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Autore: Aru_chan98    16/02/2017    1 recensioni
è una giornata come tante per Arthur, si sveglia, prende i mezzi e lavora nel negozio di famiglia. Lo è, almeno finché il nuovo baby-sitter del più giovane dei suoi fratelli non varca quella porta, portando con sé un nuovo sentimento per il giovane ragazzo...
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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È un nuovo giorno, ma almeno oggi sembra esserci il sole. Non ha fatto che piovere da giorni e cominciavo a rattristarmi un po’. Appena mi alzo dal letto la prima cosa che faccio è allungare una mano verso la radio che tengo sul comodino accanto al mio letto, accendendola, lasciando che la musica e le rare parole dello speaker inondino la mia casa. A quanto pare avevo ragione: secondo il meteo, oggi e per i prossimi giorni splenderà il sole. Mi sento fiero di me stesso perché significa che sto diventando bravo ad azzeccare il clima. “E ora è il momento per la solita classifica delle 8.30” sento dire allo speaker e a momenti non mi viene un colpo: sono in ritardo per il lavoro! Mi vesto al volo, cadendo a terra mentre cerco d’infilarmi i pantaloni a causa della fretta, ma riesco ad afferrare un biscotto dal tavolo, prendere la chiavi di casa, il telefono e uscire dopo aver preso il mio “bastone da passeggio”, chiuso la porta ed essermi infilato le chiavi in tasca. Mentre aspetto che l’ascensore raggiunga il mio piano, sento le varie persone che abitano in questo edificio cominciare la propria giornata, bambini che piangono, gente al telefono. Mi sto per perdere nei miei pensieri quando l’ascensore si decide ad arrivare. Lo prendo e in tutta fretta mi dirigo verso la fermata del pullman. Spero di non fare ritardo. Dopo qualche minuto sento il pullman arrivare e, mentre aspetto che la gente scenda prima di salire, una signora mi chiede “Hai bisogno di una mano per salire ragazzo?”. Credo sia a causa del bastone, mi sento fare domande simili quasi ogni giorno ogni volta che qualcuno lo nota. “La ringrazio molto signora, ma non ce n’è bisogno” le rispondo, con un sorriso cortese. So che proverà a chiedermi se sono certo della cosa, così mi affretto a salire e mettermi contro uno dei finestrini. Il rumore del mezzo che avanza in mezzo al traffico cittadino è una delle cose che preferisco, insieme al brusio che c’è sempre: sa molto di vita, ed è una cosa stupenda. Dopo almeno 10 minuti sento l’autoparlante del pullman annunciare la mia fermata, così mi preparo e scendo, sempre con una certa fretta. Il negozio dove lavoro non dista molto, ma non mi va proprio di cominciare la settimana con un ritardo. E poi io amo quel posto, un negozio di fiori che la mia famiglia gestisce, e potrà anche essere piccolo, ma fin da piccolo ho sempre amato molto il giardinaggio, quindi quando ho cominciato a lavorarci ho cominciato ad amarlo. Appena varco la soglia, vengo accolto dal tenue rumore della campanella e dall’odore della vasta quantità di fiori che abbiamo in negozio. “Ciao Arthur, come va oggi?” “Alla grande, pensa che ho pure indovinato che tempo fa oggi” dico alla mamma e sono certo che lei mi sorrida. “Ehy Arty, sei in ritardo” mi fa notare il maggiore tra i miei fratelli. “Sai com’è, certa gente ha bisogno di una cosa che si chiama dormire. Non so se la conosci, magari pensi che sia qualcosa che si mangia o meglio, che si bene” gli rispondo con tutto il sarcasmo possibile: Allistar potrà studiare notti intere se vuole, io ho bisogno di dormire ogni tanto.  “Ci sono ordini particolari per oggi?” “Si, ci sono da preparare una trentina di composizioni floreali con delle rose bianche per un matrimonio. Ti vuoi occupare tu dei clienti oggi?” mi chiede la mamma. “Si, non ci sono problemi. Chi si occupa della consegna delle ghirlande per il battesimo di domani invece?” “Se ne occuperà Allie”. E quasi mi viene da ridere: nostra madre ha dato un soprannome così stupido mister “barbarossa” che io e i miei altri due fratelli maggiori non abbiamo saputo resistere. Quante risate nel prenderlo in giro in questi 23 anni… Metto giù le mie cose dietro al bancone e indosso la giacca con il logo del negozio. La mamma mi da una leggera pacca sulla spalla mentre mi augura un buon lavoro. Dopo una mezzoretta cominciano ad arrivare vari clienti, a cui vendo fiori di tutti i tipi. Alcuni si fermano anche per quattro chiacchiere ed è la parte che mi piace di più, quando qualcuno si interessa ai fiori in modo particolare. C’è una bellezza nel fiori che solo pochi riescono davvero a cogliere. La cliente che preferisco in assoluto è la signora Tess: quella donna ha una laurea in botanica ed è stata la persona ad avermi regalato preziosi consigli su come crescere al meglio le piante e i semi che la mamma mi comprava. Mi conosce da quando avevo almeno 7 anni ed è una cara amica di famiglia. A mezzogiorno la mamma chiude il negozio e noi ci mettiamo a sederci nella serra che c’è sul retro. Sembra che si sia svegliata molto prima del solito, perché per una volta non ci ritroviamo a mangiare panini o cibo precotto. Anche a me piace molto cucinare insieme alla mamma, anche se quello che fa lei è sempre migliore di quello che cucino io. Riprendiamo nel pomeriggio e mio fratello mi raccomanda di chiamare la mamma in caso io abbia bisogno di qualcosa, per poi uscire e andarsene a bordo della sua auto per consegnare le ghirlande. Il tempo scorre lento, scandito dal rumore delle cesoie della mamma. Ad un tratto la campanella suona: “Fratellone, fratellone! Guarda che cosa mi ha regalato Al”. È senz’altro la voce di Peter, il mio fratellino, che corre verso di me a passi pesanti. Fa appena in tempo a passare dietro il bancone che sento una voce esclamare “Peter non scappare, non erano questi i patti!”. La campanella suona insieme alla voce e a mio fratello che sciocca la lingua, seccato che qualcuno lo rimproveri. “Avevi promesso che se ti prendevo il gelato poi avresti fatto il bravo bambino”. “Bugia!” gli risponde Peter, facendogli una linguaccia con tanto di verso, come fa sempre quando ne fa una. “Beh, non è una cosa molto eroica, sai” gli risponde, e per un secondo faccio fatica a capire chi sia il vero bambino tra loro. “Ehy Peter, chi è?” gli chiedo: è la prima volta che quel ragazzo entra qui, ne sono certo. Se così non fosse, lo avrei riconosciuto. “La mamma non te l’ha detto?  Ethan ha da fare alcuni stage per la scuola, quindi non può più venire a prendermi a scuola. Dove la mamma?”. Con quanta nonchalance mi dice che ora non c’è nessuno a prendersi cura di lui dopo la scuola? “Avere 11 è davvero bello” penso sospirando. “È sul retro, ma non darle troppo fastidio: sta lavorando” ma credo che mio fratello non abbia sentito quasi nulla visto che si fionda subito da nostra madre. “Mi scusi, non mi sono ancora presentato: mi chiamo Alfred F. Jones e sono il nuovo baby-sitter di Peter” dice lo sconosciuto, facendomi rendere conto che è ancora là. “Io sono suo fratello maggiore. Mi chiamo Arthur. Non credevo prendessero dei ragazzini per fare i baby-sitter però” rispondo, incrociando le braccia al petto. “Ma se sembri tu più giovane di me. E tanto per informarti, non sono un ragazzino. Ho già 19 anni, so badare benissimo ai bambini” “Si, certo. Così bravo da farti fregare dal mio fratellino”. Il ragazzino non fa in tempo a controbattere che mia madre esce dal retro, sedando l’imminente litigio. “Scusa per il disastro Alfred. Peter sa essere davvero pestifero, ma è un bravo bambino” dice mia madre, “Non si preoccupi signora. È solo vivace, tutto qui” le risponde, anche se io noto una certa nota di tensione: probabilmente si sta rendendo conto solo ora che tipo di bambino ha di fronte. La mamma si scusa ancora con lui e gli chiede se può tenere Peter ancora per un’ora. Peter si lamenta come suo solito che vuole restare con la mamma, per il baby-sitter riesce a corromperlo promettendogli di fargli provare un gioco famoso per una console. Peter esce tutto contento e urlante dal negozio e, mentre anche il ragazzo nuovo fa per uscire, mi dice “Alla prossima Arthur”.


Nei giorni passati da quello strano incontro, sembra che Alfred abbia fatto del negozio una tappa della sua giornata, perché me lo ritrovo tra i piedi praticamente ogni giorno. E ogni volta con una scusa diversa. Mi chiedo se non se le scriva da qualche parte. “Ehilà” lo sento esclamare fin dall’entrata del negozio. Si avvicina al bancone, ignorando il fatto che abbia fatto tremare i muri probabilmente e ci si appoggia sopra. “Allora sentiamo, che scusa hai stavolta? Guarda che Peter è in gita con la scuola” gli dico con sarcasmo. “Lo so, infatti è il mio giorno libero” “Ne sei sicuro? Pensavo che passassi il tuo giorno libero da McDonald o davanti alla tv” “Non fai ridere sai? E comunque no, ho una vita sociale pure io. Ecco… vedi io…” lo sento esitare e mi sento sorridere. “Io volevo chiederti se ti andava di uscire” dice piuttosto velocemente, probabilmente in imbarazzo. “Uscire insieme?” “Beh si. Ecco… Un appuntamento. Con me” e qui comincio a sentirlo borbottare. Non riesco a trattenere una risatina: seriamente, questo si che è un invito coi fiocchi. Non risponde, così mi calmo un secondo per poi dire “Si, va bene”. Questo ragazzo è… interessante diciamo, quindi perché dovrei dirgli di no? Tanto vale capire che intenzioni ha con me. “Seriamente?” mi chiede, incredulo. “Si, seriamente” gli rispondo tranquillamente, per poi sentirgli esclamare “Oh my God, si!” per poi abbracciarmi. O almeno ci prova, visto che c’è il bancone in mezzo a noi. Sento la mia faccia andare in fiamme e per qualche attimo non so ne cosa fare ne dire: non mi aspettavo una reazione simile. “Passo a prenderti domani quando il negozio chiude. Ciaoo” mi saluta per poi uscire di corsa dal negozio. Seriamente, cos’ha di così speciale un semplice appuntamento per agitarlo tanto? Sento il volto ancora arrossato, anche se cerco di calmarmi. È solo un appuntamento no?


Quando il negozio chiude è già sera. Abbiamo ricevuto un ordine per una cresima, quindi siamo rimasti a lavorare un po’ più del previsto. E a dire la verità ne sono stato anche felice: più il tempo passa, più sento un certo nervosismo crescere. Non faccio in tempo a voltarmi che Alfred mi saluta. “Hai fatto un po’ tardi oggi. È successo qualcosa?” mi chiede, “Scusami, ma abbiamo ricevuto un ordine da consegnare in breve tempo, quindi siamo rimasti a lavorare un po’ di più. Hai dovuto aspettare tanto?” e mi sento seriamente dispiaciuto, cosa che mi sorprende. “Non pensarci: ne è valsa ampiamente la pena” mi risponde con allegria. Ci incamminiamo verso la sua macchina e in men che non si dica siamo già partiti. Non parliamo molto tra di noi, però penso sia meglio così: non saprei proprio cosa dire e non penso che il sarcasmo possa migliorare la situazione. Dopo non molto arriviamo in un posto pieno di gente. “So che un ristorante è un cliché visto e rivisto nei film e nella vita reale, però spero ti possa piacere comunque” “Lavoro in un negozio di fiori. Non pensi che possa avere una vena romantica a cui piacciono i cliché?” e il mio solito sorrisetto sarcastico ritorna. Usciamo dalla macchina e ci dirigiamo verso il ristorante, ma è a quel punto che mi rendo conto di aver dimenticato il mio bastone in negozio. Credo che Al mi abbia visto un po’ turbato, perché mi prende la mano e la stringe come a rassicurarmi. L’interno del locale risuona di voci e di una musica piacevole, mi piace quest’aria di classe. Ci sediamo e ordiniamo la cena. “Beh, come mai così silenzioso?” gli dico, cercando di allentare almeno un po’ la tensione. “No, è che volevo invitarti ad uscire già da un po’, e ora che sono qui mi sembra un po’ irreale come cosa. E comunque sei carino quando arrossisci” borbotta verso la fine, in risposta alla mia reazione per quello che ha detto. Fortunatamente la cosa apre la strada ad una conversazione un po’ più leggera e finalmente riusciamo a tornare a comportarci come ogni giorno, con la sola differenza che questa non è una situazione qualunque. Dopo la cena, mi chiede di chiudere gli occhi, mi prende per mano e mi dice di seguirlo perché ha una sorpresa per me. Non credo sia necessario, ma tanto vale accontentarlo, no? Non ho un’idea precisa di quanto abbiamo camminato, ma mi conduce in un parco, probabilmente quello in cui andavo a giocare coi miei fratelli da bambini. “Ok, aspetta un secondo. Non aprire gli occhi” mi dice, per poi lasciar andare la mia mano. Mi sento un attimo perso, ma quasi subito mi dice che posso riaprire gli occhi. “Questo è per te” dice. Tendo la mano, ma non c’è nulla: possibile che sia uno scherzo? “Ehm.. Arthur, il regalo è un po’ più in basso e mi sa che ti serviranno almeno due mani” mi dice, perplesso. “Ehy, can… can you see me?” mi chiede e la domanda mi spiazza. “C-certo che si. Che domande sono?” “Allora dimmi, di che colore sono i miei occhi?”. A quella domanda, abbasso la testa e per la frustrazione mi mordo un labbro. “I… I am sorry Al. Io non vedo nulla” mi costringo a dire, anche se ogni parola sembra un macigno nel mio cuore. “Ma da quando? E come? Sembri così normale ai miei occhi” mi chiede, sconvolto. “Io non intendevo tenertelo segreto. Te l’avrei detto prima o poi” “Si, ma non spiega il resto. Com’è successo?” mi chiede, un po’ triste. Sospiro, perché mi ci vuole un po’ di forza per non crollare, nel riportare alla mente quei ricordi: “Io non sono nato così. Ricordo tutte le immagini che posso fin quando ho potuto farlo. Ma una sera c’è stato un incidente. Un brutto incidente. Io rimasi coinvolto insieme a papà, solo che lui si ruppe un braccio e gli si dislocò una spalla, a me andò peggio. Non ricordo nemmeno molto di quello che successe, so solo che quella mattina vedevo ancora,  il cielo, il volto della mamma, il mio allo specchio e qualche giorno dopo c’era solo il buio. Avevo 14 anni”. Non riesco ad alzare la testa né a muovermi, come se il peso che mi porto dentro da anni mi stesse schiacciando. “Non… non potevo accettarlo. Così ho cercato in ogni modo di recuperare la mia vita, rendendola il più normale possibile. Ho bisogno di un bastone per camminare in giro e non so che aspetto hanno alcune persone. Ho bisogno di qualcuno che mi dica che ore sono e quando scendere dai mezzi pubblici. Però ho imparato a leggere con il tatto, una cosa che pensavo impossibile. Riesco a muovermi nel negozio della mamma come se ci vedessi, perché sai, lei non ha spostato un singolo vaso da allora. E mi sono esercitato per cercare di “guardare” la gente negli occhi quando mi parla. Perché non voglio lasciarmi fermare dal vivere la mia vita” ed è a questo punto che sento i miei occhi pizzicare. Ma non voglio piangere, non davanti a lui, non per questo. “Ti ho preso un vaso con delle rose dentro!” gli sento esclamare di punto in bianco. Gli ho raccontato quello che voleva sapere e lui non ne tiene nemmeno conto: mi fa davvero arrabbiare. Ma non faccio in tempo a rispondergli per le rime che continua, dicendo “Tu non puoi vederlo, ma io si, quindi te lo descrivo. Descriverò ogni cosa che c’è, ogni cosa che vorrai vedere” e sono certo che sia sul punto di piangere anche lui. “Perché mia piaci. Pensavo fossi solo un ragazzo scorbutico la prima volta che ti ho incontrato, ma poi Peter mi ha raccontato alcune cose su di te e la tua famiglia. Volevo conoscerti, sapere cosa ti piace e cosa non ti piace. Vedere la tua espressione quando sei felice o triste, o imbarazzato. E senza accorgermene hai cominciato a piacermi. Quando mi sono reso conto che provavo questi sentimenti, ormai non ero più tranquillo se non passavo al negozio per parlarti, anche solo per discutere”. Sono quelle parole a farmi piangere. Non altro, solo l’amore che traspariva dal tono della sua voce. “Non so nemmeno che aspetto hai” confesso, trattenendo i singhiozzi. Lo sento posare a terra il vaso, per poi prendermi una mano tra le sue e appoggiarla sulla sua guancia. “I miei occhi sono azzurri. Porto gli occhiali. I miei capelli sono biondi e corti. Mi piace essere allegro, quindi sorrido spesso” dice, cominciando a descriversi e lasciandomi capire i dettagli con le mie dita: il volto che emerge nella mia mente è davvero bello. Magari con dei tratti un po’ infantili, però la cosa non mi tocca, perché è la prima volta che lo vedo e ho avuto tutto il tempo per cominciare a provare qualcosa per la sua personalità, non per altro. E mi sembra quasi un miracolo piacere ad un ragazzo simile. Lo sento avvicinarsi a me mettendo le mani sui miei fianchi e dice piano “Non aver paura, ok?” e sento qualcosa di morbido premere contro le mie labbra. Mi sta baciando?! Piano piano fa scivolare le sue braccia intorno alla mia vita, stringendomi a sé. Penso di aver visto le stelle per un breve attimo. Dopo dei momenti interminabili allontana la sua bocca dalla mia. “Te lo giuro, non ti lascerò mai solo, sarò io i tuoi occhi, Arthur” gli sento dire e nella sua voce sento un affetto tale da scaldarmi il cuore, “After all, love is blind”







Piccolo Angolo dell'Autrice
Ebbene si, a distanza di quasi più di un anno sono tornata XD Diciamo un grandissimo "Grazie Ed!" ad Ed Sheeran e alla bellissima "Shape of you" se ho trovato il modo di superare un blocco dello scrittore grande quanto Saturno. Questa storia l'avevo buttata giù dopo una nottata passata quasi in bianco a leggere storie di altre persone su DeviantArt e mi ispirava il concept di un England che non aveva la vista, come in Arthur in the Dark, ma che aveva al suo fianco un America capace di accettarlo per tutto. Volevo creare l'effetto sorpresa, cercando di scrivere in modo coerente ma un pò vago per cercare di non far capire fino alla fine la caratteristica di questo England, che è anche molto OOC (Scusate per questo). Detto questo, spero non sia troppo irreale e che possa piacervi 
Alla prossima ^3^

 
   
 
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