Disclaimer:
la storia è ispirata alla
canzone Snowman di
Kaito Shion e sarà una storia dalle poche pretese. Sebbene
abbia
inserito nelle note il tipo di coppia Shounen-ai,
ciò che toccherà quella tematica sarà
estremamente leggera;
inoltre, per tematiche delicate, intendo parlare di di problematiche
famigliari e solitudine, che portano le persone a isolarsi e aver
bisogno di aiuto, di qualsiasi tipo esso sia. La storia vuole essere
una cosa abbastanza leggera, niente che possa avvicinarsi a trattati
sulla psicologia o altro, perché
dopotutto
si scrive per esprimere le proprie emozioni u.u
Ricordo
a chi passasse a leggere causa link di spam che i personaggi sono OOC
e non è necessaria alcuna conoscenza della canzone da cui il
tutto
ha preso spunto. Buona lettura!
I suoi occhi fissavano i
leggeri
fiocchi di neve che volteggiavano in quel cielo stellato, attorno a
sé il candore di una notte di dicembre.
Seduto su quella panchina, il bianco
ricopriva ogni cosa sotto a cumuli di soffici cristalli, molti dei
quali rilucevano al bagliore dell’unico lampione ad olio
acceso,
forse l’ultimo retaggio del secolo scorso rimasto intatto in
quel
paesino. In mezzo alla piazza circolare, il ragazzo sedeva avvolto
nella sua giacca gialla, la condensa che saliva al cielo stellato da
quelle labbra socchiuse e le guance che si tingevano di quel rossore
tipico del freddo pungente. Se ne stava rannicchiato con le mani in
tasca a giocherellare con qualche cianfrusaglia raccolta per strada,
qualche monetina e forse un pezzetto di carta. Alla fine, non faceva
nemmeno caso al lento movimento delle sue dita infreddolite e avvolte
in morbidi guanti.
Il vento soffiava leggero smuovendo
quegli arruffati capelli biondi che sfuggivano al cappello di lana
rossa faticosamente calcato sulla testa, mentre i fiocchi di neve si
poggiavano sulle sue spalle incurvate. Davanti a sé il
nulla, solo
il bianco e una solitudine quasi opprimente: nelle orecchie, quel
silenzio era quasi assordante, come fosse in grado di sentire ogni
cristallo toccare il suolo e tintinnare come bicchieri di vetro
durante un brindisi.
Len non sarebbe dovuto essere lì a
quell’ora, ma da un paio di mesi a quella parte continuava a
sedersi su quella panchina, da quando finivano le lezioni fino a
quando tutti se ne tornavano nelle proprie case, che fossero
studenti, bambini o lavoratori.
Non faceva nulla di particolare, se
ne stava semplicemente seduto là sopra a rimuginare e a
guardarsi
intorno, mentre tutta la gente del suo paesino dormiva profondamente,
ignara della sua presenza ormai costante nel freddo della notte. Non
aveva molti motivi per ritrovarsi a sedere in un posto del genere
dopo oltre la mezzanotte, nemmeno i ragazzi più grandi
passavano
tanto tempo fuori, ma a lui non importava: non era importante il
giudizio delle altre persone, non era necessario dar peso a quelle
parole che però venivano pronunciate proprio per ferire quel
povero
ragazzo.
«Sono un buono a nulla…»
ripeté,
le parole accompagnate da una leggera nuvola di condensa che
investì
qualche fiocco di neve, sciogliendolo all’istante di fronte
agli
occhi di Len. Il ragazzino si morse le labbra per non dire altro,
sentì i denti sulla sua carne e un dolore molto
più forte di quello
che si aspettava: il freddo aveva preso il sopravvento sul suo corpo,
ogni movimento pareva fin troppo macchinoso e pungente per essere
compiuto, perciò Len preferiva rimanere immobile con lo
sguardo che
ogni tanto si alzava alle stelle e poi di nuovo sulla neve che
imbiancava le strade.
«La mamma è ancora arrabbiata, ma
non ho la forza di fare del mio meglio… Voglio
aiutarla…»
Il ragazzo si lasciò andare in un
sospiro, la sua mente che lottava per non pensare a tutte le brutte
cose che gli stavano capitando in quei giorni, a come tutto quello
che si era costruito a scuola e con gli amici fosse stato spazzato
via e nascosto dalla neve, che in quel momento era l’unica
cosa a
tenergli compagnia. Dolcemente, questa danzava davanti ai suoi occhi
azzurri e lui desiderò che la sua vita potesse essere come
quella di
quei fiocchi, senza nessuna preoccupazione o problema. Ma ovviamente
non poteva essere così.
Non sarebbe dovuto essere là, a
quattordici anni non poteva permettersi di stare fuori così
tanto a
lungo, quando anche gli stessi adulti dormivano già tra le
braccia
di Morfeo. Eppure Len era ancora là, al freddo e solo con i
suoi
pensieri.
«Non voglio tornare a casa…»
mormorò, il gelo ormai penetrato nelle sue ossa e nella sua
carne,
ma sapere che il giorno dopo tutto sarebbe ricominciato da capo lo
rendeva nervoso, frustrato: l’indomani mattina sarebbe dovuto
andare a scuola e tutto sarebbe ricominciato, con quei suoi silenzi
imbarazzanti di fronte ai professori, quella sua poca voglia di
impegnarsi e quella sua apatia che non riusciva a scrollarsi di
dosso; la sua mente non era affatto pronta a mettersi
d’impegno su
qualcosa che non ritenesse importante, c’erano tanti altri
pensieri
ad affollare la sua testa e i compiti non erano uno di questi.
Nemmeno gli amici erano più una sua priorità,
perché aveva
l’impressione che non riuscissero a capirlo, come se le sue
parole
e il suo bisogno di aiuto venissero perennemente ignorati. Tutte le
cose che di solito lo interessavano, le materie scolastiche, la
musica, l’arte, parevano aver perso
quell’importanza che lui
aveva sempre dato loro, sostituite e oppresse da un senso di
inutilità che non voleva accettare, ma che ormai aveva
lasciato
correre, perché troppo pressante per poter essere messa da
parte.
Il ragazzo portò nuovamente lo
sguardo al cielo punteggiato di stelle e fiocchi di neve, per poi
andare con la mente alla malattia che affliggeva la madre: per quello
che gli era stato detto dalla donna, era qualcosa che riguardava i
polmoni, ma lei non si era mai voluta sbilanciare, forse con
l’intento di non far preoccupare il suo piccolo Len e
lasciare che
il giovane si concentrasse sugli studi senza penarsi per lei.
Infatti, la madre era sempre stata
una donna forte, di quelle in grado di spronare chiunque a dare il
meglio di sé e Len non faceva eccezione: renderla fiera era
la cosa
che più lo rendeva felice, gli dava quella carica necessaria
per
mettersi d’impegno in ogni cosa volesse fare, che fosse lo
studio o
lo sport; anche fare amicizia e crearsi quella cerchia di persone
fidate era stato possibile solo con il supporto di quella donna che,
nonostante la perdita del marito, non si era mai data per vinta e
aveva continuato a vivere, un po’ forse per l’amato
ormai
scomparso, un po’ per essere la roccia che potesse sostenere
il suo
unico figlio. Eppure, in quei mesi quella donna che Len credeva
immutabile nella sua forza era cambiata, aveva assunto un
atteggiamento molto più pessimistico nei confronti stessi
della
vita: non aveva mai perso la voglia di vivere nemmeno quando il
marito era passato a miglior vita e aveva continuato ad essere un
punto fermo per il figlio, ma Len aveva notato il suo cambiamento.
Non sembrava più importarle di apparire bella e gentile con
tutti,
era diventata scorbutica persino con il figlio, che era il suo
migliore amico e il suo confidente, era persino diventata molto
più
chiusa in sé stessa e aveva dato a tutti
l’impressione che quel
morbo la stesse divorando, non solo fisicamente ma anche mentalmente.
E di conseguenza, proprio per quello
che Len vedeva ogni giorno in sua madre, il ragazzo aveva smesso di
impegnarsi perché afflitto da una preoccupazione che
cresceva ogni
istante di più, che gli impediva di concentrasi
perché desideroso
di mettere le sue forze a disposizione della donna per riuscire a
darle un minimo di sollievo.
«Non ti azzardare a dirmi bugie
o prendere brutti voti! Devi solo
pensare a studiare e svolgere le tue
attività!»
aveva sbraitato l’ultima volta, quando il ragazzino era
tornato a
casa saltando le attività con il circolo di atletica
leggera. Quel
giorno, Len non aveva voglia di correre per quel circuito con il
freddo dell’inverno a sferzargli le gambe, voleva solo
precipitarsi
a casa e aiutare la madre nelle sue faccende e permetterle di
riposarsi, ma la risposta che ottenne non fu quella che lui aveva
sperato. Qualsiasi cosa lui avesse fatto per renderle quella malattia
più sopportabile incontrava solo il suo disappunto, tanto
che le
cose che per Len avevano importanza avevano perso tutta la loro
rilevanza.
Ed
era proprio per quella lunga serie di motivi che il ragazzino
continuava a passare il tempo fuori, a
non tornare a casa e a infrangere il suo coprifuoco, perché
proprio
stufo di quelle aspettative che non poteva raggiungere a causa di un
equilibrio mentale che non riusciva a mantenere. Era
difficile doversi mettere a studiare quando sentiva la madre tossire
violentemente nella stanza accanto, non riusciva a tenere alta la
concentrazione sapendo che la donna passava il suo tempo a pulire e
rassettare senza mai chiedere aiuto, non era facile rimanere
lì a
vederla tremare e perdere la sua bellezza mentre lei stessa
allontanava il figlio, spesso con parole dure che mai avrebbe potuto
dirgli.
Len
sospirò e con un balzo si mise in piedi scrollandosi di
dosso la
neve, i muscoli di tutto il suo corpo irrigiditi
come fosse stato
un ghiacciolo ambulante. Non aveva nemmeno idea di che ore fossero,
ma il sonno era diventato quasi un optional per uno come lui, che
tanto preferiva rimanere sveglio ad osservare un mondo addormentato
in cui lui
era l’unica
anima sveglia. Chiuse gli occhi e, senza pensare, si chinò
sulla
neve che fino a quel momento aveva sommerso i suoi piedi, per poi
prenderne una manciata e iniziare ad ammucchiarne
un po’ in un piccolo tumulo.
Nel silenzio della notte, Len si
ritrovò a costruire un pupazzo di neve senza che la sua
mente avesse
deciso di farlo. Così, senza una ragione apparente. Alla
fine, per
come andava la sua vita, tutte le sue azioni erano mosse da
motivazioni futili che nemmeno lui conosceva, perciò si
lasciò
andare a quell’ennesimo istinto che cercava di impedirgli di
pensare alla madre. Qualsiasi cosa facesse e indirizzasse il suo
cervello verso qualcosa di tranquillo era bene accetto, proprio
perché necessario alla sua psiche ormai sul punto di
crollare.
Ammucchiò
tanta di quella neve in due grosse palle, finché questa non
ebbe
raggiunto la stessa altezza delle sue spalle, per poi fermarsi a
guardare il suo operato. Aveva liberato quasi un sesto
del piazzale e mancava
poco
per dare una testa a quell’uomo di neve, che però
non aveva ancora
niente che lo facesse assomigliare ad un vero pupazzo.
Perciò Len
continuò alla luce di quel lampione ad olio,
finché non ebbe tra le
braccia la testa da mettere sopra la sua creazione. Era così
diversa
la neve che teneva in mano rispetto a quella che cadeva sopra la sua
testa: quella era tanto più leggera, non opprimeva il corpo
come
quella che teneva in
braccio.
E quando la poggiò sul resto del
corpo di neve, Len si chiese cosa potesse rendere quel pupazzo
più
reale, magari per avere qualcuno a cui confidare tutti i suoi
problemi.
«Che idea del cavolo…»
borbottò
infilandosi le mani in tasca, per poi sentire di avere ancora dei
vecchi bottoni che aveva perso proprio dalla giacca che indossava.
Non li aveva più fatti ricucire alla madre, lei era
diventata fin
troppo irascibile per poterle parlare.
Len
inclinò la testa di lato e fissò quella sfera
bianca, per poi
poggiare un bottone rosso a destra
di quel volto candido e a sinistra
un bottone nero. Il
ragazzino
fissò per un istante quegli occhi non proprio usuali per un
pupazzo
di neve ma, per come lo vedeva lui, aveva un certo fascino. Ma
mancavano ancora tante cose per poter considerare finito
quell’uomo
di neve.
Len frugò ancora nelle tasche dei
pantaloni e della giacca, per poi trovare due pezzetti di nastro
adesivo rosso che, in sostituzione della classica carota, potevano
tranquillamente indicare la presenza di un naso; fu così che
cercò
di appiccicarli alla bene e meglio sulla sfera di neve, incrociandoli
come se il pupazzo si fosse fatto male al naso.
Ma
ancora non bastava. Il ragazzo iniziò a cercare in giro dei
sassolini che potessero fare da bocca, oppure un rametto, e poi dei
bastoncini più grandi che potessero fare da braccia, ma
tutto quello
che trovò fu un vecchio secchiello da mare abbandonato
dietro ad un
albero assieme al suo piccolo rastrello di plastica. Per quanto non
convenzionale, il secchiello a
strisce bianche
e rosse
parve essere un ottimo sostituto per un cappello a cilindro e la
paletta una particolare alternativa a una mano. Arrivato a quel
punto, bastò trovare un altro ramo per dare al suo pupazzo
il suo
braccio sinistro.
«Non è male, magari farà paura a
qualcuno!» fece ridacchiando, per poi accorgersi che forse
mancava
ancora qualcosa. Len si guardò di nuovo attorno e poi gli
arrivò
un’illuminazione: il pupazzo di neve avrebbe sentito freddo,
perciò
si sfilò la sciarpa rossa e l’avvolse al collo
della sua creatura
che finalmente gli parve veramente completa.
Gli occhi azzurri del ragazzino si
posarono quindi su quel volto inanimato, a guardare quegli occhi
privi di vita che lo fissavano insistentemente, mentre sulle labbra
di sassolini c’era quel cipiglio divertito, forse un
po’ troppo
sprezzante. Il sorriso che aveva Len sul volto si spense, tutta la
gioia di essere tornato un bambino coperta da una leggera coltre di
neve candida.
«Dovrei
tornare a casa… Sarebbe bello se tu fossi reale, almeno
avrei
qualcuno con cui confidarmi…»
La
condensa uscì nuovamente dalle sue labbra in un sospiro
rassegnato,
poi Len si voltò per tornare a casa.
Mosse
qualche passo, il suo desiderio di dar vita a quella creatura di
cristalli bianchi che ancora premeva contro il suo cuore. Semmai
qualcosa del genere fosse successa davvero, forse sarebbe stata la
spinta necessaria per rialzarsi dal suo stato di catalessi.
Iniziò
a dirigersi verso
casa in quel silenzio opprimente, nemmeno la neve faceva più
alcun
suono. Si sentivano solo i suoi scarponi su quei morbidi cumuli di
neve che aveva iniziato a scendere per la prima volta quella mattina
stessa. Len aveva sempre trovato rilassante guardare quei cristalli
scendere dal cielo e forse quello era uno dei motivi che lo portavano
a stare fuori per tanto tempo. Non aveva bisogno di pensare, solo di
camminare e di godersi quella sensazione che l’inverno
riusciva a
dargli.
Eppure
qualcosa non andava, era come se sentisse di non essere proprio solo,
in quel paesino addormentato ormai da qualche ora. Sapeva
che nessuno si sarebbe avventurato in pieno inverno per le strade a
quella data ora, nessuno che fosse sano di mente, perlomeno.
Camminò
ancora e cercò di non prestare attenzione a quella buffa
sensazione,
perché di tutto quello che gli stava capitando,
pensò che
un’allucinazione non potesse essere poi essere
un’opzione da
scartare.
Abbassò
lo sguardo e chiuse gli occhi per un paio di secondi, ma di nuovo si
sentì osservato e seguito, ma dietro di lui non
c’era nessuno. Si
voltò, infatti, solo per ritrovare alle sue spalle il suo
pupazzo,
che lo guardava da lontano con quegli strani occhi nero e rosso. Si
diede dello stupido per quella sua paranoia, non aveva motivo di
temere alcunché, ma il suo istinto gli diceva che
c’era qualcosa
di fuori posto nella normalità del suo paesino.
Len
prese un profondo respiro e inspirò con la stessa forza, sentendo
l’aria
gelida infiammargli i polmoni, camminando poi più
velocemente verso
casa sua.
«Per
quanto ancora hai
intenzione
di ignorarmi?»
A
quelle parole, Len si voltò di scatto, con il cuore che
aveva
iniziato a battere più velocemente. Eppure non aveva paura,
si
sentiva semplicemente osservato. Ma quando si girò non vide
nessuno.
Nemmeno il pupazzo di neve. O almeno fu quello che credette,
perché
magari la fiamma del lampione poteva
essersi finalmente estinta. Oppure
perché doveva essersi allontanato dalla piazza
più di quanto
credesse. Ma non aveva l’impressione di aver fatto
chissà quanti
metri.
«Sono
un idiota…» borbottò, ma quando si
girò nuovamente verso la
strada di casa, si ritrovò faccia a faccia con un ragazzino
dall’aspetto strano. Len
indietreggiò, ma i suoi piedi incespicarono l’uno
con l’altro,
facendolo cadere in un cumulo di neve fresca, tanto che questa si
sollevò e finì per ricoprire buona parte del suo
corpo.
Il
misterioso ragazzo lo guardava con un sorrisetto beffardo,
l’angolo
destro delle
labbra
candide
rivolto verso l’alto ad accentuare quella sua espressione.
Indossava
abiti bianchi
dall’aspetto sgualcito e toppe rosse a decorare il tessuto, i
pantaloni bianchi
e
corti nonostante il freddo quasi insopportabile a coprirgli fino al
ginocchio le gambe pallide; in testa, invece portava un curioso
cappello a cilindro con strisce rosse e bianche.
Len cercò immediatamente di
alzarsi, però il suo corpo non riusciva a connettersi con il
cervello, spento da quello strano incontro che non sarebbe potuto
accadere in tutta la sua vita. Dopotutto, nel suo paesino non abitava
nessuno dall’aspetto così eccentrico.
Il
misterioso giovane ridacchiò sotto ai baffi e si
sfilò il cappello
per compiere un inchino quasi teatrale, rivelando una massa
indefinita di capelli rossi, punteggiati
da grossi cristalli di neve,
che spiccavano sulla sua pelle nivea. Poi
questo rise nuovamente e offrì a Len la mano destra che
però lui
non vide nemmeno, perché attratto da una sciarpa rossa di
sua
conoscenza che dondolava dal collo del ragazzo.
«Ma quella è mia! L’hai rubata
dal mio pupazzo di neve!»
L’altro sorrise e mosse di nuovo
la mano per attirare l’attenzione di Len che finalmente si
ritrovò
a fissare l’arto. Quello che vide quasi gli fece prendere un
colpo:
non era una normale mano in carne e ossa, era rossa e pareva fatta di
plastica, ma dalle sue movenze pareva effettivamente vera.
Lo
sguardo di Len corse quindi alla piazza in cui era stato e
strizzò
gli occhi, per vedere meglio attraverso la coltre di neve che ancora
scendeva delicata dal cielo. L’impressione che aveva avuto
prima
sul pupazzo di neve si rivelò esatta: la sua creazione non
era là.
Eppure, non volle crederci. Come
poteva? Si portò le mani agli occhi e se li
stropicciò
energicamente, ma ancora il pupazzo non c’era.
«Hai intenzione di congelarti il
fondoschiena? Su, su! In piedi!»
Len
obbedì senza
pensare
e afferrò quella mano, che anche al contatto gli parve di
plastica,
gelida e inanimata. Ma la mano rossa del giovane strinse la sua,
esattamente come avrebbe fatto una mano vera,
in carne e
ossa.
Appena
Len fu in piedi, indietreggiò nuovamente e
osservò quel ragazzo:
nella mano sinistra teneva un vecchio bastone da passeggio a cui era
appoggiato, ma il colore del pezzo di legno gli ricordò
quello che
aveva usato per fare il braccio sinistro del suo pupazzo; di
nuovo fu attratto dalla sciarpa e fu certo che fosse la sua, aveva
persino quel piccolo difetto di fabbrica che aveva lasciato una delle
estremità bianca; passò poi gli occhi sul volto
del giovane e
probabilmente fu
quella la cosa a spaventarlo di più. Non riusciva a credere
a quello
che aveva davanti. L’occhio sinistro era normale, come quello
di
qualsiasi essere umano, ma quello destro no: era completamente rosso,
senza pupilla, come un bottone; come la mano, anche questo sembrava
reale, se non fosse stato per il colore quasi
preoccupante.
«T-Tu… Cosa sei?»
«Non
te ne sei accorto? Prima ero là
-disse indicando la piazza, nella voce una nota canzonatoria- e ora
sono qua! Tu volevi
che fossi vivo, no?»
«Non è possibile! Starò
sognando…
Tu non puoi essere vero!» obbiettò.
«L’Inverno ha qualcosa di
magico, non trovi? La neve, le stelle, la magia. Piacere, io sono
Fukase! E sono qui perché l’Inverno
ha esaudito il tuo
desiderio!»
*****
Len
non riusciva a capire cosa gli stesse succedendo e ritrovarsi di
nuovo su quella panchina fu ancora più strano. Fukase
camminava
avanti e indietro davanti a lui, saltava sulle altre sedute,
addirittura sopra i bidoni della spazzatura, accompagnando tutti i
suoi movimenti con il roteare del suo bastone da passeggio. Aveva
lo sguardo vivace, continuava sorridere e lanciare occhiate divertite
nella direzione di Len, che per tutta risposta se ne stava immobile,
su quella panchina, cercando di capire in che tipo di situazione si
fosse cacciato.
«Allora, avevi detto che qualcosa
ti affliggeva… Oppure lo hai pensato mentre mi
costruivi?»
Fukase balzò giù dal bidone con
grazia, non sembrò nemmeno atterrare sulla neve, ma fu come
se un
fiocco fosse caduto giù dal cielo. Il movimento tanto
aggraziato del
giovane stupì Len, che finalmente si ridestò da
quello stato di
stupore in cui era caduto: non riusciva a credere a quello che gli
stava succedendo, ma pareva realmente che Fukase lo conoscesse, che
sapesse esattamente quali tasti toccare con le sue parole.
«H-Hai detto che l’inverno ti ha
portato… Ehm, in vita?» chiese perplesso, forse
sul fondo della
gola una nota di sarcasmo che Fukase notò comunque.
«Non l’inverno come lo intendi
tu, come una semplice stagione! Ma l’Inverno!
Con la lettera
maiuscola! Perché si sa, esista una notte ogni anno in cui
l’Inverno
stesso esaudisce i desideri di un qualche fortunato
individuo!»
Gli occhi di Fukase si posarono su
Len e questo ebbe un brivido. Non riusciva a guardare quel volto
senza esserne in qualche modo turbato, quell’occhio rosso,
quel
bottone, era davvero fin troppo inquietante per
riuscire a
sostenere anche solo un’occhiata. Allora Len prese un
profondo
respiro, l’aria gelida a congelargli i polmoni, per poi
cercare di
focalizzarsi su una domanda che continuava a pressarlo.
«P-Perché sei qui?»
«Te l’ho appena detto, sei tonto?
-chiese avvicinandosi in un attimo, il pugno rosso a bussare sulla
testa di Len- È stato il volere del grande Inverno!»
«Ho capito, ma perché a me? Che
motivo avresti per essere qui con me?»
Fukase rise di nuovo con quella sua
risata cristallina, che ricordava proprio quella neve da cui aveva
preso vita. Len non era ancora riuscito a lasciarsi abbastanza andare
da farsi contagiare da quel suono, eppure ascoltarlo ridere lo fece
sentire bene, come fosse stato una specie di panacea. Il pupazzo di
neve fece un altro paio di balzi in avanti, quasi a raggiungere il
centro della piazza, poi fece una giravolta su se stesso e
posò di
nuovo lo sguardo su Len, offrendogli ancora quella mano di plastica
rossa mentre l’altra pizzicava la visiera del suo particolare
cilindro.
«La mia purezza è data dal bianco
di questa neve con cui mi hai creato, ho il potere di scacciare le
tenebre che ti affliggono! Ti conosco molto più di quanto
immagini,
perciò ho il potere di aiutarti.»
Len, a quelle parole, ebbe l’impulso
di controbattere, di dire che tutto quello che stava succedendo non
poteva essere reale, che si trattava solo di un sogno o che magari
poteva essersi addormentato sotto la neve ed essere morto assiderato:
quella poteva essere forse la spiegazione più logica a
quella
situazione, ma di nuovo Fukase si avvicinò con quella sua
grazia da
fiocco di neve e allungò le mani verso il volto di Len. Il
ragazzino
si immobilizzò all’istante e vide le mani chiuse
dell’altro, gli
indici puntati verso la sua bocca, e un sorriso formarsi forzatamente
per colpa di quel contatto. Fukase continuava a premergli le guance e
a costringerlo a tirare su un sorriso a trentadue denti, poi il
pupazzo parlò di nuovo.
«Non ci vuole un genio a capire che
tipo di persona sei! Diligente, sei lo studente modello che ha avuto
un crollo psicologico, no?»
Len scacciò via quelle mani
dall’aspetto inquietante e si mise sulla difensiva, certo che
quel
tipo non potesse essere davvero là per volontà di
una stagione che
lui personalmente adorava, ma che venisse a dirgli che lo conosceva
così a fondo da potersi concedere tutte quelle
libertà non poteva
accettarlo.
«E tu come dovresti saperlo?! Non
puoi nemmeno essere reale!»
«E se non fossi reale, potrei farti
questo?» chiese, pizzicando con forza la guancia destra di
Len con
la mano normale. Il ragazzo quasi urlò
dal dolore, gli aveva
fatto davvero male e sentiva la guancia pulsare e scaldarsi a causa
di quel pizzico: una sensazione del genere non poteva che essere
reale, perché sapeva che il dolore, nei sogni, non avrebbe
potuto
percepirlo senza svegliarsi. Eppure, era ancora seduto su quella
panchina.
«Ebbene? Io sono reale, così come
la neve che ricopre ogni cosa! Il mio candore è dato da
questi
cristalli che ci circondano, posso aiutarti a liberarti
dall’oscurità
che ti opprime. Basta che io resti al tuo fianco!»
Quelle parole restarono sospese per
una manciata di secondi, poi qualcosa accadde in Len. Fukase era uno
sconosciuto, un prodotto della sua mente stanca, non era nessuno di
così importante con cui confidarsi e spiattellare tutte le
cose che
lo affliggevano, ma improvvisamente un senso di angoscia
salì su per
la gola di Len, che esasperato, sarebbe potuto esplodere da un
momento all’altro.
Non ci fece nemmeno caso, ma poi il
calore delle sue lacrime iniziò a sfiorare le sue guance
infreddolite, portando con sé una serie di segreti che mai
avrebbe
detto a nessuno. La storia riguardo alla malattia della madre, la
paura di perderla, il terrore di deluderla e continuare a comportarsi
nel modo sbagliato: tutte queste uscirono dalla sua bocca come una
tempesta perché Fukase era lì, ad ascoltarlo come
nessuno aveva mai
fatto prima.
Angolo di Zenya ^^
E
torno di nuovo, questa volta con un pairing che non avevo mai e dico
MAI preso in considerazione! Dopo quello che ritengo essere il
successo che è stato Wish Your Smile, torno qui con
un’altra
coppia che coinvolge il nostro Len, ossia una LenxFukase! E vi
starete chiedendo perché non sia una LenxKaito, visto che la
canzone
è del nostro amante dei gelati. E nemmeno io lo so, ho
iniziato a
shippare Len e Fukase dopo aver sentito la canzone Game Over e ho
trovato che fossero carini in una storia ispirata a Snowman :3
Sì,
ho bistrattato Kaito e mi dispiace un casino, ma probabilmente non
sarei riuscita a scrivere questo se ci fosse stato lui >.<
La
storia ha anche preso una piega leggermente creepy, ma giuro che non
volevo far prendere un colpo a nessuno, fossi stata io in Len me la
sarei fatta nei pantaloni a vedere uno come Fukase xD Ah, e ringraziate
tutti Zenya perché ha fatto inserire Fukase nella lista dei
personaggi, perché prima non c'era, povero cucciolo u.u
Io
impunto tutto al fatto che WYS sia stata molto pesante, anche a
livello di horror, quindi sarà rimasto qualche refuso da
quella
storia là, però mi serviva una pausa prima di
riprendere in mano la
prossima fic sui VanaN’Ice, quindi grazie per essere arrivati
alla
fine di questa minilong di non so quanti capitoli e alla prossima :3