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Autore: Winchester_Morgenstern    27/02/2017    0 recensioni
[Shadowhunters - City of Marble's sequel]
— Hai così tanto sangue innocente sulle tue mani, che mi chiedo perché non sei in catene con una sentenza di morte. —
Genere: Dark, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Izzy Lightwood, Magnus Bane, Nuovo personaggio
Note: Lemon, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest
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IV. 
CIAO, FRATELLONE! 
— Jocelyn è in attesa di essere riassegnata. Quel che è certo è che il Consiglio non la vuole indietro all’Istituto di New York, non dopo quello che è successo al piccolo Octavian e soprattutto considerando che aveva avuto la spia sotto il naso tutto il tempo, ma non è mai riuscita a capire che fosse Lucian. Stanno mettendo alla prova la sua sincerità, ho dovuto mandare l’Inquisitore a prendere Mellartach.
Isabelle sospirò. Aveva iniziato quel colloquio a distanza con suo padre da meno di dieci minuti, eppure aveva già più problemi che capelli in testa, e quello era dire tutto.
— Questo non gioca forse a tuo favore? Hai detto di voler essere eletta capo d’Istituto. — le ricordò suo padre, mentre il suo ologramma iniziava a sbiadire e poi ricompariva, più netto di prima.
La Shadowhunter spalancò la bocca, sorpresa: — Non credevo mi appoggiassi. — mormorò, evitando il contatto visivo. Anche se adesso lo vedeva favorevole, probabilmente lo sarebbe stato ancora per poco. Era per questo che aveva pensato di dargli la grande grossa notizia subito dopo la sua nomina ufficiale, qualora ci fosse stata, ma forse avvertirlo in anticipo che non aveva intenzione di andare da nessuna parte l’avrebbe incentivato a buttare l’idea della Spagna nel cestino. 
Robert pareva più stanco di quando l’aveva visto l’ultima volta, forse a causa della paura di essere assassinato a sua volta, o forse perché tentava ancora di arginare la fuga di notizie sugli esperimenti – esperimenti di cui, a quanto sembrava, non era mai stato messo al corrente. 
In ogni caso, lo vide arrotolarsi le maniche della camicia e sospirare: — Anche se non lo pensi, Isabelle, credo di conoscerti almeno un po’. Sei mia figlia, è naturale, e so benissimo che una volta che ti metti in testa qualcosa non mollerai la presa fin quando non sarà tutto come vorrai. — esitò e si appoggiò a qualcosa che lei non poteva vedere: — Spero solo che tu abbia fatto la scelta giusta. 
Wow. Quello era… sorprendentemente giusto, per una persona come suo padre.
— Quindi niente Europa? — domandò, giusto per esserne certa.
— Avrei potuto obbligarti?
La ragazza si morse le labbra: — Be’, in veste di Console… Non che ti stia dando nuove idee, eh. — osservò, abbracciandosi il busto. 
Ci fu qualche attimo di silenzio tra i due, come se entrambi stessero pensando a come mandare avanti la conversazione, poi Robert si schiarì la gola: — Isabelle, c’è… qualcosa che vuoi dirmi? — chiese infine, evidentemente a disagio.
— Forse. In ogni caso, quanti sono favorevoli alla mia elezione? 
— Non troppi, ma non vogliono incontrare il mio sfavore. Se non c’è nessun altro che si propone già da New York, il posto è tuo, soprattutto visto che l’ultima decisione sta a me. Tenendo conto di quanto hanno pressato per riportare Valentine a Idris e tenerlo sotto controllo, e allontanare Jocelyn… Non mi stupirebbe se tentassero di inserire qualche clausola, come un qualche tutore o insegnante che ovviamente non svolgerebbe soltanto quel ruolo.
Isabelle alzò gli occhi al cielo: — Non parlare come se tu non avessi i loro stessi obiettivi. — si lamentò, realizzando dopo che quella era la prima conversazione civile che aveva con suo padre da molto tempo a quella parte.
Quindi, volevano affibbiare loro un burattinaio: non avrebbero osteggiato la sua nomina soltanto perché pensavano di poterla controllare, o almeno questo era quello che si coglieva fra le righe. 
— Hai altro da aggiungere? Devo andare, ho una riunione.
— Certo, tu hai sempre qualcos’altro da fare, piuttosto che passare del tempo con i tuoi figli. — si lasciò sfuggire la Cacciatrice, pentendosene immediatamente. Non era quello che voleva dire, se puntava ad evitare un altro litigio: — Lascia perdere. Come la prenderesti se ti dicessi che Alec e Magnus si sposeranno?
Il Nephilim incrociò le braccia al petto ed inarcò un sopracciglio: — Lo faranno?
— Sto parlando ipoteticamente. Ma sì, sono certa che presto o tardi questo succederà. — rispose, rendendosi conto che la schiettezza ultimamente non era proprio il suo forte. Non che i giochi di parole le venissero bene, ma erano una valida alternativa allo spiattellare la verità nuda e cruda. 
— Non è il momento adatto per perdersi in conversazioni ipotetiche.
— Con quanto ci hai impiegato, avresti potuto benissimo aver già finito di rispondere! Avanti! 
Robert alzò gli occhi al cielo: — Non lo so. Non è esattamente nella mia lista di priorità, al momento. E comunque, è sempre lo stesso discorso. Pur volendolo, non posso impedirlo, se desidero che Alec non mi odi più di quanto non faccia adesso.
— Okay — Isabelle si sedette alla scrivania, quasi credendo che potesse essere utile come scudo contro un’immagine luminescente: — Ho qualcosa di vero da dirti, allora, e sappi che non sono psicologicamente pronta ad una scenata, quindi in quel caso richiuderò la chiamata ancor prima che tu possa finire di pronunciare il mio nome. 
Calò ancora il silenzio. Lo Shadowhunter si umettò le labbra con la lingua, mentre una lista di ipotesi si faceva strada nel suo cervello. Ed ognuna gli piaceva meno della precedente.
Alla fine lasciò scorrere lo sguardo sulla quasi diciannovenne, scartandole velocemente una ad una e rimanendo con le più probabili. 
Chiuse gli occhi ed inspirò profondamente, cercando di scacciare la repulsione che gli stava montando dentro. Poteva non comprendere nessuna delle sue scelte, ma quella era Isabelle: aveva già perso un figlio per non aver accettato le sue azioni, e l’altro praticamente non aveva avuto modo di conoscerlo. 
— Sei incinta — concluse infine, con voce stentorea. Non gli ci vollero altre parole per capire di aver centrato il segno, la faccia di Isabelle parlava da sola. 
— È di Jonathan? 
Ancora una volta, sarebbe bastato lo sguardo indignato di lei a dargli una risposta affermativa, ma ascoltò comunque il resto: — Credi che abbia l’abitudine di dormire in giro con più persone contemporaneamente? 
— Non ho mai detto questo. 
— Era quello che sottintendevi.
— Hai intenzione di tenerlo?
La corvina spalancò le braccia: — Certo, altrimenti perché credi che te l’avrei detto?! 
Robert non si scompose. Meglio, esteriormente non si scompose: — Vuoi sposarlo?
— Cosa?! 
— Jonathan. Lo sposerai? 
Lei lo guardò con tanto d’occhi: — Non lo so, papà! Ho diciannove anni e che diavolo, non siamo più nel ventesimo secolo! 
L’immagine tremolò ancora, ma nessuno dei due avrebbe dimenticato l’espressione dell’altro per molto tempo a venire: — Avrai la tua nomina, Isabelle, ma sposati quello che hai voluto e pedala sulla bicicletta che ti sei scelta, perché da me non avrai altro aiuto. 








— Tu sai dov’è quel bambino.
Il giardino, se tale si poteva definire, era quieto come uno stagno in inverno, come sempre, in realtà. 
Non c’era erba a terra, solo asfalto, fino a quando non si arrivava alle marmoree scale che portavano all’ingresso dell’Istituto, ma quello era un altro discorso. Dopo la battaglia lì avvenuta alcuni mesi prima, nessuno si era davvero preso la briga di rimettere a posto.
Certo, tutto il sangue era stato lavato via e adesso le uniche macchie rosse che si potevano scorgere erano quelle dei fiori nelle aiuole, ma oltre al loro colore di essi colpiva anche un’altra cosa: erano, come dire, spiegazzati. 
Ian non li avrebbe definiti calpestati nel vero senso della parola, perché più che da piedi erano stati investiti da interi corpi, difendendosi solo con delle misere spine.
In ogni caso, anche quelli che non erano stati il luogo di atterraggio di qualche povero malcapitato, non avevano un bell’aspetto. Forse perché ormai soltanto la pioggia provvedeva al loro bisogno di acqua, o forse perché il sole intenso li stava facendo avvizzire più velocemente del normale, ma magari per tutte e due le cose.
I boccioli, così belli e piacevoli ai sensi, stavano morendo per qualcosa di altrettanto positivo e anelato, la luce. Non era assurdo, era più che altro una sorta di implicita e perversa lezione. 
La bellezza, dopotutto, era effimera quanto - se non maggiormente - dei delicati petali, ma non soltanto; per mantenersi, infatti, aveva bisogno di maggior sacrificio e dedizione di quanto un fiore avrebbe mai necessitato. Molto spesso, dietro tutto quel fascino, quel carisma posseduto da persone che ammaliavano al punto da diventare il centro del sistema solare, il sole, veniva posseduto a caro prezzo. Al prezzo del sangue e dell’orrore, e così il ciclo si ripeteva e la persona era sia distruttrice che vittima. 
Ian questo lo sapeva bene, anzi, probabilmente ne era cosciente più di chiunque altro degli abitanti di quella cittadella. L’aveva, no, lo provava sulla sua pelle, in effetti. 
— Che cosa? — chiese, come scendendo dalle nuvole. Non cercava di discolparsi, era semplicemente così assorto nella sua riflessione da aver perso di vista tutto il resto.
— Ho detto, tu sai dove hanno portato Octavian. E tutti gli altri, se è per questo. — ripeté Jonathan, appoggiandosi ad una delle panchine di ferro battuto. Una parte di lui credeva di riuscire ancora a sentire il sangue dei morti che era schizzato sul metallo e, in verità, questo non lo disgustava particolarmente. Era un odore familiare, come potevano esserlo le braccia di una madre per un bambino. Non era forse stato il suo più vecchio compagno di vita, il sangue? Ne aveva imbrattate le mani da che avesse memoria. 
— Vengo dal futuro. È ovvio che io sappia tanto. Ti tiene sveglio la notte? 
— Cosa? 
— La sorte di quei bambini.
Lo Shadowhunter aggrottò la fronte: — Non particolarmente, non più di altro. In ogni caso, so che non moriranno.
Il maggiore si accigliò, distogliendo lo sguardo dalla piccola fontana sbeccata che divideva i cespugli dalla panchina e posandolo sul padre: — Come puoi esserne certo? 
— Riesco a dormire con degli innocenti sulla coscienza, ma non credo che tu lo faccia. C’è qualcos’altro che deve succedere, qualcosa che sai cambierà la vita di qualcuno. È fin troppo generico, vero? Non li lascerai al loro destino, stai tentando di incoraggiarlo.
Dopo un attimo di silenzio l’ibrido estrasse una sigaretta dal pacchetto che teneva nella tasca destra dei jeans, e l’accese con l’accendino che aveva nella sinistra. Prese il primo tiro e poi soffiò fuori il fumo eccedente, sorridendo: — Hai un’alta opinione di me. 
— Non alta. Solo accurata.
— Davvero? Cosa te lo fa dire? 
Jonathan si sarebbe giustificato con una frase simile a “Prendila come una sensazione”, ma non era vero. Non si trattava né di un sesto senso né di uno strano aggrovigliarsi delle viscere, non che negli ultimi tempi non avesse avuto modo di sperimentare quelle sensazioni, però erano del tutto secondarie ed insignificanti.
— Un insieme dei tuoi comportamenti, suppongo. — disse infine, arricciando il naso alla puzza penetrante della nicotina: — Non penso che partecipare ad un funerale in più o in meno ti turberebbe al punto da segnarti, ma hai… una sorta di linea di condotta? O un ponte che non puoi attraversare, vedila come vuoi.
Un codice. Quella era la definizione propria secondo Ian, almeno. 
Aveva diciotto anni.
Quell’età, come per molti altri, era stata densa di tanti, se non troppi, cambiamenti. Era portato a credere, comunque, che questi fossero del tutto diversi da quelli dei suoi coetanei. 

— Hai ucciso il Re — Christopher si era lasciato cadere accanto a lui sul divanetto di pelle grigia, e sembrava del tutto a suo agio.
Considerando ciò che era accaduto alcuni giorni prima, alla fine, aveva tutto il diritto di apparire rilassato. Dopo una cosa del genere, nulla poteva più essere così spaventosa – e poi, Ian era lieto di constatare che, sebbene la sua riservatezza non accennasse ad andare via, la timidezza era invece svanita quasi del tutto. Okay, no. Ma almeno in famiglia facevano progressi.

— Quindi? — chiese in risposta, osservandolo: nessuno avrebbe potuto negare la loro parentela, erano così simili che, se Christopher non fosse stato lievemente più giovane, avrebbero potuto pensare che Ian fosse il terzo gemello, assieme a Regina. L’unica differenza fra loro due era che, a suo tempo, Ian era stato costretto ad uscire fuori dal guscio. Aveva la stessa età di suo fratello quando l’avevano sbattuto a forza fuori dalla sua zona comfort. 
— Dovresti scegliere un titolo. — rispose semplicemente il più piccolo, stiracchiandosi: — Mi piace Bucarest, è un bel posto. Si sta bene. Era in previsione di questo che ci hai fatto studiare il rumeno? 
— Ovviamente. E sei qui per suggerirmene uno? — continuò Ian, domandandosi se fosse davvero quello il motore che spingeva avanti la discussione. 
— Sì — Christopher si rimirò le unghie per qualche attimo, perso in pensieri che l’altro non riusciva a decifrare – né voleva farlo, del resto.
— Allora? 

— Che ne pensi di Princeps? 
Il maggiore dischiuse le labbra e si raddrizzò meglio sulla poltrona, voltandosi per poter guardare l’altro negli occhi: — Come Augusto? 
— Già. Significa “primo fra pari”, no? Non credo che quella marmaglia di sbandati possa essere definita pari, però manda un bel messaggio.
— Non è proprio primo fra pari. È più come primo cittadino e basta, primo fra le genti, al massimo. La tua traduzione va bene, ma è fatta spesso quando ci trovi vicino
senatus. Princeps senatus. 
Christopher alzò gli occhi al cielo: — Hai capito che intendo. È ancora meglio, non trovi? 
— Non lo so. Non mi piacciono i titoli e basta. Sono troppo pomposi.
— Andiamo, a tutti farebbe piacere qualcuno che in modo ossequioso chiede “C’è qualcosa che posso fare per lei, Princeps?”
Ian rise e, senza potersi trattenere, gli scompigliò i capelli: — Hai ragione. È solo questo che volevi dirmi? 

Il quattordicenne si alzò e scrollò le spalle, per poi raggiungere la porta. Prima di varcare la soglia, però, si volse: — Stai facendo tutto questo per sistemare la situazione, Ian. Così speri. Così speriamo tutti, in realtà. Non dimenticartelo, c’è una linea sottilissima che divide te e l’uomo di cui hai preso il posto. Non vorrei essere nei tuoi panni. — sbuffò, irritato con se stesso: — Non ti sto facendo la predica, dico solo di non spingerti al punto da rimpiangere quello che stai facendo. Abbi un codice. 
Parve aver concluso, perché era già arrivato nel corridoio, ma si ricredette ancora: — Ah, Ian?
— Sì?
— Buona fortuna. Sai per cosa. 

Il ventiquattrenne si riscosse soltanto quando avvertì lo sguardo di Jonathan ben fisso su di lui: — Non sei nel torto, ma per forza di cose stai tralasciando parecchi fattori importanti — si costrinse a dire infine, soppesando ogni parola e pronunciandole tutte come se gli venissero strappate a forza. 
Lasciò andare fuori ancora una boccata di fumo e per nessun motivo particolare la guardò fin quando questa non si disperse nell’aria, alzando poi gli occhi verso il cielo.
C’era qualcosa che non andava con il meteo, ultimamente.
In quel momento la temperatura era altissima, abbastanza da fargli venire voglia di strapparsi la maglietta di dosso e buttarsi in acqua – peccato che lì non ci fosse nessun posto dove nuotare.
Altre volte, però, l’azzurro brillante che ora svettava sopra di loro s’incupiva fino a rasentare il colore dell’inchiostro, anche di prima mattina. La temperatura calava, o diveniva afosa, oppure improvvise raffiche di vento scuotevano le cime degli alberi.
Non sembrava qualcosa di naturale, ma Ian non ne sapeva nulla. Era già stato difficile arrivare a mettere le mani sulle informazioni che aveva, dal futuro, figurarsi se si era preoccupato delle condizioni atmosferiche.
Evidentemente, aveva fatto un grosso sbaglio, o quello era l’ennesimo squilibrio provocato dalla sua presenza lì. Ma da chi? 
— Quindi suppongo che ci lascerai tutti a brancolare nel buio. Proprio una bella cosa. — borbottò Jonathan. Aveva le informazioni che gli servivano per riuscire a risolvere quel rompicapo a portata di mano, ma sapeva che non sarebbe riuscito a scucire ad Ian nemmeno una parola di bocca, e la tortura non era un’opzione praticabile.
— Certe volte ti tirerei un pugno in faccia — si lamentò quindi, alzando il capo quando, quasi improvvisamente, una cappa scura sembrò avvolgerli. Grossi nuvoloni scuri e carichi di pioggia si erano fatti inesorabilmente strada verso di loro, e non sembravano presagire nulla di buono.
Ian scrollò le spalle con quella che l’altro poté solo categorizzare come un’irritante faccia da schiaffi, per poi spegnere il mozzicone sotto la suola dei suoi anfibi: — Allenamento a porte chiuse? — propose, voltandosi verso l’ingresso dell’Istituto.
— Paura che gli altri ti vedano perdere?
L’ibrido rise: — Nah, voglio soltanto salvare il tuo povero orgoglio che sarà presto ferito, sai, per esserti fatto stendere. 






Tra tutto ciò che avrebbe potuto accadere, quello era esattamente ciò che aveva cercato di evitare.
— È sedato, mia signora — azzardò un ibrido, accennando col mento al ragazzo accasciato malamente in un angolo della cella, le braccia tenute su da un paio di strette manette.
All’inizio, quando le avevano riferito della cattura di Ian Morgenstern, non aveva potuto non esultare, ed ordinare che venisse portato nel passato. Certo non era la mossa migliore, considerata la presenza di Melchizedeck, ma anche se avesse scoperto l’inganno lei ne sarebbe uscita pulita: si sarebbe giustificata definendo l’omicidio una sorta di offerta o dono per lui, una sorpresa. 
A giudicare dalla psiche perversa di quel pazzo, non solo ci avrebbe creduto, ma ne sarebbe anche stato felice.
— Questa non è la persona che stavamo cercando! — ringhiò, schiaffeggiando il servo davanti a lei con forza tale da voltargli il viso. Bene. 
Avevano messo su una pantomima niente male, i Morgenstern. Nessuno se n’era accorto fino a quando non era… be’, fino a quando non era stato troppo tardi. 
Supponeva non fosse stato difficile far passare un fratello per un altro, considerato quanto si assomigliavano.
Ma il problema non era l’aver incarcerato il ragazzo sbagliato, no… Se loro erano caduto in errore, e se il posto di Ian era stato preso da suo fratello, lui dov’era?
Era lì, ovviamente. Si era unito alla banda di viaggiatori temporali, per quel che ne sapeva, e loro dovevano muoversi e agire prendendo in considerazione sempre la peggiore delle ipotesi. 
E se fosse venuto a sapere di quello che avevano fatto… Dovevano spostarsi in fretta. Cambiare scacchiera, trasferire le pedine. 
— Va’ a chiedere udienza a Melchizedeck. Di’ che è una questione di vita o di morte. — si decise infine, praticamente cacciando l’uomo dalla stanza. 
Prese un profondo respiro e si portò le mani alle tempie, massaggiandosele con delicatezza.
Se quel che temeva era accaduto, presto non ci sarebbe stata più pace fra loro. Nel caso in cui la loro cattura fosse stata una persona qualunque, certo… Ian non avrebbe avuto modo di sapere che qualcuno dal suo presente era stato portato indietro.
Sfortunatamente, avevano preso qualcuno che viaggiava sempre in coppia, come un’offerta due al prezzo di uno. E quindi aveva appena scatenato un effetto valanga di proporzioni gigantesche, e per sfuggirgli doveva mobilitare un’enorme massa di esperimenti non del tutto senzienti, i soldati, le spie e quei pochi membri della famiglia che ancora restavano in piedi, e trasformare quel posto in una città fantasma. 
Non solo questo rallentava enormemente i suoi piani, ma faceva lo stesso anche con quelli di Melchizedeck, e sapeva che sarebbe stata lei a pagare per l’accaduto. 








Isabelle si ritrasse con una risatina, rabbrividendo a causa dei baci che Jonathan le stava posando sulla spalla.
— Smettila! — si lamentò, sorridendo: — Sai che devo andare! Lascia che mi prepari, dai. 
Il Nephilim alzò gli occhi al cielo, procedendo poi a liberarla dall’intrico di lenzuola con cui si era volutamente coperta: — Isabelle, l’incontro è dopo pranzo, e sono le otto del mattino.
— Ma devo andare ad Alicante!
— E ci devi arrivare a nuoto, corsia preferenziale America-Europa? — continuò a prenderla in giro il ragazzo, piegando le labbra in un broncio esagerato. Batté una mano sul materasso accanto a sé, invitandola a sdraiarsi di nuovo: — Il sole splende, gli uccellini cantano, Ian è con Ian, e sì so perfettamente quanto questa frase suoni assurda, e tu non hai nulla da fare per almeno un paio d’ore. Non è come se ci fosse la ressa per prendere in mano le redini di questa banda di pazzi. — 
Con un sospiro, Isabelle si sdraiò di nuovo: per quanto provasse a dimenticarlo, l’ansia per quel colloquio le attanagliava le viscere. Non soltanto perché, volente o nolente, ne andava della sua carriera, ma perché anche tutti gli altri dipendevano da lei, in quel momento. Se non fosse stata scelta, avrebbero mandato qualcuno di esterno, e loro stavano mantenendo troppi segreti, era più che ovvio che prima o poi qualcuno di essi sarebbe saltato fuori, specie se il Consiglio sceglieva qualche bravo ficcanaso che avrebbe riportato loro tutto. E ancora…
— Dovremmo parlarne meglio, sai… Dei… dei, insomma, dei bambini. Definire roba. — borbottò, poggiando la testa sul suo stomaco. Non era comodo quanto il cuscino, ma dato che quello non lo trovava, si sarebbe fatta bastare ciò che aveva a disposizione. 
— Definire roba — le fece il verso Jonathan: — Certo che lo so. Ma non credi di avere fin troppi pensieri per la testa, al momento? Fa’ quello che devi fare, e poi definiremo tutto quello che vuoi. — propose, iniziando ad accarezzarle i capelli. Aveva le dita leggere, e con esse percorse la sua mascella ed il suo collo, scese fino al petto e più giù, ed infine la tirò su in modo che fossero alla stessa altezza, fronte contro fronte.
Isabelle sospirò per l’ennesima volta da quando si era svegliata - ovvero nemmeno un’ora prima - ed annuì, facendo del suo meglio per rilassarsi. Gli sorrise e si sistemò meglio, sedendosi sopra il suo bacino. 
Si sporse verso di lui: sembrava quasi che stesse per prendere d’assalto le sue labbra, ma alla fine si fermò accanto al suo orecchio. Per un attimo fece saettare la lingua, sogghignando: — Non osare ribaltare le posizioni. Giuro che se lo fai ti butto giù dal letto. 
— Tremo! 
La Nephilim lo guardò per un attimo da sotto le lunghe ciglia, muovendosi su di lui come se si stesse stiracchiando, poi trattenne una risata e ritirò prima una gamba e poi l’altra, affrettandosi verso l’angolo più lontano del letto.
Si fermò soltanto quando, precipitosamente, quasi cadde a terra: — Be’? — chiese, inarcando un sopracciglio con aria di sufficienza: — Che stai aspettando? Vieni a prendermi, no? 
Non aveva nemmeno finito di parlare che già era in piedi, e ciondolava svagatamente mantenendosi con una mano ad una delle colonne del baldacchino. Il momento non durò molto, però, perché subito dopo Jonathan scattò verso di lei, costringendola ad arretrare verso la porta del bagno.
Sgusciò via all’ultimo minuto, quando ormai erano a meno di venti centimetri di distanza, ridendo: — È questo il meglio che riesci a fare? — lo canzonò, scappando in direzione dell’unico rifugio rimasto, ovvero sotto il letto. 
Ne uscì altrettanto velocemente, però, per evitare di venire artigliata per le caviglie.
La sua intenzione, be’… Avrebbe voluto prenderlo di sorpresa e buttarsi su di lui in modo da riuscire poi a darsela a gambe, ma non prese in considerazione la forza con cui lui la tenne stretta subito dopo essere riuscito a stringerla in una sorta di strambo abbraccio.
Rotolarono entrambi a terra, infagottandosi nel grosso tappeto bianco. 
— Forse dovremmo farlo sul letto. Sai, per dare il buongiorno ai due colombi che ieri notte si sono dimenticati di disegnare una dannata runa del silenzio. — propose la corvina. 
Un attimo dopo qualcosa di umido e caldo le accarezzava la pelle: riusciva a sentire l’interno delle labbra di Jonathan che scorrevano lungo la sua schiena, la sua lingua che le lambiva le anche: — O forse no — concluse, mentre le mani di lui s’insinuavano più sotto, soltanto per prenderla di peso e capovolgere le posizioni: era lei ad essere di nuovo sopra, adesso. 
Si rese conto che c’era qualcosa che non andava solo quando una strana puzza di bruciato invase l’aria, ovvero all’accumularsi del quarto messaggio di fuoco sul pavimento. 
— ‘Fanculo — borbottò tra i denti l’albino, per poi prendere un profondo respiro, raddrizzarsi e andare a vedere chi era il barbaro che pretendeva una risposta a quell’ora incivile del mattino. 
Quando finalmente lesse le missive, tutte più o meno uguali e vergate in caratteri eleganti, molto simili a quelli stampati, sbuffò platealmente: — Iz, cambio di piani.
— Cosa? — Isabelle aggrottò la fronte e si rimise in piedi, mentre un brutto presentimento si faceva strada in lei.
— Hanno spostato l’orario. Contro tutti i pronostici, ci sono parecchi idioti che vogliono prendere la direzione di questo posto. L’incontro è fissato tra due ore, il Portale lo apriranno qui tra una e mezza. 
Non aveva nemmeno finito di parlare che la ragazza già era corsa verso l’armadio, aveva recuperato qualcosa da esso e si era tuffata per la seconda volta in nemmeno trenta minuti verso il bagno: — Prendi i fogli sulla scrivania e mettili sul comodino, vicino alla mia frusta! — si sentì urlare dietro. 
— Certo, certo. — mormorò lui tra sé e sé, chiedendosi in quale momento esattamente avesse smesso di pensare a come fare le scarpe a tutti lì dentro ed uccidere suo padre, e incominciato a preoccuparsi realmente per le persone con cui viveva da quasi un anno. 
Era stato così graduale che voltarsi indietro e ricordarsi quel che c’era prima era scioccante, come se qualcuno gli avesse improvvisamente tolto la terra da sotto ai piedi. 
Fece come gli era stato detto, si lavò a sua volta cercando di non prestare attenzione ad una Cacciatrice molto nuda intenta a prepararsi davanti allo specchio e si vestì. 
Alla fine, gettò un’occhiata all’orologio sulla parete e calcolò in fretta che Isabelle non sarebbe uscita dal suo rifugio per almeno un’altra mezz’ora, quindi le uniche cose che poteva fare erano tentare di preparare qualcosa di decente da mangiare o andare a svegliare Ian, e visto che lui e i fornelli non andavano proprio d’accordo, decise per la seconda.
In realtà, da quando sia Maryse che Jocelyn erano per ovvi motivi scomparse dalla circolazione e Valentine le aveva poco dopo seguite, i pasti lì dentro erano qualcosa di infernale. Specie perché avevano concordato di cucinare a turno, e perciò molte volte finivano con l’andare a pranzo fuori. Taki’s probabilmente sarebbe stato capace di pagarsi l’affitto anche solo con i loro conti. 
Ma Ian non era difficile da accontentare, almeno al mattino: tutto quello che doveva fare era recuperare dei biscotti e mettere a bollire il latte. Più facile a dirsi che a farsi, visto che l’unica cosa che riusciva a fare era bruciarlo - e il suo caro, carissimo figlioletto lo detestava freddo. 
Perché mai l’aveva abituato alla colazione europea e non ai cari e vecchi cereali americani? Ah, già. Gli Stati Uniti erano una novità anche per lui. 
— Ehi. — disse un attimo dopo, prima ancora di alzare lo sguardo ed osservare il corridoio. Era naturalmente abituato a tenere sempre conto dei rumori intorno a lui, specie dei passi, ma quando si trattava di sua sorella in particolare modo.
Non perché avesse una qualche sorta di predilezione - in realtà, tendevano ad evitarsi per quanto possibile da quando era saltato fuori l’increscioso episodio del bacio a Idris - per lei, bensì poiché la runa che condividevano si accendeva metaforicamente ogni volta che si trovavano ad una certa distanza.
— Buongiorno — si sentì rispondere, e subito dopo Clary sbadigliò: — Dove stai andando? 
Fece spallucce: — Ian. Ti va di fare la protagonista di Hell’s Kitchen, oggi? 
Da quel momento in poi, be’… Quel che c’era di positivo era che tutti avevano imparato una lezione che non avrebbero dimenticato mai: bambini affamati, cuochi inetti e ingredienti vari in bella vista non andavano d’accordo. Per niente. 
E ovviamente, fu ancor più difficile ripulire il tutto prima che Isabelle facesse la sua comparsa, per non rischiare che desse di matto per colpa di un po’ - tanta - farina sul pavimento. Dannata Clarissa e la sua brillante idea di fare i pancake. 
— Sai, dovremmo iniziare ad insegnargli a leggere, almeno. Prima era Hodge che si sarebbe occupato di queste cose, ma visto che fino ad ora non c’era stato nessun bambino… — La rossa distolse per un attimo l’attenzione dal biscotto al cioccolato che stava divorando: — Suppongo sia meglio iniziare ad organizzarci tra noi piuttosto che aspettare che il Conclave mandi qualcuno. O che pretendano di portare Ian lì per tenerlo sotto controllo. 
Non era un’idea malvagia: certo era troppo presto per pensare di iniziare suo figlio all’arte della guerra - specie perché doveva ancora convincerlo che no, la maggior parte delle altre armi non ferivano come le fruste di elettro, o almeno non danneggiavano chi le impugnava -, ma non aveva senso aspettare ancora per illustrargli l’alfabeto. 
— Ovviamente — rispose infine, osservando suo figlio beatamente impegnato ad affogare delle stelline al cacao nella sua scodella di latte: — Potresti chiedere all’angioletto di mostrargli le note del pianoforte. 
Clary inarcò un sopracciglio: — Potrei? Tu la lingua non ce l’hai? 
Per tutta risposta, Jonathan sbuffò e le volse le spalle, iniziando a lavare la sua tazza piuttosto che rispondere.
— Andiamo, ultimamente parlate anche civilmente. Lo so che sotto sotto ti sta simpatico! 
— Non è quello il punto! — sibilò, irritato. Semplicemente odiava il fatto che ci fosse qualcosa che Jace sapesse fare e lui no, visto che mentre il caro fratellino imparava a suonare il piano lui doveva fare altro. 
Va bene, va bene! Oh, ciao, Iz. Cereali o biscotti? 
Isabelle alzò lo sguardo, rivolgendole un cenno del capo: — Nessuno dei due, grazie. Potrei vomitare anche il mio stomaco, per quanto sono nervosa. 
Clary aggrottò la fronte, cercando di fare mente locale. Non aveva avuto modo di interessarsi molto di quello che stava accadendo agli altri, semplicemente perché aveva passato le sue giornate a discutere con il tuttofare - ufficialmente mediatore, ma tutti sapevano leggere tra le righe - del nuovo Inquisitore, tentando di scucirgli qualche informazione in più su dove sua madre sarebbe stata portata. 
Erano mesi ormai che passava attraverso una trafila infinita di processi, e fino ad ora l’unica cosa che sapeva era che non sarebbe stata condannata né alle carceri di Idris né alla Città di Ossa per mancanza di vere prove d’accusa, nonostante parecchi membri del Consiglio avessero tentato qualunque espediente per ottenere il verdetto più duro. Per quel che ne sapeva, era ancora ad Alicante, in attesa di essere riassegnata ad un Istituto molto molto lontano da New York. 
— Oh! È per il colloquio, vero? — esclamò infine, ricordandosi all’ultimo secondo che Jace le aveva parlato di qualcosa di simile, la sera prima: — Izzy, non… non vorrei aggiungere più carne sul fuoco, ma nel caso in cui ti ritrovassi a parlare da sola con tuo padre, potresti chiedergli che cosa hanno intenzione di fare con mia mamma? 
La Cacciatrice annuì con aria assente, per poi voltarsi verso Jonathan: — Quanto manca? 
— Meno di cinque minuti. Ancora non capisco perché vengano perfino a prenderti, ma in ogni caso, non è questo il punto. Rilassati, non stai per essere processata; e te lo dice uno che è stato davvero interrogato con Mellartach. — provò a rassicurarla Jonathan, con ovvi quanto scarsi risultati. 
— No, ma hai detto tu che improvvisamente c’è una marmaglia di gente con un interesse anomalo per questo posto. E sai com’è, dopo gli ultimi avvenimenti non credo che vogliano venire ad ammirare la tappezzeria — borbottò lei tra i denti, lasciando visibilmente scivolare lo sguardo su Ian. 
Il mezzo demone serrò le labbra e le si avvicinò, sotto lo sguardo incuriosito della sorella, e poi si sporse per sussurrarle in un orecchio: — Sai che ci avrebbe avvertito se stesse per accadere qualcosa di serio. E in ogni caso, troveremmo il modo di uscirne fuori. 
— Come, facendo una bella cenetta tutti insieme?! 
— Pensavo a qualcosa di più drastico, in realtà. 
— Sì, così dopo dovremmo nasconderci sotto un sasso. 
Jonathan la guardò allusivamente da sotto le ciglia: — Fidati di me, quella sarebbe l’unica cosa di cui non avremmo da preoccuparci. 
— Continuo a non sentirmi sollevata. — Isabelle si staccò da lui per picchiettare delicatamente sulla spalla di Ian: — Ci vediamo dopo, puffetto.
Il bambino mise su lo stesso broncio che usava sempre ogni volta che si sentiva chiamare così: — Io non sono blu! E nemmeno piccolo! 
La corvina rise: — Certo, certo. — Gli posò un baso sulla fronte e si tirò su, lisciando l’abito per cancellare delle pieghe invisibili e dirigendosi infine verso la biblioteca, dove suo padre le aveva detto che avrebbe aperto il Portale.
Sentì Clary chiedere a Jonathan di cosa avevano confabulato fino a mezzo secondo prima, lui risponderle di badare per un attimo a Ian e dopo i suoi passi che si avvicinavano. 
— Stendili tutti, tigre — le disse ridacchiando e sporgendosi per darle un bacio leggero, mentre una luce azzurrina incominciava ad illuminare la stanza e la sagoma di Robert Lightwood si delineava nel varco appena creatosi.
— Mondanofilo! — Praticamente gli urlò dietro, spingendo allo stesso tempo il nuovo arrivato di nuovo verso il passaggio. Meglio evitare un incontro potenzialmente disastroso tra quei due. 
Quando il muro si richiuse del tutto, Jonathan si stiracchiò per bene: quella giornata era appena cominciata e già non si prospettava delle più leggere. 
— Clary mi ha convinto a partecipare al progetto ABC. — esordì Ian pienamente cresciuto, entrando nella stanza con al seguito sia il clone formato petit che la stessa Nephilim. 
— Progetto ABC?
— Volevo chiamarlo Insegniamo a Leggere ad Ian, ma dice che è troppo lungo — spiegò il ragazzo, sogghignando divertito. 
— Perché lo è! — protestò immediatamente lei, facendolo arrivare a ridacchiare. 
— Papà, la mamma ha dimenticato qualcosa — Jonathan spostò lo sguardo su suo figlio, che veniva trotterellando verso di lui.
— Dovevi darle un disegno? — chiese. 
— No, ma sta tornando indietro. — rispose pazientemente il bambino, come se stesse cercando di spiegare a far di conto ad un babbuino: — Guarda! — esclamò, puntando il dito verso la parete. 
C’era davvero qualcosa che non andava. La carta da parati si stava dissolvendo di nuovo, quasi liquefacendosi in quello che sembrava fumo biancastro, come se qualcuno avesse gettato secchiate di acqua calda su del ghiaccio secco. 
Piccolo problema: la persona che stava uscendo da lì non era Isabelle, proprio per niente. 
Jonathan non ci avrebbe messo la mano sul fuoco, vista la spessa nebbia che ancora circondava il nuovo arrivato, ma era portato a pensare che si trattasse di un ragazzo piuttosto alto, magro come un fuscello e, per quanto potesse sembrare assurdo, in pigiama. 
Quando finalmente riuscì a vederlo meglio sussultò.
Lo sconosciuto, dai tratti e i colori chiaramente inconfondibili, si voltò verso Ian adulto e sorrise a labbra serrate. Sembrava essere appena riemerso dall’inferno. 
— Ciao, fratellone!
 
   
 
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