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Autore: Hiroshi84    08/02/2017    4 recensioni
Io e mia sorella avevamo un bel coniglietto.
Era bellissimo, tenerissimo, bianchissimo e morbidissimo. Lo chiamammo Bianchino.
Un giorno, però nella casetta di campagna dei miei nonni...
Genere: Drammatico, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Avevo otto anni, abitavo a Termini Imerese assieme ai miei genitori e a Cettina la mia sorella minore. Eravamo originari della provincia di Messina ma a causa del lavoro di mio padre, ci stabilimmo da tempo in quella ridente cittadina della provincia di Palermo.
Un giorno, io e mia sorella, manifestammo il desiderio di poter avere un cagnolino da accudire e da portare a passeggio. Mia madre, alla nostra richiesta, si dimostrò contraria poiché detestava gli animali, tanto da ripeterci:
«L'acquario con i pesciolini basta e avanza!»  
Mio padre, avendo invece un carattere accondiscendente, stava quasi per accontentarci ma per evitare discussioni, trovò una soluzione congeniale.
Una sera, poco prima di Natale, rincasò con una gabbia in mano e con un curioso animaletto all'interno. Si trattava di un coniglietto, un regalo di un suo amico allevatore.
Era bellissimo, tenerissimo, bianchissimo e morbidissimo. Lo chiamammo Bianchino. Non era proprio ciò che ci aspettavamo però non ci importava in quanto per la prima volta in casa avevamo una bestiolina tutta per noi.
Mia madre, eccezionalmente, tollerò il nuovo arrivato, a patto che ci prodigassimo ad accudirlo costantemente, dandogli da mangiare, da bere e soprattutto all'occorrenza pulirgli la gabbia. Potevamo lasciarlo saltuariamente libero soltanto nel balcone e nel corridoio. Guai se fosse entrato nel soggiorno, in cucina o nelle camere da letto.
Bianchino ci riempiva le giornate, lo accarezzavamo, lo baciavamo, lo prendevamo in braccio e ci giocavamo tantissimo. Tra le varie cose, lo viziavamo con il cibo (lattuga, grissini, crackers, carote etc.) tant'è che da una piccolo batuffolo bianco col tempo divenne una palla di pelo bianco. Per noi appariva sempre e comunque il nostro piccoletto.
In estate, mio padre ci annunciò che avendo due settimane di ferie a disposizione, saremmo andati a passare le vacanze nel messinese, precisamente dai nonni paterni nella loro casetta di campagna situata a Centineo. Ogni anno avevamo questo graditissimo rituale e per di più con l'occasione di rivedere i parenti. Eravamo felicissimi, in particolar modo io e mia sorella dal momento che pregustavamo i giochi da fare all'aperto assieme ai nostri cuginetti. Ovviamente dovevamo portare il coniglietto con noi, d'altro canto chi avrebbe pensato a lui in quelle due settimane fuori casa?
Una volta sistemati i bagagli nel cofano della Hyundai rossa di papà, salimmo in macchina e come la più classica delle allegre famigliole, partimmo in una soleggiata mattina di Agosto.
Agli inizi degli anni novanta, l'autostrada non copriva l’intero tratto Palermo - Messina e fummo costretti da Cefalù in poi a percorrere strade e stradine secondarie impiegando non poco tempo per arrivare a destinazione. La principale preoccupazione era che il coniglietto ne avrebbe risentito per il caldo torrido e non di rado aprivo la gabbietta soffiandogli e accarezzandolo dolcemente.
Finalmente, verso le undici, arrivammo dai nonni. Fu festa grande in quanto ci erano mancati molto e come già detto avremmo passato una quindicina di giorni spensierati e in pieno relax.
 
Mia nonna si accorse  all'istante della gabbia che tenevo tra le mani e la osservò con curiosità.
«Guarda cosa ti abbiamo portato!» annunciai candidamente.
«Oh, un cunigghieddu!» esclamò.
«Io e Peppe te lo affidiamo. Pensaci tu!» disse Cettina.
Fu il nonno a prendermi la gabbia, per appoggiarla sopra il tavolo della cucina e per divertirsi a giocare con Bianchino inserendo alcune dite attraverso le sbarrette.
I parenti non tardarono ad arrivare e ci salutammo tutti quanti festosamente. C'erano i tre fratelli di mio padre, le rispettive mogli e i miei numerosi cugini, difatti, per l’occasione i nonni volevano che le famiglie fossero lì presenti per il pranzo.
Io, Cettina e gli altri bambini, andammo per qualche ora a scatenarci in campagna per poi essere chiamati alcune da una zia per via che era quasi pronto in tavola. Tornammo a casa affamatissimi.
«Che fame! Che hai preparato di buono?» domandai con impazienza alla nonna.
«A pasta cu furnu e canni, niputeddu miu! (Pasta al forno e carne, nipotino mio!) »
«Nonnina, dov'è Bianchino?» chiese mia sorella.
«Viniti cu mia che vi fazzu a vidiri unni ieni. (Venite con me che vi faccio vedere dov’è.) » le rispose.
Entrammo in cucina, e fummo invasi da un piacevole odore di arrosto. Mia nonna aprì il forno e trovammo il nostro amore in una teglia fumante strapiena di patate, pronta per essere servita per il pranzo. Io e mia sorella scoppiammo in lacrime, urlando come dei forsennati e sbraitando a più non posso.
I nostri genitori e i parenti in seguito si giustificarono dicendo che non ne sapevano niente delle intenzioni della nonna e che si trovavano in campagna a fare delle passeggiate e a chiacchierare.
«Fozza settamuni e manciamu. Pu un cunigghiu stati facennu troppu buddellu! (Forza sediamoci e mangiamo.) » Per un coniglio state facendo troppo bordello.) si limitò a dire la nonna con superficialità.
Mia madre abbracciò Cettina e il sottoscritto con l’amorevole invito a stare calmi nonché con la promessa che in seguito ci sarebbe stato un altro coniglio. Anche gli zii furono decisamente affettuosi, mentre i cugini ci sbeffeggiavano in maniera insensibile.
Appena seduti a tavola, io e Cettina un po’ per protesta e un po’ per rabbia optammo per il digiuno. Praticamente una specie di sciopero della fame. Cettina però cedette quasi subito, davanti ad un bel piatto di pasta al forno non seppe dire di no, dapprima facendo la difficile mangiando lentamente alcune pennette per poi svuotare avidamente tutto il piatto. Ed infine, piagnucolando si alzò dalla sedia per sdraiarsi sopra un vecchio divano.
Io invece resistei stoicamente fino al secondo.
Visto che l’intera teglia di pasta al forno risultava vuota, restava unicamente il secondo ma non mi andava nella maniera più categorica di cibarmi di quell'arrosto. Gli altri, compresi i miei genitori, al contrario, non si crearono scrupoli e divorarono con gusto il povero Bianchino, mentre io, in mancanza d'altro, mangiai schifato solo le patate di cui facevano da contorno alla “vittima sacrificale.” A peggiorare le cose fu un mio cugino più grande che mentre si ingurgitava di carne, con malignità si mise a cantare “Coniglietto” una celebre canzone sentimentale dei Romans.
«No coniglietto no è stato bello rimani, rimani qui…» questa fu la strofa che con antipatia lo stronzo canticchiava ripetutamente.
Già, poverino. Coniglietto no!
 
 
   
 
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