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Autore: Zenya Shiroyume    28/02/2017    12 recensioni
Si dice che ogni anno l'Inverno esaudisca i desideri di qualche fortunato individuo nel mondo, ma Len questo non lo sapeva. Non credeva a certe leggende, la sua mente era fin troppo razionale per credere a tali sciocchezze, ma quando lui apparve, non poté obiettare.
La sua vita stava andando a rotoli, la relazione con la madre stava degenerando a causa di una malattia che li stava allontanando, ma quando Lui apparve, Len sentì che non tutto andava poi così male.
Dal capitolo 2:
Un ragazzo dalla pelle quasi bianca e i capelli rossi, con in testa un secchiello da mare e un rastrello di plastica a fargli da mano destra non poteva essere reale. Poteva essere l’invenzione di uno scrittore, di un mangaka o di chiunque altro avesse una fervida immaginazione, ma Len sapeva di non avere chissà quale spiccata vena artistica da poter creare un personaggio particolare come Fukase. Eppure, quello stesso Fukase pareva conoscere Len molto più di quanto lui avesse fatto intendere dopo quella sua figuraccia, in cui il suo sedere era rimasto per quasi troppo tempo nella neve fresca.
accenni di LenxFukase
Genere: Fluff, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Fukase, Gakupo Kamui, Kaito Shion, Len Kagamine
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Snowman pt.1 html

Disclaimer: la storia è ispirata alla canzone Snowman di Kaito Shion e sarà una storia dalle poche pretese. Sebbene abbia inserito nelle note il tipo di coppia Shounen-ai, ciò che toccherà quella tematica sarà estremamente leggera; inoltre, per tematiche delicate, intendo parlare di di problematiche famigliari e solitudine, che portano le persone a isolarsi e aver bisogno di aiuto, di qualsiasi tipo esso sia. La storia vuole essere una cosa abbastanza leggera, niente che possa avvicinarsi a trattati sulla psicologia o altro, perché dopotutto si scrive per esprimere le proprie emozioni u.u
Ricordo a chi passasse a leggere causa link di spam che i personaggi sono OOC e non è necessaria alcuna conoscenza della canzone da cui il tutto ha preso spunto. Buona lettura!

Snowy Night – First


I suoi occhi fissavano i leggeri fiocchi di neve che volteggiavano in quel cielo stellato, attorno a sé il candore di una notte di dicembre.
Seduto su quella panchina, il bianco ricopriva ogni cosa sotto a cumuli di soffici cristalli, molti dei quali rilucevano al bagliore dell’unico lampione ad olio acceso, forse l’ultimo retaggio del secolo scorso rimasto intatto in quel paesino. In mezzo alla piazza circolare, il ragazzo sedeva avvolto nella sua giacca gialla, la condensa che saliva al cielo stellato da quelle labbra socchiuse e le guance che si tingevano di quel rossore tipico del freddo pungente. Se ne stava rannicchiato con le mani in tasca a giocherellare con qualche cianfrusaglia raccolta per strada, qualche monetina e forse un pezzetto di carta. Alla fine, non faceva nemmeno caso al lento movimento delle sue dita infreddolite e avvolte in morbidi guanti.
Il vento soffiava leggero smuovendo quegli arruffati capelli biondi che sfuggivano al cappello di lana rossa faticosamente calcato sulla testa, mentre i fiocchi di neve si poggiavano sulle sue spalle incurvate. Davanti a sé il nulla, solo il bianco e una solitudine quasi opprimente: nelle orecchie, quel silenzio era quasi assordante, come fosse in grado di sentire ogni cristallo toccare il suolo e tintinnare come bicchieri di vetro durante un brindisi.
Len non sarebbe dovuto essere lì a quell’ora, ma da un paio di mesi a quella parte continuava a sedersi su quella panchina, da quando finivano le lezioni fino a quando tutti se ne tornavano nelle proprie case, che fossero studenti, bambini o lavoratori.
Non faceva nulla di particolare, se ne stava semplicemente seduto là sopra a rimuginare e a guardarsi intorno, mentre tutta la gente del suo paesino dormiva profondamente, ignara della sua presenza ormai costante nel freddo della notte. Non aveva molti motivi per ritrovarsi a sedere in un posto del genere dopo oltre la mezzanotte, nemmeno i ragazzi più grandi passavano tanto tempo fuori, ma a lui non importava: non era importante il giudizio delle altre persone, non era necessario dar peso a quelle parole che però venivano pronunciate proprio per ferire quel povero ragazzo.
«Sono un buono a nulla…» ripeté, le parole accompagnate da una leggera nuvola di condensa che investì qualche fiocco di neve, sciogliendolo all’istante di fronte agli occhi di Len. Il ragazzino si morse le labbra per non dire altro, sentì i denti sulla sua carne e un dolore molto più forte di quello che si aspettava: il freddo aveva preso il sopravvento sul suo corpo, ogni movimento pareva fin troppo macchinoso e pungente per essere compiuto, perciò Len preferiva rimanere immobile con lo sguardo che ogni tanto si alzava alle stelle e poi di nuovo sulla neve che imbiancava le strade.
«La mamma è ancora arrabbiata, ma non ho la forza di fare del mio meglio… Voglio aiutarla…»
Il ragazzo si lasciò andare in un sospiro, la sua mente che lottava per non pensare a tutte le brutte cose che gli stavano capitando in quei giorni, a come tutto quello che si era costruito a scuola e con gli amici fosse stato spazzato via e nascosto dalla neve, che in quel momento era l’unica cosa a tenergli compagnia. Dolcemente, questa danzava davanti ai suoi occhi azzurri e lui desiderò che la sua vita potesse essere come quella di quei fiocchi, senza nessuna preoccupazione o problema. Ma ovviamente non poteva essere così.
Non sarebbe dovuto essere là, a quattordici anni non poteva permettersi di stare fuori così tanto a lungo, quando anche gli stessi adulti dormivano già tra le braccia di Morfeo. Eppure Len era ancora là, al freddo e solo con i suoi pensieri.
«Non voglio tornare a casa…» mormorò, il gelo ormai penetrato nelle sue ossa e nella sua carne, ma sapere che il giorno dopo tutto sarebbe ricominciato da capo lo rendeva nervoso, frustrato: l’indomani mattina sarebbe dovuto andare a scuola e tutto sarebbe ricominciato, con quei suoi silenzi imbarazzanti di fronte ai professori, quella sua poca voglia di impegnarsi e quella sua apatia che non riusciva a scrollarsi di dosso; la sua mente non era affatto pronta a mettersi d’impegno su qualcosa che non ritenesse importante, c’erano tanti altri pensieri ad affollare la sua testa e i compiti non erano uno di questi. Nemmeno gli amici erano più una sua priorità, perché aveva l’impressione che non riuscissero a capirlo, come se le sue parole e il suo bisogno di aiuto venissero perennemente ignorati. Tutte le cose che di solito lo interessavano, le materie scolastiche, la musica, l’arte, parevano aver perso quell’importanza che lui aveva sempre dato loro, sostituite e oppresse da un senso di inutilità che non voleva accettare, ma che ormai aveva lasciato correre, perché troppo pressante per poter essere messa da parte.
Il ragazzo portò nuovamente lo sguardo al cielo punteggiato di stelle e fiocchi di neve, per poi andare con la mente alla malattia che affliggeva la madre: per quello che gli era stato detto dalla donna, era qualcosa che riguardava i polmoni, ma lei non si era mai voluta sbilanciare, forse con l’intento di non far preoccupare il suo piccolo Len e lasciare che il giovane si concentrasse sugli studi senza penarsi per lei.
Infatti, la madre era sempre stata una donna forte, di quelle in grado di spronare chiunque a dare il meglio di sé e Len non faceva eccezione: renderla fiera era la cosa che più lo rendeva felice, gli dava quella carica necessaria per mettersi d’impegno in ogni cosa volesse fare, che fosse lo studio o lo sport; anche fare amicizia e crearsi quella cerchia di persone fidate era stato possibile solo con il supporto di quella donna che, nonostante la perdita del marito, non si era mai data per vinta e aveva continuato a vivere, un po’ forse per l’amato ormai scomparso, un po’ per essere la roccia che potesse sostenere il suo unico figlio. Eppure, in quei mesi quella donna che Len credeva immutabile nella sua forza era cambiata, aveva assunto un atteggiamento molto più pessimistico nei confronti stessi della vita: non aveva mai perso la voglia di vivere nemmeno quando il marito era passato a miglior vita e aveva continuato ad essere un punto fermo per il figlio, ma Len aveva notato il suo cambiamento. Non sembrava più importarle di apparire bella e gentile con tutti, era diventata scorbutica persino con il figlio, che era il suo migliore amico e il suo confidente, era persino diventata molto più chiusa in sé stessa e aveva dato a tutti l’impressione che quel morbo la stesse divorando, non solo fisicamente ma anche mentalmente.
E di conseguenza, proprio per quello che Len vedeva ogni giorno in sua madre, il ragazzo aveva smesso di impegnarsi perché afflitto da una preoccupazione che cresceva ogni istante di più, che gli impediva di concentrasi perché desideroso di mettere le sue forze a disposizione della donna per riuscire a darle un minimo di sollievo.
«Non ti azzardare a dirmi bugie o prendere brutti voti! Devi solo pensare a studiare e svolgere le tue attività!» aveva sbraitato l’ultima volta, quando il ragazzino era tornato a casa saltando le attività con il circolo di atletica leggera. Quel giorno, Len non aveva voglia di correre per quel circuito con il freddo dell’inverno a sferzargli le gambe, voleva solo precipitarsi a casa e aiutare la madre nelle sue faccende e permetterle di riposarsi, ma la risposta che ottenne non fu quella che lui aveva sperato. Qualsiasi cosa lui avesse fatto per renderle quella malattia più sopportabile incontrava solo il suo disappunto, tanto che le cose che per Len avevano importanza avevano perso tutta la loro rilevanza.
Ed era proprio per quella lunga serie di motivi che il ragazzino continuava a passare il tempo fuori,
a non tornare a casa e a infrangere il suo coprifuoco, perché proprio stufo di quelle aspettative che non poteva raggiungere a causa di un equilibrio mentale che non riusciva a mantenere. Era difficile doversi mettere a studiare quando sentiva la madre tossire violentemente nella stanza accanto, non riusciva a tenere alta la concentrazione sapendo che la donna passava il suo tempo a pulire e rassettare senza mai chiedere aiuto, non era facile rimanere lì a vederla tremare e perdere la sua bellezza mentre lei stessa allontanava il figlio, spesso con parole dure che mai avrebbe potuto dirgli.
Len sospirò e con un balzo si mise in piedi scrollandosi di dosso la neve, i muscoli di tutto il suo corpo irrigidit
i come fosse stato un ghiacciolo ambulante. Non aveva nemmeno idea di che ore fossero, ma il sonno era diventato quasi un optional per uno come lui, che tanto preferiva rimanere sveglio ad osservare un mondo addormentato in cui lui era l’unica anima sveglia. Chiuse gli occhi e, senza pensare, si chinò sulla neve che fino a quel momento aveva sommerso i suoi piedi, per poi prenderne una manciata e iniziare ad ammucchiarne un po’ in un piccolo tumulo.
Nel silenzio della notte, Len si ritrovò a costruire un pupazzo di neve senza che la sua mente avesse deciso di farlo. Così, senza una ragione apparente. Alla fine, per come andava la sua vita, tutte le sue azioni erano mosse da motivazioni futili che nemmeno lui conosceva, perciò si lasciò andare a quell’ennesimo istinto che cercava di impedirgli di pensare alla madre. Qualsiasi cosa facesse e indirizzasse il suo cervello verso qualcosa di tranquillo era bene accetto, proprio perché necessario alla sua psiche ormai sul punto di crollare.
Ammucchiò tanta di quella neve in due grosse palle, finché questa non ebbe raggiunto la stessa altezza delle sue spalle, per poi fermarsi a guardare il suo operato. Aveva liberato quasi un sesto del piazzale e mancava poco per dare una testa a quell’uomo di neve, che però non aveva ancora niente che lo facesse assomigliare ad un vero pupazzo. Perciò Len continuò alla luce di quel lampione ad olio, finché non ebbe tra le braccia la testa da mettere sopra la sua creazione. Era così diversa la neve che teneva in mano rispetto a quella che cadeva sopra la sua testa: quella era tanto più leggera, non opprimeva il corpo come quella che teneva in braccio.
E quando la poggiò sul resto del corpo di neve, Len si chiese cosa potesse rendere quel pupazzo più reale, magari per avere qualcuno a cui confidare tutti i suoi problemi.
«Che idea del cavolo…» borbottò infilandosi le mani in tasca, per poi sentire di avere ancora dei vecchi bottoni che aveva perso proprio dalla giacca che indossava. Non li aveva più fatti ricucire alla madre, lei era diventata fin troppo irascibile per poterle parlare.
Len inclinò la testa di lato e fissò quella sfera bianca, per poi poggiare un bottone rosso a destra di quel volto candido e a sinistra un bottone nero. Il ragazzino fissò per un istante quegli occhi non proprio usuali per un pupazzo di neve ma, per come lo vedeva lui, aveva un certo fascino. Ma mancavano ancora tante cose per poter considerare finito quell’uomo di neve.
Len frugò ancora nelle tasche dei pantaloni e della giacca, per poi trovare due pezzetti di nastro adesivo rosso che, in sostituzione della classica carota, potevano tranquillamente indicare la presenza di un naso; fu così che cercò di appiccicarli alla bene e meglio sulla sfera di neve, incrociandoli come se il pupazzo si fosse fatto male al naso.
Ma ancora non bastava. Il ragazzo iniziò a cercare in giro dei sassolini che potessero fare da bocca, oppure un rametto, e poi dei bastoncini più grandi che potessero fare da braccia, ma tutto quello che trovò fu un vecchio secchiello da mare abbandonato dietro ad un albero assieme al suo piccolo rastrello di plastica. Per quanto non convenzionale, il secchiello a strisce bianche e rosse parve essere un ottimo sostituto per un cappello a cilindro e la paletta una particolare alternativa a una mano. Arrivato a quel punto, bastò trovare un altro ramo per dare al suo pupazzo il suo braccio sinistro.
«Non è male, magari farà paura a qualcuno!» fece ridacchiando, per poi accorgersi che forse mancava ancora qualcosa. Len si guardò di nuovo attorno e poi gli arrivò un’illuminazione: il pupazzo di neve avrebbe sentito freddo, perciò si sfilò la sciarpa rossa e l’avvolse al collo della sua creatura che finalmente gli parve veramente completa.
Gli occhi azzurri del ragazzino si posarono quindi su quel volto inanimato, a guardare quegli occhi privi di vita che lo fissavano insistentemente, mentre sulle labbra di sassolini c’era quel cipiglio divertito, forse un po’ troppo sprezzante. Il sorriso che aveva Len sul volto si spense, tutta la gioia di essere tornato un bambino coperta da una leggera coltre di neve candida.
«Dovrei tornare a casa… Sarebbe bello se tu fossi reale, almeno avrei qualcuno con cui confidarmi…»
L
a condensa uscì nuovamente dalle sue labbra in un sospiro rassegnato, poi Len si voltò per tornare a casa.
Mosse qualche passo, il suo desiderio di dar vita a quella creatura di cristalli bianchi che ancora premeva contro il suo cuore. Semmai qualcosa del genere fosse successa davvero, forse sarebbe stata la spinta necessaria per rialzarsi dal suo stato di cata
lessi. Iniziò a dirigersi verso casa in quel silenzio opprimente, nemmeno la neve faceva più alcun suono. Si sentivano solo i suoi scarponi su quei morbidi cumuli di neve che aveva iniziato a scendere per la prima volta quella mattina stessa. Len aveva sempre trovato rilassante guardare quei cristalli scendere dal cielo e forse quello era uno dei motivi che lo portavano a stare fuori per tanto tempo. Non aveva bisogno di pensare, solo di camminare e di godersi quella sensazione che l’inverno riusciva a dargli.
Eppure qualcosa non andava, era come se sentisse di non essere proprio solo, in quel paesino addormentato ormai da qualche ora.
Sapeva che nessuno si sarebbe avventurato in pieno inverno per le strade a quella data ora, nessuno che fosse sano di mente, perlomeno. Camminò ancora e cercò di non prestare attenzione a quella buffa sensazione, perché di tutto quello che gli stava capitando, pensò che un’allucinazione non potesse essere poi essere un’opzione da scartare.
Abbassò lo sguardo e chiuse gli occhi per un paio di secondi, ma di nuovo si sentì osservato e seguito, ma dietro di lui non c’era nessuno. Si voltò, infatti, solo per ritrovare alle sue spalle il suo pupazzo, che lo guardava da lontano con quegli strani occhi nero e rosso. Si diede dello stupido per quella sua paranoia, non aveva motivo di temere alcunché, ma il suo istinto gli diceva che c’era qualcosa di fuori posto nella normalità del suo paesino.
Len prese un profondo respiro e inspirò con la stessa forza, sentendo l’aria gelida infiammargli i polmoni, camminando poi più velocemente verso casa sua.
«Per quanto ancora
hai intenzione di ignorarmi?»
A quelle parole, Len si voltò di scatto, con il cuore che aveva iniziato a battere più velocemente. Eppure non aveva paura, si sentiva semplicemente osservato. Ma quando si girò non vide nessuno. Nemmeno il pupazzo di neve. O almeno fu quello che credette, perché magari la fiamma del lampione
poteva essersi finalmente estinta. Oppure perché doveva essersi allontanato dalla piazza più di quanto credesse. Ma non aveva l’impressione di aver fatto chissà quanti metri.
«Sono un idiota…» borbottò, ma quando si girò nuovamente verso la strada di casa, si ritrovò faccia a faccia con un ragazzino dall’aspetto strano.
Len indietreggiò, ma i suoi piedi incespicarono l’uno con l’altro, facendolo cadere in un cumulo di neve fresca, tanto che questa si sollevò e finì per ricoprire buona parte del suo corpo.
Il misterioso ragazzo lo guardava con un sorrisetto beffardo, l’angolo destro del
le labbra candide rivolto verso l’alto ad accentuare quella sua espressione. Indossava abiti bianchi dall’aspetto sgualcito e toppe rosse a decorare il tessuto, i pantaloni bianchi e corti nonostante il freddo quasi insopportabile a coprirgli fino al ginocchio le gambe pallide; in testa, invece portava un curioso cappello a cilindro con strisce rosse e bianche.
Len cercò immediatamente di alzarsi, però il suo corpo non riusciva a connettersi con il cervello, spento da quello strano incontro che non sarebbe potuto accadere in tutta la sua vita. Dopotutto, nel suo paesino non abitava nessuno dall’aspetto così eccentrico.
Il misterioso giovane ridacchiò sotto ai baffi e si sfilò il cappello per compiere un inchino quasi teatrale, rivelando una massa indefinita di capelli rossi, punteggiati da grossi cristalli di neve, che spiccavano sulla sua pelle nivea. Poi questo rise nuovamente e offrì a Len la mano destra che però lui non vide nemmeno, perché attratto da una sciarpa rossa di sua conoscenza che dondolava dal collo del ragazzo.
«Ma quella è mia! L’hai rubata dal mio pupazzo di neve!»
L’altro sorrise e mosse di nuovo la mano per attirare l’attenzione di Len che finalmente si ritrovò a fissare l’arto. Quello che vide quasi gli fece prendere un colpo: non era una normale mano in carne e ossa, era rossa e pareva fatta di plastica, ma dalle sue movenze pareva effettivamente vera. Lo sguardo di Len corse quindi alla piazza in cui era stato e strizzò gli occhi, per vedere meglio attraverso la coltre di neve che ancora scendeva delicata dal cielo. L’impressione che aveva avuto prima sul pupazzo di neve si rivelò esatta: la sua creazione non era là.
Eppure, non volle crederci. Come poteva? Si portò le mani agli occhi e se li stropicciò energicamente, ma ancora il pupazzo non c’era.
«Hai intenzione di congelarti il fondoschiena? Su, su! In piedi!»
Len obbedì senza pensare e afferrò quella mano, che anche al contatto gli parve di plastica, gelida e inanimata. Ma la mano rossa del giovane strinse la sua, esattamente come avrebbe fatto una mano vera, in carne e ossa.
Appena Len fu in piedi, indietreggiò nuovamente e osservò quel ragazzo: nella mano sinistra teneva un vecchio bastone da passeggio a cui era appoggiato, ma il colore del pezzo di legno gli ricordò quello che aveva usato per fare il braccio sinistro del suo pupazzo;
di nuovo fu attratto dalla sciarpa e fu certo che fosse la sua, aveva persino quel piccolo difetto di fabbrica che aveva lasciato una delle estremità bianca; passò poi gli occhi sul volto del giovane e probabilmente fu quella la cosa a spaventarlo di più. Non riusciva a credere a quello che aveva davanti. L’occhio sinistro era normale, come quello di qualsiasi essere umano, ma quello destro no: era completamente rosso, senza pupilla, come un bottone; come la mano, anche questo sembrava reale, se non fosse stato per il colore quasi preoccupante.
«T-Tu… Cosa sei?»
«Non te ne sei accorto? Prima ero -disse indicando la piazza, nella voce una nota canzonatoria- e ora sono qua! Tu volevi che fossi vivo, no?»
«Non è possibile! Starò sognando… Tu non puoi essere vero!» obbiettò.
«L’Inverno ha qualcosa di magico, non trovi? La neve, le stelle, la magia. Piacere, io sono Fukase! E sono qui perché l’Inverno ha esaudito il tuo desiderio!»

*****

Len non riusciva a capire cosa gli stesse succedendo e ritrovarsi di nuovo su quella panchina fu ancora più strano. Fukase camminava avanti e indietro davanti a lui, saltava sulle altre sedute, addirittura sopra i bidoni della spazzatura, accompagnando tutti i suoi movimenti con il roteare del suo bastone da passeggio. Aveva lo sguardo vivace, continuava sorridere e lanciare occhiate divertite nella direzione di Len, che per tutta risposta se ne stava immobile, su quella panchina, cercando di capire in che tipo di situazione si fosse cacciato.
«Allora, avevi detto che qualcosa ti affliggeva… Oppure lo hai pensato mentre mi costruivi?»
Fukase balzò giù dal bidone con grazia, non sembrò nemmeno atterrare sulla neve, ma fu come se un fiocco fosse caduto giù dal cielo. Il movimento tanto aggraziato del giovane stupì Len, che finalmente si ridestò da quello stato di stupore in cui era caduto: non riusciva a credere a quello che gli stava succedendo, ma pareva realmente che Fukase lo conoscesse, che sapesse esattamente quali tasti toccare con le sue parole.
«H-Hai detto che l’inverno ti ha portato… Ehm, in vita?» chiese perplesso, forse sul fondo della gola una nota di sarcasmo che Fukase notò comunque.
«Non l’inverno come lo intendi tu, come una semplice stagione! Ma l’Inverno! Con la lettera maiuscola! Perché si sa, esista una notte ogni anno in cui l’Inverno stesso esaudisce i desideri di un qualche fortunato individuo!»
Gli occhi di Fukase si posarono su Len e questo ebbe un brivido. Non riusciva a guardare quel volto senza esserne in qualche modo turbato, quell’occhio rosso, quel bottone, era davvero fin troppo inquietante per riuscire a sostenere anche solo un’occhiata. Allora Len prese un profondo respiro, l’aria gelida a congelargli i polmoni, per poi cercare di focalizzarsi su una domanda che continuava a pressarlo.
«P-Perché sei qui?»
«Te l’ho appena detto, sei tonto? -chiese avvicinandosi in un attimo, il pugno rosso a bussare sulla testa di Len- È stato il volere del grande Inverno
«Ho capito, ma perché a me? Che motivo avresti per essere qui con me?»
Fukase rise di nuovo con quella sua risata cristallina, che ricordava proprio quella neve da cui aveva preso vita. Len non era ancora riuscito a lasciarsi abbastanza andare da farsi contagiare da quel suono, eppure ascoltarlo ridere lo fece sentire bene, come fosse stato una specie di panacea. Il pupazzo di neve fece un altro paio di balzi in avanti, quasi a raggiungere il centro della piazza, poi fece una giravolta su se stesso e posò di nuovo lo sguardo su Len, offrendogli ancora quella mano di plastica rossa mentre l’altra pizzicava la visiera del suo particolare cilindro.
«La mia purezza è data dal bianco di questa neve con cui mi hai creato, ho il potere di scacciare le tenebre che ti affliggono! Ti conosco molto più di quanto immagini, perciò ho il potere di aiutarti.»
Len, a quelle parole, ebbe l’impulso di controbattere, di dire che tutto quello che stava succedendo non poteva essere reale, che si trattava solo di un sogno o che magari poteva essersi addormentato sotto la neve ed essere morto assiderato: quella poteva essere forse la spiegazione più logica a quella situazione, ma di nuovo Fukase si avvicinò con quella sua grazia da fiocco di neve e allungò le mani verso il volto di Len. Il ragazzino si immobilizzò all’istante e vide le mani chiuse dell’altro, gli indici puntati verso la sua bocca, e un sorriso formarsi forzatamente per colpa di quel contatto. Fukase continuava a premergli le guance e a costringerlo a tirare su un sorriso a trentadue denti, poi il pupazzo parlò di nuovo.
«Non ci vuole un genio a capire che tipo di persona sei! Diligente, sei lo studente modello che ha avuto un crollo psicologico, no?»
Len scacciò via quelle mani dall’aspetto inquietante e si mise sulla difensiva, certo che quel tipo non potesse essere davvero là per volontà di una stagione che lui personalmente adorava, ma che venisse a dirgli che lo conosceva così a fondo da potersi concedere tutte quelle libertà non poteva accettarlo.
«E tu come dovresti saperlo?! Non puoi nemmeno essere reale!»
«E se non fossi reale, potrei farti questo?» chiese, pizzicando con forza la guancia destra di Len con la mano normale. Il ragazzo quasi urlò dal dolore, gli aveva fatto davvero male e sentiva la guancia pulsare e scaldarsi a causa di quel pizzico: una sensazione del genere non poteva che essere reale, perché sapeva che il dolore, nei sogni, non avrebbe potuto percepirlo senza svegliarsi. Eppure, era ancora seduto su quella panchina.
«Ebbene? Io sono reale, così come la neve che ricopre ogni cosa! Il mio candore è dato da questi cristalli che ci circondano, posso aiutarti a liberarti dall’oscurità che ti opprime. Basta che io resti al tuo fianco!»
Quelle parole restarono sospese per una manciata di secondi, poi qualcosa accadde in Len. Fukase era uno sconosciuto, un prodotto della sua mente stanca, non era nessuno di così importante con cui confidarsi e spiattellare tutte le cose che lo affliggevano, ma improvvisamente un senso di angoscia salì su per la gola di Len, che esasperato, sarebbe potuto esplodere da un momento all’altro.
Non ci fece nemmeno caso, ma poi il calore delle sue lacrime iniziò a sfiorare le sue guance infreddolite, portando con sé una serie di segreti che mai avrebbe detto a nessuno. La storia riguardo alla malattia della madre, la paura di perderla, il terrore di deluderla e continuare a comportarsi nel modo sbagliato: tutte queste uscirono dalla sua bocca come una tempesta perché Fukase era lì, ad ascoltarlo come nessuno aveva mai fatto prima.


Angolo di Zenya ^^

E torno di nuovo, questa volta con un pairing che non avevo mai e dico MAI preso in considerazione! Dopo quello che ritengo essere il successo che è stato Wish Your Smile, torno qui con un’altra coppia che coinvolge il nostro Len, ossia una LenxFukase! E vi starete chiedendo perché non sia una LenxKaito, visto che la canzone è del nostro amante dei gelati. E nemmeno io lo so, ho iniziato a shippare Len e Fukase dopo aver sentito la canzone Game Over e ho trovato che fossero carini in una storia ispirata a Snowman :3 Sì, ho bistrattato Kaito e mi dispiace un casino, ma probabilmente non sarei riuscita a scrivere questo se ci fosse stato lui >.<
La storia ha anche preso una piega leggermente creepy, ma giuro che non volevo far prendere un colpo a nessuno, fossi stata io in Len me la sarei fatta nei pantaloni a vedere uno come Fukase xD Ah, e ringraziate tutti Zenya perché ha fatto inserire Fukase nella lista dei personaggi, perché prima non c'era, povero cucciolo u.u
Io impunto tutto al fatto che WYS sia stata molto pesante, anche a livello di horror, quindi sarà rimasto qualche refuso da quella storia là, però mi serviva una pausa prima di riprendere in mano la prossima fic sui VanaN’Ice, quindi grazie per essere arrivati alla fine di questa minilong di non so quanti capitoli e alla prossima :3


   
 
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