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Autore: nikita82roma    14/02/2017    1 recensioni
La storia ricomincia qualche giorno dopo la fine degli eventi di The Memory Remains. Sembrava che l'azione congiunta di Gibbs e di Noah avesse portato tranquillità nella vita di Ziva e Tony ed invece non sarà così. Qualcuno, ancora una volta, tornerà dal passato perchè vuole una cosa che Ziva conosce molto bene: Vendetta. Si salveranno da soli o avranno bisogno di un aiuto inaspettato? Ma nel loro passato ci sono altre cose ancora rimaste in sospeso e arriveranno tutte a turbare una serenità che si illudevano di aver raggiunto, aprendo vecchie ferite e procurandole nuove, ma soprattutto obbligandoli a fare i conti con se stessi e le proprie paure e con la propria capacità di sopportare il dolore fisico e mentale. Long TIVA
Genere: Angst, Sentimentale, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro Personaggio, Anthony DiNozzo, Nuovo personaggio, Un po' tutti, Ziva David
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Non-con, Violenza
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- Questa storia fa parte della serie '3 Years Later'
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… I still feel the heat 
Slowly fallin' from the sky 
And the taste of the kissing, 
shattered by rain  
Comin' tumblin' from behind 
And the wild holy war …

 

Una catena di errori. Non avrei potuta descriverla in nessun altro modo. Era una catena di errori quella che mi stava legando sempre più lontano da tutto. Errori miei, errori di chi mi aveva ordinato di distruggere la mia vita ed errori di non sapevo chi. 

Proteggere Ziva e la mia famiglia assomigliava sempre più a qualcosa che sembrava la stesse distruggendo o almeno distruggeva me. Ogni volta che mi avvicinavo e poi dovevo riandarmene, ogni volta che ero troppo debole per resistere e ricadevo tra le sue braccia, sulle sue labbra. Ogni volta c’era un pezzo di me che rimaneva lì. Mi stavo perdendo tutto quello che non avrei voluto perdermi. Perché quella sera dovevo essere lì, dovevo stare con mia moglie, nel nostro letto, stringerla, baciarla, sentire mia figlia scalciare e doveva essere solo un’emozionante consuetudine. Non c’era niente di tutto questo ed ero così arrabbiato con il mondo e con me stesso che non ero nemmeno riuscito a godermi quel momento che mi ero concesso per sembrare di essere quello che facevo finta di non essere: un marito, un padre. Le avevo detto che l’amavo ancora, certo. Come avrei potuto dirle altro? Come avrei potuto non darle anche quella piccola certezza di noi? Quando mi aveva chiesto se esisteva sempre un noi sarei voluto morire. Ecco cosa avevo creato, cosa mi avevano fatto creare. Mia moglie che non sapeva se eravamo più qualcosa, se mi avesse picchiato mi avrebbe fatto meno male.

- Signore, siamo arrivati. 

Il tassista mi aveva richiamato. Eravamo fermi già da un po’, il tassametro girava e lui aveva fatto finta di nulla, almeno fino a quel momento. Pagai ed uscii. Avrei voluto dirgli mi riporti indietro, mi riporti a casa, dalla mia famiglia, dalla mia vita ed invece salii le scale per quell’appartamento che odiavo. 

 

 

Tony era uscito e si era portato via l’illusione della nostra famiglia. Nathan sembrò sentire la sua mancanza, perché non appena chiuse la porta lo chiamò a gran voce, come se nel sonno avesse percepito la sua lontananza, come se mancasse veramente qualcosa senza di lui che non era solo un’idea immateriale, ma qualcosa di tangibile. Fu deluso nel vedermi, come se avesse capito che lui non c’era più.

- Papà? - Mi chiese speranzoso, attendendo magari che gli dicessi che era in bagno o impegnato.

- È dovuto andare a lavoro. Vuoi venire con me, Nathan?

Annuì con vigore mentre si stropicciava gli occhi assonati. Prenderlo in braccio diventava sempre più faticoso, ma tutto passava in secondo piano, quando le sue braccia si stringevano intorno al mio collo in quel suo modo silenzioso di richiedere affetto. Alcune volte pensavo che fosse molto più grande per tutto quello che aveva passato e come aveva reagito, ma quando si stringeva così, solo bisognoso di un abbraccio e di essere protetto e rassicurato, tornava ad essere quel fagottino troppo piccolo che avevo paura anche a prendere in braccio.

Lo portai in camera e lo misi nel mio letto e lui tutto solo tra i cuscini spariva nel bianco delle lenzuola. Mi spogliai e mi misi sotto le coperte vicino a lui e appena provai a rilassarmi Sarah decise che era ora di far sentire la sua presenza. Massaggiai la pancia allo stesso modo come avevo sempre fatto con Nathan, ma Sarah sembrava molto più intraprendente di suo fratello e non faceva molto effetto. Sentii Nathan agitarsi e lo avvicinai a me, accarezzandogli la schiena delicatamente: si calmò quasi subito, amava il contatto fisico e quando era triste o preoccupato sembrava averne sempre più bisogno. Per quanto le mie notti potevano essere difficili avevo sempre lui vicino e lei dentro di me e non ero sola. Non riuscivo a non pensare a Tony che invece non aveva nessuno da abbracciare o che lo abbracciasse. Ed avrei tanto voluto farlo io.

 

 

 

I giorni si ripetevano con una dilaniante ritualità. Pregavo che ci fosse qualche caso importante, di quelli che ti tenevano la mente impegnata tanto da non ricordarti nemmeno di mangiare, invece nulla. Sembrava che il mondo si fosse messo d’accordo per rimanere immobile e farmi impazzire. Così le giornate trascorrevano immerso in quella burocrazia che già odiavo normalmente, ora ancora di più, fatte di momenti in cui ci incrociavamo con Ziva nei corridoi e tutto si limitava alle solite domande di rito: come stai, come sta la bambina, come sta Nathan. Quei discorsi da vecchi parenti antipatici, insomma.

Solo con Nathan cercavo di mantenere i contatti più frequenti possibili, così quasi ogni sera ci vedevamo quando usciva dall’asilo. Alcuni giorni lo avevo portato fuori, quando Ziva aveva delle visite o era affaticata, ci eravamo ritagliati dei pomeriggi tutti nostri e vedevo che stava riuscendo a rientrare in quel nuovo concetto di normalità che avevamo fatto per lui. Ero anche tornato a cena a casa, un paio di volte ed era sempre finita nello stesso modo, con lo straziante rituale di doverci salutare quando era troppo tardi per rimanere e troppo rischioso stare lì oltre, quando le labbra faticavano a staccarsi e le mie braccia volevano rimanere strette su di lei, e le sue su di me.

 

Quella mattina stavo giocando seduto alla mia scrivania appallottolando fogli di carta da buttare e cercando di fare centro nel cestino di McGee che ogni volta che qualche pallina di carta rimbalzava fuori mi guardava male e si chinava lui a raccoglierla per buttarla. Rispondevo solo alzando le spalle preoccupandomi di tirare quella dopo.

- È in corso una rapina alla Capitol Bank ad Arlington. - La voce fin troppo seria e imperativa di Gibbs tuonò nella stanza ma il suo annuncio ci lasciò tutti stupefatti. Io, Tim ed Ellie ci guardammo perplessi e fui io a farmi portavoce dei pensieri di tutti.

- Da quando in qua ci occupiamo di rapine in banca, Gibbs? - Chiesi lanciando una nuova pallina a McGee beccandomi come risposta prima un’occhiata ferale che mi fece buttare tutti i fogli nel mio cestino e poi quelle parole che squarciarono la giornata.

- Da quando uno degli ostaggi è tua moglie. - Disse senza possibilità di replica.

- Cosa? Come fate a saperlo? - Balbettai scattando in piedi.

- Perchè era lì per interrogare il direttore della banca - Disse Vance scendendo le scale del suo ufficio - era un caso a cui stava lavorando.

- Ziva è incinta Vance! Per quale motivo l’hai mandata fuori? - Sbattei entrambi i pugni sulla scrivania facendo volare i pochi rimasti fogli a terra, indicando la porta ripetutamente mentre lanciavo le mie accuse, fregandomene che quello era il mio capo.

- Tony devi stare calmo. Una squadra di negoziatori è già sul posto ed anche la squadra di Ziva è lì. - Disse Vance tranquillo.

- Calmo? Come faccio a stare calmo Leon? Me lo dici tu come posso essere calmo? Vado anche io. - Dissi guardando tutti e prendendo il mio zaino

- Andiamo tutti - Disse Gibbs perentorio, facendo cenno agli altri di prepararsi.

 

La squadra dei negoziatori era su un camioncino vicino all’esterno, salii subito chiedendo spiegazioni e scontrandomi con il capo che voleva tenermi fuori. Le telecamere interne erano state messe fuori uso. Solo una sul retro era arriva ed una di emergenza dal quale c’era solo una visione parziale della sala blindata. Avevano ruotato una delle telecamere esterne, nella speranza di riuscire ad intravedere qualcosa dentro, ma era quasi impossibile. Solo con il microfono direzionale si riuscivano a sentire ogni tanto alcuni spari e urla. Il piccolo commando non aveva alcuna intenzione di collaborare né di negoziare.

- Non è una rapina. È terrorismo. - Disse il capo dell’unità togliendosi le cuffie - Ogni tentativo è inutile. Non resta che la SWATT e la speranza di salvare qualcuno.

- Salvare qualcuno? - Gli urlai - C’è mia moglie lì dentro!

- Sì, con altre 40 persone circa, tra dipendenti e clienti. - Rispose lui secco. Non me ne frega nulla in quel momento delle altre quaranta persone circa.

 

Si sentì una raffica di spari, urla in arabo e poi un boato fece tremare i vetri del camioncino dove stavamo seguendo le operazioni. Le telecamere smisero immediatamente di trasmettere. Uscii correndo andando verso l’ingresso della banca. I vetri non c’erano più, dentro c’era una coltre di fumo che rendeva difficile respirare e vedere qualsiasi cosa. Il fumo e i detriti erano così fitti che si faceva fatica a vedere.

- Signore, deve uscire, ci pensiamo noi - allontanai in malo modo uno dei vigili del fuoco che si erano avvicinati e continuai ad avanzare verso l’interno tra i detriti dei mobili della banca. Si sentivano molti lamenti di persone ferite, urlai più volte il nome di Ziva senza ottenere risposta. Purtroppo mi imbattevo anche in molti corpi e per ognuno, anche se mi rendevo conto di quanto fosse crudele dirlo, era un sospiro di sollievo quando mi accorgevo che non era lei. Più andavo dentro e meno vedevo, c’era solo la luce delle torce dei vigili a squarciare il buio e la polvere. Continuai a chiamarla con tutta l’aria che avevo nei polmoni, e tossii riprendendo fiato, mentre ancora qualche piccola esplosione causata dagli apparecchi elettronici presenti squarciava il silenzio di lamenti. 

Quando varcai la porta blindata che divideva la zona al pubblico della banca con l’area riservata, sentii una voce flebile chiamarmi e dietro un grande tavolo di marmo ribaltato la vidi. Saltai al di là per raggiungerla era accovacciata e si teneva l’addome, le presi le mani senza darle il tempo di parlare e fortunatamente non era ferita, almeno da quanto potevo vedere. Spostai il tavolo, chiamai a gran voce i paramedici e mi inginocchiai vicino a lei. Le presi il volto tra le mani, cercando di toglierle più sporcizia possibile dagli occhi e dal viso. 

- Ziva… come stai?

- Tony… io… - respirava a fatica 

- No, no non ti sforzare, non mi dire nulla. 

- La bambina Tony… 

- È tutto ok… Tranquilla… - non lo sapevo, ma non potevo dirle altro. Non mi interessava di nulla, di quello che era successo tra noi, dei nostri rapporti, la presi tra le mie braccia e la tenni sul mio petto fino a quando non arrivarono a prenderla con una barella.

 

L’accompagnarono nell’ospedale più vicino per accertamenti ed andai con lei. 

Il corridoio del pronto soccorso dove mi fecero aspettare era grigio e puzzava di medicina e dolore. Odiavo gli ospedali, odiavo stare fuori da una porta ed aspettare sue notizie. Odiavo e ripensavo a quando ero stato di nuovo lì e a quello che mi avevano detto e oddio no, non poteva ripetersi tutto. Non ancora. Camminavo nervosamente avanti e indietro fino a quando un’infermiera mi venne a chiamare.

- Può andare da sua moglie. - Mi disse e mi indicò la porta dietro alla quale c’era lei.

Mia moglie. Sembrava che lo fosse solo per le cose pratiche e legali. Ziva era seduta su un lettino e si stava sistemando. Andai davanti a lei, tutta quella naturalezza di gesti che avevo avuto nell’immediato era già sparita. Teneva la testa bassa ed in quel momento ebbi paura di cosa potesse dirmi.

- Cosa ti hanno detto? - Le chiesi preoccupato.

- La bambina sta bene. - Disse provando a mettersi a fatica la giacca.

- Lascia, faccio io. - Gliela presi dalle mani e la aiutai a indossarla. - Tu come stai?

- Solo qualche escoriazione. 

- E quel segno sullo zigomo? - Le dissi alzandole il volto. Aveva gli occhi lucidi ed il viso ancora sporco, tranne nell’area dove le avevano posizionato degli steril strip per chiudere la ferita.

- Differenze di vedute con uno dei rapinatori. - Provò ad abbozzare un sorriso.

- Ziva… - La mia voce era un misto di preoccupazione e rimprovero. Avrei voluto dirle molte cose, non le dissi nulla. - … Ti accompagno a casa.

- Grazie. - Era arrendevole, o forse solo stanca e preoccupata.

 

- Devo rimanere a riposo. - Mi disse in auto interrompendo il silenzio che c’era tra noi da quando eravamo usciti dall’ospedale.

- Che vuol dire? - Le chiesi preoccupato

- Non devo fare sforzi e rimanere il più possibile a letto o comunque a riposo per un po’ di giorni, poi devo fare una nuova visita di controllo e vedremo come procede la gravidanza. Visto che Nathan è nato prima del termine, a seguito del trauma potrebbe esserci il rischio di un parto prematuro.

- Ok… - dissi senza staccare gli occhi dalla strada per non tradire l’emozione.

- Solo ok Tony? - Mi chiese stupita della mia reazione.

- Cosa altro Ziva?

- No, nulla…

 

La aiutai ad andare a casa, accompagnandola fino alla porta di quello che era il nostro appartamento.

- Vado a prendere Nathan e te lo porto dopo cena, così non ti devi preoccupare di lui e ti puoi riposare. Ci vediamo dopo. - Fui sbrigativo. Più di quanto volessi essere, più di quanto dovevo essere. Volevo rimanere distaccato per non crollare.

- Tony aspetta. - Mi trattenne per un braccio facendo una lieve pressione per tirarmi dentro. - Ti devo parlare.

Entrai ed insistetti perchè si andasse subito a mettere a letto, poteva parlarmi da sdraiata, non era un problema. La vidi sdraiarsi indolenzita, tenendosi la pancia, faticando più di quanto volesse far vedere. Volevo aiutarla, avrei voluto farlo ma rimasi a distanza intimidito da quella situazione che mi sembrava più grande di me e mi sentivo inadeguato.

- Oggi potevo morire, veramente. Potevamo morire, io e lei. Sono scappata da Israele per evitare tutto questo e lo ritrovo qui.

- Non sei morta Ziva, nè tu nè lei. Non ci pensare. - Stavo per uscire quando la sua voce mi trattenne

- Sei arrabbiato Tony? Per questo sei così freddo?

- No. Non è colpa tua. - Evitai di guardarla.

- E allora cosa c’è?

Mi voltai e i nostri sguardi si legarono. Lei aveva paura ed era così strano vederla così, ma era la stessa paura che avevo io. Mi avvicinai a lei, sedendomi nel bordo del letto.

- Dio Ziva! C’è che ti amo, lo capisci? Ti amo ed ho avuto paura di averti perso!

Portai istintivamente una mano sul suo ventre. Tremavo e tremava lei quando mise la sua sulla mia. Mi portai l’altra mano sul volto ad asciugarmi le lacrime, coprendomi gli occhi e poi passandola tra i capelli.

- Devo andare ora. - Sfilai la mano da sotto la sua e sentii in quel momento Sarah muoversi e scalciare. Ziva fece una smorfia di dolore ma mi rassicurò.

- Vai. Non ti preoccupare. Vai da Nathan.

   
 
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