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Autore: Birra fredda    14/02/2017    0 recensioni
La verità era che lo riconobbi anche quella sera, e non avrei voluto.
Ero insieme a Giada e Fabio. Giada mangiava un gelato, un cono medio con cioccolato fondente e melone. Fabio fumava una sigaretta e chattava con una tinder.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Lo riconoscerei tra miliardi. Riconoscerei la sfumatura delle sue iridi in piena estate, tra miliardi, o le rughe ai lati delle labbra, o ancora la vena che si ingrossa sul suo collo quando si arrabbia, o anche il suo indice destro storto, la punta del suo naso, le sue dita dei piedi, l’incavo della sua clavicola, le sue fossette di venere sopra il sedere.
Riconoscerei tra miliardi un suo colpo di tosse, anche, e un rivolo di sudore che cola lungo una tempia.
Riconoscerei tra miliardi il modo di entrare in casa, il rumore del suo portachiavi che sbatte ripetutamente contro il legno della porta mentre la chiave gira nella toppa, il rumore delle sue scarpe sullo zerbino, il suo passo leggero e svelto, il suo salutare con un “ciao” a mezza voce, sempre timoroso che in casa qualcuno potesse star dormendo.
La verità era che lo riconobbi anche quella sera, e non avrei voluto.
Ero insieme a Giada e Fabio. Giada mangiava un gelato, un cono medio con cioccolato fondente e melone. Fabio fumava una sigaretta e chattava con una tinder.
Eravamo in piedi in via della conciliazione, a Roma. Lo facevamo spesso, quando ci andavamo nei weekend in cui avevamo bisogno di svagarci, ci mettevamo tutti e tre di fronte a piazza San Pietro e, da via della conciliazione, guardavamo quella piazza. Era il mio posto preferito al mondo, quello, ed era bellissimo stare lì a guardare con di fianco i propri migliori amici. In quei momenti sapevo di essere vivo, ero tangibile, esistevo, ero vivo per davvero, ero un pezzo di puzzle del mondo, ero una esatta e precisa pedina dello schema di Dio che stava in piedi in un certo, specifico posto e semplicemente vivevo.
Da molto tempo non esprimevo più i miei pensieri a voce alta. Da quando la chiave aveva girato nella toppa facendo sbattere il portachiavi contro la porta per l’ultima volta, da quando per l’ultima volta ci eravamo sdraiati, l’uno di fianco all’altro su un letto scomodo di ikea che aveva più assi rattoppate alla bell’e meglio con lo scotch che assi sane, da quando per l’ultima volta le tue iridi che in piena estate divenivano verde chiaro e puntellate di flebili macchioline nocciola mi avevano guardato, da quando per l’ultima volta i lati delle tue labbra si erano increspati al mio fianco, da quando avevi sceso i tre piani scale trascinandoti dietro una valigia più pesante di te, da allora io non parlavo più.
Come Dwayne, l’adolescente del film Little Miss Sunshine, quello che avevamo visto in un assolato pomeriggio di luglio, entrambi stanchi e sudati, seduti a terra con due birre ghiacciate e il computer posato su una sedia. Esattamente come Dwayne, non parlavo.
C’è qualcosa di affascinante, nello smettere di parlare. Si cominciano a captare delle piccolezze che non si erano mai notate.
Conosco Fabio dal primo giorno di scuola elementare, ad esempio, ma solo ora che sto continuamente zitto ho notato il suo tic. Circa ogni 15-20 secondi piega l’indice della mano sinistra, quando si innervosisce lo fa ogni 10 secondi. Non ci avevo mai fatto caso, mai, dopo anni e anni trascorsi ad averlo come compagno di banco, compagno di canne, sbronze e pomeriggi adolescenziali trascorsi scorrazzando in bici senza meta.
Non parlo e tutto è così limpido, chiaro, trasparente ai miei occhi. Adesso che non parlo mi sento davvero partecipe, mi sento utile e appagato dalla vita. Il non parlare sembra aver aperto un modo di altre possibilità, ecco. Le persone si affidano a me come se fossi un porto sicuro. Giada mi parla di tutto, dice che con me non si sente giudicata e si lascia andare senza censure. Ogni tanto qualche censura ci vorrebbe pure, a dirla tutta, ma per dirglielo dovrei infrangere il mio voto e quindi la lascio fare.
Qualche giorno fa Fabio mi ha chiesto di te.
Io non ho risposto. Stavamo ascoltando i Fall Out Boy mentre cucinavamo. Io stavo pesando la pasta e ballando, lui girava il sugo con un mestolo di legno.
Mi ha guardato intensamente e mi ha detto “torneresti a parlare?”
Di nuovo, non ho risposto. Ho cambiato canzone, scegliendone una a caso dalla playlist delle canzoni Disney.
Se anche fossi stato in grado di rispondere, non avrei saputo cosa dire.
Ti amo ancora, questo lo so per certo.
E quella sera scoprii anche che era vero che avrei potuto riconoscerti tra miliardi.

Molti ti definivano appuntito.
Era perché eri estremamente suscettibile e permaloso. Eri come il fuoco, con te si poteva scherzare poco o, ancora meglio, per niente. E, se pur si scherzava, non bisognava mai esagerare. Ci mettevi poco, davvero poco, ad arrabbiarti. Non facevi scenate, stavi semplicemente in silenzio e stringevi la mascella. Chi non ti conosceva bene non si rendeva neanche conto del fatto che te la fossi presa.
Molti ti definivano appuntito, pungente come una matita appena appuntata, diceva talvolta Giada quando ti stuzzicava e tu ti limitavi ad alzare gli occhi al cielo, sforzandoti di non dargliela vinta mettendo su il broncio.
Molti ti definivano appuntito e quella sera vidi tutti i tuoi angoli, tutte le tue crepe, una ad una, vidi le tue punte smussate, tutte smussate come mine di un compasso usato da un undicenne alle prese con suo primo disegno tecnico.
Ti avevo riconosciuto in mezzo a miliardi poco prima. Nella folla avevo scorto le sue spalle piccole e cascanti. Talvolta sembrava ci portassi, su quelle spalle, tutto il peso del mondo. Altre volte sembravi sul punto di metterti dritto e lasciar uscire un pel paio di ali candide da lì.
Ti riconobbi all’istante da lontano, nella folla. Tu non ci avevi visti, Fabio e Giada non ti avevano notato.
Per un solo momento pensai di rincorrerti, afferrati per un braccio e farmi vedere da te. Per un solo momento pensai di venire a salutarti, ma tu eri con un gruppo di persone e ridevate e parlavate tutti insieme, ed io neanche parlavo più e non volevo turbarvi.
I botto era stato forte, molto forte. Giada aveva lanciato il suo gelato, Fabio la sigaretta, io avevo afferrato i miei amici per le giacche e li avevo tirati indietro. Che gesto stupido da compiere. Scoppia una bomba e il mio primo riflesso è stato trascinarmi indietro di un paio di passi insieme a loro.
Immediatamente dopo corsi. Corsi a perdifiato mentre i miei amici, dopo un momento di stordimento, urlarono che cazzo fai e torna qui. Io pregavo a voce alta. Non parlavo da mesi ma in quel momento, nel caos di voci e urla e lacrime e sanpietrini rivoltati e ridotti a pezzi e pezzi di persone, in quel momento cominciai a pregare a voce alta. La mia voce era chiara e scorreva fluida fuori dalla mia gola, come se non la usassi solo da qualche minuto.
Pregavo e correvo.
Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, fa che sia vivo.
Scivolai su un avanbraccio e dovetti fermarmi a riprendere fiato. L’aria era satura dell’odore di polvere da sparo e sangue. L’essermi fermato a riprendere fiato non sembrava più una grande idea. Dovetti reprimere un conato di vomito e mi guardai attorno.
Potevo riconoscerti in mezzo a miliardi.
Avanzai ancora.
Attorno a me quasi tutti erano morti, i pochi che non lo erano blateravano aiuto a soccorritori improvvisati che carezzavano loro la testa e dicevano che i soccorsi stavano arrivando.
Non sarebbero mai arrivati in tempo per la metà di loro, lo sapevamo tutti.
Per te sarebbero arrivati in tempo, però, perché io ti avrei trovato e salvato. Ti avrei parlato e non avevo mai smesso di pregare.
Atto di dolore, mio Dio mi pento e mi dolgo con tutto il cuore per i miei peccati. Punisci me, salva lui. Ti prego.
Poi ti riconobbi.
Tu mi avevi già visto, mi fissavi piangendo. I tuoi amici erano tutti morti ma tu no, tu eri rimasto per me.
“Andrà tutto bene” dissi, e lo feci prendendo una tua mano tra le mie. Avevi una larga ferita sulla fronte, ma non sembrava troppo profonda e il sangue che usciva si era per lo più seccato sui tuoi capelli color carbone che tante volte avevo baciato.
Tremavi, così mi tolsi la giacca e la posai addosso a te.
Tremavi ancora.
“Andrà tutto bene” dissi di nuovo, e le tue labbra ebbero un fremito. “Ci sono io adesso, non lascerò che ti succeda niente di male.”
Mi guardasti ancora più a fondo, fissandomi dritto negli occhi. Sembrava volessi rimproverarmi.
“Ma è già successo” mormorasti con un filo di voce. Nel frastuono di grida e singhiozzi non ti udii quasi, ma il tuo labiale era sempre stato chiarissimo. “Il male è già successo.”

Per anni non seppi cosa pensare a riguardo.
Dopo quelle parole tu diventasti sempre più pallido e tremavi sempre di più. Quando Fabio e Giada ci raggiunsero dissi loro di coprirti anche con le loro giacche. Io ero rimasto in canotta e tu avevi addosso anche la mia camicia e il mio maglione.
Fabio disse che eri morto.
Io risposi che non era vero, che ti avevo promesso che sarebbe andato tutto bene e che quindi non potevi essere morto.
Giada si tolse la giacca e la mise sul tuo corpo freddo. Ti chiuse gli occhi e ti diede un bacio umido sulla fronte, sporcandosi il mento del tuo sangue rappreso.
Eri morto sul serio.
Il male era successo per davvero.
Piazza San Pietro era saltata in aria, le sue colonne, i suoi venditori abusivi, le scale che portavano alla Basilica, i turisti, un gruppo di adolescenti romani che trascorrevano lì tutte le sere. Piazza San Pietro era saltata in aria con te.
Prima che Fabio e Giada arrivassero, tu eri probabilmente già morto, avevo guardato in basso. Ti mancava un piede. Avevo visto il tuo spigolo, in quel momento. Chiarissimo, come un punto esclamativo alla fine di un’affermazione.
Eri sempre stato un tipo appuntito, ma io mai ti avevo definito così. Poi la vidi, una tua punta, la vidi in una caviglia che finiva lì, senza continuare nel piede, in una caviglia grondante sangue. Eccola, la tua punta. Smussata, ma pur sempre una punta.
Quando presero in due il tuo corpo e lo coprirono con un lenzuolo, affiancandolo a quello degli altri, mi ridiedero gli indumenti. “Si rivesta” mi disse un carabiniere, stringendomi in braccio “fa un freddo boia e i morti sono già troppi”. Mi rivestii e rimasi ai tuoi piedi a fissare il tuo corpo coperto da un telo.
Ti avrei riconosciuto anche in quelle condizioni, morto, coperto, senza un piede.
Una volta mi avevi detto che mi amavi anche quando mi puzzavano le ascelle, quando rientravo dalla mia corsa serale e tu stavi preparando la cena, io ero sudato ma venivo a baciarti comunque. Avevo capito che quello era amore, ascelle sudate e sangue rappreso tra i capelli, non fiori e cioccolatini il giorno di San Valentino.
Ti amai a fondo, in quel momento. Mi inginocchiai di fronte a te e pregai.
Come facevamo la domenica mattina, l’uno accanto all’altro nella chiesa vicino casa, pregai inginocchiato e dissi a Dio tutto quello che il silenzio di mesi e mesi aveva tenuto incarcerato tra i miei polmoni.
Dissi a Dio che andava bene così, che dovevi star con lui, stare finalmente bene, gli dissi che lui era grande e onnipotente e misericordioso e doveva vegliare su di te fino a che anche io non sarei giunto da te. Un giorno ci saremmo rincontrati, e fino a quel momento doveva tenerti al sicuro, doveva darti tutto quello che io non ero mai stato capace di darti e intanto io, dal basso della Terra, mi sarei impegnato ad amarti ogni giorno di più, sempre di più fino a traboccare d’amore. E un giorno ti avrei amato a dovere.









































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Che dire? Pomeriggio noioso, sessione invernale portata a termine a stento, impegni vari e poca voglia di assolverli, tanti pensieri in testa, malinconia, San Valentino e bisogno di scrivere.
Ecco qui a voi il nonsense non riletto. Se vi dico che non so neanche come mi sia venuta una cosa del genere, credeteci. Avevo solo bisogno di tirare fuori qualcosa, altrimenti rischiavo di esplodere (che ridere).
Talvolta la scrittura è limitante, con troppe regole e leggi. Non voglio denigrare o sminuire la grammatica italiana eh, solo che talvolta ho bisogno di spaziare e rompere gli schermi, così vengono fuori queste cose in cui si passa da una parte all'altra neanche si stesse giocando una partita a tennis.
Ebbene, vi auguro una buona giornata.
BIrra Fredda

  
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