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Autore: Eneri_Mess    14/02/2017    0 recensioni
« Si sono verificati strani casi, in diverse parti del paese. Notizie sparse, che nessuno collega tra loro, ma tutte riguardanti donne e neonati apparentemente morti a causa di tristi incidenti o per negligenza. Alcuni palesemente uccisi da ignoti. Fatti di cronaca che si perdono tra elezioni politiche e sfilate di moda ».
Genere: Azione, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shoujo-ai | Personaggi: Altro Personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo per il COW-T 7, terza settimana, prima missione.
Prompt: Le cose non vanno mai come credi
N° parole: 5.065


 
My black backpack stuffed with broken dreams
Twenty bucks should get me through the week
Never said a word of discontentment
Faught it a thousand times but now
I'm leaving home

 
La mia borsa riempita di sogni infranti
Questi quattro soldi dovrebbero bastarmi ad arrivare alla fine della settimana
Senza aver mai pronunciato una parola di scontentezza
Ho combattuto ciò un migliaio di volte
Ma ora me ne andrò
 
[Evanescence – Exodus]
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Mission 03. Devil May Cry
 
 
« … il cliente da lei chiamato non è al momento raggiungibile. La invi- »
Il ricevitore fu riagganciato bruscamente; in automatico, gli spiccioli non utilizzati caddero tintinnando nel vano del resto, dove due dita frettolose e tremanti li recuperarono, stringendoli con rabbia. Le lacrime continuavano a rotolare sulle guance, seguendo scie ormai consolidate; ma come scendevano, così venivano asciugate senza alcuna delicatezza con la manica della giacca, arrossando la pelle infreddolita.
« ‘fanculo! » imprecò tra i denti, non perché reputasse sbagliato gridare qualche sano volgarismo, ma più si guardava intorno, più desiderava sparire.
La gente fuori dalla cabina del telefono passava, camminava vicino, lontano da lei. Indifferente. Eppure sentiva sguardi addosso ovunque. Sentiva che la fissavano, la osservavano.
Rimanere all’interno di quel servizio pubblico era stupido; le pareti che la circondavano erano trasparenti, vetro, come una vestaglia sexy o una gabbia da circo. Eppure tornare per strada, ritrovarsi nuovamente in mezzo a quella fiumana di braccia, teste, occhi, bocche, gambe, che sapevano dannatamente dove andare, le stava per far venire un attacco di panico.
Il suo respiro era veloce e pesante, mentre la testa scattava alla ricerca di qualcosa che non c’era. Pensieri febbrili, interrogativi su interrogativi, le arrovellavano la mente, senza lasciarle il tempo di poter pensare a qualcosa di concreto, a una soluzione. Una soluzione che non fosse quella di rannicchiarsi da una parte e disperarsi.
Stava già piangendo, senza volerlo, e per si odiò profondamente.
Un rumore improvviso alle spalle la fece voltare di scatto, mandandole il cuore in gola.
« Ehi tesoro! Hai finito o no lì dentro!? Avanti smamma! » brontolò un perfetto sconosciuto fissandola attraverso gli occhiali da sole e la porta della cabina, con la bocca distorta in una smorfia seccata.
Senza spiccicare una sillaba, ma lanciandogli un’occhiata durissima che l’uomo si guadagnò per il tono e le maniere, la giovane raccolse lo zaino nero e si precipitò fuori, urtandolo volontariamente.
« Ma porca… » iniziò quello, ma lei non udì il resto dell’imprecazione, addentrandosi in quella giungla di corpi in movimento.
Dopo un passo e un respiro piuttosto accelerati, che la portarono a sbatacchiare addosso agli altri come fosse stata ubriaca, guadagnandosi altre lamentele, riuscì a calmarsi e a distendere un poco i nervi ormai prossimi allo spasmo. Tuttavia non alzò il volto, marciando spedita con lo sguardo fisso sul marciapiede, come se le risposte che andava cercando potessero venire da lì.
Sì, delle risposte. Fu quel pensiero a bloccare gradualmente la sua folle camminata verso il nulla. E dire che una meta ce l’aveva pure, doveva solo trovarla…
Ma… ma. Cristo, anche sapendo dove doveva andare, cosa avrebbe risolto?
Voleva davvero risolvere qualcosa?
Fu il suo turno di essere spintonata da qualcuno che neanche le chiese scusa. Era a un semaforo, tutti stavano attraversando. Li seguì, ma mantenendo il capo semi-chinato, continuando a guardarsi intorno col cuore che non smetteva di battere furiosamente.
Credeva di aver già toccato l’apice assoluto della solitudine, in passato. Si era sbagliata. Troppo. Non solo ora era sola, ma anche nei guai. Guai che non sapeva nemmeno come classificare. Incubi probabilmente. Ma gli incubi non erano reali, non lo erano mai stati.
Attraversò un’altra strada, con la sensazione di stare girando in tondo. Era stanca, era spossata. Le faceva male lo stomaco e la testa, senza contare la gola che cercava di proteggere col colletto del cappotto. Non pensava avrebbe mai desiderato tanto tornare a casa. Tornare tra quelle quattro mura che aveva odiato, da cui invano era fuggita più volte. Tornare da suo padre…
I suoi piedi si arrestarono prima che lei ne prendesse coscienza. Lasciò che dalla spalla lo zaino le scivolasse lungo il braccio, fermato in tempo solo dalla mano. Anche il suo corpo scivolò, lento, adagiandosi contro la saracinesca di un negozio in vendita con un suono metallico a cui nessuno fece caso.
Dov’è che stava andando?
Era spaventata, sì. Una parte di sé aveva accettato quella paura viscerale, che risaliva ogni muscolo, ogni fibra al solo ricordo di cosa si era trovata di fronte. L’ignoto. Anzi, qualcosa che andava al di là di esso. Un baratro di orrori. Se la sua mente si fosse focalizzata ancora una volta su quelle cose, che stupidamente sperava fossero solo un frutto marcio della sua immaginazione irrazionale, avrebbe vomitato.
Tuttavia, una voce, più inconsistente dei sentimenti che stava sperimentando, continuava ad assillarla allo stesso modo, riecheggiante e acuta, come il gracidare di un corvo.
Sei libera, diceva.
Una realtà. Così questa vocina voleva farla apparire. Come una semplice, basilare e semplificata realtà. Quasi una verità, nuda e ideale. Non teneva conto del sangue, o del terrore, della separazione. Di quello che aveva passato negli ultimi, lunghi giorni. Solo un grido represso, drasticamente tacitato dalla gravità del presente, eppure ancora lì, a dar fiato a un desiderio che avrebbe sempre voluto realizzare. Essere libera.
Ma non in quel modo.
Non con…
Represse un singulto, rischiando di strozzarsi. Basta. Doveva piantarla di piangere. Non aveva mai pianto in vita sua e ora non riusciva a smettere? E solo perché aveva scoperto un altro Inferno? Era un’idiota.
Si guardò intorno, e non scorse niente. Sempre gente che passava, palazzi sconosciuti, clacson e campanelli di biciclette. Non ricordava neanche com’era arrivata lì. L’importante era esserci. Salva, e incolume. E che trovasse quel posto, come suo fratello le aveva detto. Come suo padre le aveva fatto promettere.
Per la prima volta sentì il peso dei suoi ventuno anni, di non essere più una bambina bisognosa della mano di un adulto per rimettersi in piedi. Non che l’avesse mai voluta, quella mano. Ma ora, stringerla, l’avrebbe – e si vergognava ad ammetterlo – rassicurata. Se in quel momento qualcuno le avesse offerto aiuto, forse, si sarebbe sbilanciata ad accettarlo.
Purtroppo pareva non ci fosse alcun passante a coltivare quell’intenzione. Tutti proseguivano, non degnandola di un’occhiata.
A lei andava bene così. Lei non era nessuno, loro erano altrettanto. Era cresciuta volendo cavarsela unicamente per conto suo, e così avrebbe continuato. Avrebbe trovato chi doveva, si sarebbe fatta spiegare quella situazione – a cui non sapeva più che aggettivo affibbiare per descriverla – e poi… poi sarebbe tornata indietro.
Prendere quella decisione era anche più difficile che trovare il coraggio di andare avanti.
Perché sapeva che probabilmente non c’era nessuno ad attenderla.
Appoggiò una mano contro la saracinesca, riacquistando un equilibrio puramente esteriore, e si rimise lo zaino in spalla, anche se ormai era solo l’ennesima parte di sé che si trascinava in giro, pesante ma indispensabile.
Un piede davanti all’altro, in quegli stivali che aveva sempre reputato comodi, ma che ormai l’avevano massacrata e si erano del tutto rovinati, ricominciò a camminare, mantenendosi comunque a una distanza minima dalla massa. Doveva iniziare a chiedere informazioni, si disse con una risoluzione che di vero aveva solo le parole. Anche perché, guardandosi intorno, nessuno dava l’idea di sapere dove si trovasse quel locale. Erano per la maggior parte signore e signori, ben vestiti e tirati a lucido, con occhiali da sole – anche se il cielo era pesantemente annuvolato – e borse alla moda. Dei pochi giovani mischiati a loro, non ce ne era uno senza cuffiette incastrate nelle orecchie.
E lei se ne stava lì, pateticamente, con indosso un cappotto sgualcito allacciato completamente per nascondere i vestiti macchiati, un cerotto sulla guancia - per non parlare di un paio di bendaggi e una quantità di lividi a cui ormai non faceva più caso - e capelli che non erano del tutto annodati solo perché il suo tic nervoso preferito era passarci in mezzo le dita in continuazione. Odiava apparire trasandata, ma arrivata a un certo punto ogni cosa perdeva di importanza.
Per questa ragione, non pensandoci più del necessario, entrò nella caffetteria che si trovò davanti, individuando subito un posto a sedere libero, per niente appartato perché davanti alla vetrina, ma almeno pulito e dall’aria estremamente ristoratrice.
Sedersi e appoggiare la schiena fu un po’ fastidioso, ma dopo qualche secondo tirò un sospiro senza nemmeno accorgersene.   
« Buongiorno, cosa le porto? »
Sussultò sentendo la domanda, e soprattutto la voce, non essendosi accorta del cameriere che si avvicinava. Lo guardò come fosse un marziano, e lui ricambiò con uno sguardo piuttosto interessato, ma anche perplesso, notando il cerotto.
Lo stava già odiando.
« Un succo d’arancia e un sandwich » ordinò, secca e rigida, voltando lo sguardo verso la vetrata.
« Con? » continuò quello, afferrando che non ci sarebbe potuta essere alcuna possibilità d’intesa.
Per lei fu la peggiore delle domande, in quel momento. Un sandwich… a che cosa? Doveva pure pensarci? Uno qualsiasi andava bene, anche perché dubitava l’avrebbe mangiato. Ecco.
« Lasci perdere il sandwich, solo il succo » replicò con lo stesso tono marcato.
La sua testa era pronta a girarsi di nuovo, quando notò in fondo alla grande sala decorata qualcosa che le diede la prima buona idea della giornata.
Alzandosi a mandibola serrata e passandosi una mano sul cappotto per sistemare le pieghe, arrancò di malagrazia tra i tavolini fino all’angolo che aveva scorto, fortunatamente libero. Su un pannello di finto legno scuro, in tinta con il resto dell’arredamento, spiccava l’insegna del telefono pubblico, incassato in un gabbiotto del medesimo colore. Sul fondo, un elenco telefonico sgualcito e sporco di ditate. Quello che stava cercando. Un modo per iniziare a muoversi.
Decidendo in breve, prese il voluminoso tomo e di nuovo a zigzag tornò a sedersi, afferrando subito la bevanda che l’aspettava e tracannandone la metà. Di un amaro da farle strizzare gli occhi.
Cominciava a sentir caldo, essendoci il riscaldamento là dentro, ma non si sarebbe mai azzardata a spogliarsi. Così aprì l’elenco telefonico, sfogliando le prime lettere.
Ciò che la straniva, e in un certo senso faceva apparire quella situazione surreale, quasi fosse uno scherzo di pessimo, ma davvero pessimo gusto, una sorta di allucinazione, era quella ricerca.
Una discoteca. Perché mai avrebbe dovuto cercare una discoteca come se ne dipendesse la sua vita?
Ma non poteva scordare quello sguardo e quel tono da parte di suo padre, intensi e indelebili. Ultimi. Erano un monito, neanche avesse avuto ancora cinque anni e dovesse ricordarsi che agli adulti non si disubbidiva.
Il suo passatempo preferito, ribellarsi. Mandare al diavolo tutto e tutti. Tentare di fuggire, allontanarsi e lasciare chilometri e miglia da quelle carceri che chiamava in puro senso comune “casa”. E poi, puntualmente, trovarsi davanti qualcuno a riportarla indietro, ai litigi, alle urla, alle mezze spiegazioni e alla frustrazione.
All’odio. Ora così pallido e inconsistente. Un’ombra bianca che palpitava appena, mantello regale di quella vocina che inneggiava alla libertà ottenuta.
Aveva sempre cercato il cambiamento. L’aveva sperato. Svegliarsi la mattina in un’atmosfera diversa, come se il mondo avesse perso la propria gravità e tutto si fosse mischiato in una nuova visione, quella giusta. Quella che per anni aveva desiderato ascoltare da labbra famigliari. Sentire cosa si nascondesse dietro a tutto, scoprire i misteri che troppo a lungo erano stati celati, e che avevano reso quasi veleno l’esistenza di tutti loro. Della sua famiglia, composta più da spigoli e pendii, che da braccia aperte e sincerità.
E ora lei dava la caccia a un locale di divertimenti che avrebbe dovuto supplire a tutti i suoi interrogativi. Cosa c’era di sensato in quella realtà a rovescio, ma così diversa da come l’aveva immaginata?
Niente. E niente c’era in quel maledetto elenco del telefono dalle pagine mancanti. Come pensavano sarebbe riuscita ad arrivare in quel posto? Non aveva indirizzi, zone, si era ricordata vagamente il nome della città. Di chiedere informazioni ai passanti non se ne parlava. Non voleva fare la figura della mendicante, come il suo aspetto dava già a intendere. E a breve, altrettanto avrebbe fatto il suo portafoglio. Dubitava sarebbe riuscita a pagarsi un'altra camera d’albergo per più di due notti, perfino nella topaia più abbandonata di quella metropoli in miniatura.
Battere la città da cima a fondo era impensabile. Non era un segugio, ci avrebbe messo troppo tempo, e sentiva di non averne. Continuava ad avvertire su di sé degli occhi che non riusciva a individuare.  
Ma forse doveva soltanto aspettare.
Suo fratello l’avrebbe raggiunta. In fondo, le aveva detto di andare avanti.
E di salvarsi. Che a loro ci avrebbe pensato lui. Che non c’era un minuto da perdere.
Cosa pretendevano da lei?
Da lei, che per la prima volta, voleva rannicchiarsi in un angolo e diventar spettatrice della vita che aveva sempre agognato di vivere.
Lasciò una banconota sul tavolo, ed era già sparita oltre la porta della caffetteria quando il commesso che l’aveva servita la cercò con lo sguardo.
 
 
 
 
Vivere un’esistenza che sembrava dovesse terminare da lì a breve.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il sole declinava.
Dell’intera giornata, quello pareva essere l’unico momento in cui lasciava andare i sensi, rilassandoli nel mentre che fissava quell’arancio diventare rosso, e quel cielo venarsi di colori caldi, pennellate di tempera vivida.
L’orizzonte non era spoglio, anzi, un palazzo le tagliava la visuale, facendo diventare il cerchio del Sole uno spicchio d’arancia. Ma quella metà la illuminava in pieno, gettando sfumature sui suoi indumenti pece. Gli occhi si godevano il tramonto al riparo dietro gli occhiali scuri, indossati più per pietà che per reale utilizzo. Il suo viso tirato, dalle occhiaie rimarcate, era ancora più impresentabile di tutta la figura in sé.  
Aveva camminato tutto il giorno, prima con la sterile speranza di trovare quel che andava cercando; in seguito vagando con un crescente senso di smarrimento che ogni ora diveniva sempre più pressante.
Chi voleva prendere in giro? Era stanca, spossata, e soprattutto sfiduciata. Non avrebbe resistito un altro giorno così. Non sapeva cosa fare. E, soprattutto, perché si fosse ridotta in quel modo.
In fondo ne era consapevole. Nulla di quello che conosceva esisteva più.
La sua casa?
Ridotta in fiamme. Fiamme così nere e folli da sembrare che baluginassero di vita propria. E forse, era proprio così. Era come se qualcuno le avesse cancellate dalla sua memoria, ma ombre, cupe sagome mostruose, si muovevano ancora nei suoi ricordi. Figure… che nulla avevano di umano. Esseri che avevano tentato di afferrarla, di trascinarla, sicuramente di ucciderla e magari di cibarsi dei suoi resti. Ma poi, improvvisamente, era esplosa una luce. Calda, carezzevole, così brillante da accecarla, da farla quasi svenire. Da quel momento la sua mente si era come distaccata, aveva registrato a tratti quello che era successo intorno a lei, rapido e inarrestabile.
Suo padre.
Si convinceva di averlo visto, di averlo scorto in quel bagliore sconfinato, sospeso nel tempo e nello spazio, e che aveva reso la casa un luogo privo di forme, dove solo un immenso cratere brulicante si apriva nel centro. Continuava a figurarselo, anche lui così astratto, dai contorni quasi sfuocati. E continuava a udirlo. Quel che le aveva detto, quel che le aveva fatto promettere, con una voce tonante, una voce esplosale dentro, stordente.
Suo fratello che la portava via, che urlava parole insensate, che le schiacciava la faccia contro di sé, nascondendole la vista.
Lampi bianchi e neri.
Ecco cosa era riuscita a distinguere, prima che la ragione annegasse nell’oblio.
E nulla, ancora, aveva avuto una spiegazione.
Come sempre.
Nella sua vita non esistevano chiarimenti. Tutto doveva essere impenetrabile e oscuro. La verità, così come la normalità, erano concetti che conosceva in modo puramente formale: per lei avevano il significato che descriveva il dizionario. Nessuna emozione, nessuna sensazione, alcun peso o sentore.
Pareva che il sole non si decidesse ad abbandonarla. Così fu lei, voltandogli le spalle e alzando lo sguardo, a ignorarlo, e a focalizzarsi sulla struttura che la sovrastava.
Una cosa che non mancava, in nessuna città, era una chiesa. Il suo rifugio preferito, l’unico posto dove le era sempre stato concesso di andare, ovunque si trovasse, in qualsiasi situazione. L’unico luogo dove sapeva non ci sarebbe stato nessuno a controllarla, dove avrebbe potuto avere i suoi spazi per riflettere e considerare quanto le facesse schifo la propria esistenza.
O meglio, come fosse divenuta ancora più invivibile.
Scivolò all’interno di San Patrizio, chiudendo fuori tutti i rumori che l’avevano accompagnata per l’intera giornata. Dentro, c’era solo silenzio. E il fresco, quasi freddo. Una tranquillità che arrivò quasi come una stilettata, fastidiosa e così ricercata al contempo. Un effetto a cui non si era ancora abituata negli anni.
Compì i primi passi, sentendo come il rumore dei tacchi si diffondesse intorno, colmando l’assenza d presenze nel luogo. Pareva di camminare entro la cornice di un quadro. Nelle navate esterne, due punti simmetrici posti a metà del cammino erano rischiarati dal tremolio delle piccole candele votive. La maggior parte della luce veniva dalle vetrate superiori e non era molta.
Dopo essersi guardata così intorno, come se non conoscesse a menadito i particolari ricorrenti in tutte le case del Signore, ultima meta dello sguardo fu l’altare spoglio e l’ampia croce in legno che lo vegliava.
Irrigidì la mascella, senza motivo apparente, reprimendo le immagini che la sua mente stanca e prostrata intendeva farle rivivere. Optò per sedersi su una delle panche scricchiolanti, coricando lo zaino al proprio fianco e poggiando i piedi sul sostegno di legno della seduta di fronte.
E respirò. Riempì i polmoni e buttò fuori, non volendo intenderlo come un sospiro rassegnato, del tutto arreso al presente. Eppure, non c’era più rabbia in lei. Lo stava accettando. Stava permettendo all’arrendevolezza di vincerla. Era così difficile credere che non potesse farcela da sola, quella volta? Che il crollo delle proprie certezze fosse davvero un peso così insostenibile, e che potesse concedersi il lusso di farsi sopraffare quella volta? Dirsi, ci hai provato, ma questa volta tu non basti da sola.
Pensata così, bruciava. Di qualcosa simile al disprezzo verso di sé, al risentimento più velenoso. Un odio indistinto e imparziale che sgorgava in lei, furioso. Una vampa, tanto che sentì il viso andarle in fiamme, e i denti serrarsi impietosi gli uni contro gli altri.  
Alcuni passi la distrassero. Tirò su la testa, vedendo il prete avvicinarsi. Sorrideva appena con espressione curiosa e benevola.
« Buonasera » esordì il parroco, con quella bonarietà tipica del suo mestiere.
La giovane accennò un saluto con la testa, avvertendo che la propria voce sarebbe apparsa raschiante e terribile, modulata dalla collera. E almeno lì, in quella pace che tuttavia non riusciva ancora a chetarle i sensi, voleva fingere che tutto andasse per il meglio. Che fosse diverso.
Tuttavia, l’espressione dell’uomo mutò gradualmente, mentre i suoi occhi non poterono ignorare le sue condizioni. Quel maledetto cerotto sulla guancia, il suo pallore, e probabilmente anche la rigidità della sua postura. I suoi nervi erano ormai un unico blocco inscindibile e attanagliato.
« Posso… aiutarla? » domandò quindi, increspando la fronte rattristato, forse pietoso, ma con una sincerità che riuscì a sopire il nascente moto di rabbia, ingiustificata, in lei.
In fondo, era tutto il giorno, segretamente, che attendeva quelle parole. In una qualsiasi forma, allusiva o diretta, anche se non l’avrebbe mai ammesso.
Solo, lei non aveva una risposta. Lei aveva un problema, ma qualcosa di cui era incapace di dare una spiegazione. Era incomprensibile per lei. Era spaventoso, per lei.
Non avrebbe disdegnato un consiglio, per una volta. Ma era consapevole che sarebbe stata considerata una pazza. Perché quello che era accaduto… non era niente di umano. Iniziava persino a dubitare che ciò che conosceva, che ricordava, fosse umano.
Tremò. Fu uno spasmo involontario che la scosse da dentro, contraendole viscere e petto. Il prete al suo fianco trasalì anche lui, poggiandole una mano sulla spalla, di cui lei avvertì a malapena la presa.
No, non ce la faceva a pensare a una cosa del genere. Non ne aveva la forza, non ne aveva il coraggio.
Si morse il labbro, così dolorosamente che credette di spaccarselo, di inciderlo coi denti e sentire il sapore ferruginoso in bocca. Anche le unghie, implacabili, artigliarono la pelle delle braccia, stringendo come se non potessero fare altro, come dolorose ancore.
La voce del padre, inginocchiatosi di fianco a lei, non giungeva, non la scuoteva.
Era stanca.
E pianse, lasciandosi andare a quelle ombre torturatrici.  
 
 
 
 
 
 
Here in the shadows
I'm safe, I'm free
I've nowhere else to go but
I cannot stay where I don't belong

 
Qui nell’ombra
Sono salva, sono libera
Non ho nessun altro posto dove andare, ma
Non posso stare in un luogo a cui non appartengo
 
[Evanescence – Exodus]
 
 
 
 
 
L’aria della sera era ghiaccio nei polmoni.
Imbacuccata nella giacca e con il cappuccio tirato su, tossì un paio di volte, più per i postumi dei singhiozzi e del pianto incontrollato che l’aveva presa, che per sintomi di raffreddamento. Ma presto anche quelli sarebbero arrivati se non avesse trovato un posto caldo per la notte.
Aveva appena lasciato San Patrizio nonostante la bonaria insistenza del prete a rimanere per la notte nel ricovero per i senza tetto e qualcosa di buono da mangiare. Un invito allettante, a cui non avrebbe pensato due volte, se il martellare del suoi pensieri si fosse chetato almeno per un po’.
Era riuscita a calmarsi, a rimettere un po’ insieme i pezzi di se stessa, ma anche questo sforzo non era stato sufficiente a cancellare la confusione e la sottile paura della situazione che stava vivendo.
Si era sfogata piangendo come non faceva da quando era piccola. Da molto si considerava una persona forte, capace e a tratti intrepida. Forse più sconsiderata e stupida, con il senno di poi. La sua esistenza prima era solo una macchiolina inconsistente, come se tutte le sue lotte e ragioni precedenti non fossero state altro che capricci.
Nonostante avesse voluto rimanere seduta in chiesa, magari passarci realmente la notte, e rimandare tutte le sue preoccupazione al giorno successivo, il pallino di sapere e venire a capo di quella situazione irreale e opprimente era stato troppo forte.
Appena era riuscita a calmarsi un poco e a schiarirsi la voce quel tanto che bastava per accennare qualche parola, aveva chiesto al prete se conoscesse il luogo che stava cercando, quella stupida discoteca.
Il Devil May Cry.
C’era stato un attimo di silenzio, e la presa rassicurante del parroco si era irrigidita sulle sue spalle, ma solo per un breve istante. Confusamente lo aveva sentito deglutire forte e le era parso, ma non ne era certa, che avesse sospirato. Con voce atona le aveva detto che il posto che cercava non era lontano da lì, tre isolati in fondo a una strada chiusa, non un luogo per giovani ragazze tuttavia.
Quando lei si era ripresa sufficientemente da riuscire a mettere un piede davanti all’altro e raggiungere il grande portone accompagnata dall’uomo di fede, quest’ultimo l’aveva guardata con un misto di tristezza e pietà. Se le avessero rivolto uno sguardo del genere un paio di mesi prima molto probabilmente avrebbe preso a pugni la persona in questione e chiedendo poi se ci fossero problemi. In quel momento, non poteva che pensare che la si potesse guardare solo che così. Lei stessa si sarebbe biasimata e impietosita della propria condizione, se ne avesse avuto la forza.
Ma il prete sembrava pensare altro, mentre le chiedeva se proprio non intendesse rimanere per la notte ed evitare quel posto, quel Devil May Cry. Ma lei, mesta e stanca, l’aveva ringraziato e se ne era andata.
E se ne era pentita. Mentre camminava spedita e attenta alle strade che incrociava per non sbagliarsi, ripensava a come sarebbe stato facile rimanere e buttarsi tutto alle spalle per una notte. Un posto per dormire, del cibo caldo… e invece la sua testardaggine doveva dar retta ai brividi che le correvano per la schiena, che non erano tutti solo di freddo.
Ma ora che era vicina, sentiva di tremare ancora di più. Sentiva una crescente angoscia farle vibrare il petto, facendole affrettare il passo quasi a farla correre per scacciare la sensazione.
Delle risposte. Risposte, risposte, risposte.
Ma questo significava anche spiegare e rivivere tutto. Mettere una definitiva cesura alla sua esistenza. Perché quello che era accaduto, così all’improvviso, così surreale… non poteva che cancellare la sua esistenza fino a quel momento e farla ricominciare da capo. Lo sentiva in ogni fibra, in ogni respiro e palpitazione. Più i suoi passi erano veloci, più sentiva che la sé che credeva di essere stava sbiadendo, rimanendo indietro.
Svoltò a destra come le era stato indicato. Seguì la fila dei palazzi in mattoni chiari fino alla successiva traversa. Svoltò di nuovo sullo stradone col fiato corto. C’era. Era arrivata ormai, doveva solo trovare la giusta traversa.
Non sapeva che ore fossero, ma la notte sembrava piena. Poche stelle, molte nuvole e quasi nessun rumore nell’aria. Si aspettava di sentire schiamazzi, qualche motore e musica ad alto volume quando trovò finalmente l’angolo che dava sul Devil May Cry.
La stradina non era molto profonda e l’insegna del locale era la prima cosa che spiccava allo sguardo. Rossa, intermittente, con qualche lettera un po’ lenta nel riaccendersi. Una fioca luce filtrava da una delle finestre sul lato, ma la porta sembrava chiusa pesantemente.
Si avvicinò e alzò la mano, le nocche serrate pronte a bussare.
Fu allora che si accorse di tremare follemente, come se fosse stata nuda in quella notte buia. Tremare come quella notte di quasi un mese prima. Tremare di fronte all’ignoto, all’oscurità più fitta, alla paura più pura.
Per un attimo, intriso di follia e di nessuna logica, pensò che bussando a quella porta probabilmente la voragine che aveva inghiottito la sua casa si sarebbe riaperta proprio lì, portando via anche lei, definitivamente.
Prese un respiro tremulo, un risucchio necessario, e inghiottì quei flash insani.
Bussò, una prima volta, debolmente.
Scosse la testa e bussò una seconda volta, più decisa.
Era arrivata. Era lì.
E avrebbe avuto le sue risposte.
 
 
 
 
 
 
 
Oh, show me the shadow where true meaning lies
So much more dismay in empty eyes
 
Mostrami le ombre dove si cela il vero significato
Ancora di più si perde negli occhi vuoti
 
[Evanescence – Exodus]
 
 
 
 
 
 
Il silenzio spettrale del quartiere colmava l’aria di quella giornata senza fine.
Ai suoi primi tentativi di bussare non aveva risposto nessuno. La luce continuava a baluginare dalla finestra e lei si rifiutava di credere che davvero non ci fosse nessuno.
Bussò una seconda volta, attese – non il reale tempo necessario – e ribussò con più foga, il pugno chiuso.
« C’è nessuno!? » urlò contro l’uscio immobile, con una nota retorica che fu incapace di sopprimere.  
Ma non ci furono movimenti, né altro. Calma piatta.
Respirò forte, alzò il braccio come per provare a bussare ancora, ma fermò il gesto gradatamente, fino ad appoggiare senza rumore le nocche chiuse e fredde contro la porta. Ci appoggiò la fronte, chiudendo gli occhi e reprimendo il bruciore delle lacrime. Si arrese, perché era infinitamente molto più facile.
Non ce la faceva più.
Non ce la faceva.
Doveva aver capito male il nome del posto dove doveva andare, si disse di nuovo. Una discoteca? Seriamente una discoteca? Le risposte che voleva, da cui ormai sembrava dipendesse il suo equilibrio psico-fisico, potevano davvero trovarsi in un luogo con un nome del genere, Devil May Cry?
Tirò un calcio alla porta, incurante di farsi male. Voleva solo sfogarsi, trovare qualcuno a cui addossare tutta la colpa.
Suo padre per esempio.
Dov’era suo padre ora? Quello stesso padre che per anni le aveva impedito un’infinità di cose, che aveva sempre voluto tenerla d’occhio dicendo che era per il suo bene… e che ora la spediva dall’altra parte del mondo per cercare un uomo che si sostituisse a lui per proteggerla?
Perché?
Sferrò un altro calcio, seguito da un pugno.
Perché avrebbe dovuto dargli retta? Fino a quel momento non aveva sgarrato di una virgola su quelle ultime parole che le aveva detto. Aveva attraversato quasi un intero paese per arrivare in quella maledetta città di gente sconosciuta. Aveva trovato il posto che le aveva detto, ma non la persona che cercava.
Tutto questo perché era spaventata a morte e non riusciva a realizzare cosa le fosse successo da quando quella voragine si era aperta in casa sua. Ma ora che era a centinaia, migliaia di chilometri da lì, perché avrebbe dovuto continuare a dar retta a quel vecchio, al padre che per tanto tempo aveva detestato? Che l’aveva sempre tenuta in gabbia?
« Maledizione! » inveì, tirando su col naso, combattuta con se stessa, mentre dava l’ennesimo calcio a quella porta inamovibile.
Non voleva più…
« Ehi tesoro, va’ a prendere a calci casa tua »
Una voce la bloccò, facendole spalancare gli occhi e girare di scatto. Per la foga il cappuccio le finì a coprire parte del viso; lei lo ricacciò indietro per mettere a fuoco la figura apparsa dietro di lei. Dovette alzare lo sguardo per guardare in faccia l’uomo di quasi due metri che la sormontava e che la fissava con due occhi azzurro ghiaccio e un’espressione irritata. Tra le mani teneva il cartoccio di un paio di pizze che fumavano nell’aria fredda, diffondendo un odorino più che appetibile.
Doveva essere lui.
Non le era stato descritto nel dettagli ma… era pazza, ma l’aurea che percepiva da lui le smosse qualcosa che forse avrebbe potuto chiamare sesto senso.
Le parole tuttavia le morirono sulle labbra, rapita dalla realizzazione. Fece per parlare, ma l’uomo la scostò di malagrazia per aprire la porta.
Forse, alla fine, qualcosa stava andando nel verso sperato.
« Aspetta! Sei tu Dante? »
Il mezzodemone non la degnò di un’occhiata, di un movimento a conferma, ma invece entrò nel locale. Lei si affrettò contro l’uscio prima che lo chiudesse, finendogli quasi addosso.
« Ragazzina gira a largo e torna da mamma e papà prima che si preoccupino » disse lui, guardandola come fosse un’invasata mentre alzava la mano con cui reggeva i  cartoni tenendoli fuori portata da qualsiasi altro slancio improvviso. Facendo così finì però con lo squadrarla da cima a piedi per un paio di secondi, notando il cerotto, le occhiaie e il pallore della pelle del viso su cui ricadevano i capelli scarmigliati nero ebano. « Il ricovero per i senzatetto è a San Patrizio, due isolati più in là, se ti muovi trovi ancora i maccheroni al formaggio ».
La donna non si scompose di un centimetro, rimanendo salda nella posizione per bloccare la porta. I suoi occhi, notò Dante, traboccavano di collera mista ad angoscia. Sembrava disperata. E a lui i disperati volgevano sempre la serata in peggio.
Ma almeno, ciò che la donna disse, fu una svolta nella monotonia di quelle settimane passate a trangugiare pizza e sonnecchiare.
« Mi chiamo Eva » esordì, dura, quasi tagliente, come a voler sottolineare che non avrebbe preso bene nessun diniego o interruzione.
Era arrivata.
Dante inarcò un sopracciglio, in attesa del resto.
« Eva Engelicht. Ambrosius, mio padre, mi ha mandata a cercarti ».
Dopo un attimo di sorpresa, un sorrisino compiaciuto, e di beffa, si aprì sul volto del mezzodemone.
La cena sarebbe stata piuttosto appetitosa quella sera.
 
 
 
 
 
 
Two months pass by and it’s getting cold
I know I’m not lost
I am just alone
But I won’t cry
I won’t give up
I can’t go back now
Walking up is knowing who you really are
 
Sono passati due mesi e sta facendo più freddo
So di non essermi persa
Sono soltanto sola
Ma non piangerò
Non mi arrenderò
Non posso tornare indietro ora
Svegliarsi è capire chi si è veramente
 
[Evanescence – Exodus]
 
 
To be continued?
   
 
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