere monosillabico a meno che non debba mostrare a tutti quanto è
intelligente e il più delle volte, anzi, sempre, spara le sue deduzioni
brillanti senza ritegno e senza essere interpellato. Io, davvero, non capisco
come tu riesca a essere ancora così adorabile pur vivendo insieme a lui»
esclamò.
Come
ebbe concluso si rese conto di aver deviato l’argomento e preferì rimanere in
silenzio. Emily gli sorrise, dolcemente.
«Sono
d’accordo,» rise appena, «però ti posso garantire che nonostante tutto,
Sherlock mi piace.»
John
la guardò, allibito. «Ti… piace?» balbettò.
La
ragazza capì immediatamente la situazione. Spalancò gli occhi e rispose subito:
«No. Non in quel senso lui… no» disse, aggrottando la fronte come per
accertarsi della sua risposta. «Mi piace vivere con lui, indagare insieme a
lui, ascoltarlo suonare il violino, saperlo in giro per la mia stessa casa»
ammise serena, dopodiché tornò a rabbuiarsi leggermente. «È solo che non lo
riesco a capire ancora bene. Mi sono sempre sentita brava nel riuscire a intuire
con chi ho a che fare, ma con Sherlock mi riesce così complicato e non capisco
perché. Eppure, per quanto questa cosa mi infastidisca, sono contenta di avere
a che fare con lui.»
«Magari
è proprio perché non sei riuscita ancora ad afferrarlo appieno che ti piace»
propose all’improvviso John, senza sapere bene perché lo avesse detto.
Emily
lo guardò nuovamente, incuriosita. «Vuoi dire che se mai riuscissi a
comprenderlo veramente allora smetterebbe di piacermi?» chiese, sollevando un
sopracciglio.
John
si alzò dal suo posto, il disegno ancora in mano. Si passò una mano fra i
capelli e si strinse nelle spalle. «O forse potrebbe piacerti di più» concluse
lui, facendole l’occhiolino e ripensando a se stesso e ai suoi trascorsi con il
detective. «Ti va di tornare di sotto? Possiamo preparare un tè» propose
infine.
La
ragazza rimase a guardarlo un momento, poi sorrise. Anche John Watson le
piaceva, decisamente. E il fatto che la sua prima impressione sull’uomo si
dimostrasse via via sempre più corretta la rassicurava. Non era lei che stava
perdendo la sua capacità di intuire in fretta con chi aveva a che fare, era
Sherlock Holmes che ogni giorno si dimostrava la sfida più intrigante che lei
avesse potuto lanciare a se stessa.
Scese
le scale seguendo il medico, rinvigorita: avrebbe fatto un ottimo lavoro,
avrebbe capito perfettamente Sherlock e la sua mente geniale.
In
fondo alla rampa i due si trovarono davanti proprio l'oggetto della loro ultima
conversazione. Il detective era fermo al centro del soggiorno, rivolto verso di
loro.
«I
tuoi capelli sono nuovamente asciutti, Emi. Ottimo» disse con eccessivo – e
decisamente sospetto – entusiasmo. «Usciamo» annunciò poi, un gesto della mano
a far intendere che erano inclusi in quella gita fuori porta tutti, anche John.
«Bene,
usciamo. E dove dovremmo andare?» chiese scettico quest'ultimo, consapevole che
c'era ben altro in gioco; probabilmente un cadavere dato il luccichio eccitato
negli occhi dell'amico.
«
Al St. Bartholomew's Hospital. Molly ha qualcosa per
me.»
*
John
chiuse la chiamata proprio mentre stavano per varcare la soglia dell'ospedale.
Il cielo si era rischiarato sopra la città e il blu del tardo pomeriggio cominciava
a virare verso toni sempre più scuri.
«Non
mi fermo a lungo. Mary deve uscire più tardi e non posso certo lasciare sola la
bambina» informò il medico, affiancando Sherlock. Emi, un passo dietro ai due,
li seguiva osservandoli.
Di
nuovo il St. Bartholomew's Hospital, un posto che lei
aveva imparato a conoscere fin troppo in fretta. Doveva esservi entrata come
minimo sette volte da quando frequentava Sherlock.
«Molly
ha cosa per te, esattamente?» chiese
all'improvviso John, destando l'interesse di Emily. «Spero non qualche pezzo
umano da lasciare nel frigorifero a marcire.»
Sherlock
arricciò le labbra. «Sai, ho pensato di svolgere altri studi sui legamenti
delle mani. Devo tenere aggiornato il mio sito anche sotto questo punto di
vista» rispose con tono ovvio.
«Veramente
non sono così sicuro che esista qualcuno seriamente interessato a questi tuoi
studi» gli ricordò John per l'ennesima volta.
Il
detective lo guardò, radioso. « E
qui ti sbagli, di nuovo. Per il lavoro che Emily sta scrivendo su di me il mio
sito è molto importante.»
John
si voltò verso la ragazza. Quest'ultima si strinse nelle spalle e abbozzò un
mezzo sorriso. «Ha ragione.»
Il
medico sbuffò davanti alla nuova vittoria di Sherlock.
«Ok,
ma non ci avrai fatto venire tutti solo per recuperare delle mani, spero.»
L'altro
si fermò di colpo a quelle parole. John, abituato a questo genere di
sceneggiate, si arrestò in tempo ma Emily, colta di sorpresa, per poco non finì
addosso a entrambi.
«Non
essere stupido, John. Siamo qui per qualcosa di meglio» lo rassicurò Sherlock.
La
cosa non servì a tranquillizzare molto il medico, al contrario. Fu la conferma
che c'era un cadavere di mezzo – con tutta probabilità la conseguenza di un
omicidio – ovvero qualcosa che, più volte, era stato sinonimo di guai per loro due.
I
tre ripresero a camminare e raggiunsero il laboratorio, dentro il quale Molly
li stava aspettando. Sherlock fu il primo a entrare.
«Buon
pomeriggio, Molly» disse varcata la soglia.
La
donna si irrigidì appena nel vederlo. Lo salutò un po' impacciata, per poi
estendere il saluto anche ai due che erano con lui. Sherlock si svestì del
cappotto e lo lasciò nell'attaccapanni accanto alla porta, subito imitato da
Emily. John, invece, si rivolse all’anatomopatologa: «Cos'avresti per Sherlock,
quindi?»
Lo
chiese con un po' troppa foga. Molly, infatti, lo guardò nervosamente. «Dei
campioni di sangue di Horvat.»
Emily
si avvicinò all'improvviso sentendo quel nome.
«Horvat?
Il presunto assassino del giudice Walker?» chiese alla donna, sinceramente
incuriosita e improvvisamente interessata.
«Sherlock
non ci ha detto niente» intervenne John, sempre rivolto a Molly.
Il
detective lo affiancò. «Eravate troppo impegnati a parlare di me quando sono
stato informato. Non mi sembrava opportuno interrompervi. Ebbene, Horvat è
stato ritrovato nella sua cella privo di vita.»
Sentendo
quelle parole John si voltò e lo guardò di sbieco. Venne completamente
ignorato.
«Quindi
Horvat è morto» mormorò Emily, sovrappensiero.
«Già.
Avvelenato anche lui a quanto pare. Pensano si tratti di suicidio» disse Molly.
La
notizia fece scattare molte cose nella mente di Emily, prima fra tutte il fatto
che quella, per lei, era una morte fin troppo sospetta. La faccenda di Horvat
le era parsa dubbia fin dall’inizio e di certo quel “suicidio” le dava modo si
pensare che dietro tutto ciò si nascondesse qualcosa di ben più grande. Nella
sua mente qualcosa le disse che Horvat non si era affatto ucciso e che chiunque
gli avesse somministrato il veleno era, con tutta probabilità, lo stesso che
aveva ucciso il giudice Walker e pagato Horvat per addossarsi la colpa. Si
accorse con la coda dell’occhio che Sherlock la stava guardando. Rispose al suo
sguardo e lui rimase lì, a osservarla ancora, i limpidi occhi azzurri a
indagare ben più in profondità di quanto chiunque altro riuscisse a fare.
«Ti
ho preparato dei campioni di sangue, Sherlock. Sono sul tavolo, accanto al
microscopio e ai reagenti» dichiarò Molly.
Il
detective si rivolse a lei e la ringraziò.
«Credo
dovremo stare qui per diverse ore» disse poi. «John fra poco dovrà andare via,
ma tu rimani, non è vero, Molly? Ho bisogno di qualcuno che ci sappia fare.»
La
donna annuì e a Emily non sfuggì il sorriso lievemente imbarazzato e il
gesticolare febbrile delle mani, nascoste dalle maniche del camice. Capì che i
suoi sospetti – formulati nelle settimane precedenti – erano fondati. Molly era
interessata a Sherlock e il fatto di conoscerlo da anni non l’aveva ugualmente
aiutata a rendere ininfluente i suoi sentimenti a contatto con lui. La cosa le
fece tenerezza, oltre ad aumentare ulteriormente la simpatia che lei nutriva
nei confronti del medico.
Sherlock
non aveva finito di parlare, si sistemò al microscopio e prese in mano una
delle provette contenente il sangue di Horvat. «Cerca di non disturbarmi, però.
E se hai voglia di parlare c’è Emi. È molto socievole» concluse, con la sua
consueta faccia tosta.
«Vuoi
renderci partecipi della cosa, di grazia?» sbuffò John in direzione dell'amico.
«C'è
poco di cui rendervi partecipi» replicò asciutto Sherlock. «Horvat è morto
avvelenato. Ora analizziamo il suo sangue per cercare di capire cosa,
esattamente, lo ha ucciso. Una volta ottenuta questa informazione iniziamo a
fare delle supposizioni.»
Mise
una goccia di sangue su un vetrino da laboratorio e lo spostò sotto al
microscopio, cercando poi fra i reagenti la sostanza giusta per verificare la
sua prima teoria.
«Lavoro
così da sempre, possibile che tu senta ancora il bisogno di pormi certe
domande?»
John
lo ignorò completamente e si rivolse a Molly: «Non è stato ancora analizzato
questo sangue, quindi?»
La
donna scosse la testa. «No, non ancora. Hanno trovato Horvat questa mattina. La
prima autopsia mi ha consentito di capire che è stato avvelenato ma non so
ancora con cosa. Prima che potessi svolgere altre analisi l'ispettore Lestrade
mi ha detto di contattare Sherlock.»
«Anche
Lestrade sospetta un omicidio, allora» propose Emily, con una lieve incertezza.
Guardò
l'anatomopatologa, che annuì. «Esatto, ma non può fare molto. In centrale sono
tutti propensi a credere all'ipotesi del suicidio e lui sa già che se
proponesse di indagare senza prove certe glielo impedirebbero.»
Emily
si voltò verso Sherlock in cerca di una qualche possibile reazione da parte
dell’uomo. Quello che Molly aveva appena detto loro lasciava intuire che
Lestrade non solo si fidava del detective, ma era anche consapevole che lui
fosse l’unico in grado di far luce su quella situazione. Era tutto decisamente
più complicato di quanto apparisse. Tuttavia Sherlock non batté ciglio, ma
continuò a osservare attentamente il campione di sangue e la sua reazione sotto
al microscopio. La ragazza, allora, gli si avvicinò; si posizionò al suo fianco
e rimase a guardarlo lavorare, in silenzio. Osservò i suoi occhi fissare con
intensità il sangue attraverso le lenti dello strumento, la matita muoversi sul
taccuino mentre prendeva appunti senza guardare ciò che stava scrivendo. Il
detective era di nuovo nel suo elemento, dove dimostrava di sapersi
destreggiare alla perfezione. Era impassibile, fermamente risoluto ed Emily sentiva,
nel più profondo di sé, che lui aveva scoperto già molte più cose di quanto non
volesse dare a vedere.
Quello
dell’omicidio di Horvat non era un nuovo caso, ma solo un nuovo filo di una più
vasta e intricata rete in cui lei, leggendolo nello sguardò di Sherlock, capì
di essere appena rimasta incastrata.