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Autore: Panenutella    24/02/2017    2 recensioni
Sara Vitali è una che scappa: ha lasciato l'Italia, ha cambiato cognome e numero di telefono pur di sfuggire al suo stalker, e si è nascosta a Belfast nella speranza che lui non la trovi mai. Non si fida di nessuno e sente il disperato bisogno di sentirsi al sicuro, protetta e non più sola. E' in questo stato che una sera in un anonimo bar incontra Kit Harington, appena uscito dalla sua relazione con Rose Leslie e nel pieno delle riprese del Trono di Spade. Sara non pensa che da quell'incontro possa cambiare qualcosa, ma scoprirà presto di sbagliarsi.
Nota: il primo capitolo è identico alla prima parte della mia One-Shot "Two stories in the night". Se siete curiosi di leggere anche la seconda, fateci un salto! Grazie in anticipo a chi leggerà.
Genere: Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kit Harington, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Somebody That I Used to Know
 
Now and then I think of all the times you screwed me over
But had me believing it was always something that I'd done
But I don't wanna live that way
Reading into every word you say
You said that you could let it go
And I wouldn't catch you hung up on somebody that you used to know.

- Pentatonix (cover)
 
***
Sara
 
Tre giorni dopo l’operazione il mio corpo ha ancora la consistenza della gelatina.
Non è solo per la febbre alta che mi perseguita dall’intervento, che aveva fatto temere al dottor Vazhiri di dover riaprire e fare qualcosa per prevenire le complicanze, ma anche gli omogenizzati per adulti che mi propinano a colazione, pranzo e cena. E gli antibiotici sparati dritto in endovena, e il dover fare i miei bisogni in una vaschetta per le prime 24 ore.
Ma la cosa più irritante di tutte è Kit.
Il mio ansioso e iperprotettivo fidanzato si è montato una poltrona reclinabile accanto al mio letto e ci ha sistemato il sacco a pelo, lascia il mio capezzale solo per andare in bagno e la notte mi sveglio mentre cerca di mettermi dei panni bagnati sulla fronte, sperando di non disturbare il mio sonno e cristando in aramaico quando il panno mi gocciola su tutta la faccia. E soprattutto pretende che mi sposti il meno possibile e, se proprio non posso farne a meno, che lo faccia in sedia a rotelle.
Il primo giorno ha insistito anche per imboccarmi, ma ha smesso non appena l’ho minacciato di morte lenta e dolorosa. Per fortuna.
Voglio dire, è dolcissimo, lo amo, gli sono davvero grata per tutte le attenzioni che mi dedica e la sua costante preoccupazione mi fa sentire una cacca, ma le grosse occhiaie viola sotto gli occhi non gli donano affatto. Almeno cinquanta volte, in questi tre giorni, ho cercato di convincerlo che nonostante la febbre posso benissimo cavarmela senza che mi faccia da badante, ma è più testardo di un mulo.
Non sono neanche riuscita a convincere l’infermiera Trinciabue a somministrargli di nascosto un tranquillante.
È l’alba del 13 settembre e Kit dorme profondamente accanto a me, la mano sinistra poggiata sul mio lenzuolo. Vestito con abiti comodi e sportivi si è addormentato con gli occhiali calati sul naso e il libro che stava leggendo poggiato sul petto, che si alza e si abbassa a intervalli regolari.
Scostando piano le lenzuola, mi sporgo verso di lui e gli tolgo delicatamente il libro dal petto, suscitando in lui un impercettibile movimento di risposta che non altera il suo sonno. Con la massima calma, poso il libro – Cime Tempestose – e lo poso sul comodino fra di noi.
L’infermiera del giro visite fa capolino nella stanza e annuisce quando mi metto un dito sulle labbra. Entra con il termometro elettronico e la cartella clinica in mano.
- Stenditi – sussurra. Obbedisco, rimettendo a posto il lenzuolo.
L’infermiera m’infila la bocchetta del termometro nell’orecchio e dopo un secondo ha già finito.
- È ancora alta?
Scuote la testa. – 36,5.
Mi esprimo con un gesto di vittoria. Questo significa che posso alzarmi e che, finalmente, Kit può smettere di preoccuparsi!
- Quando posso andarmene?
- Dopodomani, se febbre non sale.
Dio, non sono una tua grande fan, ma ti prego: fammi uscire da questo posto!
Posa la cartella aperta su un tavolo, si avvicina, toglie il lenzuolo e poi la garza sul mio addome, rivelando la lunga linea di piccoli punti neri che mi taglia praticamente in due. La guarda da vicino, tasta in qualche punto, vede che non ci sono segni di infezione e torna a scrivere sulla cartella. Poi la chiude e mi guarda.
- Sei andata in bagno?
Annuisco.
- Quante volte?
- Tre.
Mento spudoratamente e l’infermiera sembra cascarci. Annuisce, fa un cenno del capo, e dopo un’ultima occhiata al bell’addormentato sulla poltrona, esce.
Io mi lascio andare a un grosso sospiro di sollievo.
Kit, sulla poltrona, apre gli occhi e mi guarda per un secondo prima di riprodursi in un sonoro sbadiglio e in uno scricchiolio di giunture nient’affatto elegante. Si sporge verso di me e posa le labbra sulla mia fronte.
- Sei fresca. Bene.
- Buongiorno anche a te! – Rispondo prima di ricevere un lieve bacio. – L’infermiera ha detto che se la febbre non sale potrò andarmene dopodomani.
- Ottimo, in tempo per prendere l’aereo con tutti gli altri! Come ti senti?
- Mah… la ferita tira un po’, ma non mi sento più uno straccio come nei giorni passati.
Non gli dico che la cosa che più mi dispiace è che i dottori non vogliono farmi vedere Kamile. A causa della sua immunosoppressione, grazie alla febbre avrei rappresentato per lei l’equivalente di un untore di peste bubbonica di potenza esponenziale. Avrei potuto mettere in pericolo lei e gli esiti del trapianto.
Kit si alza dalla poltrona e si sgranchisce le gambe. Ha l’aria di essere un leone in gabbia.
- Kit, non sei legato a questo ospedale. Ti assicuro che se ho bisogno di aiuto posso chiamare le infermiere. Sono specializzate, sai?
Mi scocca un’occhiata stanca e poco convinta. Non risponde.
- Giuro che non muoio se ti assenti per una giornata. E le valigie non si fanno da sole. – Insisto.
- Su questo sono d’accordo. - Si gratta la testa indeciso.
- Christopher Catesby Harington, ti ordino di andare a prendere aria fresca lontano da questo ospedale!
Alza le mani in segno di resa. – Va bene, va bene! Non c’è bisogno di imitare il Padrino. È solo che non voglio che tu stia male.
Infilo le ciabatte e mi alzo. Il camice verde ricade mollemente sui pantaloni del pigiama. Raggiungo Kit e lo abbraccio stretto con tutte le mie forze, comprimendogli la cassa toracica. Lui geme, poi ricambia la stretta.
- Vedi? Sto bene. Posso farcela.
- Ok. Ti credo. Ma se hai bisogno di qualcosa, di qualsiasi cosa, chiamami e io corro. Capito?
- Capito. Grazie, Kit.
Si scosta da me e mi bacia. – Tornerò all’orario serale di visita.
Ci scambiamo un “ti amo” con lo sguardo prima che lui afferri il suo borsone da terra ed esca dalla porta, con un ultimo cenno di saluto e un bacio mandato da lontano.
 
La preoccupazione di Kit era la cosa più irritante della mia convalescenza, ma la sua presenza costante era la più bella.
Avendo detto alla caposala di essere il mio promesso sposo poteva rimanere quanto gli pareva – a prezzo di autografi e selfie con chiunque capitasse a tiro, cosa che mi faceva sentire ulteriormente il colpa – e abbiamo passato questi tre giorni giocando a scarabeo, guardando film sdraiati l’uno accanto all’altra, chiacchierando del più e del meno e organizzando un matrimonio fittizio per mantenere le apparenze.
Come capita il più delle volte a noi stupidi esseri umani, ho capito quanto mi piacesse averlo accanto solo dopo averlo mandato via.
Questo non mi convince comunque a chiamarlo per farlo tornare. Ha bisogno di staccare più di me.
Tanto, il telefono suona regolarmente e indovina chi è a mandarmi i messaggi.
Dopo aver provato a fare un’incursione all’edicola dell’ospedale ed essere stata placcata e rispedita a letto, ho chiesto a un’infermiera di portarmi un libro e lei mi ha dato “Le avventure di Sherlock Holmes”, unico libro non in islandese che è riuscita a trovare.
Devo ammettere che, non essendo appassionata di gialli, non ho mai letto le opere di Doyle e di Agatha Christie, così come non ho mai guardato La Signora in Giallo – cosa che, per mia madre, ha sempre rappresentato un valido motivo per diseredarmi.
Ma devo ammettere che Sir Arthur Conan Doyle non scrive affatto male. E Sherlock e Watson sono due personaggi davvero stupendi.
A forza di leggere e di farmi catturare dalla storia, mi sta venendo voglia di guardare la serie tv uscita un paio di anni fa con Benedict Cumberbatch e Martin Freeman, “Sherlock”.
Chissà se il wi-fi dell’ospedale funziona ancora…
 
Oh mio Dio.
Questa serie tv è stupenda.
È l’ora di pranzo e sono alla fine della prima stagione. Il fatto che abbia solo tre episodi mi disturba un pochino, ma non è quello l’importante.
Sono affondata sotto le coperte da ore, catturata dalla spettacolare interpretazione dei due attori principali. Questa serie tv si rivelerà una droga, ne sono sicura.
Provo un leggero disappunto quando mi interrompono proprio sul più bello del finale per darmi il primo piatto di cibo pseudoadulto e scondito: brodo, puré di patate e gelato alla vaniglia.
Ho l’episodio in pausa e ho appena attaccato il gelato, quando la suoneria del cellulare mi ferma col cucchiaio a mezz’aria.
Guardo lo schermo certa che sia Kit, ma non è lui: è Pinna.
Ho un nodo allo stomaco: nella furia del momento, giorni fa, ho completamente dimenticato di dirgli del trapianto. E dopo stavo troppo male per poter prendere in mano il telefono, chiamarlo e dirgli “Ehi, indovina un po’! Ho dato via mezzo fegato!”.
Così ora mi sta chiamando lui, e davvero sto cercando di trovare in fretta parole abbastanza convincenti per non fargli dare di matto.
Bella storia, dimenticarsi del migliore amico.
Il telefono continua a squillare furioso, anche quando ficco il cucchiaio nella ciotola e lo prendo in mano per rispondere.
Cerco di sembrare il più disinvolta possibile. – Ciao, Pinna!
- Sono incazzato con te.
Daje.
Come ha fatto a saperlo?
La sua roca voce oltretombale non promette niente di buono.
E ovviamente il criceto nella mia testa opta per l’opzione più stupida. Fare la finta tonta.
- Che vuoi dire?
- Non darmela a bere, Bambi. COME HAI OSATO OPERARTI SENZA DIRMI NIENTE?
Posso sentire i tuoni, la tempesta, il terremoto e l’ira di Zeus da cinque Stati di lontananza. Presa del tutto alla sprovvista, inizio a balbettare. – I-i-io non… cioè… emergenza!
- EMERGENZA UN CORNO! – Tuona. – COME HAI OSATO RUBARE LA MACCHINA? SONO VERAMENTE DISGUSTATA!
- Eh?
- ORA IN UFFICIO TUO PADRE VERRÀ SOTTOPOSTO A UN’INCHIESTA E SARÀ TUTTA COLPA TUA!
- Ti sei bevuto il cervello?
- SE FARAI UN ALTRO PASSO FALSO NOI… TI RIPORTEREMO SUBITO A CASA!
- Noi chi?
Improvvisamente cambia registro. – Oh, Ginny cara! Congratulazioni, sei una Grifondoro! Tuo padre e io siamo molto fieri!
Scoppio a ridere sguaiatamente, realizzando che quella a cui ho appena assistito è una perfetta imitazione della Strillettera di “Harry Potter e la Camera dei Segreti”.
- Mi hai fatto prendere un colpo! – Balbetto tra i singulti.
- Te lo meriti. – Replica. – Bambi, tanto per essere chiari: quando sette anni fa ti ho detto che potevi tralasciare determinate informazioni sulla tua vita mi riferivo alla tua mania di raccontarmi le sedute dal dentista. Cose importanti come donare un fegato a una bambina me le devi dire.
- Scusa… - sono sinceramente mortificata.
- Dovrai farti perdonare. – Sento un accenno di sorriso. – Come stai?
- Bene. Tra due giorni potrò uscire dall’ospedale e torneremo a Londra entrò mercoledì.
- E per i punti?
- Non credo che me li toglieranno a Londra, e che dovrò tornare qui.
- Beh, sarà una gita di un giorno.
Per un attimo ho la visione di me e lui in giro per le strade di Reykjavík. Poi torno al presente.  - Pinna… come hai fatto a saperlo?
- Me l’ha detto un uccellino.
Un uccellino di nome Kit, poco ma sicuro.
Eppure sento che c’è qualcosa che non va nella sua voce. Come se mi stesse nascondendo qualcosa. Non l’ha mai fatto con me, e la cosa mi fa preoccupare. È come se fossi una gazzella e sentissi un ramo spezzato poco lontano da me, e sapessi nel profondo che un leone è in agguato e io sono in pericolo.
- Cosa c’è, Pinna?
Non risponde.
- Non mi hai chiamato solo per il trapianto, vero? – Insisto.
Un sospiro. – Finora non sapevo se fare finta di niente, ma visto che non posso nasconderti nulla…
Nel profondo della mente la minaccia di Matteo riprende vita.
- Che è successo?
- Sono in linea con Matteo.
Allontano il vassoio da me, il cuore che batte a mille. Improvvisamente sento i punti della ferita tirare molto di più del solito, mentre la campanello del pericolo trilla sempre più forte.
- Che significa che sei in linea con Matteo?
- Significa che… io stavo… non importa. E lui mi ha chiamato, e ha detto che vuole parlare con te.
- Cioè… una specie di telefonata a tre? Perché?
Perché a lui? Perché ora?
Pinna sospira di nuovo. – Dice che vuole chiederti scusa. Sembra sincero, ma non mi fido di lui.
Mi si gela il sangue nelle vene. – Questo significa che può sentire tutto quello che stiamo dicendo?
- No, tranquilla. Ho messo la chiamata in attesa.
Tiro un sospiro di sollievo. – Bravo.
- Vuoi parlarci?
Il batticuore non si ferma, le mani sudano. – Credi che sia sincero?
- Non lo so. Potrebbe esserlo.
L’indecisione è una vivisezione. Cerco di valutare il più in fretta possibile i pro e i contro, di capire Matteo possa essere sincero, di combattere con la voglia di sentirmi dire, per una volta nella vita, che gli dispiace.
Ma sarà vero? O è solo un trucchetto per prendermi in giro? Non posso saperlo finché non parlo con lui.
È un rischio che sono in grado di correre?
- Sara, ci sei ancora?
- Sto pensando.
Le cose stanno così: se è sincero e non gli parlo avrò perso un’occasione; se non è sincero e gli parlo si farà gioco di me e magari rintraccerà il mio telefono, in qualche strano modo; se non è sincero e non gli parlo non cambierà nulla; se è sincero e gli parlo, allora chiederà davvero scusa e in parte il peso dei torti che mi ha fatto si allevierà sulla coscienza di entrambi.
Non ci avevo mai pensato, ma forse sentirmi chiedere perdono da Matteo è la cosa che più desidero.
Quindi… vale la pena di correre il rischio?
- Sara?
- Passamelo.
Pinna esita.
- Non sei d’accordo? – Chiedo.
- Forse non è la decisione che avrei preso io.
Pinna non si fida di lui, questo lo so da molti anni. E nonostante la sua fede cieca in Dio e tutti gli anni di messa e catechismo non gli hanno insegnato a perdonare. Non lo fa con Matteo, e non lo farà mai con suo padre e sua madre.
Come diceva De André? “Lo sanno a memoria il diritto divino e scordano sempre il perdono”.
- Passamelo, Pinna.
Dopo un altro attimo di esitazione uno strano suono proviene dall’altra parte della cornetta, come se da uno scantinato fossi passati in una stanza molto più grande.
- Sara, cane, siete in linea.
La voce di Matteo arriva incredibilmente limpida, nonostante la distanza. – Grazie, Andrea. Puoi lasciarci soli?
La sua voce è soffice, calma e incerta, come se avesse paura.
- Scordatelo, amico. Quello che puoi dire a lei, puoi dirlo anche a me. Giusto, Sara?
- Sì. – Ho la bocca asciutta.
- Mi sento a disagio… - si lamenta Matteo.
- Peggio per te. Puoi sempre chiudere la telefonata e sparire dalla faccia della Terra, com’è giusto che sia.
- Pinna. – Lo richiamo.
- Grazie, Cerbiattina. – L’attenzione di Matteo è tutta su di me adesso. – Riesci a tenere sempre il tuo amico al guinzaglio? – Il sarcasmo del mio ex, compagno di tanti momenti orribili, è tornato alla carica. Sono preda delle mie emozioni, finché non ricordo la telefonata che ci siamo fatti mesi fa, dopo la mia giornata al mare con Kit e gli altri. E il fatto che sono riuscita a resistere e a tenergli testa.
Così come al processo.
Posso farcela.
- Falla finita, Matteo, e dimmi che cosa vuoi.
Il registro cambia ancora, tanto che mi ricorda Jim Moriarty di Sherlock. – Cerbiattina, voglio essere sincero al massimo con te: non credo che la passerò liscia. Il mio avvocato pensa che mi metteranno in galera e che non ci sia niente da fare.
- Grazie a Dio – commenta Pinna.
- In questi ultimi mesi sono rimasto agli arresti domiciliari, e ho conosciuto la Parola del Signore.
Pinna e io non rispondiamo, increduli.
- Mi sono convertito, Cerbiattina. Mi sono pentito dei miei peccati, mi sono confessato, e il prete mi ha detto di compiere un atto di sincera umiltà e di chiederti perdono in ginocchio, se non voglio andare all’Inferno.
- All’Inferno c’è già un posto con inciso il tuo nome, cane. – Ribatte Pinna con la voce intrisa di veleno.
Matteo geme, la sua voce si incrina e scoppia in singhiozzi. – Perdonami, Cerbiattina! Perdonami per tutto quello che ti ho fatto!
- Io non mi chiamo Cerbiattina. Se vuoi parlare con me, usa il mio nome.
La mia voce appare dura e fredda come il granito, alle mie orecchie. Più dura di quanto mi aspettassi.
Matteo continua a piangere. – Sara. Gli anni in cui siamo stati insieme sono stati i più belli della mia vita. Sei la donna più bella che io abbia mai incontrato, la più gentile, solare e perfetta ragazza che potesse mai amarmi.
- E guarda cosa hai fatto – ribatto, il sangue che ora ribolle nelle vene. – Ricordati di tutte le volte che mi hai picchiato, di tutte le cose orribili che mi hai detto. Ricordati di quando mi hai stuprata contro il muro del bagno. Ricorda le tue esatte parole quando mi dicevi che nessuno mi avrebbe amato a parte te, e che senza di te sarei rimasta sola come un cane. Guarda adesso dove sono io, e dove sei tu. GUARDA CHI DI NOI DUE È RIMASTO SOLO COME UN CANE.
Tremo così forte dalla rabbia che a malapena riesco a tenere il telefono incollato all’orecchio.
- Perdonami, Sara!
- Guarda come hai trattato la donna più bella, gentile, solare e perfetta che tu abbia mai incontrato. Guarda che mostro sei, razza di giustificazione di uomo senza spina dorsale!
Una sensazione di liquido caldo all’addome cattura per un secondo la mia attenzione, ma la ignoro ostinatamente. Delle infermiere si sporgono nella camera preoccupate, per guardare cosa stia succedendo.
- Perdonami! – Strilla. Pinna non interviene.
- Perché dovrei perdonarti? Cosa fai per meritarti il mio perdono?
Nulla dall’altra parte, solo singhiozzi.
- Sara, calmati. – Pinna fa capolino piano nella conversazione, timido, a voce bassa. – Hai detto quello che pensi e io sottoscrivo in pieno. Questa specie di feccia non è degno nemmeno di baciare la terra su cui cammini, e non capisco con quale faccia tosta possa chiederti questo oggi, dato che non esiste risarcimento per le sue azioni. Nemmeno io lo perdonerei, anzi lo aiuterei volentieri ad andare all’Inferno, dov’è il suo posto. Ma ho anche pietà per lui.
- Pietà! – Gli fa eco Matteo con la voce roca. – Sono un miserabile. Andrea ha ragione, io non merito di poterti parlare, toccare, e nemmeno guardare. Non merito nemmeno di stare sul tuo stesso pianeta.
- Almeno a questo ci sei arrivato. – Ribatto.
- Sara. – Richiama Pinna.
- Andrò in galera e sconterò la mia pena. Ti giuro sulla tomba di mia madre, su Dio e sul mio nome che farò di tutto, da oggi fino all’ultimo giorno della mia vita, per meritarmi il tuo perdono. Ma, ti prego, concedimi la grazia. Sono un vigliacco, uno stronzo e un senza spina dorsale. Ma perdonami, ti prego.
Nel mezzo minuto che segue nessuno fiata. I singhiozzi di Matteo si affievoliscono, sento accanto a me il respiro di Pinna, e l’unico suono nella mia stanza è il rimbombo del mio cuore sullo sterno mentre prendo la decisione più grande della mia vita.
- Ti perdonerò. – Esalo infine. Matteo sospira.
- Grazie, grazie, grazie! Ti amo!
- Ti perdonerò solo quando sarai morto.
Il moto di gioia si interrompe. – Non mi credi? – Domanda Matteo senza fiato.
- Mi hai fatto del male, mi hai coperta di cicatrici, mi hai stuprata e hai tentato di uccidere mio padre. E io dovrei perdonarti solo perché me lo chiedi? Risparmiami questo patetico spettacolo. Quando avrai scontato la tua pena e avrai dimostrato di essere davvero cambiato e che non toccherai mai più una donna come hai toccato me, allora ti perdonerò. Ma dal momento che non credo che succederà, mi dispiace ma sarai perdonato solo quando sarai morto. E fino ad allora tu non ti farai vedere né sentire da me, da Pinna e dalla mia famiglia. Vuoi il mio perdono? Comincia sparendo dalla faccia della Terra.
Silenzio.
- Ti farò cambiare idea, Cerbiattina. – La frase non suona minacciosa come mi aspettavo. Forse è davvero sincero. – Ti ho sempre amato e sempre ti amerò.
- Non sai che cosa sia l’amore. Non lo saprai mai.
Matteo tira su col naso. – Ciao, Cerbiattina.
E chiude la telefonata, lasciando me e Pinna di nuovo da soli. Il silenzio regna per qualche secondo prima che Pinna riapra la bocca.
- Pensavo che l’avresti perdonato…
- Tu perdoneresti tuo padre per quello che ti ha fatto?
- No – Sbuffa rassegnato.
- Appunto.
- Però è stato bello sentirsi chiedere scusa, no?
- Era un atto dovuto. Non lo devo ringraziare.
- No, no, non intendevo questo! – Si scusa frettolosamente, poi sospira. – Mi manchi.
- Mi manchi anche tu, Pinna. Forse in questi mesi riusciremo a vederci…
- Non so quando – risponde. – Tra il lavoro e il corpo di ballo… ma te l’ho detto, appena mi libero corro da te, ok? Possiamo farci la gita di un giorno a Reykjavík insieme.
Rido. – Ci sto.
- Ciao, Bambi.
- Ci sentiamo, Pinna.
E così ci salutiamo, preda dell’amarezza della situazione.
La strana sensazione all’addome si fa più forte, e passata la scarica di adrenalina il dolore torna con la forza di un treno. Scosto in fretta il lenzuolo, rivelando una grossa macchia di sangue fresco che impregna il camice. Sfioro la ferita riaperta, esalando un grido di dolore.
Poi mi butto sul tasto delle infermiere.
 
- Te l’avevo detto che non avrei dovuto allontanarmi – commenta Kit severo, con le braccia incrociate sul petto e una vaga espressione di senso di colpa.
- Ricordo bene o… tu non hai alcun potere sul destino?
Il senso di leggerezza alla testa mi annebbia i pensieri, e non sono sicura di starmi esprimendo con parole di senso compiuto. A dire il vero, non so neanche che lingua sto parlando.
La botta di morfina è allucinante.
Dopo aver chiamato le infermiere mi hanno portato immediatamente in sala operatoria per suturare di nuovo la ferita, ad aspettarmi in camera c’era Kit, preoccupato all’ennesima potenza, che mi ha trovata leggermente strafatta di antidolorifici e coi rimasugli dell’anestesia.
Chissà che varietà spropositata di cazzate ho sparato finora.
Credo di averlo chiamato Jon almeno un paio di volte.
- Avrei dovuto esserci comunque.
- Per goderti il telefono con gli unicorni?
Sorride e scuote la testa. Come faccia a interpretare correttamente è solo un mistero. – Quando sarai sobria me la racconterai di nuovo, giusto?
- Certo! Ma stai sciallo, il dottore non è entrato del tutto!
- Lo spero vivamente! – Scoppia a ridere. Con la coda dell’occhio lo vedo tirare fuori dal cappotto il telefono. Me lo punta contro. – Ecco a voi Fawny e l’inglese maccheronico!
- Ssssssh, Kit, ssssssh. Quando atterriamo?
- Non siamo sull’aereo.
- Oh zio, noi siamo sempre su un aereo.
- Come vuoi.
Il video mi infastidisce. - Kit, se porti la videocamera in sala parto ti uccido!
Passa un secondo in cui sembra schiantare a terra dallo spavento. – Sei incinta?!
- Ma sei scemo?! I tuoi cosini non possono battere la precauzione!
Si posa una mano sulla fronte e fa finta di cacciare via il sudore. – Fiu!
- Gne gne gne.
- Questa andrà ai posteri.
- E tu ti scordi il sesso.
Ride e rimette il telefono a posto. – Così va meglio?
- Andrà meglio solo con un succo di frutta!
Si avvicina e mi bacia sulla bocca. – In arrivo!
Esce dalla stanza ridacchiando e scuotendo la testa. – KIT! PORTAMI UN GHIACCIOLO, L’INVERNO STA ARRIVANDO!
Non risponde.
- Onestamente, non credo che tu possa mangiare ghiaccioli in questo momento.
Riconoscerei questa voce ovunque, in qualunque situazione, anche in botta come adesso.
Rose sta sulla porta con jeans, maglione giallo canarino, cappotto aperto e cappello di lana. Sta appoggiata allo stipite con espressione dolce.
- Cosa ci fai tu qui?
- In questi ultimi tempi ho girato l’Islanda insieme a un amico. Ho sentito del tuo gesto e sono venuta a trovarti. – Spiega avvicinandosi al letto.
- Grazie.
Rose supera la poltrona di Kit e si siede sul mio letto. – Sono venuta a dirti anche un’altra cosa, e casco proprio a fagiolo.
- Perché?
- Beh, perché Kit non c’è e probabilmente domani non ti ricorderai niente di quello che sto per dire.
Mi avvicino a lei. – Acqua in mare.
Rose mi guarda interrogativa, poi prosegue. – Ho un orgoglio anch’io, sai?
Mi guardo in giro e non rispondo.
- Ti chiedo scusa, Sara. Sono stata proprio una stronza con te e Kit.
- Ma che è? Oggi tutti si confessano!
- Eh?
Rispondo con un gesto noncurante della mano. Rose incrocia le braccia.
- Insomma, quando stavo con Kit non immaginavo che la cosa fosse seria. Mi vedevo con altre persone soltanto per divertimento, ma il mio punto di riferimento è sempre stato Kit. Non credevo di fare qualcosa di sbagliato e quando mi ha affrontato, non ci ho visto più.
- Sei un po’ troia, lo sai vero?
Rose mi fulmina. – Quando l’ho visto insieme a te mi sono ingelosita e ho cominciato a voler marcare il territorio, a metterti in cattiva luce con Kit così che lui tornasse da me. Volevo l’esclusiva.
Sbuffo. – Vuoi sempre quello che non hai.
Rose mi lancia uno sguardo triste. – Provare ad andarci a letto sperando che tu ci scoprissi era la mia ultima carta da giocare. In qualche modo sapevo che Kit si sarebbe arrabbiato con me e che si sarebbe allontanato ancora di più, ma cos’avevo da perdere?
- Non hai vinto…
- Lo so. È per questo che sono qui a chiedere scusa anche a te. – Si volta verso l’entrata per controllare che non sia arrivato Kit, poi mi porge la mano. – Cominciamo da capo, ok?
- Ok.
Gliela stringo. – Tanto piacere!
Lei sorride. – Adesso vado, altrimenti Kit mi scopre. Se hai bisogno di qualcosa, scrivimelo. Sono a disposizione.
- Scialla, zia! - Mi esibisco nel saluto militare e lei se ne va.
Pochi secondi dopo, Kit entra con due bottiglie di succo alla pesca.
- Ho parlato col dottore, ha detto che nonostante oggi ci sia stata un’emergenza potremo uscire comunque dopodomani, a patto che tu non faccia sforzi. Intesi?
Afferro la bottiglia stappata che mi porge.
- Cheers!
Mi sa che Kit giocherà all’infermiera ancora per molto tempo…
   
 
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