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Autore: Sarah M Gloomy    07/02/2017    0 recensioni
Ultimo capitolo della serie The Exorcist.
Gli esorcisti sono tornati in vita e devono fare i conti con la loro nuova natura. Hanno un nuovo obiettivo, quello di distruggere il loro vecchio Ordine, ma qualcosa non va come dovrebbe.
Genere: Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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10 ANNI DOPO.
        Sono passati 10 anni. Dieci anni in cui i nostri corpi sono rimasti pressappoco invariati. Mi crescono i capelli, circa mezzo centimetro l’anno. Non posso essere più precisa. I capelli sono la parte di me che mi preoccupa meno. Sono la stessa ragazza che è stata seppellita, eppure sono cambiata. Nel mio sguardo le persone vedono qualcosa che io intravedo appena, qualcosa che ha a che fare con la saggezza e la sofferenza. Non mi danno più sedici anni, anche se fisicamente rimangono sconcertati da me. Sono piccola, sono magra e la mia voce ha ancora quell’inflessione, non bambina non adulta.
Gli altri sono uguali a come li ho sempre ricordati. Anche loro, però, hanno qualcosa nello sguardo. A lungo andare, avere sempre la stessa persona allo specchio stanca. Forse i nostri corpi cambiano, ma lo fanno lentamente. Un qualcosa che a sedici anni non avevo neppure pensato, adesso mi pesa. Non ho un ciclo mestruale da quel giorno, e significa che la mia eredità finisce con me. Ho sempre pensato che la maternità non fosse un mio problema, ma mi sbagliavo. Tutti fanno i conti con i loro capricci.
Penso sempre ai figli quando guardo quei ragazzi che giocano a calcetto, facendo slalom tra le immondizie. Il più alto è anche il più giovane. Ha dei capelli biondi, tagliati molto corti, e un sorriso che non si estende mai agli occhi. Nei suoi diciassette anni, è molto attraente. «Ed!»
Il ragazzo si gira e calcia il pallone in direzione del suo compagno. Vedere mio fratello grande è un piacere. C’è ancora qualcuno che continua a portare con sé il sangue di Dalila, anche se in realtà è quello di Malachite. Lei è sempre stata invidiosa della mia vita, ma non ha mai capito che era proprio l’opposto. Vivere senza nessuna aspettativa, nessun ordine, nessun rituale. Vivere per il solo fatto che ci era concesso la vita.
Socchiudo gli occhi, abbandonando il mio peccato. Non dovrei avvicinarmi a lui. Aveva sette anni quando sono morta, però è cresciuto con le mie foto. Lo so perché ogni tanto entro nella mia vecchia abitazione per annusare gli abiti di mamma e papà, cercando di aggrapparmi al loro profumo. Mi fermo a guardare la loro stanza, che cambia poco a poco, al mausoleo che è stata creata nella mia, perché niente è stato toccato. L’ho fatto anche con nonna, prima che la vecchiaia me la portasse via. Ho avuto l’onore di esorcizzarla. E lei, da brava Wright, mi ha sgridato finché non è ascesa perché, ovviamente, sarei dovuta andarla a trovare. Chase lo ha ripetuto non so quante volte in questi dieci anni: i morti non devono farsi vedere.
Ho le mie scusanti, in verità. Ho una promessa da mantenere che mi obbliga a rimanere in questa città, una promessa che dal richiamo nella mia testa si sta per compiere. Sono combattuta. Odio e amo Lubris. Voglio andarmene ma sono troppo attaccata al suo essere materiale che pensare di staccarmene mi lascia inerme.
Sospiro, incamminandomi. Sento ancora le urla e gli scherzi, la voce di mio fratello arrochita. Vorrei andare da lui con false speranze, sedermi a tavola con la mia famiglia e parlare come una volta. Mi è stato portato via tutto. L’ho capito, alla fine.
Patirete il senso dell’abbandono.
Il Tribunale degli spiriti sa sempre portati via quello che ti fa più male. Quando la mia famiglia era morta, mi aggrappavo ai ricordi che mi sono stati strappati; ora che è viva, mi impediscono di avere una linea normale. Vivrò per secoli, molto probabilmente. Vivrò più a lungo di Edward e dei miei genitori. Molto più a lungo.
L’ospedale è in subbuglio. Varco l’entrata del Pronto Soccorso, dove una donna se ne sta seduta sulla sedia, reggendosi la mano insanguinata. Mi guarda appena, perché ho preso l’abitudine di appoggiare lo sguardo sulle persone per una manciata di secondi. Troppo poco tempo. Una donna, probabilmente un medico, sta dando delle indicazioni a un ragazzo in divisa, poco più vecchio di lei. Lui annuisce, poi scatta e si dirige verso una porta riservata al personale.
Arriccio le labbra al sapore pungente di disinfettante, mescolato a quello del sangue. Giro appena la testa per vedere una vecchietta sorridente, seduta su una sedia, con la testa che dondola a destra e sinistra. Non sono venuta qui per te.
Me lo ripeto, ma le mie gambe si avvicinano lo stesso. Si concentra sulle mie mani, le stesse che al principio odiavo. Le mani lampeggianti, le mani degli esorcisti. Alzo una mano, allungandola come se volessi toccarle il volto. Si irrigidisce, così l’abbasso e le faccio cenno con la testa di seguirmi.
Si muove con difficoltà, aggrappata a qualche ricordo umano. Forse lei non camminava, forse lo faceva solo con il bastone. È troppo lungo spiegare ogni volta che come spiriti sono liberi da restrizioni. E, in ogni modo, è un qualcosa del tutto passeggero.
Spingo una porta, mi intrufolo in una zona il cui accesso è consentito solo di giorno. Nessuno mi ferma. Cammino per un enorme corridoio, cui fanno eco solo i miei passi e il rumore delle macchinette con le vivande. Abbozzo un sorriso. Eliza va matta per il caffè. Mi manca così tanto sentire l’aroma per il suo appartamento che infilo le monete per prendermi quella bevanda. Ovviamente, alla prossima telefonata non le dirò che mi manca. So che ci manchiamo tutti. È per questo che abbiamo deciso di ritrovarci, il prima possibile.
Prendo il caffè caldo non zuccherato, sorseggiandolo. «Adoro il profumo del caffè.»
La vecchina mi sorride. Deve essere stata una donna calma e placida in vita. L’opposto esatto di mia nonna, troppo energica. Cavolo. Lo è stata anche mentre la esorcizzavo. È bello, perché il dolore lascia spazio solo per i bei ricordi. Mi siedo in una poltroncina. Vorrei dire che ho tutto il tempo di questo mondo, ma un nuovo richiamo alla testa mi dice che non è così. Di nuovo, prendo ciò che reputo giusto. «Sta bene?»
La signora mi sorride, avvicinandosi a una poltroncina con passo malfermo. «Sì, sto bene.»
C’è stato un tempo che esorcizzavo senza chiedere nulla alle persone. Un tempo in cui la rabbia di essere ancora qui mi spingeva ad andare avanti. È successo dopo la morte di Johannes, quando ci siamo ritrovati senza scopo. Rabbia, ancora rabbia.
Sono cresciuta? Non saprei. Gli spiriti che faccio trapassare sono sempre meno, la città sta tornando finalmente alla normalità e non pullula più di fantasmi come un tempo. Una volta morti tutti, tra una o due generazione, è probabile che Lubris ritorni una semplice città. Nessuno vedrà più gli spiriti.
Mi scaldo le mani, indolenzite dal freddo. «Vorrei aver più tempo per lei, ma mi stanno aspettando.» A conferma di ciò, una nuova pungolata. La ignoro. «Io sono un’esorcista. Immagino che lo abbia già capito.»
Si appoggia ai talloni, emettendo un piccolo sospiro. Le persone anziane mi sorprendono sempre. Non tentano di negare l’ovvio, non mi dicono che sono vive e che devo andarmene. La vecchina mi sorride appena, e io aspetto. Le sorrido a mia volta. «Me lo dica.»
   «Dirai ai miei figli che gli volevo bene?»
Sono queste emozioni che mi fanno mancare gli altri. Mi manca pure la stronzaggine di Jamar, o gli ammiccamenti di Philippe quando fa un servizio fotografico, consapevole che per Chase ogni dimostrazione della nostra esistenza è un pericolo, perché è facile collegare il suo volto a quello di un giovane modello morto dieci anni prima, anche se è diverso il nome … è diverso il colore dei capelli. E degli altri, beh, mi mancano anche senza queste richieste. Mi immagino Julia, ovunque lei sia, in qualunque città, mentre alza gli occhi al cielo e sbuffa. A Warren che aiuta e ruba, in un circolo che non comprende più cosa è giusto in questo mondo e cosa no. Alzo la mano sinistra, in un gesto fatto così tante volte che ha perso la sua carica mistica. Mento, perché le famiglie già lo sanno quello che provano i morti. L’ho capito, alla fine, mentre guardavo vivere i miei. Hanno sempre saputo che li amavo. «Lo farò. Primo esorcismo: catene della purificazione.»
Accartoccio il bicchiere e lo butto nel cestino. Sorrido al pensiero di Robert, al suo sospiro ogni volta che riceve compiti del genere, mansioni che esegue puntualmente non prima di aver borbottato che lo fanno stancare troppo. Perché è vero che non facciamo parte più dell’Ordine, ma ubbidiamo ancora a degli ordini, facciamo ancora i nostri vecchi rapporti.
Prendo l’ascensore, primo piano. Mi infilo nel corridoio del reparto, accedendo a una porta che era stata appena socchiusa. Sento le voci delle infermiere dall’altra parte del corridoio, bisbigli e risate della notte. Seguo i miei pensieri ed entro in una stanza a un posto. La ragazza è addormentata sul letto, gli elettrodi collegati al monitor mi avvertono della sua attività cardiaca. Il suono è spento, ma immagino che se fosse acceso sarebbe un bip continuo. Muove impercettibilmente una mano, legata al letto con un polsino.
Ha pochi capelli, stopposi e sporchi, di un rossiccio bruno. Sono stati tagliati in modo asimmetrico, delle ciocche le cadono ribelli ai lati del viso scarno. Le lentiggini evidenziano di più la pelle pallida di una persona malata. Come se la fasciatura al collo potesse passare inosservata. Ha tutto l’aspetto di qualcuno che è aggrappata alla vita da un filo. È un palloncino che non vede l’ora di andare in cielo.
Un sospiro, poi Lie mi si avvicina con calma. Alza un sopracciglio, guardando la ragazza. «Mi avevi detto di chiamarti se riprendeva conoscenza.»
Annuisco e lui indica il monitor. «Te l’ho spento.»
   «Non sono un’assassina.» È l’unica certezza che mi è rimasta.
Lui alza una mano, uscendo dalla stanza. «Sono un vizio, Dalila. Non giudicherei mai una tua azione.»
Mi siedo sulla poltrona. Nessuno le fa assistenza, nessuno la viene a trovare. Un tempo aveva una famiglia, degli amici. Lentamente, ha allontanato tutti e tutto per rifugiarsi in un mondo in cui ho potuto introdurmi indisturbata.
Muove la testa, gli occhi le si aprono. Le sorrido. «Ciao Susan.»
Emette dei gemiti rochi. Una bella fregatura. Le allontano il campanello di chiamata, stringendolo in mano. Le sue corde vocali sono danneggiate, quindi emette dei rochi bisbigli, che posso ignorare di sentire. Le appoggio una mano sulla spalla e premo quel tanto da farle sentire un po’ di male. Stringe le labbra e quel poco di colore le svanisce. Smette di muoversi e di rantolare. Allento la presa. «No, non agitarti. Sai che non sono qui per farti del male. Ti ho portato io in ospedale, ricordi? O forse no …»
I suoi occhi guardano me e la porta, nervosamente. Continuo a bisbigliare. «È solo una visita di cortesia, per vedere come sta la mia sorellina. O la mia cuginetta. In tutti questi anni non ti ho mai chiesto come preferissi essere etichettata.»
Apre la bocca, nell’attimo in cui io smetto di parlare lei sillaba «Basta». Annuisco. «Basta. Sai, Susan, cosa si prova a morire annegati? No, non lo sai. Non lo so neppure io, perché quando è successo devo aver perso conoscenza prima che l’acqua mi entrasse nei polmoni. So cosa si prova essere bruciati nel rogo. E sai che si prova a essere torturati? O impiccati? O avvelenati? Anche noi abbiamo chiesto che ci fossero risparmiate delle sofferenze.»
Le infilo il campanello in mano, così può chiamare le infermiere. Con un movimento veloce slaccio il polsino e si ritrova magicamente libera da ogni restrizione. Metto la mano in tasca, estraendo una pistola carica. La appoggio sul tavolino davanti a lei, dove le hanno messo un giornale e una bottiglietta d’acqua. Con un fazzoletto cancello le mie impronte, la mia sicurezza prima di tutto, alzandomi dalla poltroncina. Lei mi guarda, con aspettativa. No, non glielo dirò. Le avevo promesso che l’avrei salvata dalla morte sette volte. Non le dirò che questa è l’ottava, che è libera. Non le dirò che l’ho perdonata da tempo, che se continuo a salvarle la vita non è per la mia vendetta, ma per impedire che gli altri mi considerino debole. Non le dirò che spero che abbia la forza di vivere ancora, così posso rimanere ancora a Lubris, guardando la mia famiglia vivere la vita in cui io non potrò mai entrare. Non le dirò che ogni volta in cui tentava il suicidio, ogni volta, speravo che fosse un po’ più forte perché è la vita che dimostra quanto sei forte, non la fuga. Non lo dirò.
Le sorrido, consapevole da come abbandona la sicurezza del campanello che questa è l’ultima volta che ci vediamo. Lei non si reincarnerà. Quando verrà il momento, non lo farò neppure io. «Ciao, Malachite.»
Esco e percorro il corridoio. Apro la porta che conduce al corridoio e sento lo sparo. Poi qualcosa mi colpisce, lasciandomi inerme a fissare la porta che ho chiuso alle mie spalle. È finita.
Finita.
Credevo che mi sarei sentita meglio. Quando l’ho minacciata, credevo che la mia natura chiedesse la vendetta. Perdere i miei compagni, la mia famiglia, per due volte; vedere il corpo inerme di Oppius e combattere perché la sua anima rientrasse nel corpo … ero davvero convinta che mi facesse sentire meglio.
Esco dall’ospedale, l’aria mi colpisce e mi accorgo di avere freddo al viso. Mi passo una mano sulle guance umide. Oh, guarda: lacrime.
Un ragazzo sta aspettando, seduto sul cofano della macchina. Ha calcato un capellino in testa, le braccia conserte. Indossa un paio di pantaloni e un maglioncino scuro, impersonale e, soprattutto, che non attira l’attenzione. Quest’ultimo punto è fondamentale, ma non so quanto uno come lui possa passare inosservato. Mi avvicino. «Sono prevedibile?»
   «Qualche volta.»
Chase non chiede nulla. Ha visto le lacrime e so che gli importa. Sospira, infilandomi una mano sui passanti dei jeans e appoggiando una mano sul mio sedere. Ridacchio, perché quando fa gesti così umani è l’unica cosa che penso. Al fatto che qualche volta, noi siamo ancora umani. Gli passo una mano sui capelli, sfilandogli il cappello. «Ce ne andiamo?»
   «Solo se lo vuoi.»
Avremo dovuto andare via con gli altri. Robert è stato l’ultimo di noi a lasciare Lubris, e sono passati ormai tre anni. Le sue chiamate sulla bellezza dell’Italia e su quanto è cambiata dal 1400 stanno diventando monotone. Lui ha aspettato per me. Non si è unito a Jamar quando si è diretto in Perù, seguendo le notizie in internet che parlavano di strani fatti. Né Julia quando ha deciso di andare verso l’Europa, meta da decidere durante il volo. E per quanto abbia detto che doveva controllare Philippe, anche lui è stato libero. Per non parlare di Warren ed Eliza, le cui chiamate sono intervallate da frasi che ci dicono, senza senso, apprese da qualche cultura. Forse giapponese. Forse cinese. Ormai è un rituale dirgli di parlare un idioma comprensibile.
Mi inumidisco le labbra con la lingua, prima di baciarlo. Ha un tocco gentile, un sapore che non mi stanco mai di assaggiare. «Partiamo.»
Struscia il naso sulla mandibola, e lo fa consapevole di mandare il cervello in avaria. «Destinazione?»
   «Non importa. Tanto invecchiamo lentamente.»
Ridacchia, facendo cenno di salire in auto. Guardo distrattamente nei sedili posteriori, dove Arrogance fa una faccia disgustata per le smancerie e Lie si guarda ostinatamene i piedi. Chase si chiude la portiera, facendo rombare l’auto. L’ho detto che è rubata? Ho smesso da tempo a pensare inezie del genere. Non c’è nulla che considero mio.
Infilo le mani sulla borsa ai miei piedi, alzando un sopracciglio. Mi conosce bene, perché abbiamo passaporti con nuove identità. Conto i documenti e sorrido.
   «Come mai sorridi?»
   «Niente. Sono felice di rivederli.»
Appoggio la testa al vetro, guardando gli edifici sfilarci davanti. Ho attraversato questa strada un sacco di volte, a sedici anni. Incontravo Mary, parlavo con Carlos, litigavo con Julia. E poi andavo a scuola, studiavo, facevo le attività extrascolastiche. Credevo di aver una vita complicata, non vedevo l’ora di crescere. Cerco di guardare ancora, finché il semaforo alle mie spalle non scatta di rosso. Ricordo che ho urlato perché Ridley stava per essere investito. Stupida. Investire un fantasma.
E poi è iniziata. Li ho ritrovati. Ho perso persone della mia vita, ho ritrovato vecchi amici e, a ventisei anni, non ho molte scelte di cui mi pento. Non mi pento di aver salvato Ridley. Per quanto vada a giorni, non mi pento neppure di aver esorcizzato Carlos. Non mi pento di aver fatto un patto, tra la mia anima e quella di papà, perché sono convinta che quello gli abbia permesso di svegliarsi quando sono morta.
Allaccio la mia mano a quella di Chase, lui abbozza un sorriso.
No. Non mi pento di vivere.
Questa sarà la mia ultima grande avventura. E, chi può dirlo? Magari è la volta buona che esorcizziamo tutti i fantasmi del pianeta. Quella promessa la ricordo ancora.
Se vi chiedessi, a guerra finita di venire con me voi accettereste?
Senza alcun dubbio. Ne sono sempre stata convinta. E la fanciullezza di quando accettai quella proposta si è evoluta, pur lasciando la risposta immutata. Con le vite che ho vissuto poi, so che quel giorno sono stata molto ingenua perché una guerra è sempre una guerra.
Tuttavia, ci sono tanti tipi di battaglie. Noi siamo sempre esseri, non vivi e non morti, che permettono alle anime il trapasso. In questo nuovo secolo, siamo quello che dovevamo essere. Non siamo mai stati pienamente mortali, ora ancora di più.
Ci sono le battaglie dei vivi, le guerre, le malattie.
E poi ce ne sono di altri tipi, quelle che non si sa di combattere, quelle che ti lasciano la soddisfazione di averla combattuta anche se non vinci mai. Noi siamo schierati per quelle guerre, a favore dei perdenti. Perché di una cosa abbiamo la certezza … le battaglie delle anime non hanno mai vincitori.
 
   
 
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