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Autore: Ghevurah    27/02/2017    3 recensioni
Questa città è nata da un sogno e dei sogni possiede la materia: paure che trasudano dalle ombre, desideri che sfilano alle luci delle fiaccole. Così ci si perde e ci si trova in un riflesso capovolto, per poi perdersi ancora. Ancora e per sempre.
Dopo la rovina della Dagor Bragollach, Celegorm, Curufin e Celebrimbor si rifugiano in Nargothrond, ospiti di Finrod Felagund. Quest'è la storia della loro convivenza.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Celebrimbor, Celegorm, Curufin, Finrod Felagund, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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III. Esternare






Le notti di Nargothrond non sono mai silenziose: voci e musiche e canti risuonano lungo le gallerie. La città è sempre sveglia, quasi volesse testimoniare la propria perseveranza: le ombre potranno anche aver colonizzato il mondo, ma lì, nelle profondità della terra, si continua a vivere.
Tyelperinquar rimane in ascolto di quella vita tenace, e il suo lontano rumoreggiare si tramuta nel lamento del vento. Allora ricorda di una fortezza austera, affacciata ai dirupi. Pavimenti di pietra grezza, pareti spoglie, focolari incapaci di mitigare un freddo pungente. Ricorda il passo di Aglon, ghiacciato, snodarsi fra i fianchi montani come una lingua lucente. E non sa se ciò che prova sia proprio nostalgia per quel luogo così rigido; forse si tratta più dell’estraniante consapevolezza di aver perso tutto, di nuovo.
Sbatte le palpebre. Su di lui non incombono travi divorate dall’umidità ma un soffitto voltato, modellato nella roccia: ora c’è il Nargothrond con le sue aule sempre vigili, e notti insonni a cercare di riappropriarsi di coordinate perdute – seppellite dalla cenere.
Lascia le sue stanze occhieggiando gli arazzi che coprono le pareti: fondali blu e ricami malinconici di stelle. Troppo per lui quella sera.
Attraversa i corridoi, silenzioso. Una luce azzurra beccheggia nel salotto che le stanze di suo padre e suo zio condividono. Un frusciare di carta si aggiunge al rumorio della città, oltre le pareti di roccia.
Tyelperinquar si allontana con una certa impellenza. Il cuore che aumenta i battiti come quando, da bambino, si nascondeva ai suoi zii per un capriccio infantile. All’epoca Tyelkormo lo trovava subito, ma se ora è nel salotto – sul divano, capelli sparsi fra i cuscini, una gamba a penzolare oltre il bracciolo – è sicuramente troppo intento a osservare Curufinwë per accorgersi di lui.
Tyelperinquar li ha visti spesso, quegli sguardi. Ha avvertito l’intimità che implicano e arginato l’amarezza di sentirsene escluso.
Prosegue lungo la curva dell’androne; l’istinto lo porterebbe alle fucine, a ricercare un tracciato famigliare in quel susseguirsi di scale e corridoi e sale magnifiche, tuttavia ora non desidera vedere estranei. O forse sentirsi estraneo in un luogo – la forgia – che ha sempre chiamato casa.
Così muove altri passi nella penombra, mentre gli stucchi dorati sulle pareti mutano in una livellatura della pietre e un profumo d’erbe gli arriva alle narici.
Le cucine dei loro appartamenti emanano un calore diverso da quello delle altre stanze: non hanno decori preziosi, tuttavia le mensole e le stoviglie appese sui muri evocano un ricordo nostalgico. Cucine di cui fatica a definire i contorni – forse quelle, lontanissime, di Tirion. Le braccia accoglienti di suo nonno, l’ombra di un raro sorriso sulle labbra.
“Assaggia.”
Un sapore troppo speziato, una smorfia.
E poi la risata di Fëanáro che vibrava bassa, ruvidissima. L’accenno di un bacio sul capo.
“Hai gusti molto delicati, hinya.”
Chissà se qualcuno crederebbe che Curufinwë Fëanáro è stato anche questo.
Tyelperinquar allontana quel pensiero, varcando la soglia delle cucine. Sul tavolo posto al centro della sala Andúien sta catalogando alcune erbe, di fronte a lei Ilwaráto affetta una focaccia.
Condo?” Lo chiama quest’ultimo, appena sorpreso dalla sua presenza.
Tyelperinquar fa un breve cenno del capo, poi solleva lo sguardo per abbracciare l’intera stanza. In fondo al tavolo siede Liltelenio. Ha un libro fra le mani e un abbozzo del solito, mesto, sorriso sulle labbra.
“Qualcun’altro che non riesce a prender sonno?” Domanda Andúien, richiamando l’attenzione di Tyelperinquar, e nella sua voce balena una nota ironica e comprensiva assieme.
Lui fa un cenno d’assenso. In passato si è sentito a disagio per la propria trasparenza; ora si è reso conto di come un simile disagio non sia altro che un riflesso dato dal confronto con suo padre, dalla consapevolezza di esserne l’opposto.
Senza smettere il proprio lavorio, Andúien alza lo sguardo verso Liltelenio. “Cosa gli consiglieresti?”
Lui sbatte le palpebre, inclinando appena il capo. “Melissa?”
“In questo caso saresti tu a dover fornire un dosaggio adeguato ogni volta… Sai del suo effetto paradosso.”
“Un infuso a base d’iperico, dunque?”
La guaritrice sorride, soddisfatta, e Tyelperinquar la vede sfilare un’ampolla dal contenitore che ha al fianco.
“Avanti,” sbuffa Ilwaráto dinnanzi a lei, “questi sono rimedi noti anche a me!”
Gli occhi del capitano cercano quelli di Liltelenio, appena incupiti dalla sua osservazione, e una smorfia divertita increspa il suo viso. “Non volermene, danzatore. Dico solo che non sei tagliato per alleviare le pene altrui.”
Liltelenio scrolla le spalle, distogliendo lo sguardo da Ilwaráto. “Né sono tagliato per infliggerle di mio pugno, se è questo.”
Tyelperinquar sposta la propria attenzione dall’uno all’altro, indeciso se intervenire. I modi di Ilwaráto sono noti a tutti, ma Liltelenio, così diverso da lui – da tutti loro –, lo induce a inasprirsi.
Alla fine è Andúien a intromettersi: con un gesto annoiato scaccia le loro parole e si rivolge Tyelperinquar. “Siedi, condonya.”
Lui acconsente, prendendo posto tra la guaritrice e il capitano di suo zio. Andúien gli porge l’ampolla che teneva fra le mani, Ilwaráto si alza dalla sedia e si stiracchia.
Tyelperinqur lo sente trafficare alla sue spalle per poi tornare al tavolo con una tazza d’acqua calda. Gliela porge, ammiccando. “Prova pure l’infuso, condo. Ma sappi che in certi momenti il vino è l’unico rimedio all’insonnia.”
“Se per questo,” ribatte Andúien inarcando un sopracciglio, “anche un colpo in testa può essere utile.”
Il capitano ridacchia e fa un cenno d’assenso. Tyelperinquar lo sente sfiorargli una spalla con la propria, mentre addenta un pezzo di focaccia.
Andúien è poco distante, intenta a disporre le ampolle nei loro contenitori. Liltelenio, in fondo al tavolo, è tornato a leggere.
Tyelperinquar si sente avvolto da un abbraccio di calore, una percezione che stempera quelle sensazioni d’esclusione e solitudine che lo hanno portato lì.
Prepara l’infuso, l’aroma dell’iperico si fa più intenso, sovrastando quello delle altre erbe e fiori.
Ilwaráto gli lancia uno sguardo curioso ma stranamente rilassato, e lui si volta in sua direzione, la tazza calda fra le mani. “Sembri di buon umore,” dice.
Il capitano sorride, i denti che si chiudono sulla pasta morbida delle focaccia. “E chi non lo sarebbe?”
Tyelperinquar corruga la fronte. Non sa di nuove positive, ma è anche vero che, conoscendo Ilwaráto, quella potrebbe essere dubbia ironia.
Rimane in silenzio, sperando d’indurre il capitano a continuare il discorso, tuttavia è Andúien a riprenderlo per lui: “Capisco che tu voglia notizie di Mahalcarinië, ma io non sarei così tranquilla a partire per il nord. Di fiamme ne ho avuto abbastanza almeno per qualche anno!”
Tyelperinquar sussulta, le dita si stringono attorno alla tazza, mentre una realizzazione scava nel profondo: non ha la minima idea di cosa stiano parlando.
Ilwaráto scrolla le spalle, ribatte, ma tutto sembra scivolare troppo lontano da lui.
Si alza in piedi con quanta più fermezza riesce a raccogliere, il pensiero che corre a suo padre e suo zio, in quel salotto, a pianificare progetti che l’escludono completamente.
Lascia le cucine con una scusa debole, gli sguardi dubbiosi di Ilwaráto e Andúien alle spalle.
Quando ripercorre l’androne che collega le cucine alle sale principali, le torce appese alle pareti sembrano bruciare più debolmente, consumate dalla stessa luce che irradiano.
Tyelperinquar si stropiccia le mani. I suoi palmi hanno conservano il calore della tazza, ma quella solitudine che l’attanagliava è divenuta ancora più gelida.
“Aspetta,” la voce di Liltelenio echeggia nel corridoio, facendolo irrigidire.
“Aspetta,” ripete il danzatore, e il suo tono è così gentile da indurre Tyelperinquar a voltarsi.
Liltelenio ha con sé la tazza dell’infuso e gliela porge con uno sguardo preoccupato. “Stai bene?”
E per un istante Tyelperinquar accarezza il pensiero di lasciarsi andare. Di raccontargli della propria solitudine e frustrazione, di un padre distante, dell’angoscia per la sorte dei propri zii. Ma infine gli sorride, prendendo la tazza dalle sue mani. “Non preoccuparti”.
Liltelenio cerca i suoi occhi, sulle labbra parole che non riescono a prendere suono.
Poi Tyelperinquar abbassa il capo.
“Buonanotte,” si sente mormorare prima di dirigersi verso le sue stanze.


La mattina dopo suo padre e suo zio la passano nel salotto, dove forse hanno trascorso anche l’intera nottata. Quando Tyelperinquar li chiama per il pranzo lo fa rimanendo sulla soglia della sala, come se, varcandola, possa profanare l’intimità di quel luogo.
Il suo sguardo indugia sul tavolo circolare, dove le mappe di Endórë hanno preso il sopravvento sui calcoli e i progetti di Curufinwë. E il legame tra questo particolare e le parole di Andúien diventa incalzante.
“Il pranzo è pronto,” annuncia lui, sforzandosi di mantenere un tono di voce neutro.
Tyelkormo soffia un lamento frustrato, senza scostarsi dal tavolo – dalle mappe – su cui è allungato.
Curufinwë lancia un’occhiata obliqua al fratello e ai fogli sparsi tutt’attorno. “Fallo servire qui,” dice a Tyelperinquar, “non abbiamo molto tempo.”
Lui annuisce, ma quando si volta per lasciare il salotto, suo padre lo ferma: “Pranza con noi.”
Il pensiero delle mappe sparse sul tavolo fa esitare Tyelperinquar. Come potrebbe fingerle d’ignorarle una volta seduto lì?
Quando ritorna nel salotto assieme a due servitori, però, nota che le mappe sono state riavvolte e accatastate in una metà del tavolo.
Suo zio appare più rilassato, ruba un pezzo di pane da un vassoio e scompare oltre la soglia della sala per riemergervi con Huan al seguito.
Viene apparecchiata solo la metà libera del tavolo, le sedie sistemate di sbieco, e tutto possiede quella precarietà tipica dei pasti che Tyelperinquar era solito consumare con suo padre – un boccone e un calcolo matematico.
Tyelkormo si inseriva in un simile contesto come una variabile libera: una presenza che andava e veniva, a volte infastidito dalla loro frugalità, altre – quando si limitava a spiluccare dal piatto di Curufinwë – più che ben disposto verso di essa.
Ora suo zio sembra trovarsi perfettamente a proprio agio a quella tavolata provvisoria. Siede dinnanzi a Curufinwë, una mano al proprio piatto, l’altra ad accarezzare il capo di Huan, accovacciato accanto al tavolo.
Tyelperinquar conosce lo svolgersi di quel copione: le occhiate infastidite di suo padre infrante contro la pretestuosa e divertita indifferenza di Tyelkormo.
“Tyelko.”
“Dimmi.”
“Lo sai.”
“So cosa?”
Tyelkormo si porta un frammento di carne alle labbra, lo spezza con i denti e ne da una parte a Huan. Gli strofina le orecchie e afferra un altro boccone con le dita, per poi rivolge uno sguardo estraneo a Curufinwë.
Un tempo Tyelperinquar trovava divertenti quegli scambi; ora tutto è offuscato dalla sensazione di trovarsi fuori luogo. Uno spettatore esterno, abbandonato alla propria solitudine.
E all’improvviso si fa strada in lui il desiderio di rivendicare uno spazio, un ruolo; d’imporre la propria presenza.
Guidato dall’istinto lascia tintinnare le posate contro il bordo del piatto. Suo padre ferma a mezz’aria il bicchiere che si stava portando alle labbra per lanciargli un’occhiata gelida e lui avverte parte della propria determinazione sbiadire nella nitidezza delle sue iridi.
Tyelkormo finge di non accorgersi di nulla, continuando ad affettare la carne nel proprio piatto.
Tyelperinquar punta lo sguardo sulla brocca di vino che ha dinnanzi, raccogliendo un coraggio che ha il sapore della frustrazione.
“Non mi avete dette nulla di ciò che è accaduto durante il concilio,” dice, la voce increspata dal nervosismo. E tutto il peso del silenzio che segue cala su di lui.
Con la coda dell’occhio scorge suo padre distoglie lo sguardo, ruotare il polso, lasciando ondeggiare il vino nella coppa. I suoi movimenti lenti, morbidi, sembrano dilatare il tempo, ma a un tratto il ritmo cambia.
“Che cosa ti è stato detto?” Chiede bruscamente.
E Tyelperinquar non sa bene come accada – forse a causa di quel senso d’abbandono che sente scavargli l’animo –, ma trova il coraggio necessario a lasciar emergere tutta la propria amarezza. “Ciò che avreste dovuto dirmi voi?”
Curufinwe ha un sussulto quasi impercettibile. Lui teme che stia per metterlo a tacere con una di quelle osservazioni che sanno restituirgli la netta percezione della sua inconsistenza; invece suo padre sbatte le palpebre, s’inumidisce le labbra.
È Tyelkormo a parlare.
“Hai ragione,” dice scrollando le spalle, mentre addenta un brandello di carne. “Hai ragione… è che siamo stati particolarmente impegnati.”
C’è così tanta noncuranza nel tono di suo zio che Tyelperinquar non sa se sentirsi irritato o imbarazzato per aver dato un simile peso a un fatto che – stando alle parole di Tyelkormo – è dovuto a una mera casualità.
Curufinwë si bagna le labbra con un sorso di vino, e il ritmo di quel discorso torna a farsi incalzante. “Con chi hai parlato?”
Lui s’irrigidisce. Pensa a Ilwaráto e Andúien, nelle cucine, e vede il sospetto schiarire gli occhi di suo padre.
“Un po’ con tutti,” mente.
Curufinwë tace, ma il suo sguardo sembra poter evocare i pensieri di Tyelperinquar, leggerne proiezioni che s’iscrivono sulla pelle. Poi è Tyelkormo – ancora – a spezzare il silenzio.
“Andrò all’esterno,” dice, “ mi unirò ai drappelli di ricognizione che si spingeranno a nord-est.”
Un sospetto che sulle sue labbra diviene una prospettiva concreta. Ed è forse perché le coordinate s’ingarbugliano ancora, confondendolo, che Tyelperinquar pronuncia la domanda successiva.
“Cose ne pensa il Re?”
La mascella di suo zio si contrae, i denti si chiudono sul pezzo di carne che ha in bocca. Deglutisce, tenendo il proprio sguardo d’acciaio puntato su Tyelperinquar. La risposta, però, viene da Curufinwë.
“Il concilio è d’accordo e Findaráto lo è di conseguenza.”
Tyelperinquar abbassa lo sguardo sul proprio piatto. Pensa di chiedere loro come hanno convinto il concilio, ma le parole s’incastrano in gola, troppo scomode per divenire suono: forse non vuole sapere, non davvero.
Tyelkormo prende un sorso di vino, poi fa un cenno in sua direzione. “Andrò con alcuni dei miei cacciatori. E il Nargothrond ci sarò grato per aver messo a disposizione i nostri guerrieri.”
Lui abbassa lo sguardo. Pensa alle piccole cose: agli arazzi della sua stanza, alle cucine, alla forgia; all’ospitalità che è stata riservata loro. E gli pare di perdere l’equilibrio, d’inciampare in un rimorso a cui non riesce a dare forma concreta.
“Avremo notizie dalla Marche,” scandisce a un tratto Curufinwë. La sua voce è distante, incolore, eppure è l’appiglio di cui Tyelperinquar ha bisogno.
“Sapremo cos’è accaduto ai nostri fratelli. Ai tuoi zii,” rincara Tyelkormo.
“Credi… credete che stiano bene?”
Suo zio sorride, la luce ferale del suo sguardo viene mitigata da una più gentile: il riflesso di una speranza dalle radici profonde.
“Sarebbe inutile fare prognostici,” ribatte Curufinwë, mentre le sue dita sfiorano il bordo della coppa.
Tyelkormo però non perde il proprio sorriso e Tyelperinquar decide di affidarsi alla sua speranza – al suo intuito –, ricacciando il ricordo di Losgar in qualche antro della mente.
La solitudine, quell’amara sensazione di esclusione, aleggia sui suoi pensieri come uno strato di nebbia; gli da respiro, ora, ma è sempre pronta a calare.


Lungo l’immensa galleria sfilano consiglieri e soldati, alcuni accompagnati dai loro cavalli, e il rintocco degli zoccoli sul lastricato si mischia a un vociare indistinto.
Il portale d’ingresso domina l’orizzonte, incorniciato da un protiro scultoreo. Quando Tyelperinquar era giunto in città non gli aveva prestato particolare attenzione, distratto dalle grotte voltate che si stagliavano dinnanzi a lui, ma ora ne nota tutta l’imponenza.
Lascia scorrere lo sguardo sui piedritti, cercando un meccanismo d’apertura, e infine individua due argani a ruota addossati alle pareti.
Davanti agli argani, alcuni guerrieri di Nargothrond che partiranno come esploratori sono raccolti attorno al loro Re. Lui può scorgere il suo profilo delicato, il lieve gesticolare delle sue mani.
Poco più in là, anche Tyelkormo sta impartendo ordini ai propri cacciatori. Ilwaráto, già in sella al proprio cavallo, coglie il suo sguardo e lo saluta con un cenno.
Tyelperinquar ricambia per poi lanciare un’occhiata alla propria destra, lì dove Curufinwë osserva un punto imprecisato nella folla, ignorando sia il Re che il suo stesso fratello. Ma lui sa che arrivati a questo punto i pensieri di suo padre e suo zio sono un’armonia univoca.
Li sta ancora osservando, quando una lieve pressione alla schiena lo induce a voltarsi. È Huan, muso proteso in avanti e sguardo puntato su di lui.
Tyelperinquar gli sorride, affondando le dita nel suo pelo.
“Fai attenzione là fuori,” mormora piano, affinché suo padre non possa sentirlo. Poi solleva lo sguardo verso Tyelkormo e aggiunge: “Fai attenzione anche a lui.”
Come evocato dalle sue parole, suo zio si lascia il drappello di cacciatori alle spalle per avvicinarsi loro.
Indossa un’armatura forgiata con una lega particolarmente leggera, opera di Curufinwë, le cui giunture sono state realizzate in cuoio. Mostra una soddisfazione disarmante, i capelli raccolti dietro la nuca e uno sguardo luminoso.
“Vieni qui,” intima a Tyelperinquar, allungando entrambe le braccia in avanti.
Lui ubbidisce e Tyelkormo gli prende il viso fra le mani – i polpastrelli ruvidi a carezzare le guance –, infine preme un bacio tiepido sulla sua fronte.
Tyelperinquar respira un eco di quel profumo di muschio e terra che sempre ha annusato sulla pelle di Tyelkormo. Gli cinge la vita, pregando Eru di poterlo stringere ancora.
Quando si separano, Tyelkormo si volta verso il proprio fratello per un saluto che s’esaurisce in uno sguardo: se ci sono stati abbracci, fra loro, hanno preteso l’intimità della solitudine.
“A presto,” mormora Tyelkormo. Curufinwë fa un cenno a cui lui risponde con un nuovo sorriso, prima d’allontanarsi verso il proprio cavallo.
È allora che Tyelperinquar avanza d’un passo.
“Torna,” gli dice a mezza voce, un ordine e una preghiera assieme.
Suo zio si volta. Inclina il capo, li scruta, prima lui e poi Curufinwë, e dai suoi occhi trabocca un affetto genuino, assoluto. Un sentimento che richiama tempi lontani.
“Agli ordini.”
Lo guardano dare loro le spalle e montare sul cavallo, Huan al seguito. Poi un rumore sordo si leva nella galleria: quattro soldati stanno azionano gli argani e il portale ha iniziato a schiudersi.
La luce del mondo esterno dilaga nelle caverne, inghiottendo il drappello di esploratori. È un bagliore pallido e timido eppure autentico, nulla a che vedere con quelli lambiccati di fiaccole e Lampade.
Tyelperinquar vede suo padre assottigliare lo sguardo, puntato sulla schiena di Tyelkormo. Per una attimo il viso di Curufinwë sembra adombrato da un senso d’abbandono: una fragilità intima, quasi infantile. E lui non può far altro che accostarglisi maggiormente, sfiorando il suo braccio con il proprio.
Lo sente irrigidirsi appena, forse sorpreso da quel contatto, e quando Curufinwë si volta in sua direzione, Tyelperinquar ne elude lo sguardo, fissando la luce dinnanzi a sé. Entrambi tacciono, ma nessuno dei due si allontana dall’altro.






Sotto l’amalgama di neve e fango, la terra fu attraversata da un tremito, l’aria s’appesantì e le montagne divennero scogli in una mareggiata di fiamme. Calò così, da nord-est, una promessa mantenuta.
I profili dei monti avvamparono in una penombra che non apparteneva né al giorno né alla notte. Tyelperinquar strinse le redini convulsamente; pensò che avrebbe visto le rocce sciogliersi e il mondo contorcersi e crepitare come le navi-cigno a Losgar.
Osservò i guerrieri attorno a lui: volti anneriti dai fumi su cui guizzavano bagliori rosseggianti, negli sguardi attoniti l’incrinarsi di un’illusione – vinceremo.
Curufinwë, in sella al suo cavallo, era poco distante; i suoi occhi scrutavano oltre le montagne. E Tyelperinquar realizzò che dove lui guardava svettava l’Himring e sotto di esso, al di là delle vette illuminate dal fuoco, vi era la Breccia di Makalaurë e poi il Lothlann tenuto dalle sue cavallerie.
Non riuscì a dare voce al panico che lo colse, perché un boato echeggiò fra cielo e terra, soverchiando tutti gli altri suoni. E mentre quel rombo assordante sembrava crescere d’intensità, lui scorse Tyelkormo piegarsi sulle ginocchia. Lo sguardo rivolto ai monti e un urlo muto sulle labbra.
Vide il suo viso venir scavato da una rabbia primordiale, la sua bocca spalancarsi, i denti affilarsi di riflessi sanguigni. Un ricamo di vene pulsò lungo il collo incrostato di fango e sangue scurissimo.
Ilwaráto gli era accanto, gli sfiorò le spalle con una mano che lui scacciò, salvo poi riafferrarla bruscamente. Gliela strinse e risalì lungo l’avambraccio; le unghie conficcate fra le piastre dell’armatura, a incidere la pelle. Ma Ilwaráto non si sottrasse.
Tyelperinquar deglutì a vuoto, l’odore di zolfo che tornava a graffiare la gola, le gambe instabili sopra quella terra claudicante.
Il fragore si spense poco a poco, lasciandoli storditi. Lui distolse lo sguardo da suo zio e incappò in quello di suo padre: lo stava fissando. I suoi occhi erano come nuvole cariche di neve, il viso pallidissimo, tanto che le luci delle fiamme sembravano attraversalo. Dischiuse le labbra, ma le parole che ne uscirono si persero nel suono d’un corno: un segnale di Mahalcarinië, parte dei cacciatori ancora appostati sulle montagne.
Un tremito nuovo, meno profondo ma vicinissimo, scosse il passo e l’intera vallata. Alcune pietre ruzzolarono lungo i crinali e le sagome degli Orqui emersero dai vapori, riversandosi al di fuori della gola di Aglon.
Quando l’orda travolse i lancieri schierati all’imbocco del valico, dai versanti attorno al vallo provenne una pioggia di frecce: i cacciatori sulle montagne stavano ripiegando verso l’Himlad, assalendo gli Orqui alle spalle.
Ma gli schiavi di Moringotto sembravano mossi da una furia disperata. Chi era sfuggito alla frecce, arrancava verso il grosso dell’esercito. Negli occhi esiziali, arrossati dai fumi, la fame di una vittoria palpabile.
Tyelperinquar capì che sarebbe stati su di loro a momenti.
Suo padre gli strattonò un braccio: “Non distrarti, ora. Dobbiamo andarcene!”
Tyelkormo, montato su un cavallo, si schierò dinnanzi a loro, Ilwaráto al fianco. Altri guerrieri li accostarono e Nármaitë, da qualche parte – Tyelperinquar udiva la sua voce –, chiese indicazioni a Curufinwë per poi gridarle all’avanguardia.
Huan, poco distante, azzannò un Nauro.
“Via,” ordinò Curufinwë, ma gli Orqui erano lì: Tyelperinquar poteva contare le cicatrici slabbrate sui loro volti.
Un Urco si gettò verso di loro e prima che Ilwaráto riuscisse ad anticiparlo, Tyelkormo spronò il proprio cavallo per andargli in contro – le protesta di Curufinwë ignorate come il vento sulla pelle.
Ilwaráto e alcuni dei cacciatori rimasti con la retroguardia lo raggiunsero, forse con la vana speranza di farlo retrocedere.
Tyelperinquar vide suo zio mozzare la testa dell’Urco e incrociare lo sguardo piretico d’un Nauro che, più in là, affondava le zanne nei resti di un soldato. Con un verso gutturale, Tyelkormo lanciò la propria spada verso la bestia, trapassandole il cranio.
Ilwaráto stava affrontando due nemici, uno – lesto – sgusciò tra le gambe del suo cavallo, strappando un’ascia dalle carni di un cadavere a terra. Alzò il capo, affilando lo sguardo, e Tyelperinquar capì che stava puntando suo zio, poco distante da lui.
Anche Tyelkormo notò la creatura, ma invece di sottrarsi alle sue mire, cavalcò verso di lei, disarmato.
Quando l’Urco brandì l’ascia, gli si scagliò addosso a mani nude, impedendogli di calare la lama sul cavallo che montava.
Tyelperinquar trattenne il respiro e qualcosa lo portò a voltarsi verso il proprio padre. Guardò i suoi occhi sgranarsi, liquidi e cupi come non li aveva mai visti: il suo terrore era tutto lì, lì e nel nome sulle sue labbra: “Tyelko!”
Lui lo vide strattonare le briglie con una foga che stentò a credere gli appartenesse, e seppe che anche Curufinwë si sarebbe lanciato sugli Orqui senza alcuna cognizione.
Ma Tyelkormo spinse l'avversario a terra, sotto di sé, colpendolo con un impeto terribile. Il viso distorto da una smorfia di soddisfazione.
Si sollevò solo quando il corpo della creatura rimase immobile nella fanghiglia: i pugni intrisi di sangue fresco, uno schizzo sullo zigomo destro. Alzò lo sguardo per cercare quello di Curufinwë. Con un sorriso gli indicò il cadavere dell’Urco, quasi che quella dimostrazione di forza – di follia – fosse interamente dedicata a lui.
E in quel momento Tyelperinquar si chiese come sarebbe stato avere un fratello; sentirsi unito a qualcuno nel modo in cui lo erano suo padre e suo zio.






Le biblioteche di Nargothrond sono un intrico di scansie modellate in archi ogivali che risalgono i soffitti seguendo i profili delle volte. Dagli scaffali traboccano liberi e pergamene, molti sono copie provenienti da Aman, volumi di Rúmil e altri Lambeñgolmor; altri sono scritti in Sindarin, e altri ancora in una lingua – forse Nandorin – di cui Tyelperinquar riconosce solo alcune parole.
Ha raggiunto quel luogo per sfuggire ai propri pensieri. Curufinwë è alle forge, e lui non riesce a lavorare al suo fianco quando è avvinto dall’angoscia: nulla più che una distrazione colpevole agli occhi di suo padre.
Ma Tyelkormo è là fuori, in un mondo preda di ombre e fiamme, e Tyelperinquar ha perduto troppi legami per non lasciarsi travolgere dal terrore di dover vivere un’esistenza che escluda anche suo zio.
Scuote il capo, cercando di affossare quei pensieri e concentrarsi sulla biblioteca.
Motivi dorati di conchiglie sono intagliati nelle lesene che dividono gli scaffali. La luce proviene da lanterne inserite nei loculi di pilastri scanalati, posti lungo il perimetro della sala. Uno stucco smeraldino si solleva dal soffitto, forse un’onda che increspa il mare e si curva verso il basso, dando l’impressione di poter sommergere chi cammina sotto di essa. A Tyelperinquar ricorda le sculture di sua nonna: immagini sconnesse di corpi e volute, forme morbidissime scolpite nella durezza della pietra.
E sta ancora osservando il soffitto, interrogandosi sulla ragione di simili richiami al mare, quando avverte una presenza accanto a sé.
“Buongiorno.”
Quando Tyelperinquar si volta, il Re a pochi passi da lui, le mani lungo i fianchi, il viso disteso.
Parla Quenya e la sua voce possiede una musicalità che ricorda quella di zio Makalaurë: sillabe come note, parole come accordi.
“Buongiorno,” risponde lui, senza poter evitare di mostrarsi sorpreso.
Ha sempre avuto memorie confuse di Findaráto Arafiwion: un saluto sfuggente sulle rive del Mithrim, un sorriso stemperato nella luce degli Alberi. E ora, in aule scavate nella terra, lo vede brillare di quella stessa luce. Non si tratta solamente dei suoi colori o dei gioielli che indossa, è qualcosa di molto più intimo, puro: un fulgore interiore che trasuda dal corpo.
Lo guarda incurvare le labbra piene in un sorriso, facendosi un po’ più vicino.
“Tyelpo,” mormora per poi interrompersi subito, titubante, quasi gli abbia fatto un torto. “Perdonami... Posso chiamarti così?”
Tyelperinquar sbatte le palpebre, affrettandosi ad acconsentire.
“Cosa ne pensi, Tyelpo?” Gli chiede allora il Re, indicando la biblioteca attorno a loro. “Suppongo che agli occhi della nostra gente possa apparire un po’ eccessivo.”
Tyelperinquar tira le labbra in una piega incerta. Le considerazioni sprezzanti di suo padre riguardo l’architettura di Nargothrond echeggiano nella sua mente, tuttavia lui ha sempre visto un che di affascinante in quell’osare con forme e materiali.
“Trovo sia insolito, ma non per questo eccessivo.”
Il Re fa un cenno col capo – onde d’oro a scivolare lungo le spalle -, mentre un sorriso soddisfatto scivola sulle sue labbra.
E Tyelperinquar si sente in dovere di aggiungere altro, di non lasciar cadere nel silenzio quella conversazione appena abbozzata.
“Se posso,” mormora, “mi chiedevo il perché dei motivi marini. Di quell’onda.”
L'espressione del Re s’ingentilisce ancora di più, come se un ricordo prezioso stia affiorando alla sua memoria.
“Ho sempre creduto che il mare mi avrebbe portato conoscenza… e così è stato. Dunque, quale luogo migliore delle biblioteche per motivi che lo richiamassero?”
Tyelperinquar pensa alle storie che ha udito sulla fondazione di Nargothrond, storie che assieme a simili parole stridono incredibilmente con ciò che il Mare – spietato – ha significato per lui.
Ma il Re non gli permette di perdersi fra i suoi pensieri e riprende il discorso con uno sbuffo divertito: “Quanto allo stucco di quell’onda… ammetto che si basa su un mio alquanto approssimativo disegno.”
S’inumidisce le labbra, lo sguardo velato dall’oro delle ciglia – pennellate d’un vago imbarazzo.
“Credo d’essere stato ispirato da ciò che rammentavo dei lavori di tua nonna.”
Tyelperinquar sgrana gli occhi, impreparato al calore che sente irradiarsi nel petto. Quel veto che suo padre e i suoi zii hanno imposto sul ricordo di Nerdanel cade, e lui si sente un fanciullo aggrappato con entusiasmo a una memoria che credeva di non poter più condividere.
“Hai sorriso,” nota il Re compiaciuto.
Lui abbassa il capo, mentre il suo sorriso viene sfumato da un inutile pudore. Crede di non sapere cosa ribattere, ma quando prende fiato le parole sono già suono sulle sue labbra.
“Credi che l’esplorazione andrà a buon fine?”
Il pentimento arriva subito dopo: la domanda ha in sé galassie di risvolti politici.
“Scusami,” sussurra lui, scuotendo il capo. “È inopportuno confidarlo a te, mio signore, ma temo per mio zio e…”
“Non credo affatto sia inopportuno.”
La voce limpida del Re lo porta a sollevare lo sguardo. Sul suo viso non c’è alcun’ombra, solo l’impronta della comprensione.
“Fra me e Tyelkormo possono esserci tensioni politiche, ma questo non m’impedisce di temere per la sua incolumità. Dopotutto siamo una grande famiglia.”
Tyelperinquar rimane attonito, mentre il Re tende le labbra in un sorriso morbido.
“Inoltre mi farebbe immensamente piacere se mi chiamassi Findaráto.”
Il suo tono è pregno di un’affetto autentico, e Tyelperinquar si ricrede: in Findaráto Arafinwion non rivede la luce sfolgorante e perduta dei Due Alberi, ma un bagliore più delicato, più prossimo; il chiarore del mondo esterno trapelato dal portale. Una speranza fragile eppure attuale. Preziosissima.













Note:

In lingua Quenya:
Hinya ovvero “bambino mio”.
Lambeñgolmor (approssimativamente traducibile con “sapienti delle lingue”) era il nome degli appartenenti a una scuola di linguistica fondata da Fëanor. In realtà Rúmil non rientrerebbe proprio in questo gruppo di eruditi, essendo il suo lavoro antecedente a quello di Fëanor, tuttavia ritengo plausibile che con il trascorrere del tempo il termine in questione abbia finito con l’identificare tutti quegli studiosi che si erano occupati di linguistica anche prima e al di fuori della scuola Fëanoriana.


Il nome Liltelenio è composto da lilta “danza” o anche “danzare”, dal plurale eleni “stelle” e dal suffisso maschile -o.

Il nome Andúien è composto dal termine andúnë “tramonto”, “ovest”, “sera” e dal suffisso -ien ovvero “figlia”.



Ritorno a voi con un capitolo che nella sua forma originale era alquanto lungo. Ho provato, per quanto possibile, a snellirlo e spero che nonostante il mio lavoro di limatura, lavoro abbastanza invasivo anche se non del tutto efficace (il capitolo resta corposo), sia comunque apprezzabile.

Grazie per aver letto.



   
 
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