VELENO
Non aveva capito bene
nemmeno come fosse successo, con tutto quel caos improvviso. Si era
semplicemente trovato circondato, tossendo per la polvere delle esplosioni e
con la vista offuscata. L’errore principale era stato convincersi che
nessuno di quegli avversari potesse costituire un problema e cominciare a
tirarli giù come mosche senza aspettare rinforzi: una stupidaggine da
dilettanti di cui s’era reso conto soltanto quando uno dei guerrieri
nemici aveva approfittato del suo sbilanciamento nell’abbatterne un altro
per lanciargli contro un jutsu violento.
Se l’era sentito
bruciare sul fianco e aveva lanciato un gemito di dolore, percependo il sangue
colare lungo
Poi aveva sentito le ginocchia
cedere ed era crollato giù pensando che sarebbe stato proprio stupido
morire a quattordici anni per una puntura, con tutte le cose grandiose che
aveva in progetto di fare, e non intendeva accettarlo. La sua testa era
precipitata in avanti mentre lo sguardo gli s’offuscava del tutto e la
sua mano lanciava un ultimo colpo verso uno dei tre accerchiatori superstiti.
Nella catalessi che precedeva
la perdita dei sensi aveva ancora avuto modo di sentire una sorta di violenta
folata di vento, delle urla di dolore e poi una mano magra e fredda che si
stringeva sul suo avambraccio.
“Stupido moccioso
idiota,” scandiva lontanissima una voce irritata, musicale e stranamente
affannata. “Tsunade! Tsuna...?”
Buio.
Ma mentre il mondo si spegneva
Jiraiya aveva saputo con certezza ancor più assoluta che, veleno o meno,
non sarebbe morto.
“...Nti, Jiraiya?”
Era una vocina melodiosa e
bellissima, che penetrava nel velo dell’ottundimento come una musica
soave. Jiraiya fu felice più che mai di sentirla.
“Tsunade,” esalò
commosso, ancora senza riuscire a vederla. “Sapevo che mi avresti
salvato, ero...sicuro che in fondo tu ed io...” balbettò
sottovoce, a fatica.
“Ma perché deve
dire stronzate anche mezzo morto?”
Quest’altra voce gli era
altrettanto familiare nella sua sprezzante, grave compostezza. L’aveva
sentita anche subito prima di svenire ed era stata la sua garanzia di vita.
“Vai a farti un giro,
musone,” borbottò, sbattendo faticosamente le palpebre. La sagoma
di Tsunade comparve angelica nel suo campo visivo, nei suoi occhi luminosi
danzava l’impegno della medic ninja che era dentro di lei. “Sei
invidioso che abbia salvato me.”
“Certo sarebbe stato
strano se avesse salvato me, dato che io non ne avevo bisogno...incapace,”
ribatté Orochimaru con assoluta indifferenza. Jiraiya torse un po’
il collo indolenzito per vederlo e lo scoprì intento a scostare con
gesti fermi e nobili i lunghi capelli dal viso, lo sguardo neutro fisso alla
finestra.
Fece per parlare di nuovo
– non era un incapace, lui, e tra tutti non sopportava che proprio
Orochimaru lo pensasse. Ma il genio stava già voltandosi, diretto alla
porta della stanza.
“Siamo a Konoha?”
mormorò Jiraiya perplesso. Il luogo della battaglia distava più
d’un giorno e mezzo dal villaggio, possibile che avesse dormito tanto a
lungo, mentre lo trasportavano scomodamente?
Tsunade scosse la testa,
posandogli una pezza bagnata sulla fronte.
“Kusa. Siamo nella
nazione dell’Erba. Ci siamo diretti qui perché Konoha era troppo
distante e tu avevi bisogno di cure. Gli altri sono rimasti sul campo e
Orochimaru ripartirà tra qualche minuto per raggiungerli,” rispose
solerte. “E tu devi dormire, adesso,” aggiunse ferma.
Jiraiya annuì
stancamente, con gli occhi che già si chiudevano. Curiosamente, stava
pensando di dirle di raccomandare al musone che stesse attento – come se
gliene fosse importato qualcosa, poi, di quel pallone gonfiato – quando
crollò addormentato.
Quando si svegliò era
solo, e non aveva la più pallida idea di quanto avesse dormito.
Mezz’ora, o forse un giorno: la luce all’esterno era più o
meno la stessa che ricordava. Si stiracchiò cautamente, scoprendosi
molto più in forze e riposato. Il suo stomaco brontolò
sonoramente e lui ridacchiò, alzandosi a sedere. Con cautela
provò a reggersi sulle gambe e scoprì di potercela fare senza
grossi problemi, erano solo un po’ più molli del solito.
Nel corridoio c’era un
gran via vai: Kusa era neutrale e non prendeva parte al conflitto, ma si
trovava tra Iwa e Konoha e riceveva spesso feriti della nazione del Fuoco, sua
alleata in tempo di pace. In effetti era probabile che l’Erba avrebbe
finito con l’essere occupata – tramite accordi bilaterali e
temporanei nel caso di Konoha, con un’invasione armata se si fosse
trattato di Iwa - da uno dei due contendenti, perché la sua posizione
era strategica.
I medic ninja si affannavano
tra un ferito e l’altro e a Jiraiya non occorsero che un paio di minuti
per individuare la chioma dorata e l’adorabile nuca di Tsunade china su
un lettino. Si avvicinò con un sorriso smargiasso.
“Si batte la fiacca,
eh?” esclamò scherzoso.
Tsunade non si voltò
nemmeno, presa dall’attività di medicare un ferito.
“Ha ragione ‘Maru,
Jiraiya. Appena ti riprendi parti con le scemenze,” osservò
assorta. Poi spostò lo sguardo su di lui con una punta
d’inquietudine, mentre il ragazzo sorrideva mesto nel realizzare
d’aver sballato l’esordio. “Come ti senti?”
“Bene!” rispose
lui, sollevato. “A questo proposito, io... Grazie, Tsunade. Se non ci
fossi stata tu...”
“Io non ho fatto nulla
di speciale,” si schermì lei ruvida, tornando a dedicarsi al suo
paziente.
“Ma dai, non fare la
modesta!” protestò vigorosamente lui, ridacchiando. “So
benissimo che...”
“Jiraiya,” lo interruppe
Tsunade risoluta, prima di mordicchiarsi le labbra con esitazione.
Saettò lo sguardo intorno, poi sbuffò. “Naturalmente ti
avrei curato anche se sei uno scemo, ma non ce n’è stato bisogno.
Quando sono arrivata eri già fuori pericolo.”
“Eh?” guaì
lui, sorpreso. La osservò in silenzio, sommamente perplesso.
“Io ero dall’altra
parte del campo di battaglia. Può anche darsi che sarei arrivata troppo
tardi, chissà,” aggiunse, pensosa.
Jiraiya aggrottò la
fronte, concentrandosi per qualche secondo su quelle informazioni. Se non
l’aveva curato Tsunade, doveva averlo fatto qualcun altro.
Sgranò gli occhi
allibito, comprendendo d’improvviso.
L’ha chiamata. L’ho sentito, l’ha chiamata ma lei era
troppo lontana.
“Ma non può
essere! Lui non capisce un tubo di medicina! Cosa...?” E
s’interruppe, inebetito.
Tsunade scrollò
gravemente le spalle, seria.
“Non so cosa abbia fatto. Ma so che se non l’avesse fatto tu ora non
saresti qui,” rispose, schietta. “Gli ho detto che non te ne avrei
parlato,” aggiunse piano, storcendo le labbra con vaga colpevolezza.
Jiraiya non replicò
più, ammutolito dallo sbigottimento. Girò i tacchi e
barcollò verso la sua camera di degente con lo sguardo fisso, riflettendo
intensamente.
Che Orochimaru non lo odiasse
davvero, Jiraiya lo sapeva da tempo. Era disposto anzi a scommettere che la sua
compagnia, nonostante gli sbuffi e l’indifferenza maligna di cui il
musone lo omaggiava, gli fosse gradita più di quella di chiunque altro.
Da parte sua, nonostante il genio fosse, semplicemente, un matto, un violento e
uno stronzo, non poteva fare a meno di stimarlo profondamente. A modo suo era
divertente, ed era davvero uno shinobi straordinario.
Ma questa era una cosa diversa.
Orochimaru, in qualche modo,
l’aveva sottratto a morte certa.
Attesa ansiosamente che le
squadre di Konoha ripiegassero verso la base, perché sarebbero
sicuramente passate da lì: di certo, almeno il terzo membro del team
Sarutobi.
L’attesa durò
altri due interi giorni, e Jiraiya si era già pienamente ripreso quando
gli shinobi di Konoha varcarono le porte di Kusa guidati da un insolito
capitano d’armata: Orochimaru, nei suoi quattordici anni di esile
pallore, con quel viso ancora quasi infantile e i capelli lisci sulle spalle,
non aveva davvero l’aria del terribile generale. Eppure sia Jiraiya che
Tsunade erano pronti a giurare che quello che si era lasciato più
cadaveri alle spalle fosse sicuramente lui.
“Abbiamo qualche ferito lieve e sei morti,” annunciò
non appena l’ebbero avvicinato. Tsunade, insieme a due medici di Kusa, si
dedicò immediatamente alle medicazioni senza perdere altro tempo.
Orochimaru restò invece
perfettamente immobile davanti a Jiraiya, squadrandolo in modo asettico e quasi
analitico. Lui gli restituì un’occhiata interrogativa che si fece
fiera e poi quasi di sfida al persistere dell’attenta osservazione
dell’altro.
“Ti sei rimesso,
inetto?” chiese infine il genio, superiore.
“Perfettamente. Sono in
forma come non mai,” ribatté lui, spaccone.
Orochimaru inclinò
lievemente il capo, attento.
“Effetti
collaterali?” chiese casuale.
Jiraiya
s’irrigidì, aggrottando la fronte e serrando la mascella.
“So che mi hai soccorso
tu. Che cosa mi hai fatto?” chiese, avvertendo un improvviso senso
d’allerta. Lo invase una subitanea inquietudine, mista ad una strana amarezza. Che potesse fare qualcosa di strano proprio su di lui,
quel musone psicotico? Non gli pareva proprio possibile.
Orochimaru stiracchiò
un sorriso sbilenco, ironico e affilato.
“Mi sembra chiaro,
Jiraiya, ti ho resuscitato dalla morte,” rispose sarcastico, scuotendo
leggermente i capelli sulle spalle.
“Sto parlando sul serio,
Orochimaru.”
“In un certo senso,
anche io,” ribatté l’altro, prima di sbellicarsi in una
breve, silenziosa risata dovuta probabilmente alla sua espressione spaesata.
“Sta’ tranquillo, imbecille. Non ti ho fatto nulla che non farei a
me stesso,” lo liquidò, incamminandosi per oltrepassarlo.
“Questo dovrebbe
rassicurarmi? Guarda che lo so che sei uno sciroccato!” berciò
Jiraiya, alzando la voce perché lo sentisse.
Orochimaru si voltò di
nuovo indietro, sospirando tediato di certo per il chiasso. Lo guardò
per qualche secondo freddamente in silenzio, lì piantato con la sua
espressione frustrata dall’incomprensione e il suo broncio, e poi inspiegabilmente
sorrise per un paio di secondi, in modo schietto e incontrollato.
“Ti ho soltanto salvato
la vita, Jiraiya,”
Gli girò di nuovo le
spalle, lasciandolo lì con le sue domande.
Le risposte, Jiraiya le avrebbe
trovate soltanto parecchi anni dopo, quando le cose erano ormai irrimedialmente
cambiate e il suo migliore amico, per come lo aveva conosciuto, non esisteva più. La febbrile
condizione di disperata incredulità in cui le scelte compiute da
Orochimaru lo avevano sprofondato lo portò a cercare di sbrogliare ogni
minimo nodo di quella matassa, nella ricerca caparbia di motivazioni e logica.
Scoprì grazie alle
ricerche di Tsunade che c’erano modi anche più semplici della
medicina tradizionale per liberare un corpo vivente dal veleno animale, ma si
trattava di tecniche proibite. Orochimaru ne aveva usata una su di lui. Quello
strano, trucido jutsu era in realtà perfettamente innocuo, sebbene
inquietante – consisteva, a grandi linee, nel miscelare il sangue dell’avvelenato
e dell’avvelanatore accorpandone le membra per qualche istante,
sicché gli anticorpi naturali passassero dall’uno all’altro
– e l’unico effetto collaterale che sembrava poter presentare erano
giramenti di testa per qualche settimana. Le sue vaghe inquietudini
dell’epoca, dunque, erano state in assoluta malafede, ma probabilmente quell'episodio avrebbe dovuto aprirgli gli occhi. Il semplice fatto di aver potuto inquietarsi all'idea che Orochimaru gli potesse fare qualcosa di strano, proprio lui che a dispetto di tutto gli voleva bene come a un fratello, avrebbe dovuto segnalargli che inconsciamente percepiva un lento, sinistro cambiamento nel suo amico. Non aveva capito nulla, invece.
Jiraiya realizzò
così di essere stato il destinatario dell’ultima buona azione
compiuta da Orochimaru e, probabilmente, la sola ed unica persona a cui avesse
mai salvato la vita senza tornaconto. Stranamente, si sentì ancor
più infelice.
Non sarebbe successo mai
più niente del genere. L’effetto di quella consapevolezza non era
poi dissimile da quello del veleno: s’infiltrava nel sangue irradiandosi
in tutto il corpo, lo lasciava fiacco e dolente.
E, a differenza della volta
precedente, nessun musone avrebbe rimediato.
Come al solito, scusate il canon sbagliato, gli OOC, le sparate e le licenze poetiche. Come al solito, abbiate pazienza.
Hasta.
suni