Sei era il mio
numero preferito. Sei erano le bambole che possedevo, sei erano le
volte al giorno che mi spazzolavo i capelli, sei erano i mesi che avevo
trascorso in quell’ospedale, dopo che mi fu diagnosticata la
malattia. Quella che tenevano sempre in mano i dottori si chiamava
“cartella clinica”, e sopra la mia c’era
scritto IFF, Insonnia
Familiare Fatale, e anche DOC, Disturbo Ossessivo
Compulsivo. Sei lettere, sei parole in tutto.
Mamma e papà erano preoccupati perché dicevano
che ero sempre stanca, che di notte parlavo nel sonno, che mi alzavo
dal letto e scendevo le scale, rischiando di farmi male. Ma io non
ricordavo nulla di tutto questo. Non all’inizio, almeno.
Avevo undici anni, e da sei mesi ero una paziente dell’RPO,
Reparto Pediatrico Oncologico. Ero circondata da bambini strani, tanto
tristi, ed erano quasi tutti pelati. La mamma mi aveva spiegato che
erano così tristi perché avevano una brutta
malattia che li faceva soffrire molto, e che dovevo essere buona con
loro.
Io avevo chiesto perché mi trovavo lì, ma nessuno
aveva voluto dirmelo. Dicevano che anche io ero tanto malata, ma che
non avrei perso i capelli come quei bambini. Dicevano che non avrei
sentito male, che non sarei stata triste. Però la mamma
piangeva spesso, e in fondo sapevo che era colpa mia. Era arrabbiata
perché non riuscivo a dormire, perché di notte mi
alzavo dal letto e uscivo dalla mia camera. Lei mi aveva detto di non
farlo, ma io mi annoiavo… e poi, nell’RPO avevo
tanti amici che mi tenevano compagnia quando era buio, e tutti
dormivano. Io non dormivo mai, invece.
Jo mi aspettava tutte le notti davanti alla stanza numero ventiquattro,
dall’altra parte del reparto. Dovevo compiere esattamente
duecentosettantasei passi per raggiungerlo. Duecentosettantasei passi
tra la stanza numero sei, la mia, e la numero ventiquattro. E li
contavo tutti, ogni volta. Però dovevo stare attenta a
mettere i piedi al centro di ogni piastrella del pavimento,
perché se per sbaglio calpestavo le fughe dovevo tornare
indietro e ricominciare daccapo.
«Uno, due, tre, quattro, cinque, sei», mormorai. E
ancora: «Uno, due, tre, quattro, cinque, sei».
Duecentosettantasei. Quarantasei volte sei.
Era una notte di marzo e stavo andando da Jo, trascinandomi dietro
l’asta per la flebo con una mano, mentre nell’altra
tenevo stretta la mia bambola, Lizzie. Aveva dei lunghi capelli biondi,
e io glieli avevo divisi in sei trecce perfette.
«Uno, due, tre, quattro, cinque, sei».
Passai davanti alla sala delle infermiere e mi fermai a salutarle con
la mano. Loro erano gentili con me. Le prime settimane avevano cercato
di tenermi chiusa in camera durante la notte, ma a me non piaceva e
avevo urlato e pianto tanto. Alla fine mi avevano dato il permesso di
gironzolare per il reparto, a condizione che non uscissi
dall’RPO e che non disturbassi gli altri bambini che
dormivano. Avevo promesso.
«Uno, due, tre, quattro, cinque, sei».
Jo mi aveva spiegato che io ero speciale. Nessuno era come me,
lì dentro. Nessun’altro riusciva a vedere Jo.
Soltanto io.
Gli avevo chiesto perché gli altri non potessero vederlo, e
lui mi aveva risposto che solo le bambine davvero speciali come me
avevano questo dono. Gli avevo creduto perché incontravo
spesso persone che solo io riuscivo a vedere. C’era Sam, il
custode del reparto che puliva i pavimenti, e poi
l’infermiera Debby, che mi regalava sempre le caramelle
quando mi incrociava, e anche Fliss, la bambina della stanza dodici.
Avevo provato a fare amicizia con Fliss, ma lei era sempre arrabbiata e
trascorreva tutto il suo tempo a disegnare in camera sua. Anche a me
piaceva disegnare, ma lei colorava fuori dai bordi e rovinava tutto. Mi
dava molto fastidio.
«Uno, due, tre, quattro, cinque, sei».
Ecco Jo, fermo sulla soglia della stanza numero ventiquattro. Era un
bambino di quattordici anni, più alto di me, con grandi
occhi verdi e la testa priva di capelli. A differenza degli altri
bambini del reparto, però, lui non era triste. Lui era
guarito dalla malattia.
«Buonasera, Hannah!», mi salutò con un
sorriso.
«Uno, due, tre, quattro, cinque, sei. Quarantasei volte sei.
Duecentosettantasei», pronunciai, fermandomi esattamente a
sei piastrelle da lui. «Buonasera a te, Jo!». Gli
sorrisi di rimando.
«Com’è andata oggi con la dottoressa
Zoey?».
La dottoressa Zoey amava parlare con me. Veniva a farmi visita tutti i
giorni, in tarda mattinata, e mi faceva tantissime domande. Mi chiedeva
di Jo, di Debby, di Fliss, e del numero sei. Spesso metteva in
disordine la mia stanza, spostava le bambole in modo che non fossero
più in ordine di altezza, toglieva i cuscini che avevo
sistemato in verticale sui muri, a coprire gli angoli. Gli angoli vuoti
mi davano fastidio. Era brava la dottoressa Zoey, ma a volte mi faceva
davvero tanti dispetti.
«Mi ha chiesto di te», gli risposi. «Dice
che sei il mio amico immaginario, e che non esisti veramente».
Uno, due, tre, quattro,
cinque, sei.
Avevamo l’abitudine di fare il giro del reparto, mentre
chiacchieravamo. Per trentasei volte, prima che sorgesse
l’alba. Sei volte sei. Poi lui se ne andava, e io tornavo in
camera mia.
Jo scoppiò a ridere. «E tu?», mi chiese.
«Io le ho detto che esisti, invece. E poi le ho parlato anche
di Paul, come mi avevi consigliato tu. Uno, due,
tre…». Lui si fermò a guardarmi e la
sua espressione si fece curiosa. Smisi di saltellare da una piastrella
all’altra, in equilibrio su un piede solo, mentre mi reggevo
con una mano all’asta della flebo.
«Gliel’hai detto davvero?».
«Sì», risposi. A Jo non era mai piaciuta
la dottoressa Zoey, anche se non la conosceva di persona. Diceva che
era solo gelosa della nostra amicizia e voleva allontanarmi da lui,
così la notte precedente mi aveva suggerito di dirle questa
frase: “Paul era triste e solo. L’hai abbandonato,
e lui non ti ha mai perdonato. Lui non ti perdona neanche
adesso.” Non sapevo che cosa significasse, Jo non aveva
voluto spiegarmelo. Ma l’avevo detto lo stesso. Lo avevo
ripetuto alla dottoressa Zoey per sei volte. «Si è
spaventata e ha iniziato a piangere, poi se n’è
andata», gli raccontai.
Jo sorrise e riprese a camminare. «Non tornerà
più».
Io restai immobile, confusa, e lui si voltò a
guardarmi. «Cinque…», mi
suggerì. Sorrisi e ricominciai a saltellare.
«Cinque, sei. Uno, due… Davvero non
tornerà più? Tre, quattro… E chi
è Paul? Cinque, sei».
«Sei una bambina speciale, Hannah, e lei era gelosa di te.
Non tornerà più». Non mi diede una vera
risposta, anche se gliene domandai una più volte.
Aveva ragione, Jo. Non avevo più rivisto la dottoressa Zoey.
Nessuno aveva più fatto domande su ciò che io
facevo o vedevo di notte; nessuno si era più interessato a
Sam, o a Fliss, o agli altri miei amici. Le infermiere avevano perfino
smesso di spostarmi le bambole e di togliere i cuscini dagli angoli
della mia stanza. Non venivano più tanto spesso da me. Mi
evitavano tutti perché li spaventavo. Jo invece
c’era sempre. Lui mi voleva bene. Era il mio migliore amico,
e io ero contenta di stare in sua compagnia.
Poi, un giorno, accadde che mi sentii troppo stanca per alzarmi dal
letto. Fu una sensazione strana perché io non avevo mai
sonno, ma quella sera avevo avuto davvero tanta voglia di dormire. Ero
stata male perché non riuscivo a farlo, ma lo avevo
desiderato tantissimo. Non so per quanto tempo durò quello
stato di semi-incoscienza. Ricordo solo che avevo pianto tanto. E poi,
semplicemente, mi ero sentita meglio.
Era notte. Abbracciai la mia bambola, afferrai l’asta della
flebo e mi incamminai saltellando verso la stanza numero ventiquattro,
come sempre.
«Uno, due, tre, quattro, cinque, sei». Ero felice
di rivedere Jo.
Incontrai l’infermiera Debby in corridoio, e anche lei fu
felice di rivedermi. Mi diede delle caramelle. E avevo intravisto Fliss
seduta al suo solito tavolino della stanza dodici, intenta a colorare
fuori dai bordi. Mi aveva guardato con più
curiosità del solito, ma non aveva detto nulla.
Trascorsi la notte a chiacchierare con il mio amico, girovagando per il
reparto, che misurava sempre trentasei volte sei, fino
all’alba. Un po’ più dell’alba.
La luce del sole penetrò dalle finestre con più
irruenza del solito, tanto che mi dovetti coprire gli occhi con la
mano. Era molto fastidiosa.
Mi trovavo a metà strada tra la stanza numero sei e la
numero ventiquattro. Non avevamo ancora finito il nostro ultimo giro,
eppure Jo era ancora lì, davanti a me, che mi sorrideva. E
non era più notte.
«È giorno», dissi.
«Sì, Hannah», confermò lui.
«Perché sei ancora qui, se è
giorno?», gli chiesi. Non ero mai stata capace di vedere Jo
durante le ore di luce.
Qualcuno stava piangendo. Qualcuno che in qualche modo mi sembrava
familiare.
Voltai lo sguardo, in direzione del corridoio vuoto, cercando di capire
da dove provenisse quel suono straziante.
«Chi è che piange?», chiesi a Jo, ma lui
non rispose.
Sapevo chi era. Lo sapevo.
Avanzai un passo e mi accorsi che avevo perso il conto. Tre o
quattro… o sei?
Qualcuno stava ancora piangendo, e io mi sentii improvvisamente tanto
triste. Iniziai a correre senza più preoccuparmi di contare
i miei passi, o di non pestare le fughe delle piastrelle.
«Uno, due, tre, quattro, cinque, sei». No, contavo
ancora… Nella mia testa lo facevo ancora.
«Sei», mormorai. Ero arrivata davanti alla stanza
numero sei, la mia. Era da lì che proveniva quel rumore che
mi angosciava tanto.
Entrai nella camera dalla porta socchiusa, spalancandola lentamente.
«Uno, due, tre, quattro, cinque, sei. Sei. Sei.
Sei». La luce era molto forte.
Riconobbi mia mamma, seduta sulla sedia vicino al letto, di spalle. I
suoi lunghi capelli castani le ricadevano a grandi boccoli sulla
schiena leggermente incurvata. Mi erano sempre piaciuti i suoi capelli.
Li avevo lasciati crescere anche io per assomigliarle, ma i miei erano
molto più scuri dei suoi, quasi neri, e portavo la frangetta.
«Mamma…», sussurrai. Era lei che stava
piangendo così. «Non piangere, mamma».
Mi avvicinai a lei. Stavo per piangere anche io.
«Mamma…», ripetei. Ma lei non si girava
a guardarmi. Lei non mi sentiva. Perché non mi sentiva?
Quando le fui accanto l’angoscia mi piombò addosso
con talmente tanta veemenza da farmi ansimare. Spalancai gli occhi,
confusa e… spaventata. Davanti a me, distesa sul mio letto
d’ospedale, c’era una bambina uguale a me, e stava
dormendo. Ero io quella bambina.
Stavo forse sognando? Sembrava tutto così
surreale…
«Mamma», mormorai ancora, senza risposta. Accostai
la mia mano alla sua, che stringeva quella dell’altra
versione di me, troppo bianca e troppo immobile. Quando le mie dita
sfiorarono le sue, non sentii nulla. Fu come toccare l’aria,
qualcosa di intangibile e irreale. Ma la mia mamma… lei
qualcosa avvertì. Si alzò di scatto dalla sedia
con un mezzo urlo e si guardò intorno senza vedermi davvero,
come se fosse stata punta da un insetto e non riuscisse a trovarlo.
«Mamma, guardami!», esclamai io. «Sono
qui! Perché non mi vedi?». Stavo piangendo e avevo
paura.
Nella stanza entrarono due infermiere del reparto e si precipitarono da
lei, anche loro senza degnarmi del minimo sguardo.
«Signora Fray…». L’infermiera
più grande le afferrò una spalla.
«Signora, si calmi, la prego».
«No!», urlò mia madre. «Ho
sentito qualcosa… l’ho sentito. Mi ha toccato la
mano! Era mia figlia, lo so. Lei era qui… È
qui!».
«Signora Fray, so che questo è un momento di
grande dolore», replicò l’altra,
«e sono molto dispiaciuta per la sua perdita. Hannah era una
bambina molto dolce e le abbiamo voluto bene anche noi, nei mesi che
è stata in cura qui… ma ora ha smesso di
soffrire. Sono sicura che è in pace, adesso».
Cosa? No!
Una mezza risata mi riscosse dall’immobilità in
cui ero precipitata. Mi voltai e vidi tutti i miei amici notturni
radunati sulla porta, che mi guardavano inespressivi. Solo Fliss
sembrava divertita. «In pace! Hanno detto così
anche di me, prima di seppellirmi», dichiarò.
Iniziai a respirare affannosamente, come se l’aria mi
mancasse. Spostai lo sguardo su Jo, che mi fissava a sua volta.
«Che cosa succede? Perché non riescono a vedermi?
E chi è la bambina che sta dormendo nel mio
letto?», gli chiesi con le lacrime agli occhi.
«Eri una bambina speciale, Hannah», rispose lui.
«Loro non possono vederci né sentirci
perché non sono come noi, invece tu… tu un
po’ già lo eri».
«Ora starai con noi per sempre, piccola Hannah».
L’infermiera Debby mi sorrise.
«Ho perso mia figlia… Lei non
c’è più. Non è
più la mia bambina…». Mi voltai a
guardare mia madre che piangeva china sul letto, consolata dalle due
infermiere. Feci per stringere forte a me Lizzie, ma mi accorsi solo in
quel momento di non averla più in mano. E non stringevo
più neanche l’asta della flebo. Entrambe le cose
erano al loro posto, l’una in fila con le altre bambole e
l’altra accanto al letto.
«Sei morta, dolcezza», disse Sam, il custode.
«No!», esclamai.
«Vieni via con noi». L’infermiera Debby
mi si avvicinò, e io indietreggiai.
«Io non sono morta!», urlai. «Non sono
morta, io non sono morta!». Lo ripetei per sei volte, come se
quello bastasse a renderlo più vero. Ma non era
così che funzionava. Nessuno mi vedeva o mi sentiva
più. Ero diventata invisibile come i miei amici.
«Portiamola via, prima che Charlie si arrabbi e ci rinchiuda
tutti nei sotterranei dell’ospedale», disse Jo, e
in un istante mi furono tutti e quattro intorno. Mi afferrarono per le
braccia e per le spalle, e io gridai. Avevo tanta paura. Gridai
talmente forte da scuotere la stanza e far cadere dagli angoli tutti i
cuscini che vi erano appoggiati, e anche tutte e sei le mie bambole dal
mobile. Le urla di mia madre e delle infermiere mi fecero da eco, poi
ripiombò il silenzio e l’oscurità
della notte tornò ad avvolgere l’intero reparto.
Da quel giorno, non rividi più la luce del sole.
Uno, due, tre, quattro,
cinque, sei.
Ero Hannah Fray, abitavo al quarto piano del Charity Hospital di New
Orleans, ed ero il fantasma della stanza numero sei.
Uno, due, tre, quattro,
cinque, sei.
Ciao, lettori! :D
Cos'è la roba che avete appena letto? Un piccolo esperimento, chiamiamolo così. Non mi ero mai cimentata nell'horror prima d'ora (e questo è un horror un po' atipico perché è... ribaltato? ^^'). Boh, non so. Sto ancora cercando di capire se mi piace o meno, se può essere interessante o se è una gran cagata e basta xD
Come mi è venuta in mente questa storia? Be'... qualche settimana fa mi sono iscritta ad un contest su Wattpad (Psicoword Contest) indetto da MattiaFarina00, che mi ha gentilmente fornito le basi, tra cui il prompt DOC, per creare una storia come questa. Ovviamente mi sono ritirata dal contest perché non ci sono stata con i tempi di consegna ^^' Probabilmente non perché fossero troppo ridotti... sono io che ci impiego una vita a scrivere. E poi non vi nego che ci ho messo un po' a creare Hannah e introdurla in un'ambientazione che mi convincesse.
Quindi questa storia nasce fondamentalmente come storia breve, ma... eheh... davvero mi sarei accontentata di chiuderla qui? Come spesso mi accade, non appena abbozzo una piccola trama, la creatività esonda e in pochissimo tempo ecco che mi balenano in mente dieci trilogie, otto prequel e venti spin-off. E doveva essere un'innoqua one-shot.
Vabbè, insomma... con questa storia me la prendo un po' con calma perché è ancora una bozza, di fatto. Ho un'idea simpatica (mica tanto) in mente, ma ancora da definire. Come ho detto, è un primo esperimento :)
Spero abbiate letto con piacere. Datemi le vostre impressioni :) Grazie a tutti!
Un grande abbraccio a tutti,
Shadeyes