«Dunque?»
La parola risuonò per la cella, colpendo le grigie mura di pietra e arrivando alle sue orecchie così fioca che gli parve di averla immaginata. «Dunque cosa?»
«Dunque cosa dirai al mio funerale adesso che mi hai ucciso?»
«Glice, ti prego, non essere drammatico--»
«Drammatico!» Glice voltò la testa con tanta ferocia che quasi colpì il muro dietro di lui. I suoi occhi ambrati - vitrei sotto la debole luce della prigione - sembravano quasi tremare con il suo corpo, muovendosi rapidamente per non incrociare il suo sguardo. Sprofondò le dita dei piedi nella polvere della cella. «So perché sei qui. Non avrai il mio perdono, stai solo perdendo tempo.» Athanasiade trasalì davanti al veleno di quelle parole. Era surreale sentire tanto odio da quelle labbra che poco tempo fa lo avrebbero difeso con l'ardore che solo un fanciullo infatuato possiede. Morse il labbro e abbassò la testa. «Non osare versare libagioni sulla mia tomba», e con questo Glice si spinse ancor più dentro la cella, ancora più lontano dalle fragili grate che lo separavano da lui.
Athanasiade fece per dire qualcos'altro, ma la conversazione era finita. Aveva provato più volte, dopo il suo arresto, a farlo parlare, sperando in qualche tipo di perdono, ma senza successo: rimaneva incollato alla parete fredda della cella, fissando un punto a caso dietro di lui, il corpo fremendo per la rabbia e il dolore, ma comunque muto. Almeno stavolta riuscirono a parlare.