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Autore: silencio    31/05/2009    0 recensioni
"I ricordi sono, certamente,il dono più bello e al tempo il più crudele che gli Dèi potessero farci. Serbare memoria delle cose che furono può essere un balsamo nelle future sconfite, un insegnamento, ma può dar anche adito ad un odio sconfinato. Dal mio canto, ahimè, possiedo molti ricordi... ed è questo il momento in cui la storia verrà narrata così com'è accaduta, alla fine del viaggio. Tutto principia e si conclude con una parola, foriera d'onori e sventure, un nome eternamente ricordato: Elena che, Moire vollero, è anche il mio nome...". Tutti conosciamo gli eveti della guerra d'Ilio, della gloria e furia di Achille Pelide, della cavalleria di Ettore il troiano o l'arroganza di sire Agamennone e tutti i miti che li raffigurano, ma nessuno di noi (me compreso) immagina fin dove il mito stesso si attualizzi. Questo è un modo per scoprirlo... l'inizio si comprende solo con la fine.
Genere: Generale, Fantasy, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Chiedo infinitamente perdono per il MOSTRUOSO ritardo, ma ahimé una serie di piccoli inconvenienti mi ha impedito la pubblicazione del capitolo (già pronto dal 25 di aprile). Comunque sia, ora eccomi qui col capitolo primo della fiction che, spero, non vi deluderà.  






I
LA FIGLIA DELLA NUTRICE




MENTRE con passo strascicato scendo giù in sordina, il chiassoso ribollire della tempesta va smorzandosi. Eccettuato il fragore di qualche tuono e l’eco attutito di voci allarmate, sottocoperta regna un silenzio immobile e pesante.
Scendendo le traballanti scale, odo il rumore dei passi echeggiare nella stiva piena solo per metà. CiakCiak! È quasi angosciante.
Il sentore di chiuso e pesce marcio colpisce le mie narici con violenza nell’istante medesimo in cui giungo nel ventre della nave. La luce è stentata, donataci da un misero mozzicone di candela. Il resto è buio.
Celati nell’ombra, viaggiatori fuggitivi come me riposano. Mi chiedo come riescano a farlo, quando la nave su cui viaggiano è in balia degli elementi. Per conferma al mio pensiero, non faccio in tempo a muovere un passo che d’improvviso il pavimento s’inclina, tant’è che sono costretta ad aggrapparmi ai pioli della scala per non scivolare. Ed ecco che la nausea mi assale; sento la gola pizzicarmi fastidiosa e un sapore acido in bocca. Se non mi controllo presto darò di stomaco. Odio le navi!
Decido di sedermi; prima, però, attendo qualche secondo cercando di ritrovare l’equilibrio e non appena mi sento più sicura, lascio la presa e mi avvicino lentamente alla parete opposta, proprio dove si trova la candela –o quel che ne resta-. Questa notte è molto fredda e voglio godere un po’ del calore offertomi dalla fiammella. So che è poco, ma in simili casi bisogna accontentarsi.
Sono molto vicina, mancano pochi passi alla meta, quando con un nuovo scossone, l’imbarcadero oscilla un’altra volta e cado bocconi. Gli Dèi ce l’hanno proprio con me!
Vorrei urlare per la frustrazione, ma il quieto russare dei compagni di viaggio mi frena. Così, impreco a bassa voce per non disturbarli e carponi raggiungo la candela traballante su una cassa. Schiena alla parete, siedo a gambe incrociate cercando una posizione comoda… per quanto il pavimento di legno viscido e sporco può offrirmela…
Alla luce della fiamma, appena riscaldata dal suo calore, provo a dormire. Ne ho bisogno: è un mese e più che viaggio per mare, sono stremata ed il peso del passato m’opprime ed aggiunge anni alla mia già avanzata età. Chiudo gli occhi, cerco di rilassarmi, ma per quanti sforzi io faccia Morfeo sembra riluttante ad accogliermi fra le sue braccia.
Sospiro spazientita e arresa. So cosa mi frena, cosa scaccia il sonno ristoratore: i ricordi. Ah, i ricordi! Il dono più bello e al tempo il più spregevole che gli Dèi potessero offrirci. Molte cose non sarebbero accadute se la memoria dei torti passati non fosse perdurata, ed io avrei ancora il mio sonno.
Da un lato, comprendo che serbare memoria di ciò che è stato può essere un insegnamento di cui godere in futuro, un balsamo nella sconfitta, ma dall’altro so che può dar adito a un odio sconfinato. Si, molte cose è bene dimenticarle. E che Calcante dica ciò che vuole; qui il Fato centra poco o nulla!
In quarant’anni di età ho veduto molto e, per aggiunger danno alla beffa, la mia memoria si mostra assai duratura. Solitamente il tempo cancella i ricordi sbiadendoli poco a poco, come affreschi esposti alle intemperie, ma nel mio caso le esperienze vissute e gli esecrabili orrori di cui sono stata al tempo stesso partecipe e spettatrice tardano a svanire. Ciò nonostante, in questa coltre di amarezze scorgo la fioca luce dei miei primi ricordi, dolci, legati all’infanzia, quando ancora vivevo con la mia famiglia in una casupola di vimini e argilla sull’isola di Creta...        

***

Fra i pochi episodi della fanciullezza che ancora la memoria si ostina a serbarmi, il giorno in cui conobbi Limnorea di Eleusi è certamente quello che rivedo con maggior vividezza, soprattutto ora che ritorno per sostituirla. Ho conosciuto gli uomini e le donne più potenti del mio tempo eppure, nessuno mai riuscì ad eguagliare Limnorea ai miei occhi. La sua bellezza, il portamento fiero, mi colpirono nel primo istante e so che il mio essere sacerdotessa di Demetra lo devo principalmente a lei.
Se vi dicessi che sono figlia di un pescatore ed una levatrice nullatenenti, che sono nata e cresciuta in una casupola misera con un fratello gemello e che mia madre non voleva che diventassi sacerdotessa opponendosi alla sola idea, ci credereste? Probabilmente no, ed è certo che mi guardereste perplessi, interdetti nel ritenere le mie parole come una burla o un’improbabile verità. Almeno, questo è quel che accade la maggior parte delle volte. Eppure, è così che stanno le cose.
Sono nata nei pressi di Amnisos, una gran città portuale a nord-est di Cnosso, e come già detto, nulla della mia nascita lasciava presagire un avvenire da Melissa eleusina. Personalmente ho sempre ritenuto Amnisos un posto delizioso e mai provai vergogna per i miei natali sebbene, lo ammetto, ne parlai solo occasionalmente e a pochi. Quei poveretti! Sorrido ancora al ricordo delle facce profondamente imbarazzate, contratte dal fiato mozzo per la sorpresa. Ah, quant’è grande l’ingenuità umana! Sovente si preferisce ignorare la realtà se non corrisponde alle costruite aspettative.
In verità non so perché la gente mi ritenesse di sangue nobile; forse per via dei miei abiti o dell’educazione impartitami al tempio. Fatto sta che se pensarono questo, nondimeno mi premurai di disilluderli. Non ho mai dato eccessivo peso alle stime della gente. Credo piuttosto d’aver fatto sempre il contrario di ciò che si aspettavano.
Sino all’età di dieci anni vissi con la mia famiglia nella piccola casa appollaiata come un nido di gabbiano in cima alla scogliera, perpetuamente squassata dai venti caldi del mare. Non era molto grande per la verità, tuttavia non ebbi occasione di vivere in un luogo più ampio sino a che non lasciai Creta. E poi in quattro ci stavamo comodi. Ivi trascorsi un’infanzia serena, anche se non priva di occasionali imprevisti, passando le ore liete della giornata giocando per la campagna o lungo la spiaggia con i miei amici, sotto il caldo sole dell’isola.
Mio padre si chiamava Ideo, figlio a sua volta di Giasione il marinaio, dal quale aveva ereditato tutto nei modi e nell’aspetto fuorché l’altezza. Ideo era basso, scuro di carnagione e capelli, con una folta barba ricciuta, spalle larghe, mani callose, occhi perpetuamente rivolti al mare e un perenne odore di salmastro addosso. Non lo si poteva giudicare bello, piuttosto l’aspetto selvatico e la scarsa statura gli conferivano un’aria simile a quella di certi satiri rappresentati nelle teche che custodiscono le statue degli dei. Ma per quanto faunesco potesse essere nelle fattezze, di converso nell’animo mio padre era buono: sempre allegro, straordinariamente dolce con me e mio fratello e inoltre, amava nostra madre immensamente.
Una sera, chiesi proprio a quest’ultima, cosa l’aveva spinta a sposare mio padre. Ero curiosa poiché nel pomeriggio avevo udito delle vecchie signore, alcune case più in la della nostra, discuterne animatamente senza giungere, tuttavia, ad una conclusione. Mia madre Ianira, in effetti, era una donna molto bella, dal volto fine e gli occhi bruni, dunque non stranisce il fatto che la gente s’interrogasse su come fosse nato un connubio sì tanto singolare. La risposta che Ianira mi diede fu semplice: “L’amore” né più né meno, quasi scontato direste voi. Non ci vuol molto a dedurre che quella striminzita risoluzione non mi bastò, anche perché come tutti a quell’età, desideravo capire. Le chiesi ulteriori spiegazioni, ma ella con un gesto spazientito mi zittì replicando: -Da grande capirai. Per il momento pensa ad andare a dormire, il sole è già calato-. E lì terminò la nostra discussione.
Da quella volta evitai di far domande in merito e non seppi nulla a riguardo sino al giorno in cui, come vi dicevo, conobbi Limnorea.
Avevo raggiunto da poco i sei anni e già mia madre s’apprestava ad introdurmi all’arte della nutrice, di cui era esperta, quando il mio destino (se legittimo è usare tale parola) prese a delinearsi. Era il mese di tragelione¹ e già il caldo s’era fatto afoso, previa avvisaglia di un’estate torrida. Borea giungeva in soccorso soffiando brezza fresca, trasportando fin dentro le case il profumo dei fiori e l’odore salso del mare, ma era questa ben poca cosa contro l’implacabile calura del sole. Invece, la natura sembrava rigogliosa ed affatto infastidita dalla temperatura scottante. La campagna si tingeva poco a poco del color dorato delle spighe tant’è che se si spingeva lo sguardo sino al mare nelle ore meridiane si vedevano la terra e l’acqua fondersi in una unica vasta piana del biondo color del vino.
Il pomeriggio precedente, mio fratello Nico s’era ferito al ginocchio giocando con i suoi amici. Sconosco le dinamiche dell’accaduto; lui affermò d’essere scivolato sulle rocce, ma il livido nero che gli cerchiava l’occhio destro lasciava supporre tutt’altro. Ma i miei genitori preferirono non indagare oltre.
Ad ogni modo, sebbene all’inizio parve un semplice graffio, la ferita nel giro di mezza giornata s’infettò e in mancanza delle erbe adatte mia madre si vide costretta a recarsi in città per comprarle; mi chiese così, di farle compagnia. Inutile dire che ne fui contenta. Per quanto la vita all’aria aperta non mi fosse negata, amavo andare là dove proprio la vita sembrava esprimersi nella sua più vigorosa forma. Oltre a ciò, sin dalla mattina percepivo qualcosa di diverso nel vento, quasi delle voci, ma poiché ero piccola non vi feci molto caso. Capirete, dunque, quale spirito sovreccitato mi animava quel dì.   
-Forza madre, andiamo!- esclamai mentre mia madre si attardava sull’uscio di casa parlando con Ida, una vecchia sorella di mio padre venuta in visita da Cnosso.  
-Abbi pazienza Elena- mi disse lei per l’ennesima volta. -La città non fuggirà via-.
Io sbuffai infastidita e mi sedetti ai piedi del cedro che cresceva accanto alla nostra casa, osservando agognante il mare e la sabbia rilucente. Non ero molto paziente prima di diventare sacerdotessa… e nemmeno dopo.
Mia madre mi lanciò un’occhiata di traverso, sorridente, e tornò a rivolgersi a mia zia.
-Hai capito tutto?-.
-Sì, Ianira, non temere- rispose mia zia con voce gracchiante -Se tuo figlio sentirà ancora dolore, applicherò sulla ferita una tintura di melissa. Di quella ne hai in abbondanza in casa, sta’ tranquilla… e tu!- riprese acida verso di me, inquisendomi un dito. -Sii buona e cerca di non far stancare troppo tua madre, capito?-.
In risposta le feci una linguaccia.  
Mia madre non aggiunse altro e dopo aver ringraziato Ida, c’incamminammo.
Il sole era già alto e il cielo azzurro, chiazzato qua e là da nuvole bianche. Il vento dondolava le spighe come onde in bonaccia. Il profumo del mare s’avvertiva intenso, accompagnato dallo stridere acuto dei gabbiani.    
Discendemmo la collina, godendoci il calore e gli odori soavi del dì; mia madre camminava con passo cadenzato, né troppo rapida né troppo lenta, con me che le trotterellavo a fianco. Ogni gesto suo era elegante, fluido come l’acqua e la schiena alta, ritta, in un portamento orgoglioso.
Mentre le stavo accanto, aggrappandomi di tanto in tanto alla sua veste azzurra, mi sorprese a fissarla e sorrise facendomi arrossire fino alla radice dei capelli. Tutto in lei esprimeva munificenza, bellezza ed una innata sacralità. La luce del sole lungo la strada polverosa le contornava il capo come un’aureola e la lunga chioma castana brillava, fluttuante al vento, faticando a rimanere compatta nell’acconciatura. Il chitone di lino, morbido e profumato, frusciava lievemente ad ogni passo, esaltandole con delicatezza le forme armoniche. Quanti la conobbero non cessarono mai d’encomiarla definendola come la più bella di Creta, di certo nata sotto il favore di Afrodite. Beh, personalmente dubito che quest’ultimo asserto sia giusto; la Splendida non ha mai mostrato simpatie per chi serve la Grande Dea Madre come noi.

-Venite signore, venite! Osservate i miei gioielli! Vere rarità provenienti dalla terra d’Egitto!- vociava un vecchio mercante, occhietti slavati e aria rapace, mentre un nugolo di donne faceva ressa attorno al suo barroccino rilucente di gioie.
Era mezzodì quando raggiungemmo il mercato accanto al porto. La calca era incredibile: gente di tutte le razze, uomini alti e biondi, uomini tozzi e dalla pelle scura, donne dagli abiti colorati e acconciature stravaganti, e poi animali e una infinità di bancarelle e merci belle ed esotiche. Un miscuglio caotico di voci, parole, risate, urla e odori (non tutti piacevoli) talvolta così intensi da farti venire continui capogiri. Dalla strada di terra battuta saliva un nuvolone di polvere, smossa da centinaia di piedi, che andava adagiandosi sugli abiti e la mercanzia bellamente esposta. Io guardavo confusa quella fiumana tumultuosa che si spintonava, coinvolta com’era dalla frenesia per gli acquisti. Intimorita e spaesata, mi aggrappai con forza alla gonna di mia madre.
-Stammi vicina- proferì lei perentoria. -E non allontanarti per alcuna ragione-.
Annuii in silenzio, strizzando gli occhi; non avevo la minima intenzione di disubbidirle, di questo poteva star certa. Frattanto, i suoni e le immagini mi arrivavano confusi e la testa cominciò a dolermi.
Avanzammo con cautela fra la gente; ogni tanto qualcuno ci urtava abbaiando improperi in lingue sconosciute e più volte rischiai di cadere. Fortunatamente mia madre aveva buoni riflessi oltre che una presa salda e, manovrandomi alla stregua di un burattinaio col suo bamboccio, mi scostava all’occorrenza evitandomi d’esser travolta.
Mentre percorrevamo la via principale in cerca di un erborista, una voce implorante richiamò la nostra attenzione.
-Oh mia signora, beneditemi ve ne prego!-.
Ci voltammo. Una vecchia, avviluppata ad un logoro himation², s’era prostrata ai piedi di mia madre posando le mani rugose sulla polvere. Aveva la pelle bianca, quasi cinerea, piena di macchie scure e gli occhi di un verde slavato. Sembrava molto afflitta.
-Concedetemi una benedizione dalla mia Signora... ahimè la mia unica figlia è sposata da lungo tempo, ma non riesce ad aver bambini. Vi prego beneditemi, desidero tanto avere nipoti che mi allietino la vecchiaia-.
All’inizio mia madre osservò turbata la donna, sorpresa quanto me da quell’improvvisata, poi mi lasciò la mano avvicinandosi a lei con un sorriso, congiunse le proprie e gliele impose sul capo. Non era la prima volta che accadeva una cosa del genere; mia madre era una Ilizia, una nutrice al servizio della Dea Hera, e spesso le altre donne (ed anche alcuni uomini) le chiedevano speciali benedizioni.
Vi aspetterete ora la descrizione onirica di una visione, forse, di luci sfolgoranti e potenze divine scendere sulla vecchia attraverso le mani mediatrici e sante di mia madre. Beh, mi spiace deludervi ma raramente assistetti ad eventi mistici di tal fatta e mai a quel tempo. Se qualche prodigio si manifestò ai miei occhi, fu solo diversi anni dopo, quando già servivo ad Eleusi. Ciò non toglie che vedere Ianira esercitare i suoi poteri sacerdotali non fosse per me uno spettacolo privo di fascino. La già figura nobile di mia madre si rivestiva improvvisamente della dignità propria di una Ilizia, risplendente al pari della Dea stessa e, concedetemelo, forse era proprio la Sua maestosa aura a discendere su di lei.  
-Che la benedizione della Grande Madre Hera scenda su te e su tua figlia, sorella mia, e che tu possa avere molti nipoti come desideri- disse mia madre in tono ieratico -Al tramonto recati con tua figlia presso il tempio ed implora la Dea d’esaudirti, poi chiedete consiglio alle Ilizie mie sorelle ed esse vi diranno cosa fare-.     
-Grazie madre Ianira- disse l’anziana signora, ancora scura in volto. -Che la Madre sia sempre con te…- poi, con uno strano brillio nelle iridi, mi rivolse un occhiata attenta e misteriosa -E che tua figlia ottenga la tua stessa saggezza, se non una maggiore…-.
Tum. Il mio cuore perse un battito d’improvviso. Un brivido freddo mi scosse mentre l’augurio, volando al mio orecchio, sembrò trasformarsi in una maledizione. Rimasi in silenzio, nascondendomi istintivamente dietro le gambe di mia madre, spaventata, confusa da quel sudore diaccio.
Suppongo che il disagio dovesse palesarsi sul mio volto perché, subito dopo, Ianira mi chiese preoccupata:
-Elena, sei stanca? Hai il viso pallido…-.
Scossi il capo. -No- bisbigliai.
Non riuscivo a capire cosa fosse accaduto. Avevo ancora la pelle d’oca. Guardai davanti a me, ma la vecchia era scomparsa.
-Allora proseguiamo. Prima ci sbrighiamo prima faremo ritorno a casa-.
Riprendemmo a camminare in silenzio: Ianira concentrata nella cerca fra le bancarelle ed io, ancora un po’ stordita, rimuginavo sull’accaduto.
Verso la terza ora dopo il mezzodì, quando il sole si fece meno intenso e la folla cominciò a scemare, mia madre volle fare una sosta. Inutile dire che fui ben lieta alla notizia, avevo i piedi in fiamme e la gola secca.
Oltrepassammo in fretta la piazza principale dove il mercato convergeva, ancora enormemente affollata, e ci dirigemmo verso i Giardini, ai piedi della Villa dei Gigli, dimora di Eurito il damos³ locale. Lì la vegetazione era florida e gli alberi facevano molta ombra, c’erano diverse fontane dalle quali poter bere e rinfrescarsi. Stranamente quel giorno vi era poca gente e subito trovammo posto sotto i rami di un nodoso ulivo.
Mangiammo rapidamente le focacce con le olive comperate lungo la strada, chiacchierando allegramente. Poi mia madre si addormentò ed io, sazia e nuovamente in forze, decisi di esplorare il posto.
Mi alzai, ben attenta a non svegliare Ianira, e cominciai la perlustrazione: il vociferare della gente in fiera che tanto m’aveva stordita a primo acchito, adesso giungeva distante e vacuo, mischiato allo stormire delle fronde.   
Un’altra caratteristica di Creta è proprio il soffiare incessante del vento che non smette un istante d’increspare la superficie dell’Egeo. Quand’ero piccina, zia Ida mi narrò che quello era il respiro di un Dio che abitava una grande caverna ad ovest. Raccontò che quando la brezza spirava leggera Egli era assopito, mentre se tirava tempestoso il Dio nella Caverna s’era adirato e gli ululati rabbiosi che lanciava facevano tremare il cielo e gli abissi. Allora occorreva restare in casa, al caldo e al sicuro, sperando che le preghiere dei sacerdoti ne chetassero la collera.      
Non so perché questa favola mi affascinava tanto, ed anche se ormai adulta e distante dal mondo colorato delle favole, ogni volta che percepivo il tocco del vento sulla pelle mi sembrava d’avvertire delle dita morbide e forti accarezzarmi, giocare coi miei capelli, o una voce dolce sussurrare al mio orecchio migliaia di parole, inudibili agli altri. Forse queste cose le prendereste come fantasie d’una bimbetta o magari, considerando gli anni successivi, le allucinazioni d’una pazza… sentitevi pur liberi di pensarlo, risentimento non ne proverei, né mi rechereste offesa: ad oggi sono dell’idea che tutti gli uomini, chi più chi meno, sono pazzi; perché, dunque, dovrei far la differenza?

Passeggiai, sbocconcellando con poco interesse un dolce alla frutta che Ianira m’aveva comprato.
Tutto m’appariva bello e tranquillo in quel momento, avvolto dalla quiete sonnacchiosa delle prime ore del pomeriggio. Un’arietta fresca cominciava a spirare, trasportando seco il suono armonico del mare e le migliaia di profumi delicati dei fiori in boccio. Qua e là tra i rami, uccellini dalle piume scure canticchiavano festaioli, tutti intenti a realizzare nidi; un fare e disfare continuo, nel quale ponevano un’attenzione quasi maniacale, scegliendo il rametto giusto, la foglia perfetta da apporre al proprio ricovero. Io mi soffermai ad osservarli, divertita dal quel frenetico svolazzare e istintivamente cominciai a cinguettare con loro, giocando a quello strano modo dialogico, seguendoli con lo sguardo, spostandomi dabbasso d’albero in albero, divertita dall’infantile passatempo che solitario non mi sembrava. Al contrario, avevo come l’impressione, forse fantasiosa, che i passeri e gli altri uccellini mi assecondassero rispondendomi col loro ciangottio brioso.
Ad un tratto m’accorsi che sul più basso ramo di un ulivo, una giovane passera stava accovacciata nel proprio nido, tutta gonfia e con le piume ritte: deponeva le uova, assistita a poca distanza dal maschio che, imperterrito, continuava di tanto in tanto a rimestare i secchi rametti, quasi fosse quella la giusta distrazione per scaricare la nevrosi del momento. Fu immediato e spontaneo il paragone fra questa e altre scene a cui avevo assistito presso le case di giovani partorienti, accucciata dietro una porta, con orecchio teso, giacché l’accesso m’era negato dagli adulti, e compresi, con la mente di bambina, che non v’è poi tanta differenza fra l’uomo e l’animale, negli aspetti quotidiani così come negli atteggiamenti più brutali. Non me ne vogliate per tale paragone che, ai vostri orecchi, potrebbe suonare oltraggioso. Non è nelle mie intenzioni offendervi, ma più volte, negli anni, ne ebbi conferma.
Vinta dalla curiosità, volli assistere anch’io a quell’evento, ed intestardita, conservai ciò che rimaneva del dolce nel tascapane che tenevo annodata in vita, e presi ad inerpicarmi con non poche difficoltà su per il nodoso tronco. Benché fossi avvezza a certe sconsideratezze e per quanto agile di natura, i movimenti mi risultarono impacciati e goffi avviluppata com’ero nell’abito di lino consunto, per non parlare poi dei sandali che rendevano la mia scalata ardua e scivolosa.
Sbuffai spazientita mentre mi ritrovavo per la terza volta, sconfitta ma per nulla arresa, ai piedi dell’albero. Togliendomi le foglie dai capelli optai per una risoluzione definitiva. Sciolsi celermente i sandali, gettandoli via con stizza, annodai la gonna poco sopra le ginocchia e, finalmente libera da impedimenti, mi diedi alla scalata, attenta però a causare il minor numero di scossoni così da non disturbare la coppia di passeri. Proposito ad esito fallimentare; infatti, giunta che fui in cima, scoprii che gli uccelletti erano volati via, spaventati proprio dai miei molteplici tentativi d’arrampicarmi. Immaginatevi la delusione nel vedere il nido pieno solo di piume e foglie morte. Aggrottai con disappunto la fronte, contrariata per la fatica inutilmente spesa e m’accinsi a scendere quando, con la coda dell’occhio, colsi celato dal fogliame nel nido, un uovo. Era piccolo e rotondo con macchioline castane a punteggiarne il guscio bianco. Era stato dimenticato dai genitori nella fretta della fuga e ora se ne stava lì, triste e solo, impossibilitato a schiudersi, col rischio di divenir presto cibo per qualche serpente. Lo guardai rattristata e contrita: con la mia caparbietà ed irruenza avevo causato l’abbandono e forse anche la morte di un pulcino non ancora nato.
Colta da pena, assunsi la decisione di prenderlo meco assolvendo il compito lasciato in sospeso dai genitori uccelli. In fin dei conti, io li avevo spaventati, dunque toccava a me rimediare. Inoltre, ammetto che non mi dispiaceva l'idea di avere un animaletto da compagnia, anche se, già la figuravo, mia madre non ne sarebbe stata per niente entusiasta.
In bilico sul vuoto, cercai di allungare le braccia così da prendere l’uovo, ma la loro cortezza e l’inquietante scricchiolio del ramo sul quale appoggiavo mi fecero desistere, costringendomi a cambiare dapprima posizione.
Guardai a destra e a sinistra, in alto ed in basso, in cerca di un sicuro appiglio e trovandolo in una frasca poco più in alto, sopra la mia testa. Tesi il braccio libero, il destro, mentre con l’altro m’aggrappavo al ramo sul quale si trovava il nido. Puntai i piedi issandomi, bene attenta a non forzare troppo col peso rimanendo sospesa alcuni istanti prima di atterrare sul ramo di mio interesse. Avevo raggiunto la meta, ma l’operazione di salvataggio però non poteva ancora dirsi conclusa.
Con passo precario e alquanto nervoso, gattonai sino al ricovero per uccelli, evitando accuratamente di guardare in basso ove il suolo duro e polveroso m’attendeva, provai a prendere il piccolo cocco allungando il braccio destro, ma appena potei sfiorarne coi polpastrelli il guscio, una voce dabbasso mi sgridò.
-Che cosa fai ragazzina? Scendi giù e lascia stare quel nido!-.
Ciò che seguì, accadde come a rallentatore: colta di sorpresa sobbalza, picchiando violentemente la testa contro un ramo. Istintivamente portai le mani a riparar la parte lesa, ma così facendo rinunziai all’unico appiglio che avevo. Il ramo scricchiolò sinistro. Un piede infame scivolò sbilanciandomi sicché la mia schiena fletté all’indietro e, con un acceso mulinar di braccia, vidi il mondo ruotarmi attorno prima di ritrovarmi senza accorgermene ai piedi dell’ulivo, sotto una pioggia di foglie.
Devo ammettere che l’altezza non era poi così spropositata, almeno oggi non mi risulterebbe tale, ma per l’età che avevo i due metri e mezzo erano anche troppi per non farsi male ed io, rispetto ai miei coetanei, ero bassina. Fortuna volle almeno che atterrassi su un cespuglio; ebbene, mi ritrovai al fine col sedere per terra, un dolore acuto alla parte suddetta e alla testa ed i capelli arruffati, pieni di rametti e fogliame.
Pochi passi in là, la sconosciuta mi fissava serafica, lievemente soddisfatta dallo spavento causatomi e sue conseguenze. Per un secondo rimasi colpita dalla figura alta e imperiosa, dai lineamenti decisi, con i capelli acconciati in riccioli scuri e lucidi. Indossava la veste antica, di foggia cretese, con il corpetto stretto in vita e la gonna a balze dai colori diversi. Intorno ai polsi e al collo portava ricchi monili e sul capo era cinta da un diadema d’oro ed ossidiana. Compresi che doveva trattarsi di una persona di nobile rango.
-Così impari a rapinar ciò che non ti appartiene- sancì severa, avvicinandosi con grazia superba.
-Non stavo rubando nulla!- replicai piccata, voltandomi in sua direzione. -Volevo solo salvare quel povero uovo-.
Ella mi guardò perplessa qualche istante, con un sopracciglio scuro inarcato, quasi soppesando con attenzione ciò che le avevo detto; me ne risentii di quell’aria scettica dacché sembrava metter in dubbio la mia onestà. Orgogliosamente non mi reputavo affatto una bugiarda, detestavo quando mi consideravano tale, e non mancai di farglielo presente.
-Non sono una bugiarda!-
-Oh, di questo ne sono sicura. Non ne hai l’aspetto- ribatté la donna sarcastica, senza smettere di fissarmi. La fissai a mia volta, affatto intimorita. Dovevo farmi valere!
I nostri sguardi s’incontrarono a mezz’aria, anzi sarebbe meglio dire che si scontrarono stimata l’occhiata torva che le lanciai, rimarcando così il concetto che: no! Non ero né una bugiarda né tanto meno una ladra!
La misteriosa interlocutrice, di rimando, non sembrò turbarsi come avevo sperato e rispose con egual durezza oculare. Senza che ce ne accorgessimo, s’aprì fra noi una lotta di sguardi in cui le parti contendenti tentavano di prevalere l’una sull’altra esibendo con minacciose guardate autorevole supremazia, sfidando l’avversaria a dimostrare il contrario; lotta che, in effetti, da quel dì non ebbe mai fine tra noi.
Fu in quel modo che la conobbi: Limnorea, Somma Sacerdotessa di Demetra ad Eleusi e mio precursore.
Restammo così parecchi minuti, immobili come statue, studiandoci, sfidandoci, legandoci indissolubilmente. Fronte aggrottata, occhi ridotti a sottili lame, concentrate nell’ostentare l’espressione più truce che tenevamo, sembrò che il mondo in torno a noi smettesse di muoversi. Solo il vento osava spirare smovendo vesti, chiome scure e foglie. Per il resto, nulla sembrava voler interferire in quello scontro epocale.
Beh, almeno così parve all’inizio…








Free tolk

¹ Il mese di tragelione era, nel computo temporale di Atene, quel periodo dell’anno associabile per noi tra i mesi di aprile e maggio. Ho dovuto usare il termine greco attico perché non sono riuscito a trovare (e forse non esiste al momento) un elenco dei mesi in epoca micenea. Perdonate questa possibile incongruenza storica.

² L’himation era, per chi non lo sapesse, un particolare tipo di mantello uguale per ambo i sessi di ampio uso nell’età elladica acheo-micenea e classica. Indossato, soprattutto dalle donne, in varie fogge e talvolta come vero e proprio abito poteva essere utilizzato tutto l’anno, realizzato per la gran parte in lana e lino, raramente in cotone.  

³ Il damos (plurale damoi) era un non ben definito capo locale, una sorta di duca o proprietario terriero nel periodo miceneo, sottoposto direttamente al wànax (il sovrano) e membro dell’aristocrazia locale.



Parto col ringraziare quanti hanno letto lo scorso capitolo ed il presente, chi ha inserito la storia nei preferiti e poi il mio primo (ed al momento unico) recensore Kronos333 al quale rispondo che mi fa molto piacere che la storia ti sia piaciuta e lo ringrazio per i complimenti, mi rendo benissimo conto che il prologo lascia il lettore un po’ confuso, ma questo era il risultato che volevo. Non voglio lasciar trasparire nulla all’inizio.
Vi avviso che probabilmente anche la pubblicazione del prossimo capitolo avverrà in ritardo e questo perché l’università chiama. Quindi chiedo venia in anticipo.

Saluti e alla prossima,
SILENCIO  

     
   
 
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