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Autore: L0g1c1ta    26/02/2017    0 recensioni
Settembre 1939, cade la resistenza polacca. La Polonia svanisce dalla cartina geografica. La città di Varsavia viene distrutta, mattone dopo mattone dai tedeschi e dai russi.
Polonia è morto e Lituania non riesce a superare la morte dell'amico. Con la morte nel cuore, lentamente viene guidato verso la follia e gli verranno aperti gli occhi sulla sua vita.
Polonia, fantasma e defunto, accompagnato da un insolito pulcino, osserva, fra le mura della villa di Russia, il dolore di Lituania.
Entrambi ripercorrono un cammino, entrambi si rendono conto di ciò che avevano e di ciò che hanno perso, per sempre...
...
Luglio 1952, la Polonia rinasce sotto una nuova bandiera. Polonia è morto, ma viene accompagnato nel suo viaggio da Toris e da una nuova presenza. Lituania vive la sua nuova vita con freddezza, nonostante i cambiamenti avvenuti in casa di Russia. Ma ogni cosa cambia con una scoperta avvenuta in una casetta abbandonata nel bosco.
Polonia, in questo mondo cartaceo, osserva i ricordi e gli anni che lo hanno separato dalla sua patria. E si rende conto di quanti sbagli abbia commesso in vita.
Entrambi percorrono un secondo cammino. Chi in un treno per Varsavia, chi con frammenti di ricordi perduti.
Genere: Angst, Drammatico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Baltici, Lituania/Toris Lorinaitis, Polonia/Feliks Łukasiewicz, Russia/Ivan Braginski
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Polska non aveva mai immaginato che giocare fuori fosse così divertente. Il mondo fuori dalle mura del castello gli era sembrato pericoloso. L’ha esplorato poche volte, l’ha contemplato nel silenzio in compagnia dei battiti del suo cuore e della mantella color rubino. Non aveva mai portato nessuno insieme a lui, la solitudine per lui era come sorella. Non era mai stato al confine con un’altra nazione, nemmeno con quella lituana.
Liet conosce questo bosco. Vede più muschio di quello delle sue foreste. Si era inginocchiato e accucciato come un cagnolino sul tappeto accanto al fuoco. Era morbido come cotone e umidiccio come pioggerella autunnale. Gli piace stare qui.
Liet gli ha parlato di dei e nature, di spiritelli e folletti. Erano andati a cercarli e hanno finito per giocare. Polska è magro e piccolo, gracile ed inopportuno, lento ed incapace. Liet è veloce e già alto, già si allena con la spada tra i cavalieri. È il suo sogno e spesso lo osserva allenarsi. Rimane ammaliato da come Liet cresca così in fretta. Sarà cavaliere e lo proteggerà con spada e scudo.
Inciampa, saltella e si rialza, Polonia, che sembra un leprotto in tutto quel verde. Scavalca i tronchi e corre svelto, Lituania, che pare più un lupacchiotto alla sua prima caccia. La corte vuole che il biondo sia più in alto dell’amico, ma ora è libero e si sente come nella solitudine delle sue foreste. Gli piace giocare a rincorrersi. Gli piace essere preso e non acchiappare.
Gli piace essere desiderato e cercato.
Liet lo ha preso e lo fa cadere, ma c’è il muschio morbido e profumato e non si fa male. A Polska scappa da ridere e anche a Liet. Si sente a casa, anche se in terra straniera.
 
 
 
 
 
Bruciano fra le mani quattro piume del grande mucchio e la carta muta.
Polonia alza gli occhi, inclinati come un gatto, socchiusi per la luce improvvisa. Vede macerie e spaccature nelle case rimaste. Varsavia. La sua signora violata e depressa.
Il sole lo acceca e gli fa inclinare ancor più gli occhi. Si sente appena uscito da una miniera e non riemerso dal bianco cartaceo. Il fucile continua a pesare fra le sue braccia. Lo incastra dietro la schiena. La cinghia attorno al torso tocca il suo cuore. Lì pulsa forte: c’è il nastro nero di Liet e la coroncina trovata nel bianco. Poggia lì la mano guantata. Ricorda le pietruzze colorate e come l’aveva poggiata al capo Prussia. Stringe forte il pugno sulla tasca. Pensa che dovrebbe sbarazzarsene. La cinghia inciampa e tocca l’altra tasca, dove pompa forte il secondo polmone. Sente sotto il cuoio le piume morbide e sode. Ricorda che ha poco tempo. Inizia a camminare.
Alla luce le strade sono assai meno tetre, come se il sole le abbia purificate, o abbia tentato di farlo. Vede acqua piovana, le grate delle fogne ancora tappate, i ciottoli di terra e fasci d’erba crescere tra l’asfalto come concime. Guarda in alto e vede palazzi pendenti, finestre bucate, assi spezzate. Polonia immagina carri armati e aerei sulla sua testa e non se ne meraviglia, eppure il rancore e la nausea si accasciano all’altezza dello sterno. Prussia deve pagare per ciò che ha fatto. Si allaccia meglio la cinghia del fucile. Immagina che sparerà e che ucciderà. Può farlo, sa che lo farà, anche se non l’ha fatto in guerra, anche se era il primo a difendersi dietro le spalle di Lituania. Sparerà ad un tedesco e il suo sangue bagnerà come acqua santa le strade della sua città.
“Ehi, ehi, fermo tu!” Polonia ferma i piedi. La paura si è eclissata dietro alla rabbia. Polonia si volta corrucciato e serioso, con le sopracciglia incrinate e i capelli pesanti che gli toccano quasi le spalle. Le ha puntate verso il davanti, quasi come un gobbo. Vede un ragazzo alto, molto più alto di lui. La rabbia verso i tedeschi arde ancora come un fuoco e per questo non ha timore. Quello ondeggia mentre lo raggiunge. Polonia lo guarda e il berretto che gli copre gli occhi gli fa rigirare lo stomaco. Gli dà rabbia anche la sigaretta incastrata tra i denti e il fumo che sbuffa sul suo naso.
“Sei il ragazzo che doveva portarmi gli ordini?” dice, inclinando la testa e guardando la sua divisa. Polonia immagina che abbia già visto l’aquila bianca alla sua spalla, altrimenti non gli si sarebbe avvicinato. Il biondo ora è interessato e parte di fuoco si quieta nel suo cuore. Polonia ha un brivido di timore: sta attendendo una risposta che non conosce.
“Uh…” deglutisce e abbassa lo sguardo, intimorito, forse anche arrossito. L’altezza del ragazzo ora lo mortifica. Lo fa sentire un topolino di fronte ad un gattaccio.
“Che hai lì?” abbassa il braccio e si china. Gli ha preso qualcosa dalla tasca dei pantaloni. Polonia sobbalza, meravigliato. Il ragazzo col berretto si rigira fra le mani fogli che non sapeva di avere. Apre il ritaglio e lo ispeziona. Si leva la sigaretta dal labbro. Aspira, abbassa il braccio e sputa il fumo alla sua sinistra. Con l’occhio fermo legge. Il fumo è lontano da Polonia, ma uno sbuffo di aria lo rigira verso di sé. Il tabacco ha qualcosa di aspro e chimico. Lo aspira e i polmoni premono per tossire aria tossica. Che strana sigaretta che ha, pensa. Il ragazzo muove l’indice svelto e fa cadere la cenere per terra. Sente lo sbuffo lieve di una risata. S’infila il foglio in tasca, quasi appallottolato.
“Grande, erano così disperati da portarmi te” la risata che sbuffa sa di grottesco e adulto. Polonia arrossisce, non è un ragazzo, lui si è confuso. Smette di ridere e la lingua secca bagna le labbra sottili. Il biondo alza lo sguardo e vede uno sfregio sulla guancia. Non apre bocca “Dimmi, nuova recluta, come ti chiami?” Polonia reprime il sobbalzo. Ricorda Magda e i due soldati in uniforme nera. Dovrà inventare un nome che non immaginerà. Apre la bocca, incerto “Niente cognomi, non mi servono” lo interrompe quello, aspirando dalla sigaretta. Polonia ricorda Magda e Prussia e i suoi occhi arroganti nel guardarlo. Perde la paura. Ricorda la famiglia morta per colpa sua e ha più coraggio.
“Tymoteusz…” sussurra, incerto. Il giovane uomo agita la sigaretta e fa cadere altra cenere. Gli occhi sotto il velo nero della visiera sembrano guizzare. Soffia il fumo sopra la sua testa. Polonia sente il calore della sigaretta ad un pollice dal cranio. Quello lo squadra, con la cicca di nuovo alla bocca.
“Che hai detto?” chiede, inclinando la palpebra di un occhio. Per Polonia sembra più divertito della sua paura che arrabbiato o stizzito. Pensa che possa ridere di sé e del suo timore verso quest’estraneo. Il biondo aggrotta le sopracciglia e alza bene lo sguardo.
“Tymoteusz!” esclama, con voce meno potente di quel che si aspettava di usare. Il giovane uomo soffia il fumo dalla sigaretta, intanto aspirata. Sorride, come sorride un ragazzino sfrontato e voglioso di vantarsi.
“Che onore e coincidenza…” mormora inaspettatamente, sbuffando ancora quella risata provata e quasi patetica. Alza la mano alla testa e tocca la visiera del berretto. Se lo sfila, semplicemente, ma per Polonia è come se si fosse strappato una seconda faccia dal volto. Strabuzza gli occhi ed impallidisce. La forza e la rabbia verso la Germania evaporano come gocce d’acqua sotto al sole estivo. Impallidisce, guarda il volto familiare e i capelli neri e folti, con riflessi ora giallognoli e prima, al buio della sua casa, blu “Anch’io mi chiamo Tymoteusz!” esclama, esageratamente felice “Ma chiamami Tymek, così non ci confonderemo”.
Polonia osserva il ragazzo che conosce solo come fantasma. Si sente inopportuno e fuori posto. Gli cede un piede e quasi inciampa nel suo stesso tallone. Non sente più il peso del proprio corpo sulle gambe. Tymek lo guarda e lo tocca, preso per una spalla. Polonia guarda la mano ora robusta del moro avere un peso ed una consistenza su di sé. Non è più aria, non è più spettatore. Tymek soffia per l’ultima volta e getta la sigaretta lontano, come schioccandola fra le dita. Polonia sente un calore dolce alla sua spalla. Può parlargli per davvero, può conoscerlo.
“Vieni, ora ti faccio vedere il bunker, prima dell’assalto di stasera!” quasi non lo sente più, commosso e felice.
Ora è attore e mai più spettatore.
 
 
“Guarda quello lì, quello curvo sul fucile”
“Quello che lo lucida?”
“Sì!” esclama ancora Tymek, in qualche modo felice “Sai perché è qui? I tedeschi gli hanno portato via il figlio perché era sposato con un’ebrea. Quei bastardi li hanno trascinati nei campi e chissà se sono ancora vivi” con emozione racconta, come se fosse la sua vera storia. Polonia ha occhi lucidi e cuore perennemente sussultante. L’emozione di avere la mano di Tymek sulla sua spalla è forte. Si sente corporeo e importante. Sente di avere uno scopo e le possibilità di raggiungerlo. Tymek cammina ancora e lui affianco, come una terza gamba. Anche se le pareti sono tanto strette da soffocarci dentro e vi è più terra e sporcizia che pavimento, Polonia è felice. Si apre un altro sbocco, i due vedono altri uomini, in qualche modo precisi come macchine. Tymek alza l’indice ed indica un altro di loro, fra gli incastri di altre persone.
“Vedi invece quell’altro?”
“Quello alto e biondo?”
“Sì!” esclama e annuisce, ma fattosi più serio “E’ qui perché è morta sua figlia” Polonia sussulta, così come sussulta dentro di sé Tymek “Da quando hanno chiuso i licei e hanno proibito le iscrizioni alle medie i tedeschi hanno scritto che i bambini non potevano imparare altro che leggere, scrivere e contare fino a cinquecento. Cinquecento!” ripete con gli occhi contratti e il labbro alzato, come schifato. Polonia inclina anche lui gli occhi, sinceramente iroso ed incredulo “Ma lui ha insegnato comunque alla figlia come contare fino a mille. Una mattina la piccola stava giocando e i tedeschi le si sono piantati davanti. Hanno fatto tanto i carini e le hanno chiesto quanto facesse cinquecento più uno…” si abbassa il tono di voce, Polonia gli si avvicina di più per ascoltare, intanto che aggiusta il fucile attorno alla spalla “Lei ha risposto e quelli hanno alzato i fucili” ringhia lui e così sussulta con più rabbia Polonia, alimentato il fuoco del suo rancore. A malapena può pensare a quello che gli ha appena raccontato Tymek. Digrigna i denti e fa schioccare le dita stringendole in pugno. Prussia la pagherà anche per questo.
Tymek apre una porta che Polonia non ha notato. Entra e così anche il biondo. La stanzetta ha una luce saettante, che contrae la propria luce da debole a troppo forte, e una lampadina troppo abbagliante. Polonia socchiude gli occhi, già quasi del tutto bruciati. La cinghia gli cade dalla spalla, la riaggiusta subito. Non vede bene per la luce, ma riesce a scorgere il grigio dell’ambiente, solo il colore, il tavolo inclinato, che pare più una scrivania riutilizzata, e i fogli accartocciati e altri ammucchiati sul legno fin troppo sensibile. La nazione guarda i mucchi di giornali e si chiede come facciano a non far cadere l’asse inclinata fin troppo all’infuori del tavolo. Polonia vi si concentra, cercando di non pensare alla luce, ora soffusa. Tymek fa strisciare una sedia e la porta davanti a sé. Poggia le braccia e le inclina sullo schienale sfrangiato, poggia il suo peso sulla sedia e vi si accascia, coi ginocchi all’infuori come le assi del tavolo. Polonia ora guarda Tymek e ricorda solo ora che solo lui lo conosce e non il contrario.
“Allora, come sta Karol? È pronto per stasera?” dice, poggiando sulle mani anche il mento, osservandolo divertito come al circo si guarda interessati per la prima volta un animale insolito. Polonia si accorge del sorriso e dell’arroganza nascosta. Arrossisce, come un bambino arrossisce di fronte ad un adulto. Abbassa lo sguardo e adocchia la sua guancia, con la cicatrice dello sfregio. Si concentra su quella e deglutisce.
“Sì, credo, cioè…” un lampo istantaneo illumina gli occhi di Tymek. Il sorriso strafottente scompare come ora invece appare la palpebra storta e le sopracciglia rigide. Polonia si rende conto di quello che ha appena detto e diventa marmo. Le gambe si rifiutano di muoversi. Sente le piume dentro la tasca più bassa della sua divisa e un brivido d’ira lo coglie, dando colpa a quelle.
“Che vuoi dire? Non hai la minima idea di quello che succederà stasera?” rigido, autoritario d’un colpo, Tymek si alza dalla sedia. Alza le braccia dallo schienale “Hai qualcosa da nascondermi, ragazzino?” dice. Polonia sussulta, guardandolo negli occhi, come elettrizzato da questi. Con la coda dell’occhio vede il suo calcio spingere prepotentemente sulla sedia. Sente solo lo schianto di quella col muro, non riesce a distogliere gli occhi da quelli di Tymek. Indietreggia, imboccata la paura e la timidezza. Con l’altezza prepotente, lo si para davanti “Sei coi tedeschi, Tymoteusz? Ci vuoi ammazzare tutti?”
“N-No, signore non ci ho mai…” dice, con la voce ridotta ad un sussulto. La cinghia del fucile è rigida come le sue spalle. Gli occhi di Polonia sembrano palle da bigliardo, lucide ed inchiodate fra le ciglia. Non riesce a far smettere di battere all’impazzata il suo cuore. Tymek alza le spalle su di sé. La sua ombra lo rinchiude in una morsa di dolore. Le mani vogliono alzarsi su suo viso, paurose. Immagina che lo voglia picchiare. In un attimo le spalle di Tymek cadono, le sopracciglia si rialzano e anche le fossette sulle guance si mostrano. Gli sorride. Polonia sente il proprio cuore cadere sullo stomaco. Tymek chiude le palpebre e quello che sente è una risata e uno sghignazzo insieme. Le gambe del biondo da marmo diventano ghiaccio sciolto.
“Dovresti vedere la tua faccia!” continua a ridere di gusto, allontanandosi di qualche passo. La cicatrice sulla guancia freme, si alza e si abbassa come se i baffi di suo padre quando sorrideva alla bellissima madre. Polonia nota il paragone e dimentica di avere paura. Tymek fa un mezzo giro, afferrata una seconda sedia e sedendosi con le ginocchia divaricate e la camminata ondeggiante “Ovvio che non sai nulla: non l’ho detto a nessuno qua dentro!” e ricomincia a ridere, indicando Polonia e la sua faccia. Il ragazzo si tocca la guancia e lascia la mano strisciare su di essa. Si sente ora preso in giro. Tymek smette per metà e prende un bel respiro “Stasera i tedeschi faranno un bel fuocherello. Una sorta di falò gigantesco e ci sarà di tutto: generali, comandanti, soldati scelti, un bel pezzetto di Crucconia militare” sghignazza e per Polonia ora sembra un porcellino da latte “Noi andremo lì e li mitraglieremo come se dovessimo battezzarli tutti” smette completamente di ridere, elettrizzato, con gli occhi accesi come fari, come se avesse la scena già di fronte a lui “Dovremo dare il meglio di noi e la vita se necessario!” aggiunge, ora più serio, ora con gli occhi puntati verso di lui. Polonia sente un fremito al centro del petto, ascoltate queste parole “Daresti la vita per la tua nazione, Tymoteusz?” Polonia si sente tirato in causa. Gli brillano gli occhi pieni di orgoglio verso Tymek.
“Sì, signore”
“Tipo quante volte?”
“Tipo tante quanti tedeschi ci sono da ammazzare, signore, se è per la nazione” aggiunge per ultimo, ricordando Prussia e la vendetta che ha intenzione di attuare. Il fremito al petto diventano carezze ed incoraggiamenti. Vede una possibilità di vittoria e di riscatto. Prussia la pagherà col suo sangue e con quello dei suoi uomini migliori. Il fremito è anche voglia di ridere e gloriarsi del suo futuro. Sente che ogni cosa andrà tutto bene. La porta si apre, Polonia si volta per guardare. Osserva con distacco, con un cipiglio irritato. Tymek si alza dalla sedia e nello stesso momento Polonia sussulta, incredulo.
“Wala!” esclama Tymek e per poco Polonia non faceva lo stesso, bloccato in tempo il respiro. Le si avvicina con la stessa ondeggiante camminata. Le circonda la schiena con trasporto, con una delicatezza che non sfugge Polonia. Le prende la mano e il modo in cui la stringe meraviglia il ragazzo, ancora scosso per aver visto l’infermiera di Jan viva e sana. Wala lo guarda con imbarazzo e presto lo sguardo le si rivolge ad altro. Polonia fa lo stesso, arrossendo pure. Le sono cresciuti i capelli, nota “Ragazzino, credi che questa bella signorina sia troppo in basso per un uomo?” la donna chiude le palpebre e sussurra fra sé e sé qualcosa che Polonia non riesce a sentire.
“N-No, signore”
“Credi che qualcuno se ne possa lamentare o che qualche idiota la possa chiamare ‘razza inferiore’?” Polonia scuote la testa, negando più volte “Beh, ecco l’intelligenza di questa ‘razza ariana’: non sanno che si perdono” alza lo sguardo su Wala e anche lei lo guarda, non attentamente come Tymek. Lei arrossisce forse ancora di più, sempre col cipiglio imbarazzato “Un tedesco imbecille doveva sposarla e l’ultimo mese ha annullato tutto perché lei non era abbastanza per lui” dice con più calma, socchiudendo gli occhi e forse dimenticando di avere Polonia quasi affianco a lui e a Wala “Meno male che ci sono io a risolvere tutto” e congiunge le labbra con le sue. Polonia sente le ossa delle braccia staccarsi dalle spalle, le gambe ancora più scollegate fra loro, ma comunque impigliate nel pavimento come seppellite nella neve. Si sente confuso, incredulo, imbarazzato. Wala alza una mano e fa schioccare docilmente il palmo sulla guancia di Tymek. Indietreggia e si para il labbro col pugno.
“Ma che ti salta in mente?! Di fronte ad un ragazzino!... Sono comunque un’infermiera, Tymek!”
“Ma che importa? Il ragazzo ha fatto di peggio nella sua vita, vero?” dice e di scatto si volta verso i biondo. Polonia sussulta, con le guance rosse e i capelli una matassa sulla sua testa “Giusto, Tymoteusz? Quanti anni hai?” Polonia si sente essere stato preso in contropiede, con l’imbarazzo crescente come un fungo tossico. Deglutisce e abbassa lo sguardo.
“Quindici…” inventa. Tymek sbuffa contrariato, ma più che altro scocciato “E non hai combinato niente in quindici anni di vita?” aggiunge, imbarazzando ancor di più il ragazzo. Wala guarda il più piccolo e le si gonfiano le guance come un criceto indispettito. Smettila, Tymek, la sente sussurrare “Insomma, non hai mai baciato una ragazza?” chiede, falsamente scandalizzato.
“Ecco…” mormora impacciato con le labbra ora tentennanti e tremanti e gli occhi socchiusi. Si sente bollente e molleggiante come un budino. Non gli piace questa domanda e non vuole dare una risposta.
“Zitto, idiota!” urla Wala, persa la pazienza e la tinta alle guance. Sospira, Tymek non ha imparato la lezione, continuando ad adocchiarlo con un sorriso malizioso. Polonia deglutisce e sussulta con forza, come presa una scarica elettrica, coi capelli elettrizzati sul cranio “Ignoralo… Tymek ha come primo lavoro quello di comandante…” l’interpellato alza le braccia al cielo, chiude le palpebre, si stiracchia, facendo crocchiare le ossa e sbadiglia “…e il secondo come rompiscatole”
“Già e tu qui hai come primo lavoro quello di infermiera e il secondo quello di mia fidanzata… con più di lavoretti aggiunti” Wala s’imbizzarrisce, mortificata, e scaglia un pugno troppo leggero a Tymek. Sentendolo ridere quella s’indiavola ancora di più, immaginando un imbarazzo ora inesistente nel ragazzo. Polonia sente solo un caldo al cuore e una leggera voglia di sorridere. Questa notizia lo fa sentire leggero come il mucchietto di piume che ha in tasca. Riaggiusta il fucile alla sua spalla, anche se non si è mosso di un pollice. Li guarda bisticciare. Guarda Tymek alzare le mani di fronte a sé, come difendendosi. Guarda Wala alzare l’indice e contrarre il volto dolce. Un ricordo gli passa davanti agli occhi. Ricorda Darek e come stringeva tra le braccia l’angelica Dorota. Sorride tristemente. Il figlio non è tanto diverso dal padre.
“Bene, è meglio se andiamo, stasera si festeggerà per bene e il ragazzo qui diventerà un uomo, non in quel senso!” aggiunge alla fine, notando il labbro indignato di Wala e le palpebre calate minacciosamente.
Polonia sente ali ai piedi come Ermes, prima di vedere scoccare una freccia di Eros nei cuori di Tymek e Wala.
 
 
“Non è questo quello che volevamo, ma il fuoco dev’essere combattuto col fuoco. E il sangue lavato col sangue” una pausa, per accertarsi che tutti riescano ad ascoltarlo con attenzione. Vede occhi puntati solo su di sé e sguardi rapiti sulla sua figura. Continua.
“Troppo a lungo abbiamo vissuto sotto il braccio ferreo dei tedeschi e dei russi. Ebbene… non sarà più così. Non vedremo più la morte dei nostri figli o saremo rifiutati solo perché polacchi o ammazzati sotto le nostre case per il divertimento dei tedeschi” uno di loro sussulta, nelle prime file. Polonia lo ricorda: era quell’uomo chino sul suo fucile, a lucidarlo come se non dovesse esserci nemmeno un granello di polvere a scalfirlo. Lo guarda e vede un taglio sul sopracciglio e un secondo sul labbro. Lo sguardo completamente rapito e orgoglioso di essere compreso.
“Non vedremo più un altro uomo separato dalla propria moglie o un respiro mozzato per un loro capriccio” un secondo deglutisce e pare rigirare i denti sotto le labbra: è l’uomo alto e biondo che prima aveva visto. Ha occhi scuri e una luce coraggiosa che brilla dentro l’iride lucida.
“So che non tutti desideravate questo, ma Varsavia racconta ciò che ci è accaduto in questi anni e non vi è altro che macerie e lerciume. Questa città era nostra e presto ci apparterrà di nuovo, così come le nostre vite… e mai più qualcuno vivrà come un topo sotto la terra o in un buco scavato tra i rottami” ora è lui a sussultare di meraviglia: Tymek pronuncia ogni suo pensiero e lo scandisce con massima precisione con le sue labbra. Libera l’aria dai suoi polmoni e socchiude la bocca. Si sente compreso e fiero di quel che sta ascoltando. Tymek pare un oratore antico, ma affatto vecchio, che di fronte ai giudici urla la sua arringa.
“La decisione è la vostra: andare per la vostra strada o unirsi alla nostra missione. Questo è solo un piccolo passo e insieme… faremo tremare Berlino!”
Un coro di esclamazione trionfa come una sola voce e mani alzate si liberano in alto. Tra quelle c’è anche quella minuta di Polonia.
 
 
“Come ti chiami, ragazzo?”
“T-Tymoteusz”
“Come il nostro comandante! Allora ci porterai fortuna! Stai dietro di me: ti terrò d’occhio io”
 
Il fucile non pesa più così tanto come l’aveva preso in braccio la prima volta che lo vide nel bianco latteo del nulla. Lo carezza coi polpastrelli e gli pare che il legno intriso col ferro sia più lucido rispetto a prima. La strada di sera, senza lampioni, né lucerne, sembra la strada di un vecchio cimitero inoltrato nella boscaglia. Non ha neppure paura: l’uomo che ha deciso di tenerlo con sé e di guidarlo è dolce e paterno. Non ricorda bene il suo volto, ma riconosce facilmente nel buio la sua schiena robusta e curva.
 
“Non devono avere più rinforzi per mandare uno scricciolo come te. Ma quanto pesi, ragazzo?”
“I-Io…”
“Ah, fa niente! Scherzavo come al solito. Piuttosto, sei certo di voler venire con noi? Non hai paura di far stare tua madre senza un uomo a difenderla?”
 
L’aria è ghiacciata, come se fosse invernale. Forse lo è veramente e lui non se n’è reso conto, senza neve o senza aver immaginato di chiedere in che mese si trovino. Questa sera ha qualcosa di spettrale e di magico. Le stelle sulle loro teste puntellano il cielo e qualcuna è così sbiadita da sparire quasi del tutto. L’uomo che segue sembra deciso e pare conoscere perfettamente la strada, così come tanti altri che lo seguono come un branco di lupi. Polonia, piccolo lupetto, non si è reso conto di non ricordare più come sia la forma della sua città.
 
“N-No, signore. Cioè, io non una madre… tipo non più”
“Oh, scusami… E non hai paura di morire, invece? E di prendere una pallottola alla gamba e non riuscire più a difenderti?”
“…No. Non più, sono totalmente sicuro di venire con voi. Per la Polonia”
 
Si sono già divisi tutti e ogni vicolo e tetto è stato occupato. Polonia è al secondo piano di una casa. Sente scricchiolare assi per terra e zampette di ratto correre affannosamente, con la coda a seguire il corpo quasi del tutto spellato. L’uomo che ha seguito fino ad ora si è accucciato sotto la finestra distrutta e lui gli va dietro, fedele a lui. È pronto, già con l’indice nel grilletto e la sicura tolta. Oltre la finestra, ora specchiata dentro la casa, c’è il fuoco di un immenso e maledetto falò. Ricorda la prima volta che passeggiò a Varsavia e vide i libri diventare cenere, mangiati dalle fiamme. Un conato di rabbia lo accende e lo scalda. Stringe il fucile come se fosse un fratello. Questo è per la sua gente.
 
“Davvero? Sei davvero così innamorato di questo paese da perderci la vita?”
“Sì, signore, sono totalmente pronto a morire per Varsavia e per la Polonia. Almeno altre mille volte”
“Bene, allora scusami: dovevo fare il diavolo con te, me l’ha detto il caposquadra, per essere sicuro della tua fiducia. Allora benvenuto fra i suicidi, ragazzo!”
 
“Fuoco!!!”
Spari, mitragliate di fucili. Frastuono e rumore di corpi che cadono. Abbagliati dal fuoco, gli uomini continuano a sparare e i proiettili rimbalzano nell’ambiente della piazzetta. Polonia si alza dalla sua postazione, insieme alla sua guida e spara. Il fucile sputa fuoco e piombo e sotto i guanti il ragazzo sente infiammare il metallo e il legno. Il fucile è caldo, brucia i suoi polpastrelli e a Polonia, inaspettatamente, piace.
“Fermi!!!”
Gli spari smettono di percuotere l’aria. Il fuoco in mezzo alla piazza pare meno accecante e superbo. Polonia è soddisfatto, come se fosse diventato veramente un uomo. Involontariamente sorride serafico, diavoletto di volto. Uno dei canini scintilla, mostratosi al di fuori della carne del labbro. È soddisfatto, felice che dei tedeschi siano morti. Che coloro che lo hanno contaminato ed ucciso siano in parte cibo per vermi di terra. Guardano tutti, Polonia abbassa lo sguardo sulla piazza.
L’uomo affianco a lui, sua guida fino ad ora, non mostra altro che silenzio. Polonia afferra la sua paura e la sua confusione, così come afferra la sua e quella di tutti gli uomini che hanno sparato. I generali, con le loro uniformi nere come petrolio, non sono lì. Eppure hanno sentito corpi cadere e cozzare con la pietra, ricordano tutti. Aguzzano lo sguardo e vedono uomini accasciati al fuoco, alcuni caduti dentro. Quelli bruciano come banali ramoscelli. Polonia li osserva e strizza gli occhi. Non hanno uniformi, nemmeno un segno di riconoscimento. Hanno sparato a civili, pezzi della sua carne e cellule del suo corpo.
Feuer!” sentono tutti in lontananza, prima ancora degli spari non loro. Polonia guarda ora la strada dove la voce ha urlato con la forza di un orso e con una certa familiarità. Le palpebre spalancate come se non ne avesse più. Il cuore, prima congelato nella cassa toracica, ora un ingranaggio battente e pericoloso. La sua guida si volta, così come ben altri si sono voltati. Balbetta qualcosa che non comprende e che ritiene pericoloso.
“E’ una trap-!” uno scoppio lo prende al petto e gli strappa l’aria dalla gola. Polonia sente il bruciore asfissiante della pallottola conficcarsi nel polmone a sottrargli aria. Vede schizzi di vermiglio infrangersi macchiare le pareti e la guida che l’ha condotto fino a lì. Diventa ancora sordo. I passi traballano, ha una pericolosa sensazione di vertigini. La vista sta per mancargli. Un riflesso gli ricorda la finestra accanto a lui e il panico attanaglia il cuore come una morsa. L’istinto gli fa aprire il palmo e lo fa scattare in avanti. Si aggrappa alla divisa dell’uomo. Non riesce a vedere l’incredulità e il panico macchiargli le iridi scure. Polonia stringe con forza e disperazione, sapendo che non cadrà quest’uomo, sua guida immortale. Nessuna guida potrebbe mai morire, è inaccettabile una cosa del genere. Anche il polmone sano del ragazzo sente e immagina dolore: l’uomo lo guarda terrorizzato e tradito, il peso spezzato dall’equilibrio precario. Polonia si sente cadere e si trascina dietro l’uomo.
Polonia fotografa con gli occhi il mondo che gli gira attorno, ma non lo registra nella sua memoria. La nuca sbatte, così come sbatte la guida sul suo braccio. Il fucile ruzzola da qualche parte e per un attimo Polonia immagina di averlo visto gettato sulle cascate di fiamme del falò.
Polonia ha confusione e rabbia: è morto ancora una volta in un corpo straniero.
 
 
 
 
 
La mano di Liet è morbida come pane appena sfornato e il sudore che ha è appiccicoso come burro. È anche calda come la crosta di una pagnotta uscita in tempo dal fuoco. La mano di Jadwiga era più paffuta e affatto umida. Liet gli ha preso la mano e camminano entrambi nel palazzo, appena tornati da una fuga nel bosco. Liet è sudato e i calzoni sono macchiati di verde alle ginocchia. Ha i capelli appiccicati alla fronte e scuri come mignatte di palude. Polska lo guarda in faccia e sorride, vedendolo contento a stringergli la mano. Ha le guance rosse e sulla punta del naso vede puntini scuri. Gli dà una spinta, istintivo. L’amico si sorprende, ma accetta il gioco e lo spinge anche lui, con un po’ più di forza. È vero: Lituania ha una costellazione di lentiggini e lui non se n’è accorto se non ora.
Fa cozzare la spalla con la spalla, ha dovuto reggersi sulle punte per farlo. Si fermano, si guardano rapiti, sfugge un sorriso e un sussulto. Polonia corre per i corridoi del palazzo e Lituania lo insegue. Quando l’amico l’ha preso per la mano ha pensato a Jadwiga e a come da bambina voleva farsi stringere come una piccola sposa. Liet ha le mani della sua regina. Si volta, lui lo rincorre ancora, famelico e allegro. Lo vuole, lo desidera.
Liet sbatte addosso a lui e lui addosso alla parete di pietra. Non sente troppo dolore, è troppo sereno per sentirne alcuno “Ti ho preso!” esclama, scodinzolante come un cagnolino. Polska respira con affanno, per nulla abituato alle corse, ma ugualmente felice. La faccia un po’ tonda ed infantile di Liet ha occhi grandi e luminosi. L’azzurro è così vivo che non potrebbe paragonarlo ad una pietra preziosa. Pare più un mare calmo, del Mediterraneo o di qualche costa spagnola, ad est delle Colonne d’Ercole. Ha un abbaglio, Jadwiga aveva occhi così, ma i capelli biondi davano luce più alla fronte. Liet è diverso: il sole presta la sua luce solo agli occhi turchini. Per un attimo gli pare proprio bello, il suo Liet.
L’istinto e l’emozione lo fanno scattare in avanti. Poggia le labbra sulla guancia dell’amico. Non l’ha mai fatto prima con nessuno. La pelle di Liet è ancora sudata. Le labbra sentono sale e calore. Spinge la carne delle labbra con forza. L’imbarazzo lo precede e lo fa tornare con la schiena al muro. Liet ammutolisce e diventa rosso. La mano si alza tremule e si poggia lì dove ha posato le labbra. Toccato il punto, s’immobilizza il tremito. Lo guarda con curiosità ed incertezza. La sua faccia ha qualcosa di dolce e buffo. A Polska scappa la risata e la tenerezza. È anche dolce, il suo Liet.
Liet vede lo sguardo di Polska cambiare e raffreddarsi. Si volta, sorpreso e timoroso. Il moretto volta gli occhi. Stanno passando alcuni della corte. Liet vede i loro abiti e l’abbaglio che acceca i suoi occhi. Gli danno fastidio. Guarda Polska e immagina che venga trascinato via da lui e allontanato da quelli. Ma il biondino rimane lì, con una faccia più sottomessa e quasi terrorizzata. Liet lo guarda e non lo capisce. Sente bisbigliare del polacco più formale e lui non capisce né l’una né l’altra cosa. Polska lo comprende e comprende anche che non sono visti da quelli.
“Il piccolo Granducato è così adorabile! L’ho visto da vicino e quegli occhi azzurri sono delle piccole gemme!” esclama estasiata una voce giovane.
“Sì, adorabile, veramente adorabile!” strilla un’altra più giovane e con la voce martellante come quella di un’oca.
“Signore, vi prego, è solo un lituano” dice un uomo, contrariato e severo.
“E con ciò, messere? È un lituano, ma è un lituano delizioso e incantevole!”
“Sì, sì, davvero incantevole!” balbetta l’oca.
“Se è davvero la rappresentazione perfetta degli abitanti, allora dovrei convincere mio marito a trasferirsi laggiù… e io accanto, ovviamente!” mormora infine, con una malizia crudele che a Polska non sfugge e che lo fa sussultare. Liet è ancora vicino a lui, comprende a metà e vorrebbe ancora la mano di Polska tra le sue dita e andare via di lì.
“Ma le abitudini comunque mostrano grandi differenze dalle nostre… Sono comunque selvaggi e i selvaggi non servono nemmeno a lucidare le mie vecchie scarpe” Liet sente la mano di Polska sfuggirgli. Meravigliato, lo guarda puntare i piedi in avanti e pestare pesantemente il pavimento. Ha fatto qualche balzo per mostrarsi di fronte ai tre. Li guarda come li voleva guardare secoli fa. I tre lo osservano, interessati in qualche modo alle sue sopracciglia inarcate e agli occhiacci di lucifero puntati sui loro volti. Polska si sente offeso e sta facendo quello che ritiene giusto. Ma ha agito seguito dall’istinto. Infatti le parole tardano a mancare e la lingua s’ingarbuglia col palato. Ha voluto sempre fare tutto questo, ma non sa cosa fare. L’unico uomo lo guarda, guarda dietro le sue spalle e vede Liet. Comprende e la situazione lo fa sorridere.
“Non credo che dovremo considerarli più come tali, ormai”
“Cosa intendete dire?” si meraviglia una delle due, già dimentica di avere la propria rappresentazione vicina a lei. La seconda ritorna ad ascoltare, smemorata anche questa.
“Con la nostra influenza quel pezzo di terra sarà giustamente civilizzato e ora che la loro rappresentazione barbuglia con la nostra… immagino una veloce ripresa della Lituania”
“Ma messere, parlate anche della nostra rappresentazione?” dice la prima, fingendo di dimenticare Polska, che in quel momento si sente chiamare in causa.
“Certamente, quel Lucifero che abbiamo! Non li avete visti insieme in questi mesi? Saranno fratelli di sangue ormai!” ironizza e in qualche modo quelle due ridono. Polska si sente pugnalare al cuore “Ormai…” tossisce un rimasuglio di risata “…sarà un nobile perfetto, quel lituano. Diverranno Bruto e Cassio, giusto il tempo di farsi demone anche la Lituania. Perché, come ben sapete, chi va con l’ubriaco… impara a bere” ridono e chiocciano.
“Giusto! E chi va col diavolo diventa diavolo anch’egli!” esclama la prima, ritornando a contorcersi le viscere.
“Sì, sì, anch’egli!” e ridono, dimenticando Polska e Liet, dimenticando e non aver mai ricordato di aver spezzato il cuore ad un ragazzino. Polska non immaginava che il suo coraggio gli avrebbe causato tale dolore. Lui alza gli occhi e cerca pietà. Gli lacrimano gli occhi, pugnalati, offesi e umiliati. Le risate non smettono. Liet nemmeno sbuffa contrariato, compreso perfettamente soltanto le ultime frasi. Lui non se ne cura e afferra con la mano Polska. Già è entrato alla scuola e già immagina di diventare un eccellente cavaliere. Già il maestro lo bastona e gli urla insulti quando sbaglia o quando non sta fermo. Già le sue orecchie sono sorde a queste chiacchiere. Per Liet sono degli stolti con fango nelle mascelle, ma per Polska sono parole accusatorie e veritiere. Lui ha orecchie ancora vergini e questa cosa gli ha fatto male.
Lascia la mano di Liet e scappa, con le lacrime agli occhi. Liet è fraterno e comprensivo, allora lo segue, intimandogli di fermarsi e di abbracciarlo.
 
 
 
 
 
Le cinque dita escono fuori dal pantano. Artigliano il terreno, sporche e sudice. Si aggrappano alla terra e al sangue degli uomini morti. Arpiona il terreno come se fosse oro e issa il corpo martoriato.
Polonia porta in alto il bacino e riesce a scrollarsi di dosso il cadavere senza volto. L’altra mano, chiusa a pugno, si appoggia anch’essa alla terra e spinge il resto del bacino e le gambe. È libero, riesce a respirare. La pioggerella tintinna sui suoi capelli e li inumidisce. I fili dorati si aggrappano alla fronte di Polonia e non bastano pochi scrolli per toglierli dal viso. Nella mano chiusa il ragazzo stringe forte sei piume che bruciano sopra al cuoio del guanto sfregiato. Si issa e libera anche le gambe. La gamba non è più paralizzata e riesce ad ancorarsi ad essa e a reggersi in piedi. Gli occhi brillano di confusione, sgomento, rabbia.
Hanno vinto ancora.
Anche l’altra gamba poggia il terreno. Le piume si sono bruciate completamente. Le mani sbattono sulle gambe e si liberano un po’ del lerciume. Si sente sporco. Muove il collo in alto e col polso si libera dei capelli. L’occhio cade sulle gocce di pioggia che tintinnano sulle sue guance. Nel petto formicola qualcosa dentro Polonia, quando capisce di aver trascorso un’intera notte sotto della carne morta e del fango pestato da stivali tedeschi. Stringe il pugno, appassita l’ira, ma non la frustrazione.
Corre, coi piedi che sanno già dove andare. Gli stivali lasciano impronte nel fango, la divisa si bagna per la pioggia. Sente sotto i suoi piedi il pestare delle suole nelle pozzanghere. Guarda avanti e non si volta, scese le scale per fuggire nel rifugio, svoltato il vicolo ed evitato due scorci pieni di ratti e melma. Dimentica la guida che aveva trascinato dietro di sé nella caduta, i suoi baffi biondi e il suo sorriso birbante. Lo stesso corpo che gli era caduto addosso e sotto cui ha passato la notte. Non vuole pensarci.
Svolta vicoli e trova il rifugio. Scende la scaletta di metallo, col silenzio immondo. Il formicolio nel petto diventa fuoco incandescente. Non può pensare di aver perso un’altra volta. Per Polonia ormai è in gioco l’onore e la nazione. Cammina nei corridoi metallici. I tacchi degli stivali percuotono tirannicamente sul pavimento imbrattato di fuliggine. Lascia altre orme dietro di sé. I capelli li trova assillanti, un’altra ciocca sul suo viso. Si toglie il guanto e scopre la mano bianca e umidiccia. Afferra la ciocca e la sbatte all’indietro.
Il fuoco è diventato incendio nel suo petto. Spera che Prussia non fosse lì per deriderlo ed umiliarlo. L’idea che abbia potuto lanciare in aria l’allarme e che abbia urlato per sparare la trova viva e veritiera. Il labbro si arriccia, lo morde forte. Sente carne viva sotto i suoi denti. Il sapore metallico e prepotente lo sveglia. Deve trovare Tymek e creare un nuovo piano per vendicarsi di Prussia. Smette di torturare il labbro, le ciocche ora scoprono il volto incrinato e gli occhiacci lucenti. Basta poco per ammazzarlo, pensa Polonia, solo altri uomini e molto coraggio.
Lo sparo si ripercuote nel bunker. I passi di Polonia si arrestano. Le pareti metalliche tremano e oscillano, il pavimento pare fatto di burro. Polonia è ancorato al terreno e non si muove. Il capo si volta, il cuore pulsa di paura: lo sparo proveniva dall’interno. Tedeschi?!, trema terrorizzato il ragazzo. Corre nella direzione del rumore orribile, col cuore paonazzo di emozioni. I piedi scattanti. Sente freddo, d’un tratto, come se solo ora la pioggerella lo abbia toccato. Immagina divise nere dentro lo studio di Tymek. Immagina i simboli dei fulmini e Prussia deridente del suo tentativo. Da rabbia, il formicolio al petto trasuda terrore. Non vuole che accada una cosa del genere. Lo sparo smette di rimbombare nelle pareti e Polonia, senza nemmeno pensare, abbassa la maniglia della porta e la spalanca.
L’uscio ha sbattuto pesantemente contro il muro e crea il rimbombo di un tuono nella stanzetta. L’ordine e la calma della scrivania e delle sedie ha qualcosa di surreale. Polonia sente ancora il boato dello sparo nelle sue orecchie allora si volta, sentendo altro. Sente respiri profondi, sente gemiti trattenuti dietro a falangi. Vede prima il rosso, poi vede la figura magra, china e raggrinzita su se stessa. Polonia non sa dove posare gli occhi. Tymek alza la testa scattante. I suoi occhi rossastri hanno ira e paura.
“E tu chi diavolo sei!?” urla, con un boato smovente come lo sparo di prima. Polonia guarda ancora Tymek e i suoi occhi pressati dalle emozioni, come se non comprendesse ciò che ha appena detto. L’occhio cade dietro le sue spalle e vede ancora rosso. Il passo d’istinto si fa avanti, in qualche modo incerto “Non ti avvicinare o ti sparo!” urla ancora, con la voce che penetra nelle ossa di Polonia. Il ragazzo guarda Tymek e vede tra le mani il fucile puntato su di lui. Un brivido di freddo percorre la spina dorsale di entrambi.
“Va bene, va bene, sto fermo” i passi si fanno all’indietro e quasi cozzano contro la parete. Le mani si alzano, arrese. Si sente in pericolo. Vede ancora rosso. Polonia ha un occhio curioso e si ferma lì. La macchia vermiglia pare più vernice che sangue, tanto è lucida. Delle gocce si fanno strada e strisciano sulla parete grigiastra, colorandola. L’occhio cade ancora più in basso. Vede il lettuccio in parte bianco e in parte sporco. Vede i lineamenti di una donna sotto ad un lenzuolo. Polonia fissa i tratti del viso. Sente lo stomaco rigirarsi dentro di sé e un conato percorrergli la gola. Serra i denti, non vuole vomitare. Spalanca gli occhi, non vuole piangere. Tymek, confuso e piangente, segue il suo sguardo e reprime il respiro: non vuole frignare come un bambino.
“Senti…” crepita la voce debole e rabbiosa “…non fare quella faccia. Me lo chiedeva e siamo comunque spacciati” la gola di Tymek ha un sobbalzo e pronuncia con prepotenza e tensione queste parole. Non riesce a parlare. Gli occhi si rifiutano di cacciare altre lacrime. Polonia capisce molte cose e scuote la testa, negando a se stesso. Non può finire così.
“Tymek, possiamo tipo…” deglutisce saliva dolce, il conato ancora nella gola “…tipo andarcene da qui, però dobbiamo scappare ora” Tymek lo guarda con occhi lucidi come specchi. Vede riflesso un barlume di confusione e dolore. Polonia immagina di aver ancora cambiato corpo, immagina che Tymek non sappia chi sia e perché debba ascoltarlo. Il sangue di Wala scende ancora e gocciola lungo la coperta sottile. Qualcuna di queste cade sulla gola della donna e giacciono accanto ad altre sorelle.
“No, non serve a nulla. I tedeschi hanno ammazzato tutti quelli della mia squadra e io sono l’ultimo…” mormora con più calma e fragilità. Gli occhi azzurri sono distrutti. Per Polonia sono quasi grigi. Muove lentamente un passo in avanti, Tymek non si accorge di nulla e allora Polonia muove un secondo passo, più morbido. Sente la schiena libera e ne è sollevato “Ho mandato a morire un ragazzino, te ne rendi conto?!” sbotta, arrabbiato d’un colpo. Polonia sobbalza, sentendo di nuovo la tensione nell’aria che striscia sulla sua schiena. Arretra ancora e sbatte di nuovo contro il muro. Sente le gambe tremare e lo stomaco irrigidirsi. Il conato di vomito svanisce, la gola si paralizza. Ricorda il fascio di piume mastre che ha bruciato, la caduta e la morte del suo corpo straniero. Non è più quel ragazzo, non è più Tymoteusz. Deglutisce aria e saliva dolce.
“Tymek, non è troppo tardi per cambiare le cose. Cioè…” gli occhi brillano di terrore. Pensa ai tedeschi sulle loro teste, pensa a Darek, all’odore nauseante di sangue e interiora. Pensa alle sue viscere che uscivano dal corpo e a come mormorava il suo nome. A come chiese di sparargli. A come lo chiamò col nome del figlio. Polonia smette di tremare e pensa che tutto quel che Tymek stia vivendo sia ingiusto “Pensa a tuo padre” mormora, la voce stranamente armonica “Ha dato la sua vita per il paese e sarà per sempre ricordato” dice ancora, con la voce sussurrata come un conforto. Ma non vuole che Tymek muoia. Non vuole vedere il ragazzo ucciso. Tymek alza la testa e contrae il volto come una fiera mostra le zanne.
“Mio padre è morto come un maiale!” il piede del ragazzo arretra terrorizzato, sbattendo contro il muro “Tu non sai niente! Non sai come l’ho trovato! Non ho avuto la forza di tornare a casa dopo quello che gli è successo” lacrime nella voce, il volto si piega come mortificato, gli occhi brillanti “Lui era un vero soldato, lui aveva ragione su tutto. Doveva vivere lui…” abbassa la testa, con gli occhi tocca il fucile tra le sue mani. Polonia ha uno scatto nel cuore. Dal pantano di vermiglio esce fuori il corpo di Darek. L’occhio cieco e l’altro serrato. Sente la presenza, fasulla, del figlio. Chiede, supplica un proiettile al cranio. Polonia vede corvino e rubino. Scattano le iridi. Tymek…sparami. Il passo si fa avanti.
“Questo non è vero!”
“Ah, no? Lui ha sempre amato questo cazzo di paese. Ci è nato e cresciuto a Varsavia. È diventato soldato perché lo voleva veramente. Io… io…” singhiozza, il corpo segue la gola e sobbalza ad ogni parola. Tira su il naso. Gli occhi lacrimano, si fanno più rossi e pulsanti di vene. Si passa il dorso della mano sugli occhi. Non cala le dita dal suo viso “Io ci sono andato perché non volevo studiare. Ti pare che un bastardo come me debba ancora vivere?” urla contro il ragazzo. Polonia non vuole arretrare più. Sente in Tymek disperazione e non rabbia, per questo ha un barlume di coraggio nel cuore. L’occhiaccio smeraldino cade sulle dita frenetiche di Tymek che armeggiano con la carica del fucile. Lo vede chino sul ferro, lo sguardo orribilmente calmo, anche se lacrimante. Polonia è in allerta, come se desiderasse sparargli, ma senza avere paura che possa farlo. Le dita smettono di guerreggiare col caricatore. L’arma è carica. Polonia guarda negli occhi Tymek e legge apatia e vuoto. Il proiettile sfonda il cranio di Dorota. Lo sguardo vacuo e la testa aperta in due. Polonia guarda la donna e un orribile parassita gli sussurra di essere osservato dal corpo morto. Legge negli occhi vacui la sua colpa. Vede Klara piangere e chiedere aiuto alla mamma. Fa due prepotenti passi in avanti, come se la vita di Tymek dovesse spezzarsi in questo istante.
“Fermati!” urla supplichevole. Tymek lo osserva e per un attimo vede luce nelle sue iridi “Tutti meritano di vivere! Tua madre vorrebbe che tu sia felice, Tymek. Dorota ti ha amato tantissimo, non puoi farle questo!” gli occhi di Tymek si fanno sempre più stretti ed increduli “Ti ha amato troppo per vederti così disperato! Vorrebbe vederti sorridere… e non totalmente morto con un proiettile in testa!” lo sparo nell’aria ha squarciato il silenzio e il sangue di Dorota macchia l’altare dove un tempo si era sposata “Ed è tipo uguale anche per Klara!” la bambina viene presa e osservata. Geme e strilla. La mamma non si muove, la mamma non viene qui ad aiutarla. La mamma non si alzerà mai più da quella panca. Le labbra di Tymek si socchiudono. Polonia vede umanità nei suoi occhi. Ma vede anche confusione e terrore. Cala il silenzio, entrambi sentono i propri cuori sussultanti. Polonia guarda Tymek con fragile fermezza. Ha detto ciò che nessuno potrebbe mai sapere. Tymek sussulta e lo guarda come se gli fossero spuntate ali nere di corvo e corna di satiro.
“Tu chi diamine sei?” altro silenzio, Tymek non muta espressione. Polonia vorrebbe aprire la bocca e parlare, ma non sa cosa dire. Ha ancora occhi sbarrati e fermi su quelli del giovane soldato. Deglutisce, apre la bocca, ma la richiude subito. Si morde il labbro e lo massacra coi denti. Non sa cosa dire e non crede di dover e poter dire la verità.
Mormorii e urla sulle loro teste, incomprensibili ad entrambi. Tymek e Polonia alzano le testa con lo stesso scatto del collo. Osservano il soffitto, come se vedessero ben oltre i metri di terra e metallo. Altre parole, altri ordini lontani in una lingua che Tymek non ha mai voluto imparare. Passi, stivali e tacchi di cuoio che pestano il terreno fangoso. Pozzanghere martoriate da piedi stranieri, corse sulle loro teste. A Tymek il cuore pare quasi scoppiargli in petto. D’un tratto diventa tremule. Gli occhi si agitano tra le ciglia, la fronte suda come se questa stanza emanasse calore dall’Inferno. Entrambe le coppie di occhi cadono in basso e si scrutano, Tymek con terrore, Polonia con fermezza e un briciolo di coscienza. I passi avanzano su di loro. L’entrata per il bunker è vicina a quelle voci.
“Non c’è più speranza…”
“No, c’è!”
“No, non c’è!” dice, con la voce straziata “Che dovrei fare adesso? Ora arriveranno qui e mi spareranno… e tutto quello che ho fatto non sarà servito a niente! Non voglio… non voglio vedere mio padre dopo tutto questo!” cala il volto e piange, passandosi una mano sul viso, l’altra ancora ancorata al fucile maledetto. Polonia fa istintivamente un passo avanti. Sente il suo volto contratto in tristezza, ma non riesce a smuoverlo. È ad un passo da Tymek. Lo guarda con un sentimento che non riconosce. Indossa la stessa divisa che indossava quella notte, quando è stato sparato e i tedeschi uccisero tutti i soldati e suo padre, in quella maledetta notte. Vede sulla spalla l’aquila bianca svettare, sporca e grigia. Polonia ha come l’impressione di vederla per la prima volta. Questa è sgualcita e vecchia, malata e stanca. Polonia pensa che sia l’ultimo polacco che indossi quest’aquila e un freddo gelo penetra nelle sue ossa.
“Tymek…” sussurrano le sue labbra. L’orecchio oppresso sente in lontananza stivali e voci arrabbiate. Sente ordini urlati e braccia pesanti che scendono lungo la scala di metallo. Tymek è spacciato, pensa consapevolmente e con un batticuore compassionevole. Non lo vuole morto, non vuole che Tymek sia ucciso da tedeschi. Il soldato smette di piangere e abbassa la mano dal viso. Tymek guarda Polonia, i suoi capelli, i suoi occhi fermi e tristi, eppure luminosi. Si sente leggero e libero, ma affatto felice. Sente di aver capito come fuggire da questo posto.
“Sei un angelo, vero?”
Polonia sente le proprie sopracciglia cadere. Socchiude la boccuccia, le spalle, sempre tese fino ad ora, sgonfiarsi e afflosciarsi. Guarda Tymek e le sue lacrime e non può credere in quello che ha appena detto. Sente le gambe rigide, come affondate nude in un mare di neve. Lo guarda meravigliato. Tymek entra nella sala da pranzo con un’arroganza adolescenziale. Il padre lo sgrida, lui sbuffa e smette di deridere la sorella. Prende in giro Feliks e il suo sogno. Ride e i genitori scuotono la testa. Polonia non riesce nemmeno a negare. Il suo sguardo afferma il contrario di ciò che vorrebbe dire a Tymek.
“Sei venuto qui per dirmi di non fare niente di stupido… Hai visto com’è morto mio padre?” Polonia è ancora freddo, è ancora meravigliato. Si sente soffocare dal moro, si sente artefice della morte della sua famiglia. Non riesce a parlare, non annuisce, ma è come se l’abbia fatto. Il volto di Tymek si contrae in dolore “Oh, Cristo…” si getta la mano in faccia. Le ginocchia cedono e cade sopra al materasso sporco. Sospira pesantemente, Polonia sente ancora gelo nelle sue carni “Mia madre e mia sorella sono morte?” chiede con una voce martoriata. Sparo. Altare sanguigno. Testa di Dorota frantumata. Occhi vaghi e accusatori. Klara portata via. La sua mano si apre per afferrare quella della bambina. Caduta nel mare cartaceo. Polonia sente le lacrime avanzare sotto le sue palpebre. Annuisce con più forza, come se affermasse di averle uccise lui stesso. Tymek sgrana gli occhi sotto le dita “Oddio…”
Passi selvaggi dietro porte e porte. I tedeschi sono qui. Sente le urla con più chiarezza, anche se ancora offuscate. Uomini e uomini armati. Tymek sembra molto più tranquillo e freddo. Polonia lo guarda incredulo. Il moro si toglie le mani dal viso. Lo sguardo stanco e gelido di uno a cui la morte non tocca più. Gli occhi avanzano sopra le coperte grigiastre. Sfiora con lo sguardo la mano del corpo. Apre la palma e la poggia su quella di Wala. Polonia non sente più urla dietro gli usci, non sente più tedesco strillato. Tymek carezza Wala. Lui vede tristezza, Polonia vede amore “Io non sono mai stato come mio padre. Non ho mai fatto nulla di utile per il paese” fa scivolare via la mano dalla spoglia dell’amante, chinando ancora il capo “Mia madre era troppo buona per essere stata uccisa”.
Urla. Parole tedesche. Corse lungo i corridoi. A Polonia non importa più, a Tymek non importa più. Alza lo sguardo e gli occhi s’incrociano chi provato e lacrimevole, chi paziente e mortificato. Tymek sembra appassito come un fiore.
“Ti ringrazio per essere qui, angelo… ma non posso andare in Paradiso” la mano si apre e afferra il fucile senza sicura. Tymek guarda fraternamente l’angelo dai capelli biondi e gli occhi verdi “Credo che i Lukasiewisz non meritino di vivere, ormai…” veloce, sfuggente, il ferro della canna si poggia sulla bocca spalancata di Tymek. Rimane ferma sul palato e l’altra mano tocca il grilletto. Gli occhi azzurri lo supplicano di avere perdono. Polonia spalanca le palpebre e si rende conto di non poter fare nulla.
“No!!!”
Lo sparo riecheggia e lo fa tremare. Polonia vede solo nero sotto le sue dita. Si è riparato il volto con le mani. Sente le pareti oscillare e il pavimento come spezzarsi sotto al suo peso. Attende e trema. Si toglie timidamente le mani dal volto. Vede rosso e grigio, carni… cervella. Si volta e si poggia una mano sulla bocca. Non vuole vomitare, non deve vomitare. L’acido e pezzetti di cibo che non ricordava di aver mangiato gli salgono in gola. Si poggia la seconda mano sulle labbra e respira. Non vuole voltarsi, non deve voltarsi. Tymek non ha più una faccia, l’occhio si regge a fatica nell’orbita… la testa è scoppiata e Polonia ha visto solo carne sulla parete che strisciano verso il basso come sanguisughe. Si preme con più forza le mani sulla bocca. Il corpo gli si piega. Non deve vomitare.
Una voce ha urlato dietro la porta. Era così aggressiva da farlo trasalire. Lo stomaco si blocca e il rigurgito comincia a scendere. Sono vicini, sente i passi più prepotenti, più scattanti. Si crea il gelo dentro le sue ossa. Le mani cadono e cercano appoggio, trovato in una sedia. Scuote la testa. Sono vicini, sono troppo vicini.
Polonia si guarda attorno. Non ci sono finestre, non ci sono porte. Non ci sono nascondigli. Per sbaglio l’occhio si poggia su Tymek e Wala e la nausea si fa risentire. Qualche brandello di pelle e ormoni è ancora ancorato alla parete. Guarda in basso, tra il materasso e il pavimento. Si avvicina, ma guarda in alto e si blocca. Si para gli occhi. Non può nascondersi lì.
Il rimbombo della lingua tedesca si abbatte sulle pareti. Polonia guarda la porta come se ne dipendesse la sua vita. Guarda la scrivania, non può accucciarsi là sotto. Guarda le sedie, i fogli e i documenti malamente scritti. Non può difendersi. È perduto, come Tymek.
Sente una porta spaccarsi. Si volta terrorizzato. Non è la sua, ma la seconda lungo il corridoio. Guarda Tymek, come se cercasse aiuto da lui, ma l’ha abbandonato e il suo corpo non può guardarlo senza sentire lo stomaco rigirarsi tra le viscere. Guarda la porta e indietreggia. Presto sarà il suo turno.
“No…” sbatte contro la scrivania. I passi degli stivali sembra quasi vederli dietro la porta “Non voglio che finisca così” scuote la testa. La porta sta per essere aperta. Spalanca le palpebre, le iridi smeraldine si sono fatte piccole come teste di spillo. La maniglia si sta abbassando. Spalanca la mascella, urla come non ha mai fatto, preda della paura. Paura, pazzia, affonda la mano nella tasca della divisa. Afferra, spezza con le dita le piume rosse e nere. Le stringe come si stringe una manciata di sabbia e, conquistato dal terrore, urla  “Non voglio morire!”
La porta si apre, le piume prendono fuoco. Bruciano, incendiano come un piccolo falò. Il fuoco non consuma le piume. Polonia se ne accorge e sente vero fuoco sopra al cuoio del guanto. Le getta d’istinto e toccano terra. Bruciano, infiammano il pavimento, infiammano le pareti di carta che, come foglie, si stringono e appassiscono. La carta si tramuta in cenere. Polonia si guarda attorno e si chiede che fine abbia fatto il bianco latteo che ha sempre visto fino ad ora. La carta avvampa anche sotto ai suoi piedi e precipita.
Polonia rimane scioccato, mentre affonda sempre più nel nuovo nero di questo mondo.
 
 
 
 
 
Polska si è fermato alla sala, dove anni prima si erano incontrati per la prima volta. Si è seduto lì, sul trono, e si è stretto in un bozzolo di lacrime e vesti lunghe. Liet ha quasi paura di toccarlo. Ha cercato di confortarlo, di non ascoltare quelli, che sono solo stolti, che non possono capire loro Nazioni, che non sanno chi sia davvero. Ma Polska ha continuato a piangere e non fa altro anche ora. Liet si sente male perché non sa più cosa fare e sente già il naso colargli. Lo tira su, non può piangere anche lui. Il trono sembra spento e le foglie ricamate in oro paiono seccate.
“N-Non è vero nulla…” mormora, ancora chiuso nel bozzolo come un baco di seta. La sua voce è parsa appannata e debole. Al lituano dispiace veramente tanto, come se fosse in parte colpa sua.
“Sì, è vero” prova ad incoraggiarlo, facendogli cadere lentamente le gambe dal sedile vermiglio del trono. La testa abbandonata al grembo, i capelli calati sul volto. Le braccia sono ancora strette in una morsa. Liet immagina che possa farsi del male. Non ha mai visto qualcuno stringersi con così tanta forza da artigliarsi le costole. Il moretto deglutisce e tira ancora su il naso.
“Non sono cattivo…”
“Certo che non lo sei. Sei buono…”
“Sono loro cattivi!” urla d’un tratto. Liet ha indietreggiato di un passo. Si tira le mani allo sterno, spaventato. Non se l’aspettava “Loro…” singhiozza Polska “Loro l’hanno portata via…” mormora qualcosa fra le labbra, forse un nome. Il lituano non lo sente “Hanno ucciso Jadwiga…” gli trema il labbro, i capelli si aprono come una tenda sul volto del biondino “Mi hanno tolto tutto!” gracchia. Liet è ancora fermo sui talloni e con il braccio al petto. I piedi di Polska calciano il trono, con qualcosa di simile alla frustrazione invece che rabbia. Gli si contorce il busto come un vermicello a cui hanno tagliato il capo. E nemmeno le braccia artigliate ai fianchi fermano l’ondeggiare mostruoso. A Liet tutto questo movimento sembra pericoloso e vorrebbe fermarlo. Si avvicina deciso al biondino, singhiozzante. Pensa che debba abbracciarlo.
“       Non piangere, va tutto bene” afferma con calma. Non vuole che Polska pianga più. Gli si accosta e alza una mano per toccarlo. Il biondino l’afferra e la stringe. Il lituano sussulta: la presa è salda, la stretta anche se tremule è comunque forzuta. Gli manca il respiro, guarda Polska. I suoi occhiacci lacrimano ancora e il pianto gli ha fatti rossicci e infiammati. Le iridi smeraldine sono ancorate alle sue. Le gambe gli tremano. Un freddo invernale striscia sulla sua schiena. Questo sguardo gli fa paura “Tu sei mio”
“C-Cosa?” chiede la sua voce diventata un bisbiglio. Non ha sentito bene. Polska lo guarda fisso e in qualche modo a Liet ricorda un demone, proprio come l’hanno dipinto i nobili a corte.
“Tu non sei di loro” Liet annuisce con sicurezza, anche se con le gambe tentennanti. È vero, lui non è della corte polacca. Il biondino gli molla il braccio e un sollievo pervade il petto del moretto, ma lo sguardo è ancora fisso sul suo. A Liet sembra arrabbiato, forse con lui stesso. Abbassa lo sguardo, comincia ad aver paura di incrociare gli occhi con quelli dell’amico. Il biondino alza il braccino e lo struscia sotto al naso gocciolante. Le lacrime non le lava “Inchinati” ordina.
“Come?” mormora, sottomesso e con lo sguardo impaurito. Non riesce ad alzare gli occhi. Polska tira ancora su il naso.
“Inchinati!” urla. Liet si spaventa e sobbalza. L’istinto gli fa abbassare il ginocchio sul pavimento. Trema di paura. Alza gli occhi, Polska non ha cambiato sguardo. Lo guarda come se dovesse fulminarlo e al moretto questa cosa terrorizza. Il trono pare ora ancora più cupo, le foglie completamente essiccate e piegate verso il principino, i gambi cadenti. Lo sguardo freddo di Polska lo trafigge “Di’ che sei mio” mormora poco convinto e colpevole. A Liet sembra più umano, allora alza la testa.
“I-Io…”
“Di’ che sei mio!” urla ancora, con la voce gracchiante e velata dalle lacrime. Continua a piangere. Il ragazzino si commuove e si maledice per la sua lentezza.
“Sono tuo”
“Dillo… dillo di nuovo”
“Sono tuo, Polska” è stato più istintivo questa volta. Sentire il suo nome pronunciato da Lietuva lo ha fatto sentire bene. Immagina troppo. Immagina che il suo Liet l’abbia detto veramente col cuore. Ha detto che è suo e che non appartiene a nessun altro. Ha detto che non sarà strappato via da lui come è stato quand’era bambino, né verrà ucciso come lo è stato con Jadwiga. Lietuva ha detto che gli sarà vicino per sempre. Gli ha detto che non l’abbandonerà mai. Tira su ancora una volta il naso, il volto si rilassa, le lacrime continuano a bruciare tra le sue ciglia.
“Sì, è così…” annuisce fra sé e sé. Il moretto si rialza. Vede di nuovo il volto del suo amico e dimentica lo sguardo glaciale che gli ha rivolto poco prima. Polska si alza dal trono, calpesta impacciato il pavimento sotto i suoi stivali e caccia la testa nel collo di Liet. Il moretto rimane spiazzato. Si sente stringere debolmente e allora lui lo fa con più forza. Ha dimenticato ciò che è accaduto. Polska continua a piangere, ma si sente più rincuorato: Liet non l’abbandonerà mai.
Liet è solo suo.
 
 
  
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