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Autore: brooklynbaby_    19/02/2017    0 recensioni
«Monta su, ragazzina, ho avuto già abbastanza guai stasera per colpa tua» le feci cenno col capo di salire dietro di me. Ma lei restò immobile, guardandomi con tanto d’occhi. I capelli le si erano increspati alla radice, non avrei saputo dire se per l’umidità o la paura, e aveva la pelle d’oca.
Anni '70.
Brooklyn, un ragazzo scanzonato che cerca di farsi strada nel mondo della musica.
Manhattan, una ragazza acqua e sapone che studia per essere ammessa alla Juilliard.
Solo un ponte li divide, solo la musica li unisce: Justin Bieber e Lana Del Rey, finiranno nella stessa band, in un viaggio che li porterà fino a Woodstock.
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 1- Park Slope
 
Lana

Mi girai indispettita a quel tono così sbrigativo e trovai a fissarmi due occhi nocciola, che non nascondevano l'ansia che mi togliessi dai piedi. 
"Scusa?" una punta d'irritabilità nella mia voce. Lui fece spallucce, nella sua felpa grigio slavato, e continuò a indirizzarmi uno sguarvo vacuo e annoiato. 
"Sono in fila da ore per questo biglietto" sottolineai in maniera così nervosa che potei avvertire tutti i muscoli della faccia contrarsi. Non sapevo neppure perchè mi stessi rivolgendo tanto sgarbatamente a uno sconosciuto, forse perchè non avrei ottenuto nulla di più da quel cavernicolo al botteghino. 
"E allora? Io sono in fila per un contratto da una vita..." ribattè maleducatamente. 
Mi ribolivvano le tempie dal nervoso. Avevo davvero passato delle ore in fila. Appena arrivata lo stile di Brooklyn mi aveva colpito come una ventata di aria fresca da una finestra lasciata distrattamente aperta. Era sicuramente un quartiere diverso da Manhattan: niente stile liberty, ma una calda trama di mattoni. Meticci che scorazzavano nei prati, nient'affato costretti al guinzaglio dal loro prezioso pedigree. Una volta raggiunto il Washington Park, con l'aiuto di qualche passante, non mi era stato difficile individuare il botteghino. Una fiumana di persone, tutte accalcate, non lasciava dubbi. Avevo cercato di mimetizzarmi al meglio, in quella folla di padri e figli, ma ci ero riuscita molto poco. Ero, del resto, la sola donna in coda. Più di un'occhiata indiscrita al mio abbigliamento, mi diceva che fosse evidente la mia estraneità.  
Persa nei miei pensieri, non mi ero accorta che il mio contendente mi aveva sorpassato senza difficoltà. Se ne stava appogiato con gli avambracci al botteghino, sventolando tra l'indice e il medio le sue banconote. 
"L'ultimo biglietto per i Mets" disse. Mi parve di notare un sorriso sotto i baffi, mentra calcava la voce su 'ultimo'. Era di me che stava ridendo? Persi del tutto le staffe. Non avevo mai alzato la voce, neppure contro quel rompiscatole patentato di mio padre, ma non mi trattenni.
"Forse non ti è chiaro" conquistai col mio tono la sua attenzione, facendolo voltare. "Se volevi il biglietto potevi fare la fila" incrociai le braccia al petto, accigliandomi. Lui si guardò intorno, come se cercasse qualcuno, poi riportò il suo sguardo annoiato su di me. 
«Ci siamo solo io e te in fila, a quanto vedo…» inarcò un sopracciglio. «E mi era parso di capire che non volessi quel biglietto, per cui» fece spallucce e si voltò ancora verso l’omaccione, che fischiava un motivetto, come se si stesse divertendo a guardare quella scenetta, meglio anche del Dick Cavett Show.
«Mi dia quel biglietto» parlai senza neppure pensare, facendomi spazio al botteghino e quasi spintonando quel ragazzo. Avevo già due biglietti, per mio padre e Joshua, avrei potuto rinunciare al terzo, mio fratello maggiore non si sarebbe disperato, ma il mio orgoglio m’impediva di mollare l’osso. Per cavarmi dall’imbarazzo che provavo, abbassai lo sguardo sul portafogli e ne estrassi quei maledetti venti dollari.
«Ecco a lei» li allungavo sul bancone, quando sentì qualcosa di caldo posarsi sul dorso della mia mano. Era la sua, la mano di quel biondo, che adesso mi rivolgeva uno sguardo minaccioso. La ritrassi, come se stessi fuggendo dalla scossa di una presa elettrica.
«Senti, ti do cinque dollari se ti togli dalle scatole» esordì, sbuffando. Poi mi diede un’occhiata, si soffermò poco sul mio viso, che doveva essere cremisi per l’imbarazzo, e spulciò con attenzione i miei vestiti, uno Chanel verde pastello e scarpe italiane. Il mio abbigliamento, forse, gli suggerì che non poteva comprarmi con cinque dollari, perché perse la pazienza.
«Insomma, io devo avere quel biglietto, si tratta della finale della National League» si disperava. Doveva essere un tifoso sfegatato, anche più del mio fratellino Joshua.
«Problemi tuoi, potevi pensarci prima» sbottai, ormai fuori di me. Non tolleravo l’arroganza di quel ragazzo, che adesso si stava torturando le punte dei suoi capelli biondi, sul davanti tirati indietro in un ciuffo, come la moda degli anni comandava. Aveva un paio di jeans tutti stracciati ai bordi e delle Chuck Taylor con i lacci ormai grigi e il contorno delle suole in brandelli.
 
«Piantatela voi due, ho qui un altro biglietto» quell’uomo con la pettorina dei Mets, fece capolino da sotto il bancone, sventolando quello che doveva essere, e stavolta per davvero, l’ultimo biglietto per la partita. Il ragazzo al mio fianco si fiondò su quel rettangolino di carta, come se fosse un pezzo da cento, batté forte i suoi dollari sul legno e andò via, senza degnarmi di uno sguardo. Forse non avrei dovuto volere che mi parlasse: a giudicare da quanto era nero, non sarebbe stato piacevole. Però m’infastidiva come mi aveva piantato in asso, senza neppure scusarsi. Pagai in fretta i miei biglietti e corsi per raggiungerlo.
«Ehi tu!» gli urlai, mentre era ancora di spalle e camminava in maniera dinoccolata fuori da Washington Park.
 
 
 
Justin
 
Sentii quella voce stridula chiamare e mi voltai per accertarmi che stesse davvero chiamando me. Chi volevo prendere in giro? C’eravamo solo io e lei a quell’ora di sera nel Washington Park. Mi sorprendeva che qualcuno avesse lasciato andare in giro una verginella come lei, tutta da sola.
«Parlo con te» chiarì, attaccandosi a me, che avevo ripreso a camminare. Mi voltai di sbieco, fermandomi. Aveva dei capelli ramati, che scendevano ordinatamente sul viso, lunghissimi. Se non avesse avuto quella voce insopportabile e l’aria risentita, sarebbe stata anche carina. Mi diedi una scossa, pensando che dovevo liberarmi in fretta di quella piattola.
«Sei stato molto scortese, prima» esclamò, incrociando le braccia al petto e quasi mettendo il broncio. La squadrai, avrà avuto la mia età, su per giù, perché si stava comportando come una mocciosetta davvero non lo capivo. E soprattutto, perché lo stava facendo con me? La ignorai del tutto e ripresi a camminare verso il mio Gilera.
«Potevi almeno scusarti» mi urlò e la voce mi arrivò un po’ lontana: non doveva più starmi seguendo, benedissi. Mi frizionai un po’ le mani e afferrai il manubrio, montando su. Quando mi girai la vidi ancora lì, a qualche metro di distanza, che si stringeva nel suo golf e si guardava intorno come un pesce fuor d’acqua. Aspettava qualcuno? Beh, non vedevo perché dovesse interessarmi, così diedi qualche pedalata e cominciai a muovermi nella sua direzione, per raggiungere l’ingresso del Washington Park. Le passai di fianco e mi rivolse un’occhiata nera. Era buffissima ed io non avevo poi così fretta, così fui tentato di fermarmi.
 
«Hai intenzione di tenermi il broncio ancora per molto?» risi. Per tutta risposta lei si voltò dall’altra parte e i suoi capelli la seguirono, subito dopo, frusciando sulla sua schiena. Voleva giocare a fare la dura, adesso. Non potei trattenermi dal ridere.
«Si può sapere cos'hai da ridere?» tornò a guardarmi, accigliata.
«Mi chiedevo cosa ci facesse una come te a quest’ora nel parco» dissi piano, ancora ridendo.
«N-non sono affari tuoi» balbettò. Cercava di darsi un tono e riusciva solo ad essere più buffa. E poi chi l’aveva vestita, sua nonna? Un vestito verde vomito la copriva fino alle ginocchia.
«Hai ragione…» mormorai e la vidi distogliere lo sguardo, quando si fu accorta che le fissavo le gambe. Temevo che sarebbe andata in iperventilazione, a giudicare dal suo viso rosso come un peperone.
«Beh, io ti saluto» feci per andarmene.
«Dov’è la fermata dei taxi in questo dannato posto?» a quelle sue parole mi bloccai e la fissai incredulo.
«Credi davvero di trovare un taxi a quest’ora nello Slope?» le dissi scettico, ma lei non rispose, piuttosto strabuzzò gli occhi. Non doveva sapere nemmeno dove fosse.
 
 
 
Lana
 
Di cosa parlava quel tipo? Uno ‘slope’? Io volevo solo un taxi che mi riportasse a Manhattan. Non avevo realizzato che si fosse fatto così tardi. Guardai il buio che era calato attorno a noi e tirai su i bordi del golf per controllare l’orologio: le otto di sera, i miei erano tornati a casa da un pezzo. Boccheggiai, non riuscendo a credere di essere stata così sbadata. Ero scettica sul fatto che Joshua se la fosse cavata così bene, da convincere i miei a non chiamarmi per la cena. Avrei dovuto telefonare, inventare una scusa. Stavo per chiedere a quel ragazzo se ci fosse un telefono nelle vicinanze, ma notai che fissava con gli occhi i fuori dalle orbite il mio orologio svizzero. In un baleno mi nascosi i polsi dietro la schiena.
 
«Tranquilla, non sono un ladro» esclamò offeso, spostando il suo sguardo da me al suo… Un ciclomotore, cribbio. Non ne avevo visto uno prima, se non in pubblicità. A Manhattan tutti si spostavano in auto e per la maggior parte, scarrozzati dall’autista. Era raro anche che qualcuno prendesse la metropolitana. “Non sono un ladro”, aveva detto. “Tranquilla”, aveva detto. E come potevo esserlo? Non si raccontavano belle storie su Brooklyn, dalle mie parti. Cominciai a tremare come una foglia, per la paura che fosse un serial killer, che mi avrebbe ucciso per poi gettare il mio corpo nel laghetto del Washington Park. Immaginavo già le testate dei giornali: ‘giovane ragazza di Manhattan trovata uccisa nel centro di Brooklyn’ e, sotto, ‘voleva solo provare il brivido della trasgressione’. Ad ogni modo, se non mi avesse ucciso lui, lo avrebbero di sicuro fatto i miei genitori, una volta a casa.
 
«Ti conviene spostarti da qui, comunque» si guardò intorno, nella penombra di quel parco, rischiarato solo da qualche lampione «non è un bel posto dello Slope in cui farsi trovare di sera» spiegò. Anche il botteghino aveva ormai chiuso e non sentivo alcuna voce in quello spiazzo deserto. Presi a guardarmi intorno, terrorizzata all’idea che qualcuno potesse tendermi un agguato. Lo sentii ridere.
«Slope?» decisi di chiedere.
«Lo Slope, Park Slope, è il quartiere in cui sei» mi rispose, con fare ovvio. Dovevo proprio avere una faccia inebetita, perché spalancò le braccia mentre diceva: «Andiamo, lo Slope! Se non pende non è lo Slope» ammiccò, ma ben presto assunse un’aria sconsolata, perché capì che non avevo idea di che cosa stesse parlando. «Non sei di queste parti, eh?»

 
«E io come torno a casa adesso?» piagnucolai, in preda alla disperazione. Sentivo il cuore nel petto battere all’impazzata, le gambe mi erano diventate molli dalla paura e le mie ginocchia tremavano.
«Problemi tuoi» mi scimmiottò. Aveva davvero una faccia da schiaffi, gli avrei suonato quattro sberle, se non fosse stato più alto di me e decisamente più grosso.
«Guarda che è soltanto colpa tua» inveii.
«Mia?» mi fissò, ridendo forte, tanto doveva trovare stupido quello che gli avevo detto.
«Sì, tua. Se non mi avessi fatto perdere tempo con i biglietti»  
«Saresti ancora a bisticciare al botteghino» m’interruppe, sogghignando. «Per venti dollari, poi..» aggiunse con un tono più basso, scuotendo piano la testa, mentre se ne stava ancora seduto sul suo ciclomotore, con un piede piantato a terra per reggersi.  Che triviale. Lo guardai accigliata, col solo risultato di suscitare in lui un’altra risata.
 
«Beh adesso devo proprio andare, buona fortuna…» corrugò la fronte, come se stesse davvero cercando di ricordare il mio nome, quando in realtà non ci eravamo mai presentati.
«Sono Lana» gli tesi la mano, che lui lasciò penzolare nel vuoto.
«Sei di Manhattan, vero?» fece correre uno sguardo sprezzante lungo la mia sagoma. Continuava a fissarmi con quel ghigno stampato in faccia e, quando capii che non avrebbe stretto la mia mano, la ritirai, imbarazzata. Quel tipo mi dava ai nervi.
«Sì» risposi seccata. Per tutta riposta lui annuì, come se stesse seguendo il filo di un discorso interiore e senza altre parole se ne andò, lasciandomi lì. Potevo sentire il cigolare delle sue ruote sul ciottolato e lo seguii con la coda dell’occhio, fino a vederlo sparire dietro il muro di cinta. Quando realizzai di essere rimasta da sola in quel parco deserto, sentii il gelo paralizzarmi gli arti. Provai a muovere un passo verso destra, ma mi scontrai contro una pietra più grande delle altre e le dita dei miei piedi mandarono un lancinante dolore.
«Dannazione» imprecai a bassa voce. Mossi alcuni passi in avanti e fui felice di non trovare alcun ostacolo lungo il percorso.
 
«Aaaaah» strillai quando sentii qualcosa di viscido strisciare lungo il mio piede. Scalciai con forza, dando piccoli saltelli. Sarei morta giovane, me lo sentivo. Giurai di aver udito una risata, ma dovevo avere le allucinazioni, perché non c’era nessuno oltre me. Beh, me e qualsiasi cosa fosse stato quel viscidume che mi si era attaccato sul piede.
«Dovrebbero falciarlo il prato» borbottai, rabbrividendo al pensiero di quanti esserini microscopici dovessero star strisciando sotto le mie suole in quel momento.
«Non siamo mica a Central Park qui» esclamò d’un tratto una voce che aveva nel tono una saccenza non sconosciuta. Mi voltai a destra e poi a sinistra, tremando convulsamente, e non riuscendo a vedere nessuno. Avrei giurato che fosse ancora quel ragazzo, ma adesso stavo morendo dalla paura perché non riuscivo a capire chi avesse parlato. Il sangue mi si gelò nelle vene.
«Yuhuu, quassù» mi urlò la stessa voce di prima. Spostai istintivamente gli occhi al muro di cinta e fu così che, illuminato dalla luce dei lampioni d’intorno, lo vidi. Era il biondo di poco prima e se ne stava appollaiato sul cornicione, con le gambe incrociate e fumare una sigaretta, cacciando nuvolette e sorridendo. Anzi, ridendo e di me, chiaramente. Doveva aver assistito a tutta la scena ed evidentemente se la stava spassando, rinunciando a levare le tende, come aveva promesso.
«Credevo avessi fretta» cercai di suonare dura. Lui continuò a sfumacchiare, così m’incamminai verso l’uscita. Sentivo i suoi occhi addosso, per cui accelerai un po’ il passo per averlo di spalle. Non volevo essere costretta a guardare oltre quel suo ghigno irridente. Quando fui fuori, le luci dei lampioni erano meno rade e riuscivo a scorgere chiaramente quello che mi stava davanti, cioè niente, il nulla più assoluto, all’infuori delle auto parcheggiate e delle case senza tende, da cui riuscivo a scorgere allegre famigliole, riunite attorno ai tavoli. Dalla finestra di un secondo piano seguii i fotogrammi del Dick Cavett Show: quanto avrei pagato per poter essere a casa, sul mio comodo divano, col profumo della cena dalla cucina e le battute di Dick a far ridere mio padre. Invece ero sul marciapiede a fissare luna strada vuota. 
«Potresti fare l’autostop» parlò ancora con quella sua voce insopportabile.
«Potresti farti gli affari tuoi» rilanciai acida.Se anche avessi avuto il coraggio di farlo, probabilmente sarebbero passate delle ore, prima che qualcuno avesse scorto il mio pollice in su. I miei avrebbero di sicuro già chiamato la polizia, l’FBI e anche l’esercito, a quel punto. Probabilmente lo avevano già fatto, del resto.
 Con un balzo si calò giù dal muro di cinta, attutendo il colpo sui suoi polpacci. Ahimè, non s’era spiaccicato al suolo.
«Hai ragione, potrei…» disse, mentre risaliva sul suo ciclomotore. Mi rivolse un’ultima occhiata divertita e poi cominciò a pedalare nella direzione opposta alla mia, ma molto lentamente e fischiettando. Ora che non dovevo più preoccuparmi di quello scocciatore, avrei dovuto, ad ogni costo, trovare il modo di tornare a casa e farlo alla svelta, anche. Mi frizionai un po’ le braccia, continuando a dare scatti a destra e manca, per la paura. Magari se avessi camminato, tra qualche isolato avrei potuto incrociare l’ingresso della metropolitana. Deglutii forte, al solo pensiero e per un secondo setacciai la strada: il biondo, con il suo sgangherato ciclomotore, si stava avvicinando all’angolo. Ingoiai il mio groppo in gola ed  infilai le dita alla cieca nel portamonete, ne perlustrai il fondo a tentoni: vuoto, neppure un penny m’era rimasto per comprare il biglietto. Maledissi quel lapidario del botteghino che non aveva voluto applicare la riduzione al biglietto.
 
 
Strinsi gli occhi, respirando profondamente e convincendomi che era una buona idea, se non altra l’unica che mi fosse rimasta. Corsi verso di lui e quando fui a qualche palmo di distanza dissi: «Mi daresti un passaggio?»
   
 
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