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Autore: suni    03/06/2009    6 recensioni
“...Nti, Jiraiya?”
Era una vocina melodiosa e bellissima, che penetrava nel velo dell’ottundimento come una musica soave. Jiraiya fu felice più che mai di sentirla.
“Tsunade,” esalò commosso, ancora senza riuscire a vederla. “Sapevo che mi avresti salvato, ero...sicuro che in fondo tu ed io...” balbettò sottovoce, a fatica.
“Ma perché deve dire stronzate anche mezzo morto?”
Quest’altra voce gli era altrettanto familiare nella sua sprezzante, grave compostezza.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Jiraya, Orochimaru, Tsunade
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non aveva capîto bene nemmeno come fosse successo, con tutto quel caos improvviso

VELENO

 

 

Non aveva capito bene nemmeno come fosse successo, con tutto quel caos improvviso. Si era semplicemente trovato circondato, tossendo per la polvere delle esplosioni e con la vista offuscata. L’errore principale era stato convincersi che nessuno di quegli avversari potesse costituire un problema e cominciare a tirarli giù come mosche senza aspettare rinforzi: una stupidaggine da dilettanti di cui s’era reso conto soltanto quando uno dei guerrieri nemici aveva approfittato del suo sbilanciamento nell’abbatterne un altro per lanciargli contro un jutsu violento.

Se l’era sentito bruciare sul fianco e aveva lanciato un gemito di dolore, percependo il sangue colare lungo la gamba. La ferita non era grave, perché era riuscito comunque a ritrarsi abbastanza da esserne toccato solo marginalmente, ma strizzando gli occhi mentre controbatteva al colpo si era reso conto che qualcosa non andava. Guardando il sorriso scaltro del suo avversario che cadeva gli s’erano incrociati gli occhi e quando intravide la mano dello shinobi tutto era più chiaro. Quell’uomo aveva un pugiglione al posto del pollice: doveva essere quello che chiamavano Doku no Doubutsu, lo scorpione del Deserto.

Poi aveva sentito le ginocchia cedere ed era crollato giù pensando che sarebbe stato proprio stupido morire a quattordici anni per una puntura, con tutte le cose grandiose che aveva in progetto di fare, e non intendeva accettarlo. La sua testa era precipitata in avanti mentre lo sguardo gli s’offuscava del tutto e la sua mano lanciava un ultimo colpo verso uno dei tre accerchiatori superstiti.

Nella catalessi che precedeva la perdita dei sensi aveva ancora avuto modo di sentire una sorta di violenta folata di vento, delle urla di dolore e poi una mano magra e fredda che si stringeva sul suo avambraccio.

“Stupido moccioso idiota,” scandiva lontanissima una voce irritata, musicale e stranamente affannata. “Tsunade! Tsuna...?”

Buio.

Ma mentre il mondo si spegneva Jiraiya aveva saputo con certezza ancor più assoluta che, veleno o meno, non sarebbe morto.

 

 

“...Nti, Jiraiya?”

Era una vocina melodiosa e bellissima, che penetrava nel velo dell’ottundimento come una musica soave. Jiraiya fu felice più che mai di sentirla.

“Tsunade,” esalò commosso, ancora senza riuscire a vederla. “Sapevo che mi avresti salvato, ero...sicuro che in fondo tu ed io...” balbettò sottovoce, a fatica.

“Ma perché deve dire stronzate anche mezzo morto?”

Quest’altra voce gli era altrettanto familiare nella sua sprezzante, grave compostezza. L’aveva sentita anche subito prima di svenire ed era stata la sua garanzia di vita.

“Vai a farti un giro, musone,” borbottò, sbattendo faticosamente le palpebre. La sagoma di Tsunade comparve angelica nel suo campo visivo, nei suoi occhi luminosi danzava l’impegno della medic ninja che era dentro di lei. “Sei invidioso che abbia salvato me.”

“Certo sarebbe stato strano se avesse salvato me, dato che io non ne avevo bisogno...incapace,” ribatté Orochimaru con assoluta indifferenza. Jiraiya torse un po’ il collo indolenzito per vederlo e lo scoprì intento a scostare con gesti fermi e nobili i lunghi capelli dal viso, lo sguardo neutro fisso alla finestra.

Fece per parlare di nuovo – non era un incapace, lui, e tra tutti non sopportava che proprio Orochimaru lo pensasse. Ma il genio stava già voltandosi, diretto alla porta della stanza.

“Siamo a Konoha?” mormorò Jiraiya perplesso. Il luogo della battaglia distava più d’un giorno e mezzo dal villaggio, possibile che avesse dormito tanto a lungo, mentre lo trasportavano scomodamente?

Tsunade scosse la testa, posandogli una pezza bagnata sulla fronte.

“Kusa. Siamo nella nazione dell’Erba. Ci siamo diretti qui perché Konoha era troppo distante e tu avevi bisogno di cure. Gli altri sono rimasti sul campo e Orochimaru ripartirà tra qualche minuto per raggiungerli,” rispose solerte. “E tu devi dormire, adesso,” aggiunse ferma.

Jiraiya annuì stancamente, con gli occhi che già si chiudevano. Curiosamente, stava pensando di dirle di raccomandare al musone che stesse attento – come se gliene fosse importato qualcosa, poi, di quel pallone gonfiato – quando crollò addormentato.

Quando si svegliò era solo, e non aveva la più pallida idea di quanto avesse dormito. Mezz’ora, o forse un giorno: la luce all’esterno era più o meno la stessa che ricordava. Si stiracchiò cautamente, scoprendosi molto più in forze e riposato. Il suo stomaco brontolò sonoramente e lui ridacchiò, alzandosi a sedere. Con cautela provò a reggersi sulle gambe e scoprì di potercela fare senza grossi problemi, erano solo un po’ più molli del solito.

Nel corridoio c’era un gran via vai: Kusa era neutrale e non prendeva parte al conflitto, ma si trovava tra Iwa e Konoha e riceveva spesso feriti della nazione del Fuoco, sua alleata in tempo di pace. In effetti era probabile che l’Erba avrebbe finito con l’essere occupata – tramite accordi bilaterali e temporanei nel caso di Konoha, con un’invasione armata se si fosse trattato di Iwa - da uno dei due contendenti, perché la sua posizione era strategica.

I medic ninja si affannavano tra un ferito e l’altro e a Jiraiya non occorsero che un paio di minuti per individuare la chioma dorata e l’adorabile nuca di Tsunade china su un lettino. Si avvicinò con un sorriso smargiasso.

“Si batte la fiacca, eh?” esclamò scherzoso.

Tsunade non si voltò nemmeno, presa dall’attività di medicare un ferito.

“Ha ragione ‘Maru, Jiraiya. Appena ti riprendi parti con le scemenze,” osservò assorta. Poi spostò lo sguardo su di lui con una punta d’inquietudine, mentre il ragazzo sorrideva mesto nel realizzare d’aver sballato l’esordio. “Come ti senti?”

“Bene!” rispose lui, sollevato. “A questo proposito, io... Grazie, Tsunade. Se non ci fossi stata tu...”

“Io non ho fatto nulla di speciale,” si schermì lei ruvida, tornando a dedicarsi al suo paziente.

“Ma dai, non fare la modesta!” protestò vigorosamente lui, ridacchiando. “So benissimo che...”

“Jiraiya,” lo interruppe Tsunade risoluta, prima di mordicchiarsi le labbra con esitazione. Saettò lo sguardo intorno, poi sbuffò. “Naturalmente ti avrei curato anche se sei uno scemo, ma non ce n’è stato bisogno. Quando sono arrivata eri già fuori pericolo.”

“Eh?” guaì lui, sorpreso. La osservò in silenzio, sommamente perplesso.

“Io ero dall’altra parte del campo di battaglia. Può anche darsi che sarei arrivata troppo tardi, chissà,” aggiunse, pensosa.

Jiraiya aggrottò la fronte, concentrandosi per qualche secondo su quelle informazioni. Se non l’aveva curato Tsunade, doveva averlo fatto qualcun altro.

Sgranò gli occhi allibito, comprendendo d’improvviso.

L’ha chiamata. L’ho sentito, l’ha chiamata ma lei era troppo lontana.

“Ma non può essere! Lui non capisce un tubo di medicina! Cosa...?” E s’interruppe, inebetito.

Tsunade scrollò gravemente le spalle, seria.

“Non so cosa abbia fatto. Ma so che se non l’avesse fatto tu ora non saresti qui,” rispose, schietta. “Gli ho detto che non te ne avrei parlato,” aggiunse piano, storcendo le labbra con vaga colpevolezza.

Jiraiya non replicò più, ammutolito dallo sbigottimento. Girò i tacchi e barcollò verso la sua camera di degente con lo sguardo fisso, riflettendo intensamente.

Che Orochimaru non lo odiasse davvero, Jiraiya lo sapeva da tempo. Era disposto anzi a scommettere che la sua compagnia, nonostante gli sbuffi e l’indifferenza maligna di cui il musone lo omaggiava, gli fosse gradita più di quella di chiunque altro. Da parte sua, nonostante il genio fosse, semplicemente, un matto, un violento e uno stronzo, non poteva fare a meno di stimarlo profondamente. A modo suo era divertente, ed era davvero uno shinobi straordinario.

Ma questa era una cosa diversa.

Orochimaru, in qualche modo, l’aveva sottratto a morte certa.

 

 

Attesa ansiosamente che le squadre di Konoha ripiegassero verso la base, perché sarebbero sicuramente passate da lì: di certo, almeno il terzo membro del team Sarutobi.

L’attesa durò altri due interi giorni, e Jiraiya si era già pienamente ripreso quando gli shinobi di Konoha varcarono le porte di Kusa guidati da un insolito capitano d’armata: Orochimaru, nei suoi quattordici anni di esile pallore, con quel viso ancora quasi infantile e i capelli lisci sulle spalle, non aveva davvero l’aria del terribile generale. Eppure sia Jiraiya che Tsunade erano pronti a giurare che quello che si era lasciato più cadaveri alle spalle fosse sicuramente lui.

“Abbiamo qualche ferito lieve e sei morti,” annunciò non appena l’ebbero avvicinato. Tsunade, insieme a due medici di Kusa, si dedicò immediatamente alle medicazioni senza perdere altro tempo.

Orochimaru restò invece perfettamente immobile davanti a Jiraiya, squadrandolo in modo asettico e quasi analitico. Lui gli restituì un’occhiata interrogativa che si fece fiera e poi quasi di sfida al persistere dell’attenta osservazione dell’altro.

“Ti sei rimesso, inetto?” chiese infine il genio, superiore.

“Perfettamente. Sono in forma come non mai,” ribatté lui, spaccone.

Orochimaru inclinò lievemente il capo, attento.

“Effetti collaterali?” chiese casuale.

Jiraiya s’irrigidì, aggrottando la fronte e serrando la mascella.

“So che mi hai soccorso tu. Che cosa mi hai fatto?” chiese, avvertendo un improvviso senso d’allerta. Lo invase una subitanea inquietudine, mista ad una strana amarezza. Che potesse fare qualcosa di strano proprio su di lui, quel musone psicotico? Non gli pareva proprio possibile.

Orochimaru stiracchiò un sorriso sbilenco, ironico e affilato.

“Mi sembra chiaro, Jiraiya, ti ho resuscitato dalla morte,” rispose sarcastico, scuotendo leggermente i capelli sulle spalle.

“Sto parlando sul serio, Orochimaru.”

“In un certo senso, anche io,” ribatté l’altro, prima di sbellicarsi in una breve, silenziosa risata dovuta probabilmente alla sua espressione spaesata. “Sta’ tranquillo, imbecille. Non ti ho fatto nulla che non farei a me stesso,” lo liquidò, incamminandosi per oltrepassarlo.

“Questo dovrebbe rassicurarmi? Guarda che lo so che sei uno sciroccato!” berciò Jiraiya, alzando la voce perché lo sentisse.

Orochimaru si voltò di nuovo indietro, sospirando tediato di certo per il chiasso. Lo guardò per qualche secondo freddamente in silenzio, lì piantato con la sua espressione frustrata dall’incomprensione e il suo broncio, e poi inspiegabilmente sorrise per un paio di secondi, in modo schietto e incontrollato.

“Ti ho soltanto salvato la vita, Jiraiya,”

Gli girò di nuovo le spalle, lasciandolo lì con le sue domande.

 

 

Le risposte, Jiraiya le avrebbe trovate soltanto parecchi anni dopo, quando le cose erano ormai irrimedialmente cambiate e il suo migliore amico, per come lo aveva conosciuto, non esisteva più. La febbrile condizione di disperata incredulità in cui le scelte compiute da Orochimaru lo avevano sprofondato lo portò a cercare di sbrogliare ogni minimo nodo di quella matassa, nella ricerca caparbia di motivazioni e logica.

Scoprì grazie alle ricerche di Tsunade che c’erano modi anche più semplici della medicina tradizionale per liberare un corpo vivente dal veleno animale, ma si trattava di tecniche proibite. Orochimaru ne aveva usata una su di lui. Quello strano, trucido jutsu era in realtà perfettamente innocuo, sebbene inquietante – consisteva, a grandi linee, nel miscelare il sangue dell’avvelenato e dell’avvelanatore accorpandone le membra per qualche istante, sicché gli anticorpi naturali passassero dall’uno all’altro – e l’unico effetto collaterale che sembrava poter presentare erano giramenti di testa per qualche settimana. Le sue vaghe inquietudini dell’epoca, dunque, erano state in assoluta malafede, ma probabilmente quell'episodio avrebbe dovuto aprirgli gli occhi. Il semplice fatto di aver potuto inquietarsi all'idea che Orochimaru gli potesse fare qualcosa di strano, proprio lui che a dispetto di tutto gli voleva bene come a un fratello, avrebbe dovuto segnalargli che inconsciamente percepiva un lento, sinistro cambiamento nel suo amico. Non aveva capito nulla, invece.

Jiraiya realizzò così di essere stato il destinatario dell’ultima buona azione compiuta da Orochimaru e, probabilmente, la sola ed unica persona a cui avesse mai salvato la vita senza tornaconto. Stranamente, si sentì ancor più infelice.

Non sarebbe successo mai più niente del genere. L’effetto di quella consapevolezza non era poi dissimile da quello del veleno: s’infiltrava nel sangue irradiandosi in tutto il corpo, lo lasciava fiacco e dolente.

E, a differenza della volta precedente, nessun musone avrebbe rimediato.







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Come al solito, scusate il canon sbagliato, gli OOC, le sparate e le licenze poetiche. Come al solito, abbiate pazienza.
Hasta.
suni

   
 
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