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Autore: Genevya    15/02/2017    2 recensioni
Nata e cresciuta in un paese rurale, in una famiglia semplice e piena d'amore, Maria sta per vivere il giorno che aspetta e teme di più da quando ne ha memoria. Orfana di madre da meno di un anno, la ragazza ha sepolto dentro di sé il vuoto che quella immensa perdita ha causato.
Ora è pronta per diventare un'adulta, con tutte le spiacevoli conseguenze che, nel suo mondo, ciò comporta.
~
Dal primo capitolo:
"Poi il sindaco prende la parola, e il mormorio cessa. [...] Comincia a raccontarci la solita storia: che un’epidemia terribile, proveniente dall’altra parte del mare, ha colpito tutti i paesi dell’Unione, e che i morti sono stati innumerabili. Piccole congregazioni di persone sono riuscite a sopravvivere: persone giovani e prestanti come i nostri avi, resi forti da una vita di fatica. Ma dopo quello stillicidio di vite, le unioni non potevano più essere decise con tanta zza. I sopravvissuti avevano un compito preciso: salvaguardare la specie. A questo unico scopo, da più di un secolo, un calcolatore potentissimo elabora gli algoritmi che regolano la procreazione."
Genere: Avventura, Science-fiction, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Violenza
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Capitolo 1.

 
Il municipio si staglia davanti ai miei occhi: monumentale, in pietra calcarea, bianco contro il cielo terso. Con tre imponenti archi al suo ingresso, è il più grande edificio del nostro modesto paese. Ha poco da spartire con certe catapecchie, ma anche con le case in cemento armato e mattoni come la mia. La mia famiglia ha un tenore di vita invidiabile, nella nostra comunità. Appartiene ad un ristretto gruppo di commercianti. Mio padre è un macellaio e, per via del suo lavoro, la vista del sangue e delle carcasse ha cessato di turbarmi quando ero ancora piccola. Io e mio fratello minore Sam, all’anagrafe Samuele Francesco, non abbiamo mai saltato un pranzo o una cena, cosa che non si può dire di tutti gli altri bambini. Certo, mangiavamo spesso i ritagli di carne che mio padre non vendeva, ma ci siamo fatti piacere anche quelli senza nessuna difficoltà.

Sento l’aria calda e appiccicaticcia contro la fronte sudata. Nella piazzetta antistante il municipio c’è già un po’ di folla. Riconosco tutte le facce dei miei compagni di scuola, ma non saluto nessuno di loro e la mia indifferenza viene ricambiata. Non sono mai stata un tipo socievole.

Nessuno di essi, comunque, sembra in vena di chiacchiere amichevoli: i loro volti sono pallidi e spaventati. Anche il mio deve apparire così dall'esterno. Mi rassetto dei ciuffi troppo corti dietro le orecchie per non pensarci; poi cerco il volto del mio amico tra i loro. Mi aspetto da un momento all’altro di vedere spuntare la sua chioma riccia e scura, i suoi occhi vispi che si fissano nei miei salutandomi prima che lo faccia la sua mano.

Dopo qualche minuto di ricerca inconcludente rinuncio. Mi chiedo dove possa essere finito. È impossibile dimenticarsi di un impegno come questo. Si metterà nei guai.

Nessuno di noi ha mai varcato prima le porte d’ingresso del municipio, e l’idea che mi sono fatta di quel posto proviene dal racconto di ragazzi più grandi di me. Sono già le due del pomeriggio quando ci fanno entrare e ci conducono in una sala grande almeno tre volte casa mia. Le pareti che ci circondano sono tinte di un rosso acceso, come quello dei papaveri, e ai nostri piedi è srotolato un gigantesco tappeto variopinto. Resto incantata ad osservare i motivi del disegno che corrono sulla stoffa, così diversa da qualunque cosa io abbia mai visto prima. Sono come dei fiori stilizzati, dai bordi rossi e d’oro, che si ripetono quasi all’infinito. L’affascinante stranezza della stanza attira l’attenzione di altri ragazzi e dalla piccola folla si solleva un vociare animato. Siamo abituati a molte cose qui, ma la raffinatezza non è tra queste.

Poi il sindaco prende la parola, e il mormorio cessa. È un uomo robusto e tozzo, più basso di me, con un paio di baffi brizzolati e la testa quasi totalmente stempiata. L’ho visto più di una volta a scuola, quando teneva i discorsi di inizio anno o era invitato agli eventi sportivi. Non è esattamente quello che si dice una persona carismatica, ma lo ascoltano tutti in religioso silenzio, e lo faccio anche io.

Comincia a raccontarci la solita storia: che un’epidemia terribile, proveniente dall’altra parte dell’oceano, ha colpito tutti i paesi dell’Unione, e che i morti sono stati innumerabili.
Piccole congregazioni di persone sono riuscite a sopravvivere: persone giovani e prestanti come i nostri avi. Ma dopo quello stillicidio di vite le unioni non potevano più essere decise con tanta leggerezza.
I sopravvissuti avevano un compito preciso: salvaguardare la specie. Un calcolatore potentissimo, da più di un secolo, elabora gli algoritmi che regolano la procreazione. Le migliori combinazioni possibili per rendere il nostro corredo solido e inespugnabile dai futuri patogeni. Il pool genetico della nostra popolazione è il risultato della cieca obbedienza a quegli algoritmi.

Capisco solo la metà di quello che mi viene detto, come ogni volta. Ma una cosa mi è sempre stata chiara: la mia stessa vita, l’esistenza di tutti questi ragazzi e queste ragazze con i quali ho condiviso gli anni scolastici, sono state decise a tavolino dalla scatola grigia alle spalle del sindaco, per la quale provo un sentimento ambivalente, misto di deferenza e di timore.

Siamo chiamati ad essere paladini per una causa vitale, costruttori dell’impalcatura genomica dei nostri successori.

Le nostre basi di biologia sono rudimentali. Tutte quelle parole hanno il solo scopo di elevare la causa al di sopra della nostra comprensione, riuscendoci. La tensione nella sala è palpabile. Nelle pause durante il discorso avverto quasi il vibrare dell’aria nella stanza, respiri brevi e irregolari dettati dall’agitazione collettiva. Viene calato un pannello bianco sulla parete davanti a noi, e capisco che tra poco avrà inizio la conta. So che ci prenderanno le impronte digitali e il nostro nome apparirà come scritto nel muro, proiettato da un fascio di luce.
Dopo qualche esitazione iniziale, cominciano a richiamarci in ordine alfabetico. Non dovrò aspettare molto.

Provo un certo disagio, quando arriva il mio turno, nel leggere il mio nome al centro del riquadro bianco. Non oso voltarmi, ma so che gli sguardi di tutti sono puntati su quelle poche lettere che mi appartengono. Rimane proiettato a caratteri cubitali per pochi secondi, poi si rimpicciolisce, e una serie di linee lo collegano ad altri nomi in una specie di grafico ad albero.

L’occhio mi ricade subito sui nomi accanto al mio: sono mio fratello, mio padre e… Mi manca quasi il respiro quando leggo il nome di mia madre tagliato da una ics.

Da lì in su sono tutti così, constato rapidamente. Tutti morti. Non ho mai conosciuto i miei nonni, né tanto meno i miei bisnonni.
Riporto involontariamente alla mente le statistiche che ci hanno presentato a scuola. Solo il 20% della popolazione supera i cinquant’anni di età, e lo 0% della popolazione ne ha meno di 5. Mio fratello Sam appartiene all’ultima generazione.
Nonostante il calcolatore, da 5 anni non ci sono unioni fertili.

Il mio flusso di pensieri viene bruscamente interrotto da una linea rossa che congiunge “Maria Basile” ad un nuovo nome.

Leggo “Luca Mannino”.

Il mio amico momentaneamente disperso è il mio compagno riproduttivo. 









Mi ci è voluto un po' per convincermi a pubblicare questo capitolo. Alla fine è stato un atto istintivo. La storia da qui in avanti prenderà una certa piega, e spero di non pentirmene in futuro. Probabili errori sono dettati dall'istinto di cui sopra.
Ciao a chi ha letto

Geny

 
   
 
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