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Autore: Alyss Liebert    05/03/2017    11 recensioni
Avete presente Cenere, la ragazza che detestava il padre ed invidiava le sorellastre, che usufruì del suo stato di apatia per vendetta personale, che impose a se stessa di fare tutti i lavori di casa per mettere in cattiva luce la sua matrigna, che rifiutò ogni tipo di approccio alla vita sociale e alle nuove tecnologie, che aveva allucinazioni di creature fatate, che addomesticava uccelli e pantegane, che si lasciò abbindolare su Facebook da un giovanotto benestante, che venne rimpiazzata da una rivale per colpa di un acquisto mancato su eBay?
No? Beh, nemmeno io.
Tuttavia, questo è un modo differente di intendere il personaggio che tutti conosciamo, apparentemente perfetto e di sani principi, ma dai recessi dell'animo assai più foschi e scabrosi.
Con cospicua eleganza e un pizzico di sarcasmo, la fiaba di Cenerentola come non l'avete mai conosciuta.
E spegnete, per favore, i cellulari? Sto narrando e vorrei essere ascoltata.
Ah, i giovani di oggi...
{Storia partecipante alla sfida "A box full of prompt edizione II" del gruppo Facebook "EFP famiglia: recensioni, consigli e discussioni"}
Genere: Comico, Introspettivo, Parodia | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: Incest, Tematiche delicate
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N.B.
Troverete a fine testo le informazioni sulla sfida e il prompt utilizzato.
L’ambientazione e i personaggi mi appartengono, pur essendomi ispirata alla fiaba originale. Questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.



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“Io penso questo: che le fiabe siano ingannevoli, fittizie, puerili. Prese tutte insieme, nella loro ripetuta utopia di vicende umane, sono uno stravolgimento generale della vita, nate in tempi remoti, serbate nella precaria meditazione delle popolazioni incolte fino a noi. Sono il catalogo delle illusioni, delle menzogne che possono assimilare e annebbiare un uomo e una donna.”
- l’autrice a Italo Calvino



Cenere di Villavalle


A chi crede ancora nelle favole e non ha mai smesso di sognare,
a chi ha già fatto i conti con la realtà e ha i piedi ben piantati a terra,
a chi vive la propria vita con insoddisfazione o aggrappandosi a frivole speranze,
a chi ha tagliato i ponti con il passato e pensa ai problemi del presente…
A voi, adulti e adolescenti, narro questa storia. Una storia non molto longeva, ma che ha superato i confini dei tempi moderni e ha abbattuto le barriere di quelli antichi, divenendo un esempio di sagacia e buonsenso – si sente una risatina sommessa – da tramandare a numerose generazioni non più inebriate dalla diffusione di racconti antichi, riadattati e fallaci.
C’era una volta, nel lontano 2015, nel paesino rurale di Villavalle – non molto distante dal capoluogo di regione –, un benestante possidente di terre, ereditate dalla sua famiglia di agricoltori e imprenditori, di nome Fulgenzio. Era un uomo infelice e frustrato, ma anche fiscale, conservatore e un tantino tanto ingenuo; perennemente combattuto fra il desiderio di evadere da quella penuria di cittadini – poiché consapevole di poter aspirare ad ambienti migliori –, e l’opprimente timore di sporcarsi la coscienza se avesse lasciato le terre ad un altro abitante e avesse messo fine al tramandamento di quel mestiere. Una tradizione propria di una famiglia ancora legata ad antiche e superate credenze.
Egli aveva una moglie, una donna di salute mentale precaria. L’ansia e la depressione, derivate dall’insoddisfazione di non aver potuto vivere una vita al pari della gente di città e dall’obbligo di sottostare alle scelte di un marito intransigente, avevano peggiorato la sua condizione – rendendola ingestibile, perché presupponeva malattie in verità inesistenti. Morì quell’anno per overdose di medicine, lasciando al marito la custodia della loro unica sciagurata figlia di nome Cenere.
Cenere per la tonalità bionda dei suoi capelli.
Cenere perché rappresentava la loro beatitudine ed economia che stavano andando in frantumi.
Cenere come il colore impuro delle carenze che la loro contaminazione le aveva trasmesso.
Cenere era la bambina che nessuno avrebbe mai voluto avere.
Fin da piccola aveva manifestato una propensione al carattere scrupoloso del padre, ostentando l’orgoglio di fare parte della vita di campagna; d’altro lato, ereditò l’insicurezza e la sensibilità della madre, che la portarono a sviluppare diffidenza nei confronti degli altri.
Il carattere instabile del padre e la mancanza di un sostegno economico – poiché Fulgenzio aveva sperperato molti soldi in alcolici e tabacco, e non usufruiva più della sua terra ormai incolta – fecero invaghire quest’ultimo di una donna dello stesso paese, vedova anch’ella e madre di due ragazze. La signora Tremante – così faceva di cognome e, cosa curiosa, aveva i primi sintomi del Parkinson – non interessò al padre di Cenere per la bellezza o l’educazione, ma per la sua ricchezza che avrebbe garantito più stabilità alla famiglia. Ella stessa puntava ad appropriarsi dei beni dell’uomo, e non mancò di fare violenza psicologica a quella persona già tribolata; costrinse anche le due figlie, Genuflessa e Anestesia, a rendere la vita impossibile a Cenere e far ricadere ogni colpa su di lei.
Disastri in cucina, usi impropri degli apparecchi elettronici del padre, stanze messe a soqquadro, vestiti sporchi e stropicciati, quaderni dei compiti scarabocchiati e libri strappati… Fulgenzio biasimava ogni volta Cenere per colpa della sua disarmante ingenuità, per la ripugnanza che aveva sempre provato per lei, perché riteneva che le altre dovessero essere trattate come gentili ospiti.
Cenere detestava il padre, e in cuor suo era invidiosa di tutta l’importanza che egli dava alle sorellastre; sicché, quando morì d’infarto, ella non versò alcuna lacrima ed entrò in uno stato di perenne apatia, imparando a ricacciare dentro ogni tipo di sentimento in maniera formidabile, ed andare sulla difensiva ogniqualvolta si sentisse minacciata.
Soddisfatte di essersi liberate dell’uomo, la donna e le figlie ereditarono tutto il patrimonio rimasto; l’ultima cosa da fare era sbarazzarsi di Cenere per poter vivere in pace nella loro casa rurale.
Furono vane tutte le loro proposte; la possibilità di trasferirsi in città e di frequentare una scuola privata era una di queste. La giovane aveva già attuato la sua vendetta, negando la propria felicità e libertà, così come quella degli altri, trasformandola in cenere. Si rinchiuse in una solitaria prigionia, senza voler chiedere aiuto a nessuno; impose a se stessa di fare tutti i lavori di casa per sfogo, suscitando di proposito commiserazione in coloro che andavano a fare visita alla matrigna, e mettendo quest’ultima in cattiva luce. Manifestò la voglia di abbandonare gli studi e cercarsi lavori part-time – scelta che la Tremante non disquisì per il futuro stipendio della fanciulla –; rifiutò di prendersi la patente e di familiarizzare con nuovi modelli di cellulari perché ciò comportava un avvicinamento alla vita sociale che tanto odiava.
Convivevano ambedue le fazioni per convenienza.
Venne il 2017. Gli squilibri mentali di Cenere, ereditati dai genitori, si fecero sentire di più. Cominciò a ritenere di avere visioni mistiche di fate che le avrebbero garantito protezione se le avesse accettate come angeli custodi; ella cadeva in stati di estasi e, quando tornava in sé, era piena di giubilo poiché credeva di essere la principessa sul pisello, come le protagoniste di quelle favole superficiali che sua madre soleva inculcare nella sua malformata mente di bimba, ai tempi appena dodicenne.
Iniziò a considerare come unici veri amici gli uccellini che ogni mattina cinguettavano alla sua finestra e lasciavano le loro necessità corporali sul cornicione – ai quali lei si univa, cantando a squarciagola –, e le pantegane che catturava piazzando trappole nel trascurato terreno del padre e che tentava di addomesticare in segreto. Sfruttava quei topi per combinare dispetti al nuovo gatto della matrigna, che lei detestava perché riempiva di peli tutta la moquette.
L’antipatia fra lei e le sorellastre aumentò dopo che Cenere ebbe spifferato alla matrigna che un pettirosso le aveva riferito di un bacio tra le due figlie nella loro stanza. La vedova Tremante tremò di fronte a tale affermazione, ma finì per non credere alle sue parole, e appena Genuflessa e Anestesia lo seppero, le tirarono i capelli e le alzarono le mani.
A lei piaceva essere trattata così; le dava un senso di benessere. Aveva sviluppato, nel corso degli anni, un attaccamento morboso a quella vita monotona. Non se ne lamentava, né voleva cambiarla.
Tempo dopo, le sorellastre riuscirono a diplomarsi – dopo diversi tentativi e lasciti monetari da parte della madre – e andarono a frequentare la prestigiosa università di Augustopoli, il capoluogo della regione; non prima della raccomandazione della signora di non dimenticare i subdoli insegnamenti, di fare esperienza e fidanzarsi.
Qualche mese più tardi, le due inviarono un SMS alla vedova, nel quale vi era scritto che le giovani, durante una serata in discoteca nella quale avevano fatto esperienza, avevano conosciuto il figlio del sindaco della città. Egli, completamente ubriaco, aveva confessato loro che la sua ragazza l’aveva lasciato per il nipote della regina d’Inghilterra.
Alla vedova brillarono gli occhi; le si era prospettata la possibilità di un’ascesa sociale di una delle figlie, se avesse conquistato quel ricco giovane dalla bionda chioma ossigenata.
Un giorno, Cenere, mettendo mano per curiosità al cellulare della matrigna, scoprì l’esistenza del ragazzo. Appena ne seppe il nome e il cognome, Alfio Scamorza, lo rintracciò su Facebook tramite il profilo della Tremante. Il suo cuore le palpitò forte appena lesse nella descrizione “vegano convinto; io sono quello che sono, non quello che gli altri pensano che io sia” ed altre citazioni di ampio spessore culturale.
Cenere cominciò ad immaginarsi una relazione a distanza con Alfio – preferibile a quella ravvicinata perché il contatto fisico la metteva a disagio – e un’eventuale presentazione della sua pantegana preferita, Giangiuliangelo. Cominciò una lunga conversazione col giovane, nella quale Alfio riuscì ad ammaliarla così tanto da farle tornare la voglia di scoprire la città.
Eliminati tutti i loro messaggi ed uscita da quell’account, la ragazza decise di organizzare un viaggio lì, facendosi aiutare dalla matrigna – dicendole che era di piacere. Fatti i biglietti del treno e comprata una gabbietta per Giangiuliangelo, le mancava solo un vestito provocante – come voleva Alfio –; dopo essersi messa in ginocchio a pregare una sua fata di nome Sbadatina, si ricordò miracolosamente di rovistare fra gli abiti di Primark delle sorelle, trovandone uno azzurro e corto – le arrivava a metà coscia – e scegliendo poi un paio di scarpe rifulgenti Louis Vuitton con tacchi a spillo.
Il giorno della partenza si agghindò in suddetto modo. Prese due treni sbagliati, si smarrì tre volte, perse l’equilibrio quattro volte, pianse cinque volte, ma alla fine riuscì a raggiungere la sua fiamma virtuale alla stazione prestabilita.
Alfio le fece girare la città, che Cenere contemplò con ragguardevole stupore e una buona dose di attacchi d’asma; la portò in un ristorante di lusso, pieno di gente. Fu in quell’occasione che la ragazza esternò la sua ansia e sociopatia; si mise ad elogiare la vita di campagna mentre si strafogava di spaghetti allo scoglio e mangiava il pesce con le mani. D’altra parte, Alfio non si mostrava tanto interessato, e passava i minuti a controllare Instagram.

«Stai proferendo verbo a Genuflessa e Anestesia o stai solo ammirando i loro décolleté?», domandò Cenere con aria perplessa, «Ah, devono odiarmi assai…»
«Le due amanti? Oh no, gentil donzella!»
Alfio le raccontò che le due avevano sfruttato il loro viaggio per coronare il loro sogno d’amore; Cenere ebbe la conferma della loro omosessualità incestuosa, e si promise di spifferare tutto alla matrigna al suo ritorno.
Alfio, però, non aveva buone intenzioni; il suo scopo era divertirsi con lei quella sera in discoteca. Tuttavia, appena Cenere mise piede in quel locale così malsano, congestionato e rumoroso, ella sbiancò e perse il senno; si mise a schiamazzare per tutta la sala, lasciando gli altri di sbieco, e poi evase con le mani fra i capelli – non prima di aver rotto qualche bicchiere e spinto qualche invitato.
La fanciulla cadde di faccia molte volte, ma il vero guaio che combinò fu passare sopra la grata di un tombino, facendo incastrare nel loco il tacco di una sua scarpa. Vedendo che il magnanimo Alfio la stava inseguendo a suon di parole scurrili, Cenere abbandonò la scarpetta e tornò con l’ausilio di un taxi all’ostello nel quale aveva prenotato una camera matrimoniale per lei e la pantegana.
Dopo alcuni giorni, Cenere, mentre si trovava ad un Internet Point e stava bazzicando il sito di eBay per cercare delle sneakers a buon prezzo, scoprì con sconcerto che Alfio aveva messo in vendita la scarpa che lei aveva lasciato, scrivendo nella descrizione che apparteneva ad una ragazza bionda che calzava trentasette, e aggiungendo poi come contattarlo.
Cenere, dispiaciuta per quanto era accaduto, e decisa a farsi ritrovare dal giovane e dirgli il suo nome – no, non l’aveva ancora fatto –, cliccò il tasto “Compra” prima che qualcun’altra potesse approfittarne.
Troppo tardi: qualche secondo prima, una sconosciuta aveva acquistato l’oggetto. La povera Cenere pensò di contattare il ragazzo su Messenger, ma non si ricordava la password della sua matrigna, e non aveva nemmeno il suo numero di telefono. Allora la sventurata si demoralizzò per la sconfitta ed il presunto tradimento, buttando tutti i suoi progetti al vento.
Una settimana più tardi, i quotidiani di Augustopoli diedero la notizia del fidanzamento del ragazzo con una fanciulla che aveva calzato perfettamente la scarpa poiché aveva il medesimo numero; bionda, slanciata e soprattutto ricca.
Cenere rimpianse di essersi fidata di un estraneo e di aver rinunciato alla vita di campagna. Nel contempo, comprese che l’unico che le era sempre stato fedele era il suo topo preferito, e si rese conto di non voler desiderare altro fuorché le sue attenzioni.
E fu così che la donzella dai capelli color cenere, dopo aver detto addio fra sé e sé alla matrigna, alle sorellastre amanti, ad Alfio e a tutti gli animali che aveva conosciuto a Villavalle, partì – grazie ai soldi ereditati dal padre – con Giangiuliangelo alla volta di luoghi remoti, in cerca di una nuova vita e di un nuovo ragazzo da poter sfruttare come babysitter per la sua pantegana quando lei non avrebbe potuto badargli.
Conclusasi così la sua travagliata vita sentimentale, poté tornare a detestare la società e fare vittimismo.
Nessuno dovette sopportare più la sua opprimente presenza, e vissero tutti felici e contenti.

Orsù dunque vi chiederete: è, codesto racconto, soltanto una mera rivisitazione bizzarra della fiaba? Perché mai voll’io narrarlo?
Il senso di questa sì triviale storia va ben oltre il suo rivestimento burlesco e il riadattamento delle vicende.
È la chiave moderna, la risposta a tutto; essa riflette con enfasi ed esagerazione mordace lo specchio della nostra società e la consapevolezza di valori, utopie e stereotipi che oggigiorno vengono a mancare. Sta a voi considerarlo un bene o un male.
Non esistono principesse pure di cuore, portatrici di umiltà ed esempi da seguire, poiché il mondo dei ricchi e di chi ha potere è corrotto; né tantomeno esistono principi fedeli che eleggono una compagna per puro sentimento.
Non esistono storie d’amore fatte contemporaneamente di colpi di fulmine, fortuna e devozione, né tantomeno la possibilità di aspirare ad un’ascesa sociale con tale semplicità, se non si è scaltri e fuorviati dalla retta via e si è, invece, deboli di carattere e non predisposti al cambiamento.
Non esistono persone così poco dignitose ed esageratamente pietose – come la vera Cenerentola, la quale si lasciava assoggettare ai voleri delle sorelle e della matrigna senza batter ciglio, senza provare a fuggire o chiedere aiuto, passando invece le giornate a sognare ad occhi aperti.
Non esistono nemmeno persone totalmente cattive, temibili, da biasimare per ogni cosa che fanno, impossibili da affrontare o invincibili.
Esiste, invece, chi è perennemente insoddisfatto della vita, che non si accontenta mai o rimane confinato nel suo dolore e nelle datate tradizioni.
Esistono persone che, a causa della loro salute mentale instabile, fanno soffrire anche peggio chi sta loro accanto, e trasmettono la depressione – o la cattiva condotta – ad eventuali figli.
Esiste chi si approfitta della gente per puri interessi sessuali e materiali, e non concepisce l’amore nel suo significato più puro.
Esistono genitori che non si curano degli interessi e diritti di un figlio, e rendono quest’ultimo uno strumento per le loro ignobili azioni.
Esistono figli che da grandi si creano uno scudo emotivo, si vendicano del torto subito o fuggono lontano dal morbo. Sviluppano manie, ossessioni, astio, squilibri. Rifiutano di essere socialmente attivi, trovando, per esempio, conforto negli animali domestici.
Esistono differenti canoni di bellezza; si preferisce, in genere, il ragazzo alla moda e infedele, piuttosto che l’educato cavaliere errante di sani principi.
Esistono relazioni superficiali, nate con semplici richieste d’amicizia e poca frequentazione.
Una persona può essere facilmente rimpiazzata da un’altra, il più delle volte perché non conforme alla massa.
Sono stati abbandonati certi stereotipi per acquisirne altri, poiché la società e le nuove generazioni non sono altro che un ciclo in cui non vige la regola “historia magistra vitae”, ma si commettono infinitamente gli stessi errori sotto luci differenti.
Differenti perché ci si deve adeguare al modo di pensare di quel tempo.
Perché ognuno è figlio del proprio tempo, dico bene?
Questo è quanto, cari ascoltatori.
Ora basta parlare: sono le undici di sera e non si può andare a letto. È troppo presto, vero? La Home di Facebook dev’essere ancora aggiornata, i messaggi di Whatsapp ancora visualizzati, gli ultimi video di YouTube ancora visti e messi tra i preferiti.
E scusatemi se vi ho tediato con questa favola della buonanotte. So che avete altro da fare.
Che sciocca: un’usanza del genere si è già persa da tempo. Che esempio starei cercando di dare, altrimenti, dopo gli insegnamenti sopracitati?
Sono proprio una smemorata; anzi, una Smemorina.




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Angolo dell’autrice

Salve a tutti gli utenti di questo fandom!
Come ho scritto nel prologo, questa storia partecipa alla sfida “A box full of prompt edizione II” del gruppo Facebook “EFP famiglia: recensioni, consigli e discussioni”.
Il prompt a cui mi sono ispirata è il seguente: “Reinterpretazione di una fiaba a propria scelta in chiave moderna, cambiando alcuni elementi ma restando fedeli all’idea di base.” Colgo anche l’occasione per ringraziare la persona che l’ha proposto e che mi ha permesso di elaborare quest’idea.
La mia è una rivisitazione “particolare”, poiché ho voluto accorpare elementi dell’universo moderno ad un pizzico di comicità satirica. Tuttavia, non mi sono voluta focalizzare tanto sulla descrizione di certe “abitudini” ed interessi odierni, quanto sulla morale e su certi problemi psicologici – qui estremizzati –, attenendomi al concetto fiabesco; motivo per il quale, alla fine, traspare anche un barlume di apprezzamento nei confronti di questi racconti, che sì sono illusori, ma anche fautori di purezza d’animo ed insegnamenti.
Quindi la storia sintetizza, a grandi linee, il mio punto di vista per quanto riguarda certi insegnamenti – a mio parere – utopici e fuorvianti delle fiabe, e l’enorme degrado di sentimenti e valori nel quale la società di oggi si sta via via immergendo.
Ho scelto la fiaba di Cenerentola per due motivi:
- è una delle più conosciute (se non la più conosciuta in assoluto); quindi, i confronti e la trasposizione in chiave moderna possono essere capiti da tutti i lettori.
- è quella che mi piace di meno; la caratterizzazione dei personaggi (specialmente di Cenerentola), come questi ultimi agiscono e come proseguono le vicende mi lasciano delusa, infastidita, con l’amaro in bocca e una smorfia sul viso ogni volta che rileggo la fiaba/guardo il film.
Per quanto riguarda la mia interpretazione sui “recessi oscuri” della psicologia dei personaggi, ho aggiunto o esplicitato – alternandomi tra serio e faceto – alcune cose che nell’opera originale sono state lasciate all’immaginazione del lettore o fatte passare per comportamenti normali.
La frase inserita prima del racconto è una personale storpiatura di una citazione di Italo Calvino (cliccate qui per visualizzare il testo originale), il quale – al contrario – elogiava tutte le fiabe.
Spero – anche qualora non doveste concordare con alcuni aspetti della “morale” finale – che abbiate gradito questo scritto, e che il mio punto di vista e questa versione dei fatti vi abbiano, comunque, incuriosito.
Commentate, che mi fa sempre piacere parlare con i lettori!
Grazie per essere arrivati fin qui. ^^
Alla prossima,
Scarlet
  
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