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Autore: Tury    24/02/2017    1 recensioni
Fu proprio in quel momento che li vide.
Due occhi verdi, del verde più intenso che avesse mai ammirato, che la osservavano di nascosto.
Rimasero così, per lunghi attimi, a studiarsi e ad ammirarsi, lei e quella misteriosa figura, senza affidare al vento alcuna parola.
Improvvisamente, le campane della piccola chiesa batterono l’ora, distogliendola, per un solo attimo, dalla sua contemplazione.
Quando si voltò nuovamente alla ricerca di quel verde, non vi fu altro che il grigio bosco ad accogliere il suo sguardo.
Quegli occhi del color dello smeraldo erano svaniti.
[CLEXA AU]
Genere: Introspettivo, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Clarke Griffin, Lexa
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Erano ormai trascorsi diversi minuti da quando i suoi occhi, solitamente limpidi come il cielo, si erano posati su quel manifesto. 
Quando aveva messo a fuoco quelle lettere, quel nome, nubi sinistre erano andate ad oscurare l’intenso azzurro di quelle iridi, mentre una sensazione di disagio iniziava a farsi largo nel suo corpo.
Erano passati molti anni, da quel giorno.
Sarebbe dovuta essere una ferita chiusa, ormai.
Ma Clarke sapeva che nemmeno l’eternità avrebbe potuto lenire in alcun modo quella perdita.
Chiuse gli occhi, privandosi così di quella visione, permettendo al suo corpo di liberarsi da quella morsa mortale.
Mosse alcuni passi, circondata da quell’oscurità in cui si era costretta, in quella solitaria strada di periferia.
Nonostante la momentanea privazione della vista, Clarke procedeva sicura, affidandosi agli altri sensi, abilmente sviluppati nell’adolescenza, che non l’avevano mai tradita.
E fu proprio grazie ad essi che si rese conto di non esser sola, in quel freddo pomeriggio d’inverno.
Era bastato il suono di un ramo spezzato per far scattare i suoi occhi sull’immensa distesa di alberi spogli che si allargava alla sua destra.
Quel rumore era stato troppo forte perché potesse trattarsi di uno dei piccoli predatori che abitava ancora quel bosco.
Clarke rimase immobile, le mani abbandonate nelle tasche, mentre i suoi occhi erano puntati in un punto in particolare.
Era certa, nonostante l’eco, che il rumore fosse scaturito proprio da lì e il suo sguardo, paragonabile a quello di un falco, era ora in cerca della sua preda.
Fu proprio in quel momento che li vide.
Due occhi verdi, del verde più intenso che avesse mai ammirato, che la osservavano di nascosto.
Rimasero così, per lunghi attimi, a studiarsi e ad ammirarsi, lei e quella misteriosa figura, senza affidare al vento alcuna parola.
Improvvisamente, le campane della piccola chiesa batterono l’ora, distogliendola, per un solo attimo, dalla sua contemplazione.
Quando si voltò nuovamente alla ricerca di quel verde, non vi fu altro che il grigio bosco ad accogliere il suo sguardo.
Quegli occhi del color dello smeraldo erano svaniti.

Era passata ormai una settimana da quel singolare incontro.
Una settimana in cui, ogni giorno, era stato scandito dalla notizia di un’incantatrice che si aggirava per le strade.
Nessuno conosceva il suo nome né il suo volto.
Ma tutti concordavano sul fatto che, quella fanciulla, non poteva che essere una figlia dei boschi.
Clarke sorrideva sempre, nell’udire quelle bizzarre storie, figlie di credi antichi e di superstizioni popolari.
Ma lei era figlia della metropoli, della scienza e del cinismo.
Un animo troppo criptico e realistico per poter credere ancora alla magia mistica di quei racconti.
L’orologio sulla sua scrivania suonò le 20.00.
Clarke si alzò dalla sua postazione, indossò il cappotto e, accertatasi di aver chiuso tutto in quell’anonimo ufficio, uscì nel freddo secco di quella sera solitaria.
Era sempre l’ultima a finire.
In fondo, non vi era nessuno ad attendere il suo ritorno.
Come ogni giorno, decise di non ritornare direttamente a casa, dove non vi era altro che la solitudine ad attenderla, ma di dirigersi al fiume, per poter ammirare il riflesso delle stelle danzare su quelle calme acque.
Non vi era nulla, in fondo, che potesse calmare il suo animo inquieto come la visione di quegli astri.

Non so nulla per certo, ma la vista delle stelle mi fa sognare

Ricordava ancora distintamente la frase di quel pittore divenuto famoso proprio grazie a quelle stelle.
Aveva appena undici anni quando la lesse sul suo libro di storia dell’arte e, da quel giorno, la custodì nel suo animo, al riparo da qualsiasi ingiustizia e crudeltà.
Ma era in quei momenti, quando i suoi occhi potevano godere di quella magica luce, che si sentiva davvero vicina all’animo di quell’uomo, quasi potesse sentir rinascere in lei quell’emozione che aveva guidato la sua mano.
Sì, la Notte stellata sarebbe potuta essere tranquillamente un suo dipinto.
Persa in quella contemplazione, non si accorse che qualcuno aveva seguito i suoi passi, osservandola di nascosto, finché l’immagine di due occhi verdi, riflessi su quelle dolci acque, non oscurò quella delle stelle danzanti.
Clarke si girò di scatto, volgendo lo sguardo alla figura che si ergeva eretta tra i rami di un pino spoglio.
L’oscurità avvolgeva completamente le sue membra, lasciando scoperti solo gli occhi.
Quegli stessi occhi che l’avevano osservata, nascosti in quel bosco al limitare del paesino.
«Chi sei?» chiese Clarke, dopo qualche secondo di silenzio.
Nessuna risposta provenne da quella misteriosa figura.
Ripensando alle voci che, da qualche giorno, serpeggiavano sulle labbra degli abitanti di quel piccolo paese, Clarke comprese di trovarsi davanti a colei che veniva definita come la figlia dei boschi.
«Parli la mia lingua?» chiese ancora, credendo di trovarsi dinanzi ad un’esponente di quel popolo di cui tanto le ballate popolari narravano le avventure.
«Comprendo la tua lingua, Clarke Griffin.»
Clarke si irrigidì immediatamente, nel sentir rivelare la sua identità.
«Come fai a conoscere il mio nome?» chiese, la voce improvvisamente ridotta ad un sibilo minaccioso.
«L’ho udito» fu la semplice risposta.
«Qual è il tuo nome?»
«Dimmelo tu».
Clarke si lasciò andare ad una risata nervosa, rivolgendo alla misteriosa figura uno sguardo carico di astio.
«Credi di impressionarmi così facendo?»
«Non credo nulla».
«Cosa vuoi da me?»
«Nulla che potresti offrirmi».
Clarke strinse i pugni, ormai al culmine della sopportazione.
Ma, prima che qualsiasi suono potesse levarsi dalle sue labbra, la misteriosa figura fece un salto in avanti, atterrando silenziosamente davanti a lei.
Grazie a quella vicinanza, Clarke appurò che quella donna fosse leggermente più alta di lei.
Gli abiti neri, che aderivano perfettamente al suo corpo tonico, le permettevano di sposarsi facilmente con l’oscurità che le avvolgeva.
Una maschera le copriva delicatamente il volto, lasciando scoperti solo il suo sorriso candido e quegli occhi verdi, che erano stati capaci di catturarla fin dalla prima volta in cui li aveva ammirati.
«Chi sei?» chiese ancora, ma questa volta non era che un lieve sussurro.
«Ha così tanta importanza il mio nome?»
«Tu conosci il mio».
«È vero. Ma i nomi sono futili essenze, Clarke».
«Ma essenze che determinano chi siamo».
«No, Clarke. Sono le nostre azioni a determinare ciò che siamo, non i nostri nomi. Il peso di un nome dipende dalla persona che lo indossa, dalle azioni che lo accompagnano, dalla giustizia che lo riveste. Un nome è una catena che ci viene imposta sin dalla nascita, che ci ancora alle nostre radici, che veicola le nostre azioni. Eppure, è così fragile che basterebbe una scintilla per poterlo annientare».
«E dunque come dovrò rivolgermi a te?»
«Come preferirai».
Clarke rimase in silenzio, a perdersi in quelle iridi verdi, rese ancor più luminose dai raggi della luna.
«Esmeralda»
Fu appena un sussurro, quello di Clarke.
Un sussurro che il vento portò prontamente via, disperdendolo in quel paesaggio invernale che le circondava.
Una risata cristallina si levò dalle labbra della misteriosa ragazza.
«Esmeralda?» chiese, la scia di quella risata ancora impressa nella voce.
Clarke alzò le spalle, sorridendo a sua volta.
«Perché no?»
«Mi credi davvero una gitana?» chiese ancora la ragazza, mentre i suoi occhi assumevano una sfumatura divertita.
«Come?»
«Prima mi hai chiesto se comprendessi la tua lingua, giusto?»
«Giusto».
«Ed Esmeralda è la gitana protagonista di Notre Dame. Sbaglio, forse?»
«Assolutamente».
«Bene- rispose la ragazza, regalando a Clarke il suo sorriso più bello- Ed Esmeralda sia. Sperando di dover condividere con quella ragazza solo il nome e non il destino».
«Dunque è vero? Sei una gitana?»
La misteriosa figura, che da quel momento avrebbe risposto al nome di Esmeralda, volse lo sguardo al cielo, come alla ricerca di una risposta, per poi volgerlo nuovamente sulla sua interlocutrice.
«Questo dovrai scoprirlo da sola, Clarke Griffin. Per questa notte, il mio tempo è scaduto».
E così dicendo, si arrampicò velocemente e silenziosamente su uno degli alberi attigui, svanendo, in pochi secondi dalla sua vista.
Perdendosi in quella notte stellata.



 
  
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