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Autore: Cottage    13/02/2017    1 recensioni
Una banconota da 100 Pokè oscillava costantemente davanti ai miei occhi. "Ecco, questa è una cosa sospetta" avevo quindi detto, a Daisuke, il quale l'aveva già superata, non badandoci e dicendo "Sbrigati che siamo quasi arrivati"
Io, per tutta risposta, avevo sorriso, ridendo della mia distrazione "Hai ragione, scusa, si vede da lontano un miglio che questa è una trappola!" Quindi, dal nulla, erano scese altre banconote da 200 e 300 Pokè. "Oh, beh, direi che questo è un gran colpo di fortuna" Avevo ammesso, cambiando idea a facendo voltare un Daisuke stupito. Il mio lato taccagno aveva preso il sopravvento. Sembravo una bambina a cui la mamma aveva comprato un sacchetto di caramelle. Tante caramelle.

Madeleyne, Maddy, Madd-madd, chiamatela come più vi sembra comodo, è una ragazza normale (?), leggermente sarcastica e taccagna, che da un giorno all'altro decide di diventare allenatrice di Pokèmon e partire per una nuova regione.
In questo lungo -sì, si preannuncia lungo- viaggio incontrerà amici e nemici, persone divertenti e strambe e capirà che, dopotutto, stare chiusa in casa non è poi così divertente…
Genere: Avventura, Comico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Manga, Videogioco
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~ Pista (In)Ciclabile II ~
 
 

Per un momento, nel sentire l'urlo acuto di Rattata, mi domandai se non avessi commesso un orribile sbaglio; poi il terreno prese ad inclinarsi ed il mio corpo a scendere giù, rapido e senza intoppi.
Eravamo capitati in uno scivolo.
 
Le grida che mi proruppero dalle labbra andarono a sommarsi a quelle del pokémon, con la sola differenza che le mie erano di diletto, mentre le sue di terrore.
Certo, ero ben conscia del fatto che da un momento all'altro il condotto sarebbe potuto crollarci addosso rendendoci ottimi candidati alla fossilizzazione. Tuttavia la situazione era troppo surreale perché io potessi prenderla sul serio, perciò decretai che se il mio destino fosse stato quello di essere riportata alla luce ed esposta in un museo, tanto valeva morire indossando un'espressione gioiosa.
 
La mia allegria terminò quando lo fece anche lo scivolo. Con l'impatto il mio corpo venne sbalzato in avanti e costretto a ruzzolare senza controllo. Una serie di ‘Ouch!’ e ‘Agh!’ presero il posto delle vecchie risa, finché dopo cinque – otto? dodici? – capriole il mondo parve avere pietà di me e smise di girare.
Rimasi stesa su quel pavimento – freddo, irregolare e puntellato da sassolini aguzzi che mi si erano conficcati nelle braccia, nelle gambe e nella schiena - il tempo necessario per perdere i sensi, svegliarmi, girarmi di lato per vomitare e chiudere di nuovo gli occhi.
 
Rattata ad un certo punto doveva essersi stancato di aspettare, perché quando mi ripresi fu per un suo morso alla guancia; non tanto forte da sradicarmi la faccia, ma abbastanza vigoroso da farmi strillare e coprire il volto con le mani.
"Rattata, ma che cavolo— di solito bisogna baciare le giovani fanciulle dormienti, non mangiare loro la faccia!"
"Ratta! Ta!"
"...touché. Nemmeno io mi bacerei."
"Rat."
"Però come principe fai schifo."
 
Mentre mi ripulivo le labbra con una manica attivai la torcia del Pokédex, cercando di dare un senso all’oscurità che ci circondava.
Lo scivolo terminava in un tunnel deserto se non per degli affusolati funghi bianchi che sbucavano a mazzi dalle sue pareti. L’aria era pesante ed umidiccia, tanto che dovetti passarmi il dorso della mano sotto al naso per evitare che gocciolasse.
Mettendomi in bocca Dexi, provai a risalire il condotto dalla quale eravamo discesi, invano: dopo appena quattro passi mi resi conto che il successivo tratto di tunnel era troppo ripido per essere scalato e mi lasciai scivolare fino a terra.
Rattata sollevò le orecchie, in attesa del mio resoconto.
“È impossibile tornare indietro.” Alzai lo sguardo, concentrandomi sulla parete opposta allo scivolo: lì le pareti rocciose si stringevano fino a formare un passaggio angusto, ma che appariva essere praticabile. “A questo punto non possiamo fare altro che proseguire”.
Con la punta del piede diedi una spinta al pokémon, avvicinandolo al cunicolo. Rattata emise un versetto indispettito, a cui replicai facendogli notare che, come topo dotato di vista notturna, avrebbe potuto avvertirmi di eventuali pericoli lungo il percorso.
Con un piccolo sbuffo – dovuto al compiacimento per essere stato, in un certo senso, definito superiore alla mia persona – Rattata prese a zampettare nella direzione indicatagli, sventolando la codina.
Controllando per un’ultima volta il cellulare (ovviamente non c’era alcun segnale) lo seguii, sperando con tutte le mie forze di scampare in qualche modo al mio destino da fossile.
 
Mi passai una mano sulla fronte sudata.
Molte cose potevano andare storte. Da un momento all’altro sarebbe potuto sbucare fuori un pokémon troppo potente per poterlo affrontare; il tunnel ci sarebbe potuto cadere addosso a causa di qualche scossa sotterranea o sarebbe potuto terminare in un vicolo cieco, lasciandoci senza alcuna via d’uscita.
Lanciai un’occhiata al soffitto, dove le ombre si avviluppavano alle stalattiti di roccia come rettili oziosi. Nell’oscurità sembravano pulsare.
 
Tornai a concentrarmi sul percorso, rabbrividendo.
Il Banette che fine aveva fatto? Si era reso conto di averci perso, o stava proseguendo imperterrito nella sua opera di distruzione? Sarebbe riuscito a rintracciarci?
La mia respirazione fu resa più facile quando mi ritornò in mente la descrizione del Pokédex. Se il peluche era stato abbastanza disperato da essere disposto a venire a patti con me, uno degli umani che tanto disprezzava, ciò significava che la ricerca del suo ex-padroncino si era dimostrata più volte infruttuosa. Probabilmente aveva iniziato ad attaccare chiunque incontrasse proprio perché conscio di essere con le spalle al muro; ma ora che aveva finalmente trovato qualcuno in grado di facilitargli il compito, non sarebbe stato disposto a lasciarselo scappare.
Perciò ero certa che non mi avrebbe eliminata— non subito, almeno.
Infilai la mano in tasca, circondando con le dita la pokéball di Wooper.
 
 Lo stesso non si poteva dire per chi mi stava accanto.
 
Accarezzai la superficie liscia col pollice, cercando di infondere sia a me che al mio compagno un po’ di conforto.
Una piccola parte di me, timida ma ottimista, sperava ancora di riuscire a scamparla. Biascicava che, se avessi spiegato a Daisuke il problema, lui sarebbe riuscito a trovare una soluzione. Immaginava che, in caso contrario, avremmo potuto affrontarlo assieme in un combattimento. La verità era tuttavia ben diversa, e quelle illusioni non facevano altro che rigirare il coltello nella piaga.
Non avevo idea di come avrebbe potuto reagire Daisuke. La sua mente era indubbiamente un vero e proprio database di informazioni e di fronte alle difficoltà era in grado di mantenere la calma ed analizzare la situazione; ma gli eventi più recenti – l’incontro con il Gyarados meccanico, la piccola crisi a cui era stato soggetto a bordo del Lapras – avevano dato prova che anche lui aveva dei limiti.
E poi…
Socchiusi gli occhi, rievocando il numero che era apparso sullo schermo del Pokédex quando l’avevo puntato verso il Banette durante il nostro primo incontro.
Se anche decidessimo di lottare, non faremmo che condannarci da soli.
 
(Questo sempre se Daisuke decide di aiutarti)
 
La  pokéball mi scivolò via dalle dita, cadendo sul fondo della tasca.
Daisuke era furbo, ma cauto: cercava di non cacciarsi nei guai. Perché mai avrebbe dovuto darmi una mano?
Siamo amici. Mi rammentai, affrettandomi ad erigere una difesa contro i sussurri che mi stavano accarezzando mollemente la coscienza. L’ha detto anche lui. Perciò…
Chiusi la mano in un pugno.
Eravamo amici, perciò sarebbe stato preso di mira.
 
Mi morsi il labbro inferiore, cercando di sopprimerne il tremolio.
Non ero abbastanza forte per sconfiggere il Banette, ed ora sia lui che la mia squadra ne avrebbero sofferto le conseguenze.
 
Il passaggio si allargò dopo una mezzoretta di cammino; contemporaneamente, l’eco dei miei passi si fece meno pronunciato e l’ossigeno perse la sua corposità. Feci un giro su me stessa, rischiarando i dintorni.
Ero finita in un’altra grotta. Questa aveva la forma circolare e dal suo perimetro si diramavano una decina di tunnel scavati a distanza simmetrica l’uno dall’altro; per il resto la stanza era spoglia, fatta eccezione per una sagoma bianca che s’innalzava al centro della caverna. Ad occhio e croce doveva raggiungere l’altezza delle mie spalle.
Sgattaiolai fino a quella struttura nodosa e le puntai addosso la torcia. Dopodiché sbattei le palpebre una, due volte.
Un… fungo?
Davanti a me c’era un fungo grosso come la poltrona del salotto dei miei nonni. Gli girai attorno, squadrandolo con attenzione. La sua mancanza di colore lo rendeva più simile ad uno spettro che ad un’entità fisica, tanto che provai il desiderio di toccarlo, giusto per accertarmi che fosse effettivamente reale. Esitai, spostai il peso da un piede all’altro e alla fine allungai un dito verso il vegetale.
 
Qualcosa mi premette la caviglia, facendomi fare un salto indietro. Abbagliai il colpevole.
“Rattata, accidenti! Un po’ di pietà per la tua misera fornitrice di biscotti!”
Il topo arricciò il muso in un’espressione presuntuosa.
“Almeno hai trovato l’uscita?” Brontolai, posandomi una mano sul fianco. Il pokémon fece spallucce, adocchiando i vari passaggi.
“Ta…” Sembrava indeciso quanto me.
Sospirai. Andare alla cieca non era un corso d’azione molto allettante: serviva una pista, un indizio.
Trascorremmo i successivi minuti a studiare i vari passaggi, ma ad eccezione di alcune incisioni che circondavano i loro ingressi a mo’ di cornicette (qualche esploratore che si era fatto prendere la mano con lo scalpello?), non presentavano nulla che potesse differenziarli.
La cosa si risolse in modo piuttosto democratico: sia io che Rattata scegliemmo il percorso che ci trasmetteva il minor numero di vibrazioni funeste e poi ci destreggiammo nel più epico – probabilmente perché unico – scontro di Carta-Forbice-Sasso mai giocato fra umano e roditore.
 
Cinque minuti dopo mi ritrovai ad arrancare dietro a quest’ultimo, cercando di non inciampare sulle radici che avevano deciso di ravvivare il posto, tappezzando pavimento e pareti in egual maniera.
“La prossima volta – puh! Che schifo! – si gioca a Pari e Dispari.” Sputacchiando, scostai la pianta rinsecchita che mi era finita in faccia. Il topastro sghignazzò, finché anche lui non scivolò su una macchia verde. Mi chinai a tastare il groviglio di radici, che risultò umido e morbido al tatto.
Muschio?
Non essendo molto istruita sulla biologia – o sulle altre materie scientifiche, umanistiche e, più in generale, scolastiche –  non sapevo di preciso cosa potesse significare. Decisi di considerarlo un segno positivo ed accelerai il passo.
In men che non si dica ci ritrovammo attorniati da ciò che aveva l’aria di essere una giungla in scala ridotta. Dal soffitto pendevano pigramente delle liane, alle cui potevo aggrapparmi ogni qualvolta perdessi l’equilibrio. Le mie scarpe si erano bagnate a forza di passare in mezzo alle ciocche d’erba lustre di rugiada che erano disseminate per il percorso, e da cui facevano capolino fiori di vari tipi: campanule, violette, non-ti-scordar-di-me…
Erano i funghi, però, a dominare il paesaggio. Questi, anziché mantenere il pallore che li aveva caratterizzati nel tunnel precedente, sembravano essere stati immersi in secchi di vernici fluorescenti. Costellavano i lati del cunicolo come dei lecca-lecca di varie dimensioni, le cui gradazioni passavano dal blu cobalto al rosso pennarello, dall’argento al verde acqua.
Non sapendo se fossero velenosi od innocui, mi limitai a scattare un paio di foto, desiderosa di portare almeno una parte di quello spettacolo con me.
Più proseguivamo, più dettagli riuscivamo a notare. Ad esempio mi accorsi con sollievo che, nonostante la florida natura, quel piccolo angolo di paradiso non ospitava neanche un insetto. Non una coccinella dispersa, non un’ape ronzante, non una farfalla.
Era tutto perfetto.
 
Eppure…
Deglutii, cercando di rimediare alla secchezza della mia gola. Un rivolo di sudore mi scivolò fino al mento.
Non vi era un fil di vento. La vegetazione era immobile, come se facesse parte di un quadro riflettente natura morta. Eccetto il fruscio dei nostri passi sull’erba, regnava il silenzio.
 
Rattata camminava a ridosso del mio piede, costringendomi a prestare il doppio dell’attenzione per non pestarlo.
“Suvvia, sono solo piante. Probabilmente ci stiamo avvicinando alla superficie!” Cercai di rincuorarlo, ignorando la strana sensazione che mi trasmetteva quel posto. “Magari sbucheremo in una grotta segreta, all’interno di cui dei vecchi lupi di… uh… foresta? , dove dei vecchi lupi di foresta hanno nascosto i loro forzieri, ricolmi dei portafogli sottratti ai ciclisti della Pista Ciclabile!”
Quelle parole suonavano vane anche alle mie orecchie, ma il chiacchiericcio era un rumore confortevole a cui non volevo rinunciare. Perciò mi gettai in una lunga descrizione relativa alla ‘nave’ dei lupi di foresta e alle loro dimore sugli alberi, dove avevano costruito un vero e proprio villaggio integrato con l’ecosistema. Erano dei birbanti, certo, ma agivano nel rispetto dell’ambiente.
 
Ad un certo punto Rattata si stufò di darmi corda e cercò di mettermi a tacere colpendomi la caviglia con un colpo di coda ben assestato.
“Hey!”, alzai il piede, tastando la parte lesionata. “Che tu ci creda o no, fa male!”
Il topo espresse tutto il suo scetticismo con un ‘tsk’ ben piazzato.
Mi accucciai, tirandogli un orecchio. “Potrà anche essere una mossa debole contro un altro pokémon, ma noi umani non siamo abituati a questo genere di cose.” Anche se quello che mi hai appena fatto è a malapena paragonabile ad un calcetto nello stinco. Ma questo non devi saperlo.
Rattata arricciò il naso. Che miscredente.
Sollevai la gamba destra, indicandola. “Ricordi quando era ricoperta di ghiaccio? Una delle tante ed interscambiabili infermiere Joy mi ha spiegato che mentre per un pokémon è normale riprendersi dagli attacchi, per noi persone comuni non è facile reggere le vostre mosse.”
Sbuffai, ricordandomi la bella ramanzina somministratami da quell’infermiera. “Poi si è messa a parlarmi di come una volta sua cugina – anche lei infermiera e anche lei ‘Joy’ – era stata punta da un Weedle mentre potava le rose del suo Centro Medico. Anche se le sue colleghe ci avevano impiegato solo qualche minuto per iniettarle l’antidoto, per i tre giorni successivi era stata costretta a restare a letto, con il corpo pieno di pustol—“
Rattata emise un verso disgustato e mi colpì nello stesso punto di prima, ma con più forza.
Auch! Ti ho appena detto che—“
Il ratto viola mi lanciò un’occhiataccia, mettendomi effettivamente a tacere. Lo vidi muovere le orecchie, alzare il capo ed immobilizzarsi. Puntai la torcia elettrica del Pokédex verso il soffitto, illuminando un fascio di liane.
Gonfiai le guance. Tutta la galleria era ricoperta da liane: cos’avevano queste di così speciale? Erano verdi, sfilacciate e molto noiose. Non facevano altro che ciondolare e ciondolare, ostentando il loro rango da pianta dominante all’interno di quel dannato posto.
Aspetta. Spalancai gli occhi. Stanno ciondolando.
Feci due più due.
A meno che non si tratti di una nuova specie di pokémon desiderosa di farci un dispetto, questo vuol dire che c’è una corrente d’aria. E se c’è corrente…
“L’uscita!”, esclamai, mettendomi a correre. Nella fretta riuscii a sentire uno squittio allegro da parte del mio pokémon.
 
Il sentiero svoltò a sinistra, destra, di nuovo sinistra per poi aprirsi in quella che sembrava essere una nuova caverna: e là, in lontananza, intravidi un bagliore. La gonna mi ondeggiò delicatamente contro le gambe, alla mercé di un sottile soffio di vento.
Mi fermai, inspirando profondamente e riempiendo i miei polmoni di ossigeno fresco. Le mie narici vennero attirate da un odore dolciastro che, sommato al gorgoglio che da lì a poco aveva iniziato a giungermi alle orecchie, mi fecero sospettare che ci trovassimo vicino a qualche fonte d’acqua sotterranea.
Ma è troppo rumoroso per essere un fiume.  Che ci sia davvero una cascata?
 
Prima che potessi ragionarci su, Rattata mi tirò il calzino, incitandomi a smetterla di fissare il vuoto come un’ebete.
“Mi muovo, mi muovo! Smettila di distruggermi il calzin—“
La luce di Dexi tremolò, per poi tornare stabile. Aggrottai la fronte, dando una rapida occhiata al simbolo della batteria.
Quarantasei percento. In teoria sarebbe dovuta sopravvivere per almeno altre due ore; ma forse qualcuno si era dimenticato di dirlo al diretto interessato, perché la luminosità dello schermo si affievolì di nuovo. Picchiettai sul retro dell’aggeggio ed esso resuscitò a piena potenza.
Poi si spense.
Lo scossi, premetti bottoni a caso, gli lanciai maledizioni; niente da fare. Presi un lungo respiro, cercando di ignorare il formicolio che si stava diffondendo nel mio petto.
 
Era bizzarro.
E nel mio dizionario ‘bizzarro’ equivaleva a ‘non va bene, sta per succedere qualcosa di brutto, cosa fai lì abbindolata, esci fuori!’, per cui io, da persona amante della lessicografia, decisi di eseguire la definizione.
Peccato che fossi immersa nell’oscurità più totale, senza la benché minima idea di dove ‘fuori’ fosse.
Non riuscivo più a vedere il bagliore dell’uscita che fino a pochi attimi prima mi era stato di fronte al naso: era svanito nel nulla, assieme alla brezza leggera ed al fragore dell’acqua corrente.
Che si fosse trattato di un miraggio?
 
Rattata emise un ringhio. Un liquido caldo e bagnato mi cadde sulla guancia, facendomi rabbrividire. Lo lasciai scivolare fino alla punta del mio mento, senza provare a ripulirmi. I miei occhi guizzavano da una parte all’altra, cercando di captare un movimento, una presenza, una forma nel buio. Un flusso d’aria tiepida mi solleticò faccia e collo, facendo ondeggiare le punte dei miei capelli.
 
No, nessun miraggio.
Qualcosa la stava coprendo.
 
Al ringhio del mio compagno se ne aggiunse un altro, grave e roco, che mi fece trasalire. Rattata abbassò la cresta, rintanandosi dietro alla mia caviglia.
Io non riuscivo a vedere nulla, ma lui sì. Il fatto che non fosse nemmeno disposto a provare a combattere contro il nuovo arrivato costituiva un campanello di allarme.
Feci arretrare una gamba, cercando di distanziarmi. La bestia spalancò gli occhi luminosi – due bulbi senza pupilla e delle stesse dimensioni di un forno a microonde che mi fissavano privi di intelligenza – e per un attimo rimanemmo entrambi congelati sul posto. Dopodiché mi avventai nella direzione dalla quale eravamo venuti mentre l’Essere, emettendo un boato che fece tremare terra ed aria, diede inizio alla caccia.
 
La creatura mi fu sempre alle calcagna. Invece di sentire i tonfi delle sue zampe, ciò che raggiunse le mie orecchie fu il rumore di pietra che sfregava contro pietra, di una coda che falciava l’aria ed andava a conficcarsi nelle pareti laterali, del suo corpo che si trascinava lungo il condotto facendo vibrare il suolo. I suoi versi stridenti erano simili a quelli del Gyarados metallico, con la differenza che questi erano reali, saturi di una forza primitiva e troppo, troppo vicini.
Gli occhi del mostro emettevano abbastanza luce da permettermi di vedere dove andavo, perciò continuai a correre a ritmo sostenuto fino a quando Rattata non ci seminò. A quel punto il terreno smise di essere soffice ed inciampai sulla prima delle secche radici che ci eravamo lasciati addietro. Proseguii per un paio di metri a quattro zampe, arrampicandomi sulle piante, e poi ripresi a correre in posizione eretta incespicando più volte.
Quando raggiunsi la grotta del fungo gigante, la mia milza stava già implorando pietà.
Dove vado?
C’erano troppe gallerie.
Dove vado?
Il mostro era dietro di me.
Dove—
 
“Ratta!”
Mi avventai nella direzione del mio starter, seguendo i suoi richiami. Lungo il tragitto colpii con la spalla qualcosa di resistente, ma flessibile, ed un tenue bagliore rischiarò la stanza quel che bastava per individuare i vari condotti ed imbucarmi in quello giusto.
Sul terreno era dipinta la mia ombra, sovrastata da un’altra immensamente più grande e deforme. Con un singhiozzo costrinsi le gambe a dare il massimo per un ultimo sprint.
Il percorso era in salita ed il mio corpo era pesante e goffo, ma alla fine venni accolta dai rumori della boscaglia. Intravidi la sagoma di Rattata, che mi aveva aspettato al varco finale: lo superai in fretta e furia, inoltrandomi nella foresta.
Mi fermai solo quando il mondo, che pareva averne avuto abbastanza di farsi quattro risate alle mie spese, stabilì che sarebbe stato più che giusto far finire le mie peripezie con un tocco di classe.
Così inciampai su una roccia.
 
Rattata mi si avvicinò, accoccolandosi sulla mia spalla. Il suo cuore batteva all’impazzata contro la sua piccola cassa toracica, rimbombando assieme al mio. Ci vollero un paio di minuti prima che potessi essere sicura di non essere stata seguita fuori dal sottosuolo, prima che l’adrenalina smettesse di scorrermi nelle vene al posto del sangue. Dopodiché lasciai che le mie membra sprofondassero nel terreno, fregandomene altamente del fango e degli insetti e di tutto il resto.
La mia bocca sapeva di ruggine.
Non c’era una singola parte di me che non pulsasse dolorosamente. In particolare, mi bruciavano i palmi delle mani (dovevo essermi graffiata) e la mia gamba destra non smetteva di tremare.
 
Attorno a noi, tutto era tranquillo.
Fra le fronde degli alberi echeggiavano i trilli degli insetti notturni. Da qualche parte un grosso rospo gracidava con insistenza.
 
Non mi importava della Pista Ciclabile. Non mi importava dei pericoli del bosco. Nulla poteva superare l’orrore che avevo appena provato. Di certo non mi sarei mai, mai e poi mai riavventurata laggiù. Piuttosto avrei preferito affrontare il Banette ed i suoi attacchi tentacolari a mani nude.
 
La temperatura si abbassò di colpo, facendomi venire la pelle d’oca. I suoni della foresta vennero meno, inghiottiti dal silenzio. Udii un fruscio.
Sollevai le palpebre, intrecciando lo sguardo con due pupille rosa che mi fissavano con superiorità.
“Salve, scimmia. Sei pronta a morire?”
 Chiusi gli occhi.

Ma porca di quella—
 
Fui tentata di non rispondere. Il mio volto venne lambito da ciò che aveva l’aria di essere vapore acqueo, ma che sprigionava un odore pungente: mi ricordava l’incenso all’essenza di pino che aleggiava nello studio di Zio Teddy; tuttavia, mentre quest’ultimo aveva un’azione calmante sui nervi tesi, quello del Banette mi volteggiava attorno come un avvertimento.
Mi costrinsi a partecipare al suo gioco.
“Per quello”, mi domandai cosa ci facesse un pezzo di carta-vetro al posto della mia lingua, “Sei arrivato in ritardo.”
“Mmh. In effetti, prima puzzavi di meno.”
“Senti chi parla.”
Di paura, stupida.”
“Cosa sei, un cane?”
“Non sono affari tuoi!” Lo strano gas iniziò a vorticare, scompigliandomi i capelli. Puzzava di legno bruciato.
Lo spettro fluttuava sopra di me, sospeso in aria dalle solite lingue oscure. Stavolta assomigliavano di più ad una foschia che ad entità corporee: si muovevano con impazienza, scalciando a destra e a manca, arricciandosi su se stesse e contraendosi come in preda ad un mal di pancia.
 
Mi venne come l’impressione di essere al centro di una messa in scena. Uno spettacolino gratuito con la quale il pokémon intendeva intimorirmi. Ma, forse perché avevo già accettato la mia triste sorte, forse perché avevo prosciugato le emozioni con la fuga di prima, il massimo che riuscii ad offrirgli fu un sospiro.
Irrigidendo gli addominali e digrignando i denti per lo sforzo, mi misi a sedere.
“Mi spieghi che cosa vuoi?”
Le ombre si fermarono. Gli occhi del Banette si fecero più intensi, passando da rosa a cremisi. La lampo della sua bocca slittò, aprendosi di pochi centimetri. Trattenni il fiato.
Vendetta.”
I miei polmoni si sgonfiarono come palloncini.
 
Mi morsi la lingua, intrappolando le tre risposte automatiche che la mia bocca era stata sul punto di divulgare. Tutte e tre sarcastiche e scocciate, il cui unico risultato sarebbe stato il maciullamento del mio corpo da parte di un pokémon psicolabile.
Passai una mano sulla fronte sudata, assalita dallo sconforto. Al momento desideravo solo un letto. E del cibo. Anche una doccia calda non sarebbe stata male. Non c’era spazio per qualcosa come la vendetta, nei miei piani.
Beh, eccetto quella alla quale avrei sottoposto Daikke non appena l’avessi rivisto. Stickers di My Little Ponyta sul portatile? Baffi e monocolo sulla foto del suo passaporto?
Un arto tenebroso acquisì la forma di una mano umana, e schioccò le dita di fronte al mio sguardo imbambolato, interrompendo bruscamente il calcolo delle tempistiche su cui mi sarei dovuta regolare per riuscire a riempire di nascosto un flacone di shampoo con del muco di Wooper.
 
Sobbalzai, colpendo l'attacco e facendolo dissolvere.
“Ho capito! Vuoi la tua vendetta!”, mi portai una mano al petto, “Io invece desidero che tu lasci me e le altre persone in pace.”
Pausa. “E con ‘in pace’ intendo dire ‘intatte, vive e vegete’. Non l’altra pace.”
Il Banette emise un piccolo ‘tsk’, distogliendo momentaneamente lo sguardo. Alla fine, decretando probabilmente che la sua rinuncia non fosse poi così gravosa, tracciò un paio di cerchi in aria con la zampa – imitata dal tentacolo, che si era ricomposto – come per dirmi di proseguire.
“In cambio, dedicherò un po’ del mio tempo—“
Il mio interlocutore mi schioccò un’occhiataccia.
“—una buona frazione del mio tempo per cercare il tuo ex-padroncino. O padroncina.” Corrugai la fronte, rendendo palese la mia mancanza di informazioni.
Dalla nuvola gassosa si condensò un braccio d’ombra che si fermò a qualche centimetro dal mio busto, facendomi ritrarre istintivamente. Anziché attaccare, il Banette si limitò a formare un’altra mano, per poi statuire qualcosa che, nella sua fermezza, risuonò come un’omelia funebre:
“Prima il patto. I dettagli vengono dopo.”
 
Il lobo sinistro del mio cervello si arrovellò in un susseguirsi di pensieri (Non me la racconta giusta, non accettare, è impossibile che tu ci riesca, già ti è difficile fare l’allenatrice, figuriamoci il detective privato).
Quello destro a sussurrò un’unica sentenza disillusa: ‘Beh, ti ha incastrata.
Valutai le mie alternative.
Scappare era fuori discussione: anche avendo ripreso fiato, il fatto che la mia gamba destra non avesse ancora smesso di martellare fu sufficiente a farmi rinunciare all’iniziativa.
Combattere sarebbe stato un corso d’azione con effetti ancora più disastrosi. Dopotutto Wooper era fuori uso, mentre Rattata…
Lo osservai con la coda dell’occhio: il topino era sulla difensiva, pronto a scattare; ma a giudicare dai tremolii che gli scuotevano il corpo, doveva essere stremato. E non avevo con me uno straccio di Pozione perché Daisuke, in tutto il suo acume, aveva decretato che con il mio modo di fare impacciato avrei finito col romperle o col somministrarle nel modo sbagliato. Mi era parsa un po’ una scusa, ma la proposta – la scappatoia da quella responsabilità – era suonata così dolce alle mie orecchie da spingermi ad accettarla senza uno straccio di obiezione.
Ed a causa della mia pigrizia adesso ero alla mercé di una bambola.
Una bambola piuttosto spazientita.
 
“Ti darò dieci secondi.”
Per poco non mi strozzai.
“Eh?”
“Nove secondi, e poi adopererò le tue interiora per decorare il bosco in vista del Natale.” Il fumo violaceo circondante l’arto che mi stava di fronte spumeggiò, irrequieto.
Scossi la testa, incredula.
 
“Otto…”
Serrai la mandibola. Il sangue mi corrodeva le vene, acido e scottante.
Non volevo stringergli la mano. Non volevo stipulare un altro accordo.
Strinsi i pugni, conficcandomi le unghie nella pelle finché non l’avvertii bruciare.
Da tempo avevo ormai raggiunto la conclusione che tutti i Pokémon Spettro fossero dei mostri privi di coscienza, ma il suo comportamento superava ogni limite. Era solo una bambola di pezza! Non poteva imporsi sulla mia volontà, costringermi a fare qualcosa che non desideravo! Non ne aveva il diritto!
 
“Sette…”
Avrei combattuto. Avrei fatto in modo di bloccare il suo progetto, rifiutandomi di collaborare o boicottando l’operazione dall’interno. Mi sarebbe bastato trovare il suo punto debole, qualcosa su cui far leva per riprendere il controllo della situazione e poi…
La nube nera pulsò, riempiendosi di venature violette. Sussultai, dirigendo lo sguardo verso il suo creatore: Il Banette, come se avesse compreso le mie intenzioni, indicò Rattata con un piccolo movimento del capo. I suoi occhi si erano tinti di rosso, proprio come avevano fatto con Wooper prima di ferirlo.
Mi morsi il labbro, abbassando lo sguardo.
 
“Sei…”
Sono un’idiota.
Non ero l’unica ad essere in pericolo. C’erano i miei pokémon, e anche—
Daisuke. Come avrei fatto con lui? Non potevo trascinarlo in un pasticcio che avevo creato con le mie stesse mani, per quanto le mie azioni fossero state a fin di bene. Ma dopotutto lo avevo salvato dal Gyarados: non avrebbe potuto biasimarmi più di tanto, no?
 
“Cinque…”
E allora perché non riuscivo a togliermi dalla testa l’immagine di un Daisuke che mi scrutava con gli occhi ridotti a fessure?
Mi strinsi nelle spalle, cercando istintivamente di nascondermi.
Cosa mi assicurava di non aver commesso un enorme sbaglio? Se avessi atteso qualche minuto anziché scagliarmi precipitosamente nel serpente robotico, forse avremmo potuto formulare un altro piano. Forse sarebbero giunti i soccorsi. Forse—
 
“Quattro…”
Cos’avrebbe fatto, lui, al mio posto? Cos’avrebbero fatto i miei Nonni, i miei Zii? Mamma e P—
E il bambino?
Il terreno guizzò via da sotto i miei piedi, come se un gigante avesse dato una manata alla Terra facendone accelerare la rotazione attorno all’asse. Feci un passo indietro, stabilizzandomi. Ingoiai della saliva, cercando di tenere a bada la nausea.
Anche nel remoto caso in cui fossi riuscita a svolgere la mia parte, avrei comunque condannato una persona a morte certa.
 
“Tre…”
Non posso farlo!
Mi presi la testa fra le mani, non riuscendo più a sopportare la vista della mano che il pokémon mi stava tendendo.
La sola idea di poter contribuire ad un omicidio mi era inconcepibile. Uno sconosciuto, poi? Il cui unico crimine era stato quello di buttare via un giocattolo?
 
(Ma appunto perché è uno sconosciuto, dovrebbe renderti il tutto più semplice. Non vuoi salvarti?)
Non— io non—
 
“Due…”
Afferrai i lembi della mia gonna, nel tentativo di fermare il tremore delle mie mani.
Non esisteva una scelta giusta, vero? Erano tutte sbagliate e orribili e qualcuno sarebbe rimasto ferito in ogni caso. Anche se avessi declinato il patto – mi rifiutai di pensare a quale sarebbe stata la mia sorte, in quello scenario – il Banette avrebbe ripreso le ricerche, proseguendo con la sua carneficina indiscriminata.
Mi sentii strattonare il laccio della scarpa. Rattata, lasciata cadere a terra la stringa, alzò il musetto. Gli vibravano i baffi e la sua coda era così bassa e ricurva, da essergli finita in mezzo alle gambe. Teneva gli occhi fissi su di me, concentrati in una preghiera silenziosa che sembrava dirmi ‘Scappiamo. L’abbiamo fatto prima, ci riusciremo di nuovo.
Lui era pronto.
 
Uno…!”
Probabilmente, se fossi stata più coraggiosa, o più forte, o anche solo più sfrontata, avrei seguito il suo consiglio.
Ma ero stanca. Stanca di scappare. Stanca di fingere di essere qualcosa che non ero. Stanca di resistere alla voce che da nove secondi, grave e dolorosa come i battiti del mio cuore, ripeteva “Stringi la mano. Stringi la mano. Stringi la mano, e finirà tutto.”
E così feci. Perché tanto, qualsiasi cosa avessi scelto di fare, non sarebbe stata che l’ennesima fuga.
 
Il Banette sogghignò: quindi il suo arto mi trapassò il petto.
Urlai, sentendo l’ammasso gassoso – no, non gassoso, ma pesante e viscoso come il catrameavvilupparsi attorno al mio cuore. Cercai di afferrarlo, ma la mia mano ci passò attraverso senza alcuna resistenza.
Ora che un corpo estraneo stava circondando il mio organo, riuscivo a rendermi conto delle sue effettive dimensioni; del vigore delle sue contrazioni; dell’energia vitale che lo portava ad espandersi ed a ritrarsi in continuazione, nutrendo il mio corpo. Presi delle grosse boccate d’aria, cercando tenere giù la sostanza acidula che stava risalendo il mio stomaco. Portai gli occhi sul peluche, ghermendo la parte sinistra del mio petto.
“C-cosa stai…!”
Il pokémon stava studiando quella stessa zona con aria assorta. Ogni tanto spostava lo sguardo, come se stesse cercando qualcosa.
“Tranquilla.”, borbottò, “Presto sarà tutto finito”. Poi l’arto spettrale cominciò a stringere il mio cuore ed il mio corpo si contrasse come un giocattolo a molla.
La mia vista stava venendo contaminata da  un pullulo di puntini neri; ma prima che potessi perdere i sensi, il mondo si tinse di grigio. Un’onda fredda si riversò per tutto il mio torace, riempiendo con la sua presenza ogni interstizio. Avvertii solo un pizzicore diffuso alle membra, dopodiché al Banette scappò un sibilo e l’attacco strisciò fuori dal mio corpo per rintanarsi all’interno della nube da cui era stato originato, lasciandomi cadere a terra.
 
Mi misi a carponi, sostenendomi su arti tremanti. I vestiti, appiccicatisi  alla mia pelle completamente madida, erano diventati scomodi ed asfissianti.
Il mio braccio venne a contatto con il pelo ispido di Rattata che, squittendo, provò a confortarmi premendoci contro la fronte. Fra un ansimo e l’altro riuscii a rassicurarlo, a dirgli di essere a posto. Stordita, con lo stomaco in subbuglio, ma a posto.
 
Quando la nausea si affievolì mi sollevai sulle ginocchia e puntai il dito contro il mio aggressore.
“H-hai mentito!”, proruppi, non sapendo se in me predominasse il terrore o la furia, “Hai cercato di uccidermi!”
Il pokémon stava fissando il vuoto alla sua destra, dando l’impressione di essere perso nei propri pensieri. La sua fronte era imperlata di sudore. Lui e la sua nuvola avevano perso almeno una trentina di centimetri di quota.
“L’accordo salta!” Continuai, alzandomi. Quelle parole ebbero l’effetto di far tornare il Banette alla realtà ed ai suoi modi imperativi.
“No, non puoi!”
Aprii la bocca, pronta ad usufruire di qualunque insulto ritenessi più appropriato, ma lui mi precedette. “Non puoi, perché…”, riportò lo sguardo sullo stesso punto di prima, contemplando qualcosa. Alla fine parve decidersi e continuò, “…perché quello era il patto.”
Se credeva che potessi ancora fidarmi delle sue parole dopo ciò che aveva fatto, si sbagliava di grosso. “Mi stavi schiacciando il cuore!”
“Volevo— cioè, ho usato una delle mie abilità. Non so come voi umani la chiamiate. Mi sono assicurato di rendere il nostro accordo un patto inscindibile, pena la morte.”
Aggrottai la fronte; lui alzò a sua volta un sopracciglio, sfidandomi.
D’istinto andai a controllare su Dexi, ricordandomi che fosse fuori uso solo dopo averlo puntato contro lo Spettro. Tuttavia lo schermo brillò lo stesso, dandomi il benvenuto come al solito. La batteria segnalava il trentacinque percento, mentre la luminosità era tornata ad essere stabile.
Premetti il pulsante ‘A’, appuntandomi nella mente di far ispezionare i circuiti di quell’aggeggio da Daisuke. Feci scendere la pagina fino a raggiungere la sezione che mi interessava.
 
«Maledizione. Il Pokémon Spettro rinuncia ad una parte della sua salute per scagliare al nemico un anatema, che agirà in un secondo momento»
 
Oh. Effettivamente ha un senso. Sollevai la testa. E forse non è così male.
“Questo vuol dire che anche tu sei vincolato?”
La sua zip si abbassò in una smorfia scontrosa. “No. Questo vuol dire che tu sei costretta a rispettare il patto, se ci tieni alla vita. Io posso fare quel che mi pare.”
Mi scappò una risatina.
No, non era ‘male’. Il concetto di ‘male’ non si avvicinava nemmeno a descrivere la mia situazione.
La risata s’ingrassò, accrescendo la velocità con cui l’aria fuggiva dai miei polmoni. Continuai a ridere sotto gli sguardi preoccupati (Rattata) ed annoiati (Banette) dei due pokémon in mia compagnia, fino a quando non terminai la riserva di ossigeno per la quarta volta consecutiva.
 
Dopo che il mio breve episodio di isteria si fu consumato, tale sorte era toccò pure alle mie riserve di pazienza.
Perché?
Perché quel dannato Banette si era rivelato un socio inutile.
Certo, era un Pokémon Spettro di livello superiore al cinquanta, una macchina da guerra allo stato brado il cui corpo emanava un fetore tale da poterci stecchire un esercito.
Ma per il resto? Totalmente inutile.
 
Prima di dividerci (“Passerò a fare dei controlli periodici, ma ora che sei vincolata non c’è bisogno che mi unisca a te. Mica sono uno dei vostri alleva-cuccioli.”,  “Baby-sitter?”,  “Quello che è.”) io ed il peluche avevamo trascorso un po’ di tempo assieme su mia esplicita richiesta. Non che ci tenessi particolarmente: dopotutto avevo perso su tutta la linea.
Ma quando si è colti dalla disperazione c’è solo una cosa da fare: si va alla ricerca di qualcosa capace di farti credere di poter continuare a comportati come ci si aspetterebbe da un essere umano dotato di intelletto e voglia di vivere. Qualcuno si rivolgeva alla religione; qualcuno si dava al volontariato.
Io mi ero rivolta all’Ottimismo.
E la prima cosa che Ottimismo mi aveva cinguettato fu di fare le presentazioni. Perciò tesi una mano al Banette, senza preoccuparmi di celare la falsità del mio sorriso.
“Io sono—”
“Non mi interessa.” Rispose lui dall’alto del ramo su cui si era spaparanzato, senza dare cenno di voler scendere. Dopo il mio attacco di risatine incontrollate aveva ritirato il suo attacco e si era posizionato a debita altezza da me, in modo da potermi sorvegliare con più facilità.
“Riferisciti a me come ti pare: ‘Signore Oscuro’, ‘Vento Punitivo’…”, gli si arricciarono gli angoli della zip,  “Personalmente ti consiglio ‘Padrone’.”
Battei le ciglia, assimilando il messaggio. “Allora ti chiamerò ‘Peluche’.”
Sì, ero a secco d’inventiva. Ma a mia difesa, quella del Banette sembrava essere rimasta nel cassettone dell’immondizia in cui lui aveva preso vita.
“Ed io ‘Scimmia’.”
“Affare fatto.”
Dopodiché il pokémon divenne più restio a condividere altri dati anagrafici (“Dove sei nato?”,  “Se vuoi ti faccio vedere.”,  “Per stavolta passo.”) ed il discorso giunse ad un punto morto.
 
Allora tornò in sella Ottimismo, che con la sua voce di melassa mi propose di mettermi già all’opera con un “Chi dorme non piglia pesci.” Al mio “Peccato che non debba trovare un pesce”, Ottimismo mi posò una mano sulla spalla, trasmettendomi pensieri più positivi.
Dopotutto, quanto ci avrei potuto impiegare per trovare il mio obiettivo? Mi serviva solo il suo nome: poi mi sarebbe bastato rovistare fra le Pagine Bianche o gli utenti di Pikabook ed in pochi giorni sarei tornata libera.
In teoria. In pratica avrei dovuto depistare il mostriciattolo, guadagnando così il tempo necessario per riuscire subdolamente a convincerlo ad abbandonare i suoi piani. Non ero certa che fosse possibile, ma dovevo provarci.
 
Peluche, dopo aver scosso la testa – facendo dondolare le sue orecchie accartocciate – borbottò di non ricordarselo. Ottimismo fece un sorrisino nervoso, che imitai.
“Età?”
“Piccola.”
“Maschio o femmina?”
“Siete tutti uguali per me.”
Eppure non hai avuto problemi a rintracciarmi.
“Capelli lunghi o corti?”
“A metà.”
“Colore?”
“Vedo solo sfumature di grigio.”
 
Alla fine dell’interrogatorio non avevo ottenuto uno straccio di informazione ed Ottimismo si era licenziato per andare a ritrovare la fede attraverso un pellegrinaggio sulle montagne di Sinnoh.
“Per tutti i Wooper in salsa di asparagi!”, alzai le mani al cielo, esterrefatta. “Come cavolo pensi di riuscire a trovare qualcuno senza sapere nulla di lui?”
Il Banette si mise a giocherellare con delle palline di energia recentemente materializzate.
“Se me lo porterai, lo riconoscerò.” Il tono con cui lo disse era quello chi aveva passato molto tempo a ripeterselo. Ne ero certa, perché se avessi pronunciato ‘Andrà tutto bene, prima o poi diventerai ricca e potrai assoldare tutti i Ghostbusters che vorrai’ avrei adoperato la stessa intonazione.
Invece mi ritrovai a piagnucolare: “Quindi mi lasci così? Senza indizi? È un compito impossibile, i-io non—“
Il peluche lanciò le sfere in aria, facendole sparire con un puff.  Socchiuse gli occhi.
“Per l’incolumità di tutti i patetici esseri che consideri tuoi amici, ti consiglio vivamente di trovare una soluzione.”
Poi bofonchiò qualcosa con una punta di amarezza, che interpretai come un ‘E in fretta.’
 
Da quel momento in poi non ci fu più molto da dire, perciò ci separammo. O meglio: io presi a trascinarmi in una direzione presa a caso, mentre lui si limitò a rimanere sul suo ramo. La terza volta che capitai sotto al suo albero mi fece cadere in testa una baccastagna.
“Da quella parte, Scimmia.” Indicò l’unica direzione che non avevo ancora preso.
Sospirai, incapace di arrabbiarmi. Il sonno si era attaccato alle mie membra come un koala.
Passandomi una mano sulla faccia, bofonchiai: “Non mi sarei persa se durante la caduta non mi avessi allontanato così tanto dalla Pista.”
Il Banette mi dedicò uno sguardo che probabilmente riservava solo alla vista del sapone. Il suo attimo di smarrimento durò poco, perché nel giro di cinque secondi gli serpeggiò sul volto un sorriso beffardo.
“Eheh. Credi davvero che sia stato io ad aiutarti?”
Fu il mio turno di navigare nel mare dell’incertezza. “Se non sei stato tu, allora chi…?”
Il pokémon si alzò in piedi. In men che non si dica il suo corpo venne ricoperto dalle ombre, lasciando visibile soltanto il suo sogghigno metallico.
“Lo scoprirai a breve.” I denti che componevano la sua cerniera risplendettero, abbagliandomi. Quando riaprii gli occhi, ero sola.
 
 
 

Passo, passo zoppicante, sbadiglio, ripeti.
Proseguivo alla velocità di una lumaca, senza sapere se stessi girando in cerchio o se avessi imboccato la direzione giusta. Ciò di cui ero certa era che il bosco era tutto uguale, che il Pokédex era al limite della sua batteria e che i miei occhi faticavano a restare aperti. Aggiustai la presa su Rattata, che cingevo al petto: il topolino aveva insistito di voler restare fuori dalla sua pokéball, ma alla fine si era appisolato lo stesso.
 
Ogni tanto controllavo la ricezione del mio cellulare, ma esso sembrava incapace di trovare uno straccio di segnale. Occhieggiai passivamente il movimento sinuoso delle fronde degli alberi, pensando ancora una volta a quanto avrei avuto bisogno di un dannato Pokémon di Fuoco.
Magari i soccorsi potevano permettersi di ignorare una giovane allenatrice perduta nel bosco, ma potevano fare lo stesso anche con un incendio?
Forse era un piano piuttosto infantile, ma avrebbe probabilmente funzionato ed io sarei potuta tornare alla civiltà.
Abbassai lo sguardo sulle mie scarpe e sospirai nel vederle rivestite di fili d’erba misti a fango incrostato. Avrei dovuto comprarne di nuove una volta raggiunta la prossima città.
Dopodiché sarebbe scattato il conto alla rovescia.
 
Il Banette aveva detto che mi sarei dovuta sbrigare, ma non mi aveva dato alcuna scadenza. Rainbow era meno estesa rispetto ad altre regioni; tuttavia ci avrei impiegato almeno una decina di mesi per esplorarla tutta – o comunque un paio, se mi fossi limitata alle principali zone trafficate.
Accarezzai il pancino di Rattata, il quale rilasciò un gorgoglio di apprezzamento.
Avrei avuto abbastanza tempo per trovare una soluzione?
 
Nell’aria riecheggiò un secco ‘crack’, come quello di un bastone che veniva spezzato. Mi fermai sui miei passi, sudando freddo.
Cervo? Cinghiale? Orso? Pokémon? La regola del ‘fingiti morto e ti lascerà stare’ avrebbe funzionato anche con questi ultimi?
 
Dai cespugli emerse una luce. Mi schermai gli occhi, distinguendo a stento una scarpa rossa seguita dalla sua gemella, un paio di calzoncini e dei pantaloncini verde squillante. Dalla felpa viola un po’ sbiadita emergeva un volto abbronzato la cui bocca era spalancata in un’esclamazione silenziosa.
Mi infossai nelle spalle. “Emh. Posso aiutarti?”
Il tipo riportò su la mandibola con un sonoro ‘clack’. Abbassò con l’indice i suoi occhiali da sole sportivi, come se stesse ancora cercando di capire se fossi o no un miraggio.
“Sei tu?”, deglutì, “Maddalena Hellys?”
Strabuzzai gli occhi, d’un tratto più sveglia. “Madeleyne, semm—“
Il tizio fece un balzo di gioia – letteralmente. Tanto che per poco non inciampò su una radice.
“Maddalena, ti ho trovata!” Gonfiai una guancia, sentendomi ribollire il sangue. Ma lui era partito per qualche tangente misteriosa e quindi non vi prestò alcuna attenzione, impegnato com’era a starnazzare interiezioni quali ‘Oh boy’ e ‘Wow’ ed a saltellare da un piede all’altro. Gli strappai di mano la torcia elettrica, puntandogliela negli occhi. Lui si coprì il volto con il braccio, senza smettere di sorridere.
 
Mi domandai se in quella dannata regione esistessero persone normali.
 
“Amico”, presi a picchiettare la torcia sul palmo dell’altra mia mano. “Chi sei? Cosa vuoi da me? Ti darò tre secondi per spiegare e poi ti prenderò a torciate in testa.”
“‘E’ ? Non ‘o’?”
“Yep.”
L’uomo ridacchiò, passandosi più volte una mano fra i capelli.
“Ora ne sono sicuro, sei davvero una Hellys!”
 
C’era qualcosa che mi stava sfuggendo. Un ingranaggio disperso nella foschia che circondava i miei neuroni.
“Oh, per Dialga! Questo è il giorno migliore della mia vita! Aspetta che lo dica ai ragazzi—“ Mise la mani a cono attorno alla sua bocca, facendo rimbombare la sua voce per tutta la zona. “Nigel! Zac! L’ho trovata!
Per una ventina di secondi non successe nulla: il bosco rimase immobile, quieto e raccapricciante. In seguito si udirono vari rumori: rami spezzati, fogliami attraversati, ‘Ompfh!’ di dolore ed un ‘Nigel, meno male che non hai scelto di fare trekking!’. Da un cespuglio sbucarono altri due pazzoidi, uno con la cresta, l’altro con un paio di…
Erano occhialini da piscina quelli che aveva al collo?
Ad ogni modo, quando mi videro, s’immobilizzarono come un branco di cervi di fronte ad un camion. Quello con gli occhialini – che pareva essere anche il più giovane – mi indicò con dito tremante. L’altro – uno spilungone il cui aspetto urlava ‘delinquente’ – si voltò verso Occhiali da Sole, aprendo la bocca in una domanda insonora. Occhiali da Sole fece pollice in su.
 
La scena a cui assistetti successivamente sarebbe stata ottimo materiale per gli studi del Prof. Matthew sulle danze dell’accoppiamento fra pokémon.
I tre si erano infatti disposti a triangolo, in modo da potersi dare il cinque a vicenda prima con una mano, poi con l’altra. Dopodiché avevano chiuso entrambe le mani a pugno e avevano fatto lo stesso con le nocche. Infine avevano spiccato un salto, librandosi in volo per— beh, l’idea generale era probabilmente quella di battersi i pettorali uno contro l’altro. Sfortunatamente non sembravano aver sviluppato la coordinazione necessaria per riuscire in tale impresa: per cui Capelli a Cresta balzò in aria in anticipo, Occhialini gli colpì il mento e Occhiali da Sole, focalizzato com’era a scontrare il suo petto contro quello degli altri due, finì col farli volare di qualche centimetro più in là, spezzando il loro equilibrio e facendoli cadere a terra.
I tizi scattarono subito in piedi per darsi delle pacche amichevoli sulle spalle. Bosco Intreccio venne bombardato da una marea di “Bro!” e “Leroy!” ed altri versi scimmieschi.
 
In tutto ciò stavo valutando se fosse il caso di sgattaiolare via. E continuai a valutarlo anche quando fui a dieci, poi venti metri di distanza. Al trentesimo loro erano spariti, coperti dalla boscaglia, da cui trapelavano solo dei fasci di luce traballanti.
Verso il quarantesimo metro il terreno iniziò a tremare, calpestato da sei paia di scarpe dalla misura superiore al 44.
“Maddalena!”
“Maddison!”
“Marlene!”
Venni sollevata di peso dai tre baldi giovani che, trattandomi con la delicatezza di un sacco di patate, presero a correre fra gli alberi. Colpì il braccio del più vicino – quello con la cresta – con la torcia elettrica.
Il!” Colpo.
Mio!” Colpo.
Nome!” Colpo.
È!” Colpo.
Madeleyne!
Prima che potessi bastonarlo un’altra volta, Occhiali da Sole mi sfilò l’arma dalle mani, cinguettando un “Ecco dov’era finita!”.
 
Volevo piangere. Rattata, che con tutti quegli sballottamenti si era svegliato, aveva assunto un colorito cadaverico. Trascinandosi sul mio stomaco fino a raggiungermi i fianchi, frugò nelle tasche dei pantaloni, addentò la sua pokéball e me la porse: quindi premette il muso contro il bottoncino e si lasciò incamerare dal fascio di luce rossa con un sospiro di sollievo.
Sbatacchiai la sfera di qua e di là, sperando che il maledetto potesse sentire ogni cosa.
Occhialini parve avere pietà di me – tanto che sistemò la presa sul mio dorso, rendendomi mi stabile – ed iniziò ad illustrarmi la situazione.
“Ti stiamo portando al Punto Blu della Pista. Ormai siamo vicini!” Indicò il cielo con un cenno di capo. Socchiusi gli occhi, aguzzando la vista: alcune delle chiome erano circondate da un alone azzurrognolo, proveniente da qualcosa sopraelevato rispetto ad esse.
“Ipotizzando che io vi creda.”, anche perché l’unica alternativa era che fossero dei rapitori di minorenni alle prime armi, “Come mai mi state aiutando? Come facevate a sapere che—“
Occhiali da Sole ridacchiò, impedendomi di finire la frase. “Ah, devi ringraziare il nostro idolo: è lei che ci ha chiesto di recuperarti.”
“Il vostro… idolo?”
“Ah. È conosciuta con molti nomi.”, sospirò Cresta, occhieggiando la luce bluetta che, man mano che avanzavamo, riusciva a penetrare più in profondità attraverso gli spiragli lasciati dalle fronde.  “La Dodrio Master. Il Terrore dei Tentacruel. La Cacciatrice di Sharknado. La Bullizzatrice di Granbull. La Campionessa-di-Braccio-di-Ferro-coi-Machamp.”
“Ufficialmente si è registrata al comitato sportivo come ‘Hellys, la Fuoriclasse’, ma per noi ammiratori è ‘La Fuoripista’.”, tagliò corto Sole.
Nigel mi fece ondeggiare una gamba. “Vuoi saperne il motivo?”
Rilasciai uno sbuffo annoiato. Essendo sua nipote era ovvio che fossi a conoscenza della storia dietro agli esagerati soprannomi che il pubblico attribuiva a mia Nonna. Dischiusi le labbra per dirgli di no, ma lui proseguì, estasiato. “Perché se osi starle davanti durante una competizione, c’è il rischio che lei ti tamponi fino a spedirti fuori dal percorso!”
 
Chiusi gli occhi, cercando di non pensare alla corruzione del mondo sportivo ed allo sgabuzzino pieno di coppe impolverate che avevamo a casa.
“Fatemi capire: mia Nonna vi avrebbe assoldato per recuperarmi?” Qualcosa puzzava; non tanto perché non mi fidassi della loro spiegazione, ma perché era inconsueto che Nonna decidesse di aiutarmi. Doveva esserci dietro lo zampino di Nonno Gerald.
“Oh, umh. Beh…” Occhialini tossicchiò. “Non ha ingaggiato solo noi.” Attesi qualche secondo, ma lui non parve essere intenzionato a proseguire. Teneva la testa leggermente abbassata, perciò non fui in grado di scorgergli l’espressione. Che avessi scoperto un punto dolente?
A salvarmi dall’imbarazzo intervenne Sole, squarciando il silenzio con una risatina nervosa. “Ci saranno otto, dieci squadre di soccorso sparse per Bosco Intreccio.”
Corrugai la fronte. “Sapete che i telefoni non prendono, vero? Non avete paura di perdervi?”
Cresta sghignazzò, mormorando qualcosa riguardo alla mia ingenuità.
“Per quello non c’è problema!” Mi assicurò Sole. “Abbiamo un walkie talkie per squadra.”
Un walkie talkie, ragionai, avrebbe potuto risparmiarmi molte grane.
Dopo aver inserito nella mia Lista delle Priorità la voce ‘Ruba compra un walkie talkie’ sotto a quella – ripetuta per ben quattro volte di fila – di ‘Procurati un Pokémon di tipo Fuoco’, pronunciai il mio apprezzamento.
“È bello sapere che alla stazione di sicurezza della Pista siano stati così disponibili da prestarvi delle radioline.”
Disponibili?”, Cresta sembrava disgustato, “Bah, assolutamente no! Noi sportivi abbiamo fatto una colletta e ce le siamo comprate. I ciccioni della security sono solo capaci di mangiare ciambelle ipercaloriche e cambiare il canale delle loro telecamere!”
“Beh”, s’intromise Occhialini, “Anche tu non fai altro che mangiare ciambelle, Zacharias…”
“Hai qualcosa da ridire sulle mie abitudini alimentari, vegetariano dei miei stivali?” Cresta scoprì i denti ed increspò la fronte; le sferette del piercing orizzontale gli adornavano il sopracciglio come due grosse verruche.
Occhialini si ritrasse più per raccapriccio che per altro e scosse la testa, facendo ondeggiare i capelli piastrati sulla schiena. “Vegano, grazie. E cosa centra, le ciambelle non sono mica fatte di carne…”
“Le tue di certo no, erbivoro!”
“Ti ho detto—“
 
Il bisticcio proseguì per tutta la camminata, fino a quando il brusio della foresta non si fece più distante e  l’erbetta rinsecchita non lasciò spazio ad un pavimento di legno sgangherato. Solo allora i ragazzi mi misero giù ed i miei piedi gioirono nel tastare finalmente una superficie levigata, liscia e meravigliosamente artificiale.
Mi guardai attorno, cercando di orientarmi.
Eravamo di fronte ad una delle colonne che reggevano la Pista. Era una costruzione sobria ma resistente, e ad occhio e croce il suo diametro doveva essere di una decina di metri.
I tre mi accerchiarono come delle bodyguards, accompagnandomi sul retro del pilastro dove, con mia somma felicità, ci attendeva un ascensore. Una volta entrati Nigel premette un pulsante, le porte metalliche si chiusero ed i nostri corpi iniziarono a salire, accompagnati da una melodia da sala d’attesa.
Dopo tre minuti – durante i quali Nigel e Zac continuarono a punzecchiarsi come cane e gatto – l’ascensore si fermò con un ‘Ding!’. Sgattaiolai fuori prima ancora che le porte si fossero completamente aperte.
 
Ero di nuovo sulla Pista Ciclabile, ma a stento riuscivo a riconoscerla.
Installate nella pavimentazione vi erano delle luci azzurre che illuminavano i lati del percorso, conferendogli un aspetto dolce. I mosaici sul pavimento (il più vicino dei quali riproduceva una grossa stella marina violacea, con al centro una gemma rossa incastonata) così colorati alla luce del giorno, giacevano opachi nella penombra; tuttavia quando una bicicletta vi slittava sopra scintillavano come lapislazzuli, riflettendo la fluorescenza del mezzo di trasporto.
Sgranai gli occhi, aprendo la bocca in un ‘wow’ insonoro. Le biciclette emettevano un alone luminescente sia lungo lo scheletro metallico sia lungo le ruote; persino i caschi erano in pendant.
Giallo, arancio, rosso, verde… fino al violetto. Ogni bici esibiva un colore diverso, ma erano tutti lì, a formare un arcobaleno caotico e pieno di vita.
Era come essere in un sogno, circondata da una colonia di grosse lucciole – poeticamente parlando, naturalmente. Le lucciole erano fra gli insetti più raccapriccianti delle ore notturne. Ti attiravano ammaliandoti con le loro lucine per poi tradirti, rivelando la loro vera forma non appena ti si fossero appiccicate ai vestiti. E dire che da piccola adoravo catturarle in barattoli forati e portarmele in camera con me, immaginando di essere circondata da tante lampade magiche…
 
Un braccio mi cinse le spalle, rompendo l’incantesimo. Sole protese una mano di fronte a noi due, presentandomi quello spettacolo.
“Benvenuta alla Pista Rainbow, fonte di gioia per tutti i ciclisti del mondo!”, il suo tono si fece più divertito quando aggiunse, “E gelosia. Soprattutto gelosia.”
Cresta si passò il dorso della mano sugli occhi, tirando su col naso. “È il motivo principale per cui mi sono dato al Ciclismo!”
Inclinai la testa verso di lui. “Quindi siete ciclisti?”
Le sue gote si tinsero di un rosso acceso. “Io sono un Ciclista! Questi incapaci non saprebbero nemmeno riconoscere una mountain bike da una bici a scatto fisso!”
 
Mentre ci incamminavamo verso la Base Blu, ebbero luogo le presentazioni. Avevo trascorso l’ultima mezz’ora in compagnia di un team di Triatleti che avrebbero partecipato alla gara a staffetta della prossima primavera. Zacharias (Cresta) si stava allenando con la sua nuova, fiammante bicicletta ed aveva trascinato Nigel (Occhialini) il Nuotatore e Leroy (Sole) il Podista assieme a lui per dare loro un assaggio di ciò che significasse vivere la dura vita del Ciclista.
Ed insieme formavano…
“Gli Smidollati!”, esclamarono, cercando di dirlo in coro ma fallendo miseramente. Una bicicletta trillò, e loro si districarono dalla posa drammatica che avevano assunto per lasciarla passare.
“…gli Smidollati.”, ripetei, atona.
Nigel sventolò le braccia, cercando di dissimulare l’imbarazzo. “S-sempre meglio dei Leccapiedi!”
“O dei Perditempo.” Aggiunse Leroy, grattandosi un orecchio.
“O dei Falliti!” Esplose Zacharias, sogghignando. “Quel Zuccapelata di Samuel non è stato molto fortunato, ma gli si addice!”
“Già, La Fuoripista sapeva cosa stava facendo, nell’affibbiarci i nostri soprannomi.” Alle parole di Leroy fecero tutti un lungo sospiro. “Ha centrato in pieno le nostre debolezze, rivelandocele. Adesso tocca a noi superarle e forse, un giorno, potremo diventare come Lei.”
Avrei tanto voluto dire loro che quei nomignoli non avevano nulla a che vedere con la loro crescita formativa. Che anche nel mio stato sonnacchioso riuscivo ad immaginare come fossero andate veramente le cose: da una parte mia Nonna in sella ad una bici che sbraitava ordini, dall’altra i membri del suo fan club che obbedivano alle sue parole come se fossero il verbo di un nuovo profeta.
Avrei dovuto dirglielo. Però
Zacharias tirò su col naso, battendo debolmente una mano sulla spalla del suo compare. “Ben detto, bro, ben detto!”
Nigel aveva ancora una volta il viso coperto dai suoi capelli. Una goccia d’acqua cadde sull’asfalto, bagnando la zona su cui lui andò a posare la sua scarpa da ginnastica.
Sono teneri, tutto sommato.
Sarei stata crudele a rovinare le loro ambizioni.
 
Quando varcammo l’ingresso della Base i tre avevano gli occhi arrossati, duri e risoluti di chi era pronto a portare a termine una missione. I miei facevano solo fatica a mettere a fuoco i dintorni.
Non era un edificio enorme, ma comprendeva una sala abbastanza ampia per far accomodare tranquillamente i turisti. Le statue di pietra dei passati campioni sportivi adornavano con la loro presenza il perimetro circolare della Base, vegliando sulla zona. In fondo alla struttura vi era la zona ristorativa, dove decine di tavoli erano stati posti sotto ad un sistema di colorati tendaggi tenuti su da dei fili ancorati al soffitto. La copertura doveva essere stata realizzata per affievolire la potenza dei raggi solari che, passando attraverso la grossa cupola di vetro installata sul tetto, dovevano ricadere sulla zona durante il giorno. Al momento, tuttavia, essa lasciava intravedere solo qualche stella: perciò il ristorantino aveva dotato ogni tavolo di candele. Impegnati com’erano a crogiolarsi in quel chiarore soffuso ed a non ficcarsi una forchetta nell’occhio – perché anche se i lumini erano romantici, non erano proprio il massimo dell’illuminazione – i clienti nemmeno si accorsero della nostra entrata trionfale.
Ottenemmo una diversa reazione dalla gente che gironzolava per il parchetto sottostante la cupola. Esso presentava una fontanella, delle panchine ed un’area ricreativa per i più piccoli dotata di scivoli, altalene e giostre girevoli: il luogo perfetto per procurarsi contusioni in allegria.
Laggiù si voltarono una manciata di teste incuriosite che però, alla vista di quello che poteva benissimo sembrare un episodio di bullismo da parte di tre mascalzoni ai danni di una ragazza indifesa, si affrettarono a tornare a farsi gli affari propri.
E poi i presentatori televisivi si chiedono come mai il nostro Paese stia andando in malora.
 
I Triatleti si scambiarono delle occhiate d’intesa per poi indirizzarsi verso una diversa zona della Base. Dopo un paio di passi Leroy si ricordò della mia esistenza e si voltò verso di me, esibendo un bel pollice in su ed un sorriso smagliante. “Non preoccuparti, Maddalena. Dacci il tempo di trovare tua nonna e saremo di nuovo da te! Intanto, perché non esplori il posto?”
Annuii senza molta convinzione. Lui proseguì per la sua beata strada, lasciandomi sola.

Bene.
Conoscendo mia Nonna potevo affermare che le probabilità che ella si fosse fermata alla Base Blu erano pressoché nulle. A quest’ora doveva avere come minimo raggiunto la zona Viola o Rossa, sgommando senza sosta solo per dimostrare chi comandasse veramente sulla Pista.
Adesso era solo questione di stimare quanto tempo libero mi restasse prima che i triatleti realizzassero che il loro idolo mancava all’appello.
 
Valutai il da farsi, ciondolando sul posto. Il mio stomaco emise un brontolio, reclamando il giusto compenso per le fatiche sopportate fino ad allora. Passai una mano sul mio ventre, chiedendogli di portare pazienza.
Dovevo confidare nell’ingenuità dei tre ragazzi: se ci avessero messo più di dieci minuti, avrei avuto tutto il tempo per comprarmi qualcosa da mangiare, trovare i miei compagni e darmela a gambe senza farmi notare. Ma dove potevano essersi cacciati?
Sorvolai i dintorni, cominciando dal ristorante – dove Zacharias stava rubando i menù dalle mani dei clienti, scoprendo loro il volto per poter trovare con più facilità il suo guru – e concludendo con il parco. Là una bambina stava percorrendo il muretto della fontana a braccia distese, in modo da tenersi in equilibrio. Una volta che ebbe fatto un giro completo, scese con un saltello e vi lanciò una monetina dentro, congiungendo le mani in una preghiera. Non avrà avuto più di dodici anni.
 
Distolsi lo sguardo, sentendo un brivido saettarmi per la schiena. Avevo perso tutto l’appetito.
Che fine aveva fatto il Banette? Mi stava ancora spiando, nascosto da qualche parte, in attesa di un mio passo falso? Avrei già dovuto dare inizio alle ricerche, a cominciare da quella bambina? E con quali criteri avrei potuto stabilire se lei fosse o meno la sua ex padroncina?
Mi morsi l’interno della guancia, avanzando a passo lento verso il parco. Quando lo raggiunsi feci un giro di ricognizione, superai la fontana – lanciando una rapida occhiata alla bimba, intenta ad ammirare i soldi sul fondo della vasca – ed uscii dalla parte opposta, sentendo il mio respiro tornare normale.
I suoi capelli erano raccolti in una coda che li lasciava cadere con morbidezza sul suo petto. Non poteva essere lei, perché erano troppo lunghi.
 
Mi passai una manica (sudicia, come a quel punto erano tutti i miei vestiti) sul retro del collo e, accorgendomi dello strato di sudore che lo permeava, i miei muscoli facciali si contrassero in una smorfia.
Dovevo controllarmi; non potevo andare nel panico per ogni ragazzino che avessi trovato per strada. Se avessi perso la mia compostezza di fronte ai miei compagni li avrei senz’altro fatti insospettire – e, nel caso di Désirée, avrei rischiato di spiattellarle tutte le informazioni su un piatto d’argento.
E non potevo permettermelo. Non sarebbe stato giusto farli immischiare in un problema che, in fin dei conti, era solo mio.
A quale scopo, poi? Come avrebbero potuto aiutarmi? Désirée non era nemmeno un’allenatrice, mentre Daisuke…
Daisuke avrebbe pensato ad un piano e poi avrebbe seguito il corso d’azione che gli fosse parso più adatto, confidando nella sua conoscenza. Faceva sempre così, quando si trattava di pokémon.
Ma quello non è un pokémon. Rilasciai un respiro tremolante. È un mostro.
Non solo aveva raggiunto un livello estremamente elevato anche senza la guida di un allenatore, non solo aveva acquisito capacità che gli permettevano di possedere corpi inanimati e di muovere l’oscurità a proprio piacimento, ma era anche dannatamente scaltro: mi aveva costretta a sottostare al patto proprio perché si aspettava una ribellione.
 
Avrei dovuto tenere la bocca chiusa e comportarmi come al solito.
Lo Spettro li avrebbe attaccati solo se gli avessi dato motivo di dubitare della mia lealtà. Fino a quel momento sarebbero stati fuori pericolo. E poi…
Glielo devo.
Era colpa mia se il Banette li aveva presi di mira. Li avevo cacciati io in quel guaio e spettava a me farli uscire. Fino a quel momento non ero stata capace di fare niente per loro.
Ora dovevo proteggerli: ed il primo passo per proteggerli sarebbe stato mentirgli.
 
Tornai alla fontana, vi infilai dentro le mani e mi sciacquai la faccia. Attesi qualche istante, sentendo il freddo penetrare nella pelle. Quindi rituffai una mano nello specchio d’acqua, arraffai qualche Poké disperso sul fondo e mi asciugai il viso con il lembo della mia maglietta. Quando me ne andai – stando bene attenta ad ignorare la bambina di prima, che per tutto il processo mi aveva guardato con perplessità – avevo sia un obiettivo che una destinazione.
 
Daisuke non poteva essere troppo distante. Era il genere di persona che seguiva alla lettera il protocollo del ‘Se ti perdi (o meglio, se si perde la povera disgraziata che ti accompagna), stai fermo in un punto’, quindi non c’erano che due alternative: o era lì da qualche parte, o era tornato indietro alla Base Verde. In tal caso avrei dovuto spedire il gruppo di triatleti a recuperarlo, perché non c’era modo che dopo gli avvenimenti della giornata avrei rimesso piede sui pedali di una bici.
Se invece aveva raggiunto la Base Blu sarebbe stato facile trovarlo. Non avrei neanche dovuto setacciare il parchetto o il ristorante; a lui servivano pace, tranquillità e carenza di umani.
Mi introdussi nel corridoio che separava le pareti dalle fila di statue ed iniziai a passeggiare, lanciando occhiate annoiate ai nomi incisi sulle loro pedane. Dopo otto sculture intravidi una familiare e confortante valigetta nera per pc portatili e rallentai l’andatura, prendendo tempo.
 
Daisuke era seduto sulla base d’appoggio appartenente ad una coppia di Ciclisti (“Bikers Chopper and Tyra”) ritratti mentre compivano un’impennata spregiudicata. Mi avvicinai al mio collega, sollevando una mano in segno saluto.
Il mio compagno stava scartando l’involucro di un tramezzino. I suoi movimenti erano fiacchi e lasciavano trasparire una certa disattenzione. Teneva gli occhi puntati sullo schermo spento del suo cellulare.
Si accorse di me solo quando gli fui di fronte. A quel punto sbatté le palpebre e, riacquistando un po’ di vitalità, mi fece spazio sul piedistallo lasciando un metro di distanza fra i nostri corpi. Sembrava disorientato, come se si fosse appena risvegliato da un lungo sonno.
Mi stiracchiai le gambe, facendo scrocchiare le articolazioni delle ginocchia. Le mie narici si riempirono della fresca, salata ma allo stesso tempo dolce fragranza di prosciutto appena sfilettato. Con la coda dell’occhio adocchiai il panino di Daikke: era composto di uno strato di affettato, seguito da una fetta di formaggio non-identificato, insalata e pomodori, il tutto abbracciato da due morbide fette di pane.
Ingoiando un fiotto di saliva appena sfornato, distolsi gli occhi e finsi nonchalance. Il mio stomaco però non doveva aver capito l’antifona, perché non aspettò che un paio di secondi prima di mettersi a brontolare. Daisuke, le cui labbra si stavano per chiudere attorno al tramezzino, alzò gli occhi al cielo e se lo allontanò dalla faccia. Lo spezzò a metà (causando la caduta di un povero pomodoro seguito da qualche ciuffo di insalata), allungandomene una fetta.
Un istante dopo quella era già sparita oltre ai confini della mia bocca, andando a farcirmi le guance.
“G’ffie!”
Daisuke si ritrasse con un “Non parlare con la bocca piena” piuttosto schifato, ed entrambi riuscimmo a finire lo spuntino senza interruzioni.
 
Terminato il tutto, mi afflosciai sulla ruota della bici di Tyra, sbadigliando. Venni colpita in testa da una pallina di carta stropicciata. La raccolsi, me la rigirai fra le dita – riconoscendola come l’involucro del panino – e gliela lanciai in faccia. Daisuke l’afferrò al volo senza battere ciglio.
“Non ti appisolare, che dobbiamo raggiungere il Centro Pokémon.”
Avvertii la mia fronte aggrottarsi in un cipiglio, ma mi sforzai di mantenere un tono leggero.
“Tsk, tsk. È questa la prima cosa che mi vieni a dire? Nessun ‘sei viva!’ o ‘cosa ti è successo, hai un aspetto terribile!’?”
Daisuke si ripulì le labbra, riflettendo bene sulle sue prossime parole.
“Sapevo che eri viva.”
Mi tirai leggermente indietro, sull’attenti.
“I morti non parlano.” Daisuke passò un dito sul touch-screen del cellulare, mostrandomi la sessione ‘chiamate perse’. “Men che meno cercano di telefonarti quattro volte.”
 
Chiaramente i miei morti erano diversi dai suoi.
 
Una vampata di calore mi investì il collo e le guance, ed i polmoni parvero venire schiacciati da una forza invisibile che li costringeva ad una perenne tensione.
“Ah.” Un battito di ciglia. “Quindi le hai ricevute.”
Daisuke si ritrasse, posando il telefono con gesti deliberatamente lenti. Fu proprio il vederlo così cauto che mi fece realizzare quanto fossi vicina a perdere le staffe.
Decisi di cambiare discorso. “Désirée?”
“Si è resa conto che tu eri tornata non appena hai messo piede nella Base. È andata a parlare con il supervisore della Pista per dirgli che può interrompere le ricerche.”
Qualche grammo di tensione mi scivolò via dalle spalle. Senza Désirée non dovevo preoccuparmi di tenere a bada pensieri compromettenti. Alzai lo sguardo al soffitto, abbassando il volume delle mie parole.
“Dovrò ringraziarla.”
Avrei potuto chiudere lì. Avrei dovuto chiudere lì. Ma evidentemente non mi ero ancora del tutto pacata, perché mi lasciai scappare: “Almeno qualcuno si è preoccupato.”
 
Daisuke raddrizzò la schiena, schiarendosi la gola. Mi irrigidii, presumendo che si stesse preparando ad un attacco verbale o ad una delle sue solite spiegazioni che, in quanto tecnicamente perfette, non mi avrebbero permesso di ribattere. Provai, senza riuscirci, a sopprimere la piccola parte di me che, imperterrita, continuava a sperare di ottenere come risposta una semplice negazione delle mie accuse.
Ma il modo con cui il mio compagno aveva distolto lo sguardo – incollandolo allo schermo del telefonino come se si trattasse di una zattera –  mi fecero capire che le mie aspettative erano destinate a restare insoddisfatte.
“Sono circa le sei. Se ci sbrighiamo, dovremmo raggiungere la prossima città per l’ora di cena.”
Qualcosa in me s’incrinò. La mia testa andò ad infossarsi fra le spalle. Mi affrettai a parlare, rifiutandomi di riflettere sulle sensazioni che stavano sbocciando nel mio corpo come piccoli rovi acuminati.
“Se pensi che dopo tutto quello che ho passato nelle ultime ventiquattro ore io possa ancora muovere un muscolo—”
“Sono passate solo quattro ore e quarantadue minuti.”
“Ed è tantissimo!” Lo fronteggiai, alzando la voce. “Sono caduta da decine di metri di altezza in un bosco senza uscita! Non sapevo dove fossi, come fare a tornare indietro,  era pieno di pokémon selvatici e…” Sbattei le ciglia. Nell’attimo in cui rimasero chiuse rividi un paio di occhi rosa; li riaprii nel sentire il mio petto venire trapassato da un arto tanto pulsante di energia quanto privo di vita. Deglutii, cercando di sciogliere i muscoli della mia gola.
“…e qualcuno non si decideva a rispondere al suo dannato cellulare!”
 
Daisuke distolse lo sguardo, tradendo una smorfia di rimorso; poi l’espressione venne inghiottita da un vortice di irritazione ed i suoi occhi si indurirono, tornando sui miei.
“Ero occupato.”
La falsità della risata che feci seguire era così pronunciata che mi parve di poterne sentire il gusto amaro sulla lingua. “Buffo, è la stessa cosa che mi ripeteva la voce preregistrata della segreteria ogni volta che il telefono mi permetteva di contattarti!”
Il suo volto s’imporporò: “Stavo chiamando la guardia forestale!”
“Tutte e quattro le volte?”
Anziché rispondermi si alzò in piedi, passandosi freneticamente le mani sui vestiti. Mi tirai su usando il manubrio della bici di Chopper come appiglio e, prima che Daisuke potesse muoversi di un solo passo, gli afferrai la tracolla della valigetta.
“Non pretendo tanto, ma merito almeno una risposta sincera!”
L’occhiata incriminante che stava lanciando alla mia mano passò su di me.
“Te l’ho detto. Ero occupato.”
 
La stanchezza che fino a quel momento avevo tenuto a bada si riversò sulle mie membra, appesantendole. Socchiusi gli occhi, congelando le labbra in una linea inespressiva.
Non riuscivo a capire. Non riuscivo a capirlo. Perché, dopo tutto ciò che avevamo passato assieme, si ostinava a trattarmi ancora alla stregua di una conoscente?
 
(Forse rimarrai sempre tale, per lui.)
 
La mano con cui gli stavo cingendo la borsa si era messa a tremare. La studiai, senza riuscire a venire a capo di ciò che stessi provando. Percependo il calore del mio petto svanire pian piano, mollai la presa. Rimasi immobile, limitandomi a scrutarlo oltre le sue lenti antiriflesso.
 
Daisuke ghermì la tracolla con fare protettivo; quindi aggrottò la fronte e sollevò il mento, in attesa della mia prossima mossa.
Ma ero stanca di combattere per una causa persa in partenza.
Invece, divenni conscia delle grida divertite di qualche ragazzino che giocava nel parco. Del brusio della gente. Dei cling di alcuni bicchieri di vetro. Spostai gli occhi sulle piccole scene di vita che stavano avvenendo oltre le nostre spalle, coinvolgendo decine e decine di persone sconosciute in attività tanto quotidiane quanto speciali. Immaginai di unirmi a loro, di mettere piede in quel mondo e prendervi parte. Mi sarebbero bastati pochi passi; ma le mie gambe erano ancorate al pavimento. Abbassai lo sguardo, e per un attimo ebbi l’impressione che dei tentacoli oscuri venati di viola si stessero attorcigliando attorno ai miei arti. L’illusione svanì in un battito di palpebre, lasciandomi come eredità dei muscoli tesi ed un cuore pesante.
Il mio labbro cedette, abbandonandosi ad una smorfia.
 
Inspirando a fondo, Daisuke rilasciò la presa sulla cinghia ed incrociò le braccia, facendo tamburellare le dita contro il suo gomito. Dischiuse le labbra, ma ci mise un paio di secondi prima di iniziare.
“Stavo parlando al telefono.” La sua voce era ferma, volutamente piatta; ma si stava stringendo le braccia con così tanto vigore che le sue nocche erano diventate bianche. “Con i miei genitori.”
 
Mi dimenticai del mondo circostante. Mi dimenticai del litigio. Mi dimenticai della Pista Ciclabile, di Bosco Intreccio e del patto.
Genitori.
Sbottai con la prontezza di un giocattolo a molla, costringendo Daikke a fare un passo indietro.
“Con—!” Emisi un verso strozzato.
Daisuke ha dei genitori.
Mi misi una mano davanti alla bocca, tossendo fino a sbarazzarmi della saliva che mi era andata di traverso.
Perché non ci avevo mai pensato prima? Certo che aveva dei genitori. Da dove doveva essere nato, da delle spore?
Ma non mi ha mai parlato della sua famiglia, razionalizzai. Per forza mi sembra così surreale.
Posai lo sguardo sul pavimento lucido, intravedendoci riflessa la mia sagoma. I contorni erano sbavati, e non riuscivo a riconoscere la mia faccia.
Un lieve torpore mi attanagliò il corpo, rendendolo leggero, come se fosse stato fatto d’aria. Al contrario, la mia testa si stava facendo sempre più pesante, intorpidita dal formicolio di alcuni ricordi che reclamavano di tornare alla luce. Nelle mie orecchie rimbombava un irregolare crepitio, che in scala ridotta sarebbe stato simile a quello emesso dalla carta delle caramelle quando le si stropicciava.
 
“Sì, i miei genitori.” Daisuke scandì le parole, sulla difensiva. “C’è qualcosa che non va?”
Scrollai la testa. Picchiettai il mio riflesso con la pianta del piede, sentendo che il pavimento era solido, regolare. Il ‘tap tap’ che ne derivò andò a sovrapporsi agli echi precedenti, fino ad estinguerli del tutto. Inspirai, aggrappandomi all’odore di prosciutto di cui l’aria era ancora impregnata.
“No, no.” Portai una mano alla tempia, applicando una lieve pressione. “Sono solo stanca.”
Il sopracciglio di Daisuke si abbassò di scatto assieme al suo gemello, creando un labirinto di rughe sulla sua fronte. Sembrava tutt’altro che convinto.
Mi affrettai a rincarare la dose. “… e poi non è cosa da tutti i giorni scoprire che il proprio compare vampiresco sia ancora in contatto con entrambi i genitori. Abitate in un castello? Avete delle bare personali? Una fornitura di sacche di sangue umano di scorta nella cella frigorifera? Un…”
Daikke sbuffò, passandomi di fianco per marciare verso l’uscita. Non ero certa che se la fosse completamente bevuta, ma aveva deciso di dar retta al suo istinto di sopravvivenza e di tornare ad ignorare la mia parlantina.
Cercai di stargli dietro: cosa un po’ difficile, visto e considerato che una delle mie gambe faticava a svolgere adeguatamente il suo lavoro. Daisuke, che a metà strada aveva buttato un occhio nella mia direzione, rallentò fino ad assumere un’andatura pacata; ma lui non si espresse, ed io feci finta di niente.
 
Prima che potessi superare i tornelli d’uscita, s’innalzò in aria un coro di voci stonate.
Maryleen!”
Digrignai i denti, non provando nemmeno a nascondere l’irritazione che i tre triatleti erano in grado di suscitare in me. Mi toccò abbandonare la faccia scocciata, però, quando nel girarmi mi accorsi che anche loro sembravano essere giù di morale: la bocca di Nigel era contratta in un broncio da cucciolo bastonato, Leroy si stava passando una mano dietro la nuca e Zacharias aveva iniziato a stropicciarsi furiosamente gli occhi.
“Cosa c’è, adesso?”, domandai, spossata.
Zacharias avanzò verso di me, ficcandosi le mani nelle tasche. Per la prima volta mi resi conto di quanto fosse effettivamente alto; della compattezza dei muscoli che si delineavano pure attraverso i suoi pantaloni elasticizzati; del suo aspetto da malvivente appena uscito di prigione. Si fermò ad un metro da me ed inclinò la testa, facendo luccicare i suoi piercing.
“Abbiamo un problema.” La sua voce risuonò come il ringhio di accensione del motore di una motocicletta. “Con te.”
 
Con la coda dell’occhio vidi Daikke mettere mano alla tasca delle pokéball.
Dovevo ammettere che se non avessi avuto modo di vedere come Zacharias normalmente si comportasse, mi sarei messa a sudare sette camicie. Ma mi era difficile prendere sul serio qualcuno che solo una ventina di minuti prima mi aveva frantumato i timpani a furia di criticare i nuovi tipi di bicicletta usciti in commercio (perché “No, la Girafarig non si avvicina nemmeno lontanamente al miglior tipo di bici da passeggio! Cosa diamine hanno bevuto quelli della Rainbow Sportsmen on Two Wheels Inc. prima di stilare quella graduatoria?”), solo per zittirsi nel sentirsi dire da Leroy che, se la metteva così, avrebbero dovuto trovargli un nuovo regalo di compleanno.
Prima che la situazione potesse degenerare, feci un passo avanti, frapponendomi tra lui e Daikke.
“Che succede? Spero che sia importante, perché noi stavamo giusto—”
Come in un effetto domino, i triatleti si azionarono uno dopo l’altro; a cominciare dal loro capo, che andò dritto al punto.
“Non riusciamo a trovare La Fuoripista.  Cosa facciamo?”
Nigel prese ad arricciarsi i capelli con l’indice, tradendo un certo nervosismo. “Te ne vai? Stai bene? Non ci saluti nemmeno?”
Zacharias, tenendo lo sguardo puntato verso un angolo del soffitto, estrasse dalle sue tasche un cellulare e me lo porse con nonchalance. Lo riconobbi come uno degli ultimi modelli, con una sola differenza: il display era talmente fracassato che in più punti mancavano dei frammenti di vetro.
“Mi daresti il numero di tua Nonna?”
 
Not cool, bro!”, accusò il Podista, abbassandosi gli occhiali da sole con un gesto incredulo.
Zac, m-ma che cavolo—“ Nigel arrossì.
Il diretto interessato gli lanciò un’occhiata di sfida. “Qualcosa in contrario, erbivoro?”
“No, tutt’altro!”, il nuotatore si posò il dorso della mano sulla fronte. “Mi ero già rassegnato all’idea che saresti finito in carcere per molestie alle ragazzine. Scoprire dove giacciono realmente le tue preferenze mi tranquillizza, per quanto mi disgusti.”
“Ma cos— Nigel, pezzo d’idiota! Voglio solo l’autografo!”
Gasp!” Leroy si portò una mano al petto. “È ancora peggio di quel che mi aspettassi!”
“Bro?”
“Siamo davvero ‘bros’, Zac?”
“Eh?”, il povero Ciclista era sconcertato. “Certo che…”
“Hai tradito il gruppo!”
Seguì un sussulto da parte del suo interlocutore.
“Ma, Leroy. Bro.” Allargò le braccia, nascondendo un sorrisetto amareggiato. “Avevo intenzione di chiedere il nostro autografo.”
Gli altri due lo fissarono, stralunati. Tirai fuori il cellulare, appena in tempo per riprendere la replica del rituale dei batti-i-cinque che avevano svolto all’inizio della nostra conoscenza. Anche questo si concluse in un fiasco ed il cellulare di Zacharias sfuggì dalle sue mani, andando a sfracellarsi a terra qualche secondo prima dei triatleti.
Beh, questo spiega come mai il display sia ridotto in quello stato.
Raccolsi l’aggeggio (sulla cover qualcuno aveva disegnato a pennarello glitterato un omino dotato di cresta che sfrecciava sorridente su una bici) e lo accesi, trascrivendo l’unico numero che conoscevo a memoria sulla rubrica.
 
Terminata l’operazione, lanciai il telefonino verso il gruppetto. Nigel lo schivò, ma Leroy non fu così fortunato (era troppo impegnato a recuperare i suoi occhiali da sole, che gli erano caduti a terra) e lo ricevette sulla tempia. Zacharias lo afferrò di rimbalzo senza battere ciglio. Quando ebbe controllato il nome del nuovo contatto, gli si corrugò la fronte.
"Uh, Marilena…”, mi morsi una guancia, trattenendomi dal correggerlo. “Chi è questo Theodore Higgins?"
Daisuke, che dopo aver compreso di essere in compagnia di persone innocue aveva oltrepassato il tornello, prese a ridacchiare a bassa voce. Cercando di non dare peso al fastidioso calore che mi si era diffuso sul volto, risposi alla più che lecita domanda.
“Mio zio”, sollevai un pollice, “ed il mio avvocato.”
Nigel si strofinò l’avambraccio sinistro. “Avvocato? Siamo nei guai?”
“Nah”, lo tranquillizzai. “Ma vi servirà il suo aiuto se vorrete ottenere l’autografo di Nonna.”
Allo sguardo vuoto dei tre, aggiunsi una piccola delucidazione. “È convinta che nessuno meriti di riceverlo; perciò appena verrà a sapere della vostra richiesta cercherà di non farsi trovare da voi fino alla fine dei suo giorni.”
Il Ciclista si massaggiò il mento. “Ah, ora è tutto più chiaro. Graz— ehi!
Leroy gli rubò il telefono e pigiò sul display un paio di volte. Zacharias se lo riprese in fretta e furia, controllando lo schermo.
“Cosa hai…”, emise un piccolo gasp di comprensione. “Hai cancellato il numero!”
“Yup.” Il caposquadra stava sorridendo.
“Ma… perché? Non hai sentito quello che ha detto Mariposa?” Quel nomignolo frantumò ciò che rimaneva del mio orgoglio; mi coprii il petto con la mano, avvertendo tante piccole schegge andare a conficcare i miei polmoni. Daisuke si coprì la bocca con il braccio, tossendo con discrezione. Ma le sue spalle tremavano ed i suoi occhi erano troppo giulivi e—
Mi coprii il volto con una mano.
Dannazione al karma.
 
Intanto gli altri due continuavano a discutere.
“Certo che sì. Ecco perché sono certo che non avremo bisogno di questo Teocleziano Isidoro.”
Nigel si era ridotto alle suppliche. “Leelee, cosa dici?”
Le labbra del Podista si incresparono in un ghigno deciso. “Intendo dire che noi ce la faremo: diventeremo dei meritevoli.”
Zacharias spalancò la bocca. Nigel, come folgorato, gli cadde addosso, costringendolo a fare un passettino di lato per recuperare l’equilibrio. Il sorriso di Leroy si spense.
“Che c’è? Ho detto qualcosa che non…”
Il Ciclista gli si avventò contro e, tenendogli ferma la testa con il braccio, procedette a grattuggiargli la zucca con le nocche. “Aw, sapevo che c’era un buon motivo per cui ti abbiamo eletto caposquadra!”
Al supplizio si aggiunse il Nuotatore che, una volta ripresosi, si mise a premere con l’indice la guancia del più grande. Aveva il naso arrossato. “Però sei troppo imbarazzante! Piantala!”
 
Daisuke li indicò con un cenno del capo, inarcando un sopracciglio. Ribattei con un’alzata di spalle ed un sospiro sconfortato.
“Beh, è giunto il momento di andare.” Augurai un sincero “Buona fortuna!” ai ragazzi – poveri illusi, non avevano la benché minima idea di quanta gliene sarebbe servita – ed oltrepassai il tornello con uno sbadiglio.
I triatleti si scollarono di qualche centimetro l’uno dall’altro, salutandomi ognuno a proprio modo.
“È stato un piacere, Marzolina!” Leroy si abbassò gli occhiali, facendomi l’occhiolino. “Se questa primavera ti capita di passare per Rubincorallo, vieni a fare il tifo per noi!"
“Cerca di non cadere più dalle piste.” Zacharias si rimise il cellulare in tasca, sghignazzando. “O anche da altri posti, già che ci sei. E se proprio non puoi fare a meno del brivido, procurati un Pokémon Volante!”
Dopo avergli tirato una gomitata, Nigel sventolò un braccio nella mia direzione. “Buona fortuna anche a te con il tuo viaggio!”
“Alla prossima!”, gli rivolsi un sorriso tirato. “E per l’ultima volta, mi chiamo Madeleyne!”
Mi tappai le orecchie, bloccando i loro saluti – che ero sicura contenessero altre storpiature del mio nome – e mi affrettai ad oltrepassare la porta scorrevole dell'uscita, ritrovandomi…
 
Fuori.
Al buio.
In cima ad una cavolo di collina dalle discese tortuose, circondata dalla boscaglia.
La stanchezza che ero riuscita a dissimulare grazie anche al piccolo contributo energetico fornitomi dal panino ritornò a farsi sentire a piena potenza, facendomi pizzicare gli occhi.
"Daikke..."
Anziché subire l'influsso malefico causato dal suo disprezzato nomignolo, Daisuke mantenne un'espressione neutra; ma oltre alla montatura dei suoi occhiali riuscii a scorgere un guizzo di meschinità.
"Mariangela."
Era divertente— ed anche piuttosto appagante. Normalmente non avrei esitato a far notare a Daisuke che finalmente, dopo tante settimane trascorse in mia compagnia, era riuscito ad apprendere l’arte delle Battute Di Ripicca. Ma nei paraggi non c’era traccia di civilizzazione eccetto i piccoli sentieri che si addentravano fra gli alberi della foresta. Alberi troppo simili a quelli che pensavo di essermi lasciata addietro dopo essere salita sull'ascensore.
Tirai su col naso, e Daikke perse subito l'espressione divertita.
"Che succede? Stai male?"
Per un piccolo attimo di debolezza mi venne voglia di raccontargli tutto. Del Banette, dell’accordo.
Ma alla fine riuscii a trattenermi e scossi la testa. Al momento era al sicuro; non potevo mettere a repentaglio anche quella piccola certezza.
"Vorrei solo poter dormire per un’intera settimana."
Il mio compagno chiuse gli occhi, sistemandosi gli occhiali.
"Metterò la sveglia alle dieci, contenta?"
"Le dieci di dopodomani?"
Mi scoccò un'occhiata piuttosto eloquente, che mi fece emettere un versetto mogio.
 
Dato che Désirée non si era ancora fatta viva, decidemmo di metterci comodi ed aspettarla all’uscita. Mi sedetti a terra e, nella speranza di riuscire a trovare qualcosa di edibile, rovesciai sull’erba il contenuto del mio zaino. Qualche medaglia, qualche pokéball vuota, qualche cartaccia, la pietrafocaia che avevo ricevuto in dono da un signore, dopo averlo salvato dalla sua casa in fiamme. Fra le cianfrusaglie spiccava il mio povero blocco da disegno: era spiegazzato in più punti ed il dorso che teneva assieme i fogli si era scollato per metà della sua lunghezza.
Quanto tempo è passato dal mio ultimo disegno?
Non riuscivo a ricordarmelo. Sollevai il blocchetto con l’intenzione di posarlo al limite del mucchio di oggetti, lontano dal mio raggio visivo, quando da sotto di lui fece capolino qualcosa di giallo e grosso come il mio pugno. Agguantai il ritrovato bottino e me lo portai vicino al petto, per ammirarlo lontano da occhi indiscreti: era la pietra che qualche settimana prima avevo sgraffignato dalla cassaforte del Team Pyro, nascosta dentro la casa diroccata. Non avevo ancora avuto modo di controllare di quale gemma si trattasse, ma ero certa che mi sarebbe valsa fior di Poké.
 
Con un sorrisetto sulle labbra, ributtai tutto nella Borsa ad eccezione di Dexi.
“Daikke?”
Il quattrocchi sussultò, preso alla sprovvista dal mio attacco a sorpresa. Prima che potesse dare il via ai rimproveri, gli allungai il Pokédex. “Puoi darci un’occhiata? Credo che ci siano dei problemi con la batteria.”
Il ragazzo rilasciò uno sbuffo, ma lo prese senza fiatare.
“Ah, e mi potresti dare qualche Pozione?”
Di fronte a quella inusuale richiesta Daisuke non poté fare a meno di spalancare gli occhi, per poi passare a scrutarmi il volto. “Perché?”
Inclinai la testa di lato, cercando di presentarmi come l’immagine dell’ingenuità.
“Non le hanno tutti gli allenatori?”
Daikke non sembrava nemmeno lontanamente convinto, ma per il momento doveva aver deciso di lasciar perdere, perché qualche secondo dopo mi porse la mercanzia. Erano due spray violacei ed uno arancione.
“Quella arancio è una Superpozione. Usala solo come ultima risorsa.” Gli avvicinai lo zaino e lui ce le lasciò cadere dentro. “Più tardi ti mostrerò come applicarle.”
La mia replica consistette nel ripescare, dopo un breve ripensamento, una delle bottigliette. Finalmente avrei potuto scoprirne di più sul misterioso composto che avevo visto più volte essere capace di chiudere ferite, far sparire ematomi e salvare organi interni con un solo spruzzo.
Cos’era una ‘Pozione’? Cosa si celava dentro a quello spray? E per quale assurda legge discriminatoria ai pokémon era concesso di godere di tali magiche proprietà, mentre l’unico beneficio che gli umani potevano ricavare dal suo utilizzo era quello di rinfrescarsi durante le torride giornate estive?
Iniziai a leggere la lista degli ingredienti, decisa a venire a capo di tale congiura. La mia determinazione resistette tre minuti buoni, che trascorsi fissando a vuoto l’infinita lista di formule chimiche stampata sull’etichetta; dopodiché ributtai la medicina nella borsa, chiudendola con cura.
Niente da fare: il nemico adoperava un codice di un livello troppo elevato. Presi a strappare ad uno ad uno i fili d’erba, valutando a grandi linee a quanto dovesse ammontare il patrimonio di chi aveva brevettato quello strumento.
 
Daisuke si schiarì la gola, richiamando la mia attenzione.
“Sembra essere tutto a posto.” Premette sul pulsante ‘Power’ di Dexi, passandomelo non appena si fu disattivato lo schermo.
Fissai l’arnese, corrugando la fronte. “Davvero? Strano, perché…”
“Sicura di non averlo spento per sbaglio?”
“Al cento percento. Io, uh…”, ripensai a quando la luce del congegno si era indebolita. “Anzi, facciamo ottanta percento.” A quando, in preda all’agitazione, mi ero messa a percuoterlo ed a premerne i bottoni a caso. “Okay, non lo so. Può darsi? Insomma, tutto sommato era buio e…”
In mancanza di parole adatte, gesticolai un po’ con le mani, rivelando la mia frustrazione. Il damerino commentò il tutto con un ‘Mmh.’ , per poi perdere interesse e mettersi a guardare la fronde degli alberi.
Lanciai un’occhiataccia a Dexi, riponendolo al suo posto.
 
“Madeleyne.”
Trattenendomi dal mordermi una guancia – Daisuke mi chiamava per nome solo quando ero in guai seri – mi voltai di nuovo verso il mio compagno. Cercai di individuare dove avessi sbagliato, cosa mi fosse sfuggito, ma la mia testa era vuota. Che avesse capito che gli stavo nascondendo qualcosa? Che—
“Riguardo a prima…”, fece per massaggiarsi il collo, ma all’ultimo secondo cambiò corso d’azione e si limitò a sistemarsi gli occhiali. Sbattei le ciglia, senza capire.
Prima?
Rilasciò un respiro affannoso, che risuonò vagamente simile ad un ‘umh’ non programmato. Deglutii, senza capire dove volesse arrivare.
“Sì?”
Daisuke rimase immobile per una manciata di secondi, per poi lasciar cadere la mano con cui si stava schermando il volto. Quando incrociò il mio sguardo, ebbi l’impressione di starmi specchiando in un mare in tempesta.
“Anche io ero p—“
 
Maddy! Daisuke!” Un turbine d’energia si schiantò sul mio corpo, facendomi cadere a terra. Nella confusione mi resi conto che qualcosa mi stava schiacciando e che i miei respiri iniziavano a farsi sempre più corti e rantolanti.
Il mio viso era a cinque centimetri da una matassa di fili dorati, che esclamò: “Non sai quanto ero in pensiero! Avrei voluto venire a cercarti per Bosco Intreccio con gli altri sportivi, ma loro mi avevano incaricato di avvertire la sicurezza e p-poi, i pokémon, io non riesco a—”
“D-Dés… aria!”
La ragazza sussultò, togliendosi da sopra il mio corpo.
“Scusa, scusa. Mi sono lasciata trascinare dal momento.” Quando si scostò i capelli dal volto, la vidi indossare un sorriso imbarazzato. “Ma sono davvero felice che tu sia tutta intera… perché sei tutta intera, vero?”
Soffice calore si diffuse per tutto il mio busto, solleticandomi il petto. La mia gola pizzicava.
Le allungai una mano; lei la prese, aiutandomi ad alzarmi.
Mi schiarii la voce. “Sono a posto, non ti preoccupare.” Poi mi massaggiai la testa, ridacchiando. “Anche se credo di essermi appena fratturata l’osso sacro.”
Désirée incespicò sulle parole, avendo difficoltà a scegliere la frase di scuse più efficace.
 
“Bene.”, Daisuke si staccò dal muro della Base, facendo qualche passo lungo il percorso centrale che diramava dall’uscita della Pista Ciclabile. “Ora che siamo tutti qui, possiamo proseguire.”
“Ugh, non possiamo stendere i sacchi a pelo ed andare a dormire?”, ribattei, seguendolo controvoglia.
“Sono solo le sei e mezza.”, mi fece notare, senza cattiveria. Qualunque cosa avesse cercato di dirmi prima, non sembrava più intenzionato a comunicarmela. Sospirai, appuntandomi che gliel’avrei dovuto chiedere non appena avessimo raggiunto il Centro Pokémon di turno.
“Questo non vuol dire niente!”, bofonchiai con petulanza. “Désirée, aiutami!”
“Emh…” La ragazza si posò un labbro sulle labbra ed inclinò la testa, sorridendo debolmente. “A Kalos stanno già tutti dormendo…?”
Un attimo di silenzio.
Giusto!”
Non avevo la benché minima idea di cosa fosse Kalos.
Daisuke  rilasciò un verso frustrato. “Kalos è dall’altra parte del mondo!”
“E quindi?”
“Sono le sei di mattina!”
Ah. Cavolo. Umh.
“Désirée?” Aiutami.
“Ah… è comunque buio?”
Schioccai le dita. “Giustissimo!
Daikke si massaggiò il setto nasale e, esprimendo la sua resa con un ‘Ugh!’ spossato, affrettò il passo, facendoci strada fra gli alberi.
 
 
 

 
 
 
 

 


~Author’s Corner~
Ho scritto così tanto che mi faccio schifo da sola. Chiedo scusa a tutti per la lunghezza infinita di questo capitolo, ma mi sono resa conto troppo tardi di aver sbagliato a suddividere questi ultimi chapters e questo qui ne ha purtroppo dovuto risentire.
Quindi, uh. Sì. Se sarete in molti (anche uno basta, lol) a lamentarvene, la prossima volta cercherò di dividere i ‘capitoli-mostro’ in due.
E dato che il chap è gigante, ci saranno sicuramente delle parti con errori grammaticali/sintattici/poetici (?) e non.
Ahimè, posso solo dire di aver fatto del mio meglio.
Al prossimo chapter~
   
 
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