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Autore: Silvar tales    02/02/2017    12 recensioni
Persino tu lo percepisci, il peso del silenzio.
Persino tu, Yuri, così giovane, così impaziente, così irrequieto, quando cala la notte e sei appeso su uno strapiombo di novecento metri, senti il respiro della parete ghiacciata, senti la verticalità incombere sopra e sotto di te, senti la libertà e la vertigine del volo delle aquile giocare tra il davanzale della cengia e l’immensità del cielo macchiato di stelle.
E allora, senza dire una parola, ti stringi nella tua giacca e poi ti stringi a me, ed entrambi ci stringiamo alla montagna come se fosse nostra madre.
Se moriremo, sarà un po’ come ritornare nel grembo materno.
Se arriveremo in cima, sarà un po’ come nascere una seconda volta.
E se arriveremo in cima, giuro che…
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Otabek Altin, Yuri Plisetsky
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'The North Face'
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The North Face




made by Marti
Grazie per queste meravigliose sorprese che mi fai,
Grazie per i preziosissimi consigli,
Grazie per tutto il supporto,
Grazie per esserci sempre ❤





Eiger





Era passato soltanto un mese dalla nostra ultima ascensione.
Dopo la conquista di punta Whymper nelle Grandes Jorasses, lungo la celebre via Bonatti-Vaucher, tutti i membri della nostra cordata erano tornati nei loro rispettivi paesi.
Jean Jacques era volato oltreoceano e aveva fatto ritorno al suo lussuoso chalet con annessa piscina termale nella stazione sciistica delle Blue Montains, in Ontario. Yuri era tornato nel suo appartamentino a Mosca e io nella mia caotica Almaty, all’ombra delle cime del Tian Shan.
La nostra separazione non era stata delle più allegre. Per festeggiare il successo della spedizione, la sera prima di partire avevamo cenato assieme in un pub in centro a Chamonix.
Dopo una pizza e qualche birra di troppo, i toni si erano scaldati. Jean Jacques aveva iniziato a fare sfoggio delle sue ascensioni più ardue, dall’Aconcagua nella Cordigliera delle Ande al Pilastro Est dello Kishtwar Shivling, dalla Parete Nord del Sassolungo alla Lurking Tower in Groenlandia.
Il canadese era arrogante e pieno di sé, lo era di certo, era fatto così e ormai avevamo imparato a conoscerlo. Ma Yuri aveva preso quell’elenco di mirabili imprese come un affronto alle sue capacità, e tutti i rancori che aveva soffocato in quegli anni di collaborazione erano scoppiati in un colpo solo.
Avevano iniziato a dirsene di tutti i colori, mentre io mi nascondevo dietro al mio boccale di dunkelweizen e ringraziavo il cielo che non si fossero messi a litigare mentre eravamo appesi in parete.
Ci separammo con l’amaro in bocca, e mentre ero in aereo diretto in Kazakistan e riguardavo le foto che avevamo scattato in vetta, tutti e tre sorridenti, spalla contro spalla, esausti ma felicissimi, pensavo che quella poteva essere una delle ultime foto in cui eravamo in tre.

Era passato soltanto un mese, quando una notte Yuri mi aveva chiamato su skype. Si era presentato davanti alla webcam con i capelli in disordine, il gatto accoccolato tra le gambe incrociate e un guscio in goretex nuovo fiammante infilato sopra il pigiama.
«E quello?»
«Ti piace? L’ho comprato ieri».
«Ti serviva un pigiama nuovo?»
«Stupido, l’ho comprato per andarci a quattromila metri, non per dormirci dentro».
«Ma ci stai dormendo dentro».
«Volevo solo fartelo vedere!»
Stanco di dire ovvietà, Yuri aveva sbuffato e si era alzato il cappuccio della giacca tecnica sulla testa. D’altra parte io non potevo farci nulla: mi divertivo troppo a stuzzicarlo.
Yuri Plisetsky era un ragazzo di vent’anni con poca esperienza alle spalle, ma con un’ottima conoscenza delle tecniche alpinistiche, delle attrezzature e della montagna stessa. Soprattutto, era un rocciatore e un falesista molto abile. Chiudeva con poco sforzo degli ottavi gradi, e aveva scalato i big wall più difficili dell’America settentrionale.
Aveva soltanto un piccolo difetto: spendeva una valanga di soldi in attrezzature di ultima generazione e abbigliamento tecnico, anche quando questo era del tutto superfluo.
Se a Jean Jacques Leroy piaceva vantarsi delle cime che aveva conquistato, a Yuri Plisetsky piaceva mettere bene in mostra il logo di marche costose appiccicato sulle scarpe, sulla maglia termica, sui pantaloni, persino sulle mutande.
Quella era la terza giacca in goretex che comprava, e quella roba costava dai trecento ai settecento euro. Spesso mi domandavo come potesse spendere tutti quei soldi, dato che era ancora uno studente universitario e viveva soltanto con il nonno paterno.
Ma in fondo non erano affari miei. A parte il fatto che, risparmiando quei soldi che Yuri buttava in cose che già possedeva, avremmo potuto organizzare più di una spedizione al mese. Anche un volo intercontinentale per l’Argentina costava tanti soldi.
«Non mi avrai chiamato all’una di notte solo per farmi vedere la giacca, vero?»
«Anche se fosse?»
«Ti ammazzo».
Yuri era scoppiato a ridere così forte che il gatto si era spaventato ed era sceso dal letto con un meow stizzito.
Stavo cominciando a temere che mi avesse davvero chiamato solo per farmi vedere i suoi acquisti pazzi, quando…
«Avevo pensato che potremmo tentare la Parete Nord dell’Eiger, la prossima settimana».
Tentare… cosa?
Per poco non mi strozzai con la mia stessa saliva. Quella proposta folle messa sul piatto con tale disinvoltura mi sconvolse a tal punto che per errore chiusi l’applicazione. Quando la riaprii, pochi istanti dopo, mi trovai davanti un Yuri Plisetsky corrucciato e confuso.
«Ma stai bene?»
«E tu stai parlando seriamente?»

Avevamo tanti progetti nel cassetto.
Il ghiacciaio del Karakorum in Himalaya, il Sass dla Crusc sulle Dolomiti, la Parete Sud del Flitz Roy in Patagonia, lo sperone Seigneur dell’Aguille du Midi e il Terzo pilastro del Col Maudit nelle Alpi.
Perché ad un tratto Yuri proponeva un ascensione così ardua come la famigerata Parete Nord dell’Eiger?
Sai, mi avanzava un biglietto aereo per la Svizzera…
Certo Yuri, come no. Non sono nato ieri.
Come se non lo avessi capito che non vedi l’ora di spedire un selfie in Canada dai 3970 dell’Eiger. Già che ci sei, mettiti pure la GoPro sul casco e fagli la diretta streaming a quell’altro megalomane di Leroy.
Non lo fai nemmeno per aggiungere una cima alla tua collezione dei 4000, perché quella montagna maledetta, come per dispetto, è in difetto di trenta metri.
Oh no.
Lo fai per fargli vedere che sei più bravo.
Perché quell’ascensione non l’ha mai tentata nemmeno lui.
Ma perché non capisci che in montagna si compete solo e soltanto con sé stessi?
Eppure io accolgo la sfida, Yuri Plisetsky, forse perché non riesco a negarti nulla, o forse perché la roccia nera dell’Eiger canta agli alpinisti la stessa canzone che le sirene cantano ai marinai.
E se riusciremo a domare questo mostro e ad arrivare in cima, giuro che ti bacio.


*




Avevo rimandato la partenza il mese successivo, perché un’ascensione di quella portata non si prepara in sette giorni.
Avevo sospeso momentaneamente il mio lavoro di guida alpina, e mi ero dedicato a un allenamento mirato in palestra.
Avevo controllato lo stato dell’attrezzatura, avevo scritto una lista. Serviva un bivacco da parete, svariati cordini in kevlar, nut e friends, chiodi normali e chiodi da ghiaccio, una daisy chain, delle piastrine, un secchiello e un reverso, dei rinvii e una decina di moschettoni hms, tre anelli in dyneema, e naturalmente le corde doppie, i ramponi, le picozze, il casco.
Avevo chiamato più volte Yuri per confrontare il nostro equipaggiamento. Ad esempio, lui aveva tutti quegli affari elettronici come il gps, il barometro, l’altimetro, e un orologio da polso Garmin Fēnix 3 HR che svolgeva le stesse funzioni di queste tre cose messe assieme. Erano tutti aggeggi che non avevo mai avuto voglia di acquistare, io ero assai più tradizionalista e mi affidavo alla cara vecchia accoppiata bussola-e-cartina.
Entrambi avevamo studiato il percorso, informandoci su internet e setacciando le librerie. Ci eravamo passati documenti e relazioni, pagine scannerizzate da libri presi in prestito in biblioteca.
Passavamo intere notti su skype a pianificare ogni cosa, dalle banalità come la prenotazione dell’albergo e il viaggio in treno dall’aeroporto di Zurigo sino alla regione dell’Oberland, ai punti più critici come le tappe che avremmo dovuto fare durante l’ascensione, le cenge dove avremmo dovuto allestire i bivacchi, gli eventuali allacciamenti di fortuna alla via Heckmair, la più semplice tra tutti i tracciati che risalivano la Parete Nord.
E io, non so come, ogni volta che cercavo una relazione su internet venivo reindirizzato alle storie e ai documentari che parlavano di tutte le tragedie che si erano consumate su quella montagna.
Più di sessanta alpinisti sono morti sulla Parete Nord dell’Eiger. Sulle Alpi il rischio di valanghe improvvise è sempre presente. Il ghiaccio e la neve sono instabili, e una tormenta può arrivare in qualsiasi momento.
Spesso sull’Eiger a una bufera estiva segue un fronte freddo. L’acqua che scende sulla parete si congela, il ghiaccio riempie ogni sporgenza, crepa e fessura, e ricopre tutte le pareti rocciose.


Ma ormai ero seduto su un volo Lufthansa, un bicchiere di tè caldo stretto nella mano destra, i fogli con la stampa di diverse relazioni della direttissima Harlin stretti nella mano sinistra, e lo sguardo pensieroso che vagava fuori dall’oblò.
Dopo uno scalo a Francoforte e un secondo imbarco sulla Swiss Airline, nel giro di un’ora sarei giunto a Zurigo. Sicuramente non avrei tardato, gli svizzeri erano puntuali.
In ogni caso, ormai era troppo tardi per i ripensamenti.


*




Forse avevo bisogno dell’avventatezza, dell’incoscienza e dell’esuberanza di Yuri Plisetsky e dei suoi vent’anni per imbarcarmi in una simile impresa.
Ci eravamo incontrati in un bar dell’aeroporto. Lui era seduto su uno di quegli sgabelli con le gambe alte, le cuffie dell’ipod rigorosamente infilate nelle orecchie. Con un dito cincischiava lo schermo dell’iphone e talvolta gettava l’occhio sul tablet, poggiato sul tavolo accanto a un cappuccino e una brioche mangiata a metà. Aveva la bocca sporca di zucchero a velo.
Non appena mi aveva visto, aveva sorriso. Vedevo tanto di quell’entusiasmo nei suoi occhi verdi, che quasi mi sentivo in colpa per i miei dubbi e il mio nervosismo. Ma d’altronde tra noi era sempre stato così: io ero il freno, Yuri l’acceleratore. La volontà di Yuri di puntare sempre più in alto compensava la mia ritrosia e i miei eccessi di prudenza, e dall’altro lato la mia razionalità e la mia fermezza tenevano a bada i suoi spiriti bollenti, quando questi lo portavano a commettere delle imprudenze.

Dopo una catena di treni e autobus, e dopo altre quattro ore di viaggio, eravamo arrivati a Grindelwald, un paesello di quattromila abitanti situato a mille metri di altitudine, nella valle della Lütschine. Da lì eravamo riusciti a prendere l’ultima corsa della storica ferrovia dello Jungfrau, ed eravamo finalmente arrivati al valico di Kleine Scheidegg, dove sorgeva un’importante stazione sciistica.
Eravamo a 2061 metri sul livello del mare, e a quel punto 1800 metri di roccia scura e strapiombante ci separavamo dalla cima dell’Eiger.
Una volta scesi dal treno, anche con il buio riuscivamo chiaramente a distinguere il picco nero della montagna, la mole spaventosa della Parete Nord che ritagliava un enorme triangolo nero nel cielo stellato.
In quel momento, ricordo che ogni dubbio volò via all’istante, assieme al vento gelido che spirava dal ghiacciaio dello Jungfrau.
La roccia aveva iniziato a cantare.
Quando guardi una parete come quella, se sei un vero scalatore vuoi solo salire là in cima. Andarci a giocare.

Non riuscivo a dire niente, non riuscivo nemmeno a respirare con regolarità. Rimasi immobile sulla banchina della stazione di Kleine Scheidegg, in religiosa contemplazione, sovrastato dalla grandezza e dal richiamo della montagna.
Finché Yuri forò quella bolla di stupore che mi aveva avvolto e mi afferrò per un braccio, masticando qualcosa come forza muoviti, che a quel mostro ci pensiamo domani. Adesso pensiamo allo stomaco.

Eravamo alloggiati all’hotel Belleveu des Alpes. Una sistemazione fin troppo lussuosa per le nostre esigenze, ma nei giorni successivi avremmo dovuto trascorrere due notti in parete: un letto caldo e un pasto abbondante prima di iniziare la faticosa ascensione non avrebbe potuto farci che bene.
Ricordo che dovetti lottare contro l’impazienza e il troppo entusiasmo di Yuri. Lui avrebbe voluto partire la mattina successiva, ma io non avevo voluto sentir ragioni.
Era vero che le previsioni meteorologiche a lungo termine non erano affidabili, e che non avremmo potuto sapere se il tempo avrebbe retto a distanza di quattro giorni, ma era anche vero che eravamo spossati dal lungo viaggio, avevamo un debito di ore di sonno, e soprattutto era fondamentale che studiassimo il tracciato della via Harlin dal vivo, con i binocoli, il giorno successivo.
Avevamo discusso animatamente per tutta la serata, e non ero nemmeno riuscito a godermi il gulasch piccante e le crepes di farina di castagne con la ricotta che ci avevano servito. E dire che il gulasch era da sempre il mio piatto preferito, ma in quel momento, con la rabbia incastrata in gola, proprio non riuscivo a mandarlo giù.
Avevo lasciato il piatto pieno per metà ed ero salito in camera, lasciando Yuri da solo con la sua cena da finire e con la sua odiosa testardaggine. Mi ero buttato a peso morto sul letto, con lo stomaco che brontolava.
Perché Yuri non capiva? Non era la stessa cosa pianificare un percorso alpinistico su carta e osservare quello stesso percorso dal vivo, metro dopo metro, vedere il colore differente della roccia, l’azzurro del ghiaccio vivo e il bianco della neve, la pendenza delle rampe e la posizione delle cenge utili. Studiare la via quando si aveva una visione comprensiva della parete era fondamentale, perché una volta che ci si trovava attaccati alla roccia, e si diventava piccoli come delle formiche, era più che facile perdere il tracciato.
Avrei dovuto immaginarmelo, Yuri era troppo giovane e incosciente per affrontare un’ascensione di questa portata.
Stavo prendendo seriamente in considerazione l’idea di tornarmene ad Almaty la mattina successiva, quando Yuri era entrato in camera con le orecchie basse e la coda fra le gambe, e mi aveva chiesto scusa.

Dio, se riusciamo a chiudere la direttissima Harlin e ad arrivare in cima, giuro che ti bacio. Lo giuro, cazzo.
Perché sei talmente bello in questo momento, quando ti togli quella maschera da delinquente e ammetti di aver sbagliato, che mi fa male anche solo guardarti.


*




Ma Yuri Plisetsky era bello anche con i capelli biondi nascosti sotto il cappuccio della giacca, i muscoli tesi per lo sforzo, le guance rosse per il freddo e le labbra tagliate dal vento.
Anche con le forme del suo corpo nascoste dalla mole dello zaino da sessanta litri, dall’imbragatura e dai numerosi strati di vestiti.
Sì, anche con quella dannata GoPro installata sul casco, pronta a filmare i passaggi più ardui e vertiginosi della via.
Avevamo imboccato il sentiero di avvicinamento alle due del mattino, la luce dei frontalini in comunione con i raggi della luna ci rischiarava il cammino. Alle due e mezza stavamo già toccando la parete.
Ecco, la stavo toccando. Mi ero addirittura tolto il guanto per lasciare l’impronta della mia mano sulla neve fresca.
Ci scambiammo uno sguardo, io e Yuri, e per la seconda volta da quando ci eravamo rivisti lo vidi sorridere.
Ricordo che in quel momento, dentro di me, ripetei una battuta celebre.
So it begins. The greatest battle of our time.

Di comune accordo, avevamo superato i punti chiave della via con Yuri primo di cordata, perché quando si trattava di affrontare dei passaggi di settimo grado e oltre lui era molto più bravo e agile di me.
In qualche modo, mi dava sicurezza vederlo davanti a me, qualche metro più in alto. Mentre lo guardavo volteggiare da un appiglio all’altro, rinforzare le soste con pochi precisi colpi di martello, individuare con i piedi le tacche utili senza aver bisogno di guardare, lo ammiravo. Lo ammiravo tantissimo, e forse un po’ addirittura invidiavo la sua bravura e la sua leggerezza.
E nei momenti in cui toccava a me salire da primo, non ero mai tranquillo perché lui era sotto di me, perché spesso non lo vedevo e il vento forte mi impediva di sentire persino la sua voce.
Ma poi, ogni volta, il suo caschetto rosso sormontato dalla GoPro spuntava oltre lo sperone di roccia. Mi raggiungeva in sosta un po’ affannato ma con un sorriso contagioso, ci davamo la mano e ci impegnavamo a mantenere il morale alto per affrontare il tiro successivo.

La direttissima Harlin era per davvero il tracciato più difficile e pericoloso tra tutti quelli che risalivano la Parete Nord.
Circa ogni tre tiri di corda dovevamo fermarci, toglierci le scarpette da arrampicata e indossare gli scarponi e i ramponi, perché la roccia si ricopriva di neve e ghiaccio, per poi diventare di nuovo roccia, e poi ancora ghiaccio.
C’erano frequenti scariche di sassi e a volte addirittura piccole slavine, ma la verticalità estrema della parete paradossalmente ci proteggeva da tutto ciò che cadeva dall’alto.
Anche se ci fu un momento, mentre attraversavamo il secondo nevaio, a pochi tiri dal Bivacco della Morte e dal primo bivio con la via Heckmair, in cui ebbi davvero paura di perderlo.
Anche se ormai il sole era prossimo al tramonto e il momento della giornata più caldo in cui il ghiaccio si scioglie e i sassi cadono con maggiore facilità era già passato, venimmo investiti da una cascata di detriti rocciosi di piccole dimensioni, ma cadevano da una tale altezza che anche la pietruzza più piccola diventava un proiettile.
Sentii i fischi dei sassi che cadevano vicinissimi alla mia testa, senza colpirmi. Poi sentii uno strattone violento alla corda, e vidi Yuri una decina di metri più in basso scivolare in un turbine di neve farinosa. Conficcai la picozza nella neve ghiacciata con tutta la forza che avevo, e feci lo stesso con le punte dei ramponi. Non appena ebbi ritrovato una posizione stabile, chiamai il suo nome con tutta la voce che avevo in gola, cercando di sovrastare le raffiche di vento e il rumore assordante del mio cuore che sembrava volermi uscire dal petto e dalla bocca, tanto batteva forte.
Fortunatamente, pochi istanti dopo lo vidi recuperare la presa sulla neve, e alzare un pollice per dirmi che stava bene.
E io potei tornare a respirare.

Scoprii più tardi, quando finalmente raggiungemmo il Bivacco della Morte, che un sasso gli era caduto sulla tasca superiore dello zaino, mandandogli in frantumi l’iphone nuovo, ma risparmiandogli la testa.


*




È quasi impossibile spiegare che cosa significhi passare una notte in parete, a chi non abbia mai provato una simile esperienza. Il silenzio della montagna diventa così grande che è difficile da sostenere senza proferire parola.
D’altra parte, se si apre la bocca per parlare, si ha timore di spezzarlo, come se fosse un sacrilegio disturbare il respiro notturno della montagna con una risata, o una parola, con uno sbadiglio, con lo scatto dell’accendino o con lo sferragliare dei moschettoni contro la roccia.
Quindi, si rimane in silenzio.
Persino tu lo percepisci, il peso del silenzio.
Persino tu, Yuri, così giovane, così impaziente, così irrequieto, quando cala la notte e sei appeso su uno strapiombo di novecento metri, senti il respiro della parete ghiacciata, senti la verticalità incombere sopra e sotto di te, senti la libertà e la vertigine del volo delle aquile giocare tra il davanzale della cengia e l’immensità del cielo macchiato di stelle.
E allora, senza dire una parola, ti stringi nella tua giacca e poi ti stringi a me, ed entrambi ci stringiamo alla montagna come se fosse nostra madre.
Se moriremo, sarà un po’ come ritornare nel grembo materno.
Se arriveremo in cima, sarà un po’ come nascere una seconda volta.
E se arriveremo in cima, giuro che…


*




Era una cosa che non credevo possibile.
E forse, senza i vent’anni di Yuri Plisetsky, sarei invecchiato continuando a credere che non fosse possibile, per me, scalare la Parete Nord dell’Eiger.
Invece ora eravamo in cima, con le braccia alzate verso il cielo, alti sopra le nuvole, alti sopra i nostri limiti, alti sopra le nostre paure e sopra i nostri piccoli sciocchi litigi. Ogni cosa diventava così piccola, quando arrivavi così in alto.
Persino la vita stessa diventava insignificante, lontana. Avremmo potuto morire in quel momento che saremmo stati felici.
Ma eravamo vivi, vivi, vivi, con il mondo sotto i nostri piedi e gli occhi bagnati.
E due occhi non ci bastavano per abbracciare l’immensità del cielo, della neve che scricchiolava sotto i denti dei ramponi, delle cime ci ruotavano attorno e bucavano l’oceano di nuvole.
E prima che Yuri mi rubasse lo smartphone dallo zaino per scattare un selfie da spedire in Canada, io mantenni la mia promessa.










© Damian in Asturias











«Otabek?»
La sua voce giunse alle mie orecchie quando ormai ero sul punto di addormentarmi. Riemersi dal dormiveglia e mi voltai verso di lui, cercando di districarmi da quel groviglio di lenzuola stropicciate.
I raggi della luna filtravano attraverso le tende della stanza, rendendole simili a degli spettri. Ero immerso in un calore umido e in un odore pungente ma familiare che non mi procurava alcun fastidio, così come non mi procurava alcun fastidio il tocco della neve, del ghiaccio e della pietra, per quanto potesse essere freddo e ruvido.
Lui mi guardò, rimase in silenzio per qualche secondo, poi disse: «grazie».
Grazie.
Grazie per cosa, Yuri Plisetsky?
Perché ti ho portato sull’Eiger? Perché ti ho baciato? Perché abbiamo appena finito di fare l’amore?
«È stato il momento più felice della mia vita», disse ancora, prima di chiudere gli occhi con un gran sospirone.
Anche per me lo è stato Yuri, e scusami, ma non puoi dormire ancora, perché devo dirtelo.
«Yuri…»
«Hm?»
Lui aprì nuovamente gli occhi, e sbadigliò senza curarsi di mettere la mano davanti alla bocca.
Lo adoravo.
«Sono così felice che, più che avere appena scalato una delle pareti più difficili del mondo con te, mi sembra di aver appena fatto un bambino con te…»
E lui rise.
Quella risata non me la dimenticherò mai.
«La prossima estate voglio assolutamente provare il traverso Hinterstoisser sulla via Heickmar».

La mattina successiva, alle cinque e mezza eravamo già sulla terrazza dell’hotel, con un piattino di meringhe e biscotti al burro e una tazza di cioccolata calda che ci riscaldava le mani.
Gli zaini erano già pronti, aspettavamo solo che arrivasse la prima corsa dello Jungfraubahn, e dentro di noi speravamo che non arrivasse mai.
Entrambi ce ne stavamo in silenzio, a ripercorrere con lo sguardo quella parete spaventosa dove non batteva mai il sole. Ricalcavamo con gli occhi il percorso della direttissima Harlin, fino ad arrivare al picco più alto, frustrato dai venti e sormontato da un’onda di neve.
Ora l’Eiger cantava più piano, quasi non si sentiva.

Quando arrivò il treno, ci lasciammo alle spalle la sua figura maestosa con la promessa che, l’estate successiva, ci saremmo salutati come vecchi amici.











Decidiamo di affrontare tutto questo, non solo le difficoltà, la fatica e il dolore, ma anche il rischio della vita.
Mettiamo in gioco tutto, per un sogno.
Per qualcosa che non vale niente, che non si può mostrare a nessuno.
È solo quel breve istante sulla vetta.
Quando scendiamo a valle, è già svanito.


(tratto da "Il Richiamo del Silenzio" di Joe Simpson)











Note:

● Chiedo scusa per la sovrabbondanza di termini tecnici, spero che non abbiano intralciato troppo la lettura. Lascio di seguito un minuscolo glossario solamente di quei termini (in ordine di apparizione) che risultano in qualche modo utili alla narrazione:

Grandes Jorasses: gruppo di cime nel massiccio del Monte Bianco a dominio della Val Ferret. La cima più elevata, la punta Walker, raggiunge i 4206 m.
Goretex: tessuto sintetico dalle alte capacità impermeabili e traspiranti.
Falesista: dicasi arrampicatore votato principalmente all'arrampicata sportiva, la quale si differenzia dall'arrampicata tradizionale in quanto le assicurazioni (i chiodi) sono già stati fissati in precedenza sulla via di roccia.
Big wall: una parete di roccia estremamente lunga e verticale che di norma richiede più di un giorno per essere scalata, con conseguente necessità di allestire bivacchi in parete.
Gulasch: piatto originario della cucina ungherese, spezzatino di carne (generalmente bovina) molto speziato.


E spero di non essere risultata arrogante o pretenziosa con questa AU davvero molto insolita. Il mio intento era soltanto quello di unire l’affetto che provo per questi due personaggi all’amore imperituro che nutro per la montagna.
Le frasi in corsivo sono tratte da L’eco del silenzio, un film-documentario diretto da Louis Osmond, con Joe Simpson.
So it begins. The greatest battle of our time. : citazione tratta da Il Signore degli Anelli, Il Ritorno del Re.
Infine, vorrei ringraziare con tutto il cuore chiunque sia arrivato in fondo a questa storia
   
 
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