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Autore: MadLucy    05/03/2017    2 recensioni
{Jekyllstein | Victor Frankenstein/Henry Jekyll | mpreg | pregnant!Victor | what if | post-canon fix-it | cambia esattamente dal punto in cui Henry è alla porta nella 3x9 | fluffangst | Hyde's arrival}
{ripeto: M P R E G}
«Siamo l'uno l'esperimento dell'altro, non è vero? L'uno il mostro dell'altro.» C'è una sorta di malinconia nebulosa nel modo in cui Henry lo dice.
«Ancor prima che il tuo seme attecchisse nel mio corpo e lo invadesse fino ad assoggettarlo» garantisce Victor, facendo aderire la propria mano sopra alla sua. «È la nostra maledizione.»
«È la nostra salvezza.»
Genere: Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Victor Frankenstein
Note: What if? | Avvertimenti: Mpreg
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This great stage of fools



«Ho sottoposto il mio sangue ad un esame» Le parole di Victor lo raggiungono alla porta da cui Henry sta per uscire. Lui rallenta, indugia sulla maniglia.
«Perchè?»
«Per avvalorare un sospetto.» Si è fermato così, a distanza da lui, impiantato come se avesse una radice a sostenerlo. Il suo sguardo ceruleo e volubile fra le palpebre arrossate è ora sgombro di incertezza, quasi pulito dal dolore, come se una pioggia avesse nutrito la terra brulla. Ha un'aria più concentrata, più presente. E quella bellezza distratta -quella tipica, che si accende quando un meccanismo inizia a funzionare non solo nella sua mente, ma anche nel mondo reale- disarma Henry. Si chiede dove sia finita la faccia grigiastra da affogato che ormai è abituato a vedergli addosso. La prima supposizione è crudele, una forma di panico.
«Sei malato?» Che sia la fine di tutto quanto la sua gioia? Henry osserva il sorriso formarsi, allungarsi, gli occhi studiare il disorientamento sul suo volto, come se prevedesse un'evoluzione.
«No.»
Quell'atteggiamento sibillino lo esaspera. «Non ho tempo per giocare, Victor.»
Victor annuisce, dal profondo della sua espressione remota. «Nemmeno io. Aspetto un bambino, in fondo.» E lo dice con tono asciutto, appena divertito, un po' beffardo: intimamente trionfante.
Henry contrae la corta bocca carnosa. «Cosa diamine vorrebbe dire?»
«Che mi sono messo ad aggiustare me stesso, dopo aver fallito con tutti gli altri.» Strozza una risata pallida. Il sorriso rimane come uno spettro impigliato alle sue labbra. «Un'operazione delicata. Un trapianto di utero. Mi sono aperto in due. Ma ha funzionato. C'è una vita dentro di me.»
«Non è possibile» soffia Henry, la bocca che si socchiude sbigottita.
«Ho smesso di creare mostri, di prendere in prestito i rottami marci di questo mondo già degradato. Voglio creare qualcosa che possa controllare fin dal suo primo respiro, che possa programmare a mio piacimento. Che profumi di acqua amniotica e non puzzi di putrefazione.» Victor china il mento, adombrato dall'allusione. «Dicevi che non sono in grado di gestire i miei sentimenti. Avevi ragione. Ho bisogno di stabilità. Di focalizzare l'amore su qualcosa di davvero innocente, tratto fuori dall'oblio di nessun passato. Ho escluso la morte dalla mia vita. Scavalcare un'altra frontiera, padroneggiare il confine tra l'esistere e ciò che viene prima... Poter amare qualcosa di solo mio senza incontrare resistenza. Una speranza. Un nuovo germoglio. Carta bianca. L'ultima responsabilità che voglio prendermi. Un'ultima possibilità che dò alla scienza di salvare la mia fede in essa. Essere un vero padre, in un modo così straordinario. Dare alla luce un altro romantico della mia specie.» La sua voce si intenerisce.
Henry lo fissa, stralunato. Esaurisce in poche falcate lo spazio che li divide, gli solleva il panciotto e la camicia con un unico gesto. La cicatrice spicca suturata sulla carne bianca. Deve ripassarla con il pollice, esterrefatto, prima di tornare ad apostrofare il suo viso.
«Come hai fatto?»
«Al posto della vena uterina, ho assicurato l'arteria-»
«Di chi è?» sussurra Henry, con urgenza.
Una pausa di qualche secondo. Victor non distoglie il contatto visivo. «Mio», risponde grave, quasi severo, «quanto tuo. Lo abbiamo generato con la nostra unione.»
Le grandi iridi scurissime e implacabili di Henry, in cui la pupilla non si distingue, fremono contro le sue, mentre si sforzano di non scivolare ancora su quella striscia tiepida di ventre che Victor ha coperto di nuovo con zelo, e le sopracciglia vi si aggrottano sopra. «Oh, santo cielo» pronuncia cautamente.
«Avevi tutti i requisiti adatti, una buona salute, una conformazione robusta, una spiccata intelligenza. Potremmo definirla eugenetica» snocciola Victor, pratico. «Per non parlare del fatto che sei venuto a letto con me.»
Henry replica, secco. «Non c'era nessun letto. Eravamo contro quel muro.» Si sfrega la faccia con il palmo aperto, rapido, sconvolto. «Tu lo sapevi... No, lo cercavi. Però non mi hai nemmeno chiesto il permesso per farlo. Non mi hai messo al corrente delle conseguenze.»
«Il nostro contributo congiunto, non era così che doveva andare fin dall'inizio?» insiste Victor. «Abbiamo solo frainteso in che senso. Pensaci, Henry. Un posto in cui lasciare la parte migliore di noi. Un motivo per continuare a curare il mondo. Un angolo di bene privato e soltanto nostro in questa fogna di male. E poi, con un lignaggio simile, sarà un piccolo genio. Ti renderà orgoglioso» conclude, quasi con un'impacciata timidezza.
La fragilità, il denudarsi di quelle ultime parole lo vincono. Gli ha esposto la propria debolezza, sapendo che potrebbe preservarla come ferirla a morte. Si è fidato di lui ancora una volta. Coinvolgerlo in quel progetto è la dimostrazione più importante di quanto lo voglia tenere nella propria vita, forse un ampliamento del discorso dell'accettare i propri sentimenti -accettare quanto abbia bisogno di lui.
Dopo qualche istante di riflessione, Henry cede ad aprirsi.
«Quanto tempo ha?»
«Oggi è un mese» annuncia Victor, fiero. L'altro lo scruta, serio.
«Ti rendi conto che è molto difficile che tu porti a termine la gravidanza? Potrebbero sorgere migliaia di complicazioni.»
Victor dissente energicamente, determinato. «Vivrà. È forte. Lo sento crescere in me giorno dopo giorno.»
«Se andrà a buon fine, sarà il più grande successo che la natura umana possa ottenere» mormora Henry. «Il tuo capolavoro.»
Non c'è nulla da temere, piccolo mio, pensa Victor, il tuo papà è già innamorato di te.
«Ci starai ancora vicino?» chiede piano.
Henry fa una smorfia addolorata nel prendere in considerazione il contrario, rendere orfano l'esserino speciale che Victor porta in grembo, e lui stesso, reso vulnerabile dalla sua condizione.
«Per chi mi hai preso, per mio padre? So cosa significa non sentirsi benvoluti, e non lo augurerei mai a mio figlio. Ora ho abbastanza denaro per sostentare chi voglio.»
«E ci vuoi davvero? O lo farai per dovere?» incalzò Victor, questa volta più esitante.
Henry torreggia su di lui, slanciato, prestante, sfiorandogli il naso con il proprio.
«Non ho fatto altro che aspettare che tu capissi di amarmi, non da amico leale. Che i nostri incontri e l'attrazione reciproca non erano solo foia e confusione giovanile. Sei l'unica persona con cui avrei mai voluto avere una famiglia. E sarò lieto e onorato di aiutarti ad allevare lui.» Henry gli cinge i fianchi magri con un braccio e gli tocca la pancia sopra la stoffa, in silente ammirazione.
In questo momento così incantevole, Victor si domanda cosa prenderà il bambino da lui. Magari la sua figura elegante, il suo incedere con sicurezza, o i suoi capelli corvini. I loro caratteri somatici sono quasi agli antipodi. Accarezza con l'indice la fisionomia esotica dei suoi lineamenti, le guance un po' incavate, gli zigomi alti e bronzei, la fronte larga, il mento appuntito. Socchiude gli occhi e non nasconde il piacere che prova nell'avvertire la sua mano grande e olivastra a proteggergli l'addome, il nido della loro creatura.
«Devi avere cura di te più che mai. Niente digiuni. Niente narcotici. Mai più. Tè e pasticcini ogni giorno» ordina Henry, minaccioso.
«Una vita grama» ride Victor.
«Penserò a tutto io» prosegue l'amante, afferrandogli entrambe le mani. «Trasferisciti da me. Tornerai al laboratorio solo per lavorare, finchè il tuo stato lo permetterà. Poi diffonderò in giro la notizia che hai una malattia contagiosa, così nessuno ti importunerà. Quando il bambino nascerà, tutti crederanno che si tratti di un bastardo mio o tuo.»
«Ok» conferma Victor, sopraffatto dalla sua improvvisa lungimiranza. «In seguito, potremmo giustificare la convivenza con motivi economici. Oppure per una nuova collaborazione professionale.»
«Il che non è interamente una menzogna.» Lo scienziato in Henry si desta, acuto, una gioia meschina, avida, di metallo, a fremergli nei polsi. «A parte le romanticherie da neogenitori, si tratta di un esperimento di rilevanza scientifica incalcolabile. Non possiamo nemmeno essere certi che il prodotto di una fecondazione così inusuale sia un bambino dalla stessa struttura fisica e psicologica di quelli nati da un concepimento tradizionale. Sarebbe un crimine non documentare ogni fase della gestazione e dello sviluppo. Molto dipende dall'effetto degli ormoni gravidici su un corpo maschile.»
«E dalla lettura prenatale di Keats» aggiunge Victor, sornione, già visionandosi a recitare ispirato quelle poesie per lunghi mesi. Può sottoscrivere che le nausee mattutine non mancano, comunque, a giudicare dall'inedito disgusto per le uova a colazione.
«Un essere vivente così unico e prezioso» rincara Henry, trasognato, stavolta immerso in una fantasia da ricercatore.
«Siamo sempre stati certi che io e te insieme avremmo creato qualcosa di straordinario» rammenta Victor, lieto. «Grazie alla nostra competenza e al nostro ardore» completa, prendendo colore in viso.
«E al narghilè» puntualizza Henry, allusivo.
«E al narghilè» ripete l'altro, imbarazzato.
«È meglio che tu traslochi quanto prima. Già stare solo in casa finora è stato un azzardo. Potresti avere necessità di assistenza medica in qualsiasi momento, incluso durante la notte.» Pensa anche ad altre necessità notturne che il padre di suo figlio potrebbe accusare, ma tace sapientemente.
«A proposito di questo, ti sarei molto grato se, allo scadere del termine, fossi tu a estrarre il nascituro. Ho già maneggiato le mie viscere e preferirei non ripetere l'esperienza» commenta Victor, disgustato.
«Dunque sarà quella la modalità di espulsione?» sogghigna Henry. «Non intendi applicare alcun'altra miglioria al tuo organismo? Me ne vengono in mente un paio.»
«Ti conviene tacere, dottore.»

***

Appena si sveglia, a notte fonda, crede per maggioranza di probabilità che si tratti del bambino, ma ci mette poco a realizzare che non è così. Alle sue orecchie, pur da sotto una spessa coperta di lana intrecciata, giungono tonfi che paiono causati dalla caduta violenta di grandi oggetti. Alcuni sono veri e propri crolli e impatti. Victor rimane dov'è, nella nicchia del materasso, cercando di fornire una spiegazione pressochè razionale a quello che sente. I rumori non si fermano. Una volta aperti gli occhi, controlla l'altra metà del letto: nessuno. Se Henry non sta facendo qualcosa per placare quel frastuono, l'unica possibilità è che lo stia suscitando. Ma si decide solo quando un colpo più fragoroso degli altri si infrange, facendolo sussultare.
Si alza dal letto, trovando la giusta postura inclinata della schiena per bilanciare il peso del feto nel suo ventre. Percorre il corridoio, irradiato da una luminescenza bluastra perchè solamente la luna filtra dai vetri delle finestre non schermate dalle tende, e, dopo essersi accertato che l'origine sia il piano di sotto, scende le scale al buio, afferrandosi prudente e circospetto alla balaustra di ferro battuto. Il salotto è vuoto, ma una lampadina fievole, appesa sopra uno dei tavoli da pranzo, sfarfalla frenetica, il vetro in parte rotto, probabilmente perchè percossa con violenza. L'anta della dispensa è divelta dai cardini e abbandonata al suolo, il contenuto sparpagliato tutt'intorno. Tre sedie sono capovolte e una è stata scagliata contro il muro. Anche un vaso in terracotta di condimenti è in frantumi. Victor fa attenzione a non calpestare nessun frammento tagliente, con le piante nude dei piedi, e avanza angosciato.
«Henry? Dove sei?» L'ipotesi è che uno dei pazienti sotto osservazione sia fuggito e abbia combinato tutto questo, ma Henry non li tiene mai in casa, solo al manicomio...
Henry si volta a guardarlo dritto negli occhi. Sarebbe un sollievo vederlo, se solo non avesse il volto distorto dal furore e la gamba di un altro tavolo in pugno, come una mazza. Victor sente il cuore rimpicciolirsi dallo spavento.
«Perchè ti sei ridotto così?» borbotta nervosamente, più parlando con se stesso. «Adesso cerco la tua medicina.»
«Non ho bisogno di medicine» sbotta Henry -o quel che resta di lui in questo momento. «Non ho bisogno di tutte le tue medicine, ipocrita, orribile mondo!»
Con veemenza, sferra un fendente potentissimo a un orologio a pendolo, mandando in mille pezzi il quadrante e facendolo precipitare a terra. Victor fa più in fretta che può, il respiro corto -ricorda, ricorda, ricorda, la dose nel cassettone dello studio. Henry ha preteso che ne rimanga sempre un po' in casa. Victor riesce a raggiungere la stanza mentre Henry è intento nello scaraventare giù dagli scaffali una serie di cartelle cliniche. Trova nello stesso cassetto la dose, una fialetta di denso liquido semitrasparente, e una siringa. Con dita tremanti la prepara e poi, silenziosamente e accuratamente, si acquatta alle spalle di Henry per impiantargli l'ago nella nuca e stantuffare. Attende. L'effetto è di solito quasi istantaneo, si manifesta con avvisaglie di stordimento, giramenti di testa e uno svenimento che, al risveglio, lo riscopre lucido e in sè. Nulla di questo accade. Henry si gira, inferocito.
«Tu» ringhia «tu mi hai sempre disprezzato come tutti gli altri. Non sei così diverso. Mi hai offerto la tua amicizia solo per profitto, per poter far valere la tua superiorità... Credi che io sia inferiore e che dovrei stare dentro un serraglio!»
Victor preme la schiena contro la parete, in trappola.
«Non è vero, sai che non è vero.»
Si riflette nelle pupille dilatate dell'uomo di fronte a lui e, per la prima volta, teme per la sua incolumità. Da quando Henry ha accidentalmente invertito la reazione del suo primo composto, scoprendosi in grado di scoprire la trivialità insita e repressa in qualsiasi individuo, i suoi esperimenti hanno intrapreso un indirizzo più fine a se stesso che votato alla risoluzione di una piaga sociale. Una volta sottopostocisi lui stesso, per verificare se l'espediente di un alter ego simile potesse sfogare il rancore di una persona completamente e lasciarla, in forma originaria, libera da qualsiasi cruccio e frustrazione, vi è rimasto assuefatto, per via della sensazione di incolpevolezza e serenità che offriva appena gli effetti svanivano. Ma dopo l'ultima occasione in cui se ne è servito, in cui in quelle ore di incoscienza ha compiuto degli omicidi le cui vittime erano suoi antichi compagni di scuola, nonchè il professore per colpa del quale si fece espellere, e le cui tracce lui e Victor hanno faticato a nascondere, Henry si rifiutò di prenderla ancora e ne limitò la somministrazione alle sue cavie sotto osservazione. Per questo Victor non capisce perchè l'abbia assunta di nuovo, e perchè l'antidoto non abbia funzionato.
Dall'interno del turgore del suo ventre emerge un calcetto, un atto di presenza rammemorativo, e lui ipotizza che il bambino abbia avvertito la sua paura. Serra le scapole al muro. Sa che Henry in passato ha anche stuprato delle persone, durante quelle ore. Immagina quanto sarebbe penoso venire violati dallo stesso corpo che lo ha amato.
«Ti prego, non farci del male» supplica, sforzandosi di mantenere la voce ferma e compatta. Henry lo afferra fulmineo per la gola, come se non avesse parlato. La presa non è così ferrea, ma lo immobilizza.
«Tu mi odiavi quanto gli altri, ma diversamente da chiunque fingevi di amarmi.»
«Menzogne!» Victor cinge il ventre rotondo con le braccia, chinando la testa in basso, per riparare la crisalide e incassare qualsiasi urto al posto suo. Ormai stenta a sfrenare un singhiozzo, insieme ai singulti. «Ma non pretendo che tu mi creda. Non risparmiare me. Risparmia il nostro miracolo.»
Henry -Hyde- rivolge lo sguardo alla sua pancia. Una specie di tremito attraversa il volto, dalla fronte al mento. La bocca freme senza aprirsi. Le narici dilatate, inspira attonito dentro un'istantanea, o forse un impulso, e chissà cosa. Anche Victor respira, veloce, accartocciato intorno alla speranza. Infine, Hyde lo molla, quasi spaventato, ritrae la mano come se fosse una tenaglia, qualcosa di estraneo e improvvisamente sgradito. Senza spiccicare parola, si volta e lascia la stanza. Pochi secondi dopo, la porta viene sbattuta e chiusa.
Victor non si concede nemmeno un istante di smarrimento. Si alza in piedi, sale le scale, barrica la porta della camera da letto. La verità è che nessuno deve fermare Hyde, specialmente non lui. Deve fermarsi da solo. Perchè qualsiasi cosa venga fatta a Hyde viene fatta a Henry. Victor si fascia sotto le coperte, affonda il viso nel cuscino e permette al panico di sciogliersi in lacrime catartiche.
Al mattino, Henry entra nello studio mentre Victor sta facendo ordine tra le carta sparpagliate a terra per riporle sugli scaffali. Accorgendosi del suo ingresso, si gira e sorride debolmente.
«Due ore fa eri sul divano del salotto privo di sensi. Ti ho portato a letto a riposare e ho preparato qualcosa da mangiare.» Indica il piatto di pane imburrato.
Henry lo ignora. Allunga la mano con una nuova reticenza, lambisce la punta del suo ombelico sporgente.
«Come sta lui?» domanda, sollevato e mogio. Victor si bea della purezza del suo ritorno.
«Gli sei mancato, se di notte non gli parli non riesce a dormire.»
Cade un silenzio sconfortevole.
«Ricordi qualcosa?» continua, inquieto. Henry sospira, vinto, e racconta.
«È andato al laboratorio, ha ucciso tutti i pazienti che avevo curato e ha liberato quelli ancora folli.»
«Che cos'ha in mente?»
«Non lo so.» Si incupisce. «Ma ricordo anche la parte in cui ho messo a repentaglio la vostra vita.»
Victor scuote la testa. «Non sei stato tu, è stato...»
«E chissene importa?» lo interrompe Henry, disperato dalla vanità della giustificazione, per quanto vorrebbe persuadersi e non può farlo.
«Perchè hai preso il decotto?» ribatte l'altro, perplesso. Ottiene in risposta un cenno annichilito.
«È proprio questo il punto, Victor. Non ho preso il decotto» esala Henry. «La mutazione è avvenuta automaticamente. Fin dalla prima volta, progressivamente... deve avere modificato qualcosa nella composizione del mio sangue.»
Victor si acciglia, irritato dal fatto che loro, nel comporre il filtro, non l'avessero previsto e prevenuto, commettendo un errore fatale. «Scopriremo che cosa.»
Il suo amante sospira pesantemente.
«Ascoltami. Sei nella ventitreesima settimana. Sei consapevole di quanto la sua sopravvivenza sia già precaria.» La mano è ancora posata sulla curva inferiore del suo grembo, salda come un coperchio. «È questa la nostra priorità ora.»
«Se percepissi il vigore dei suoi calci come me, cambieresti idea» obietta Victor, la voce modulata da una morbidezza e un orgoglio nuovi, come se fosse tornato all'inizio del percorso e avesse dimenticato qualsiasi simulacro di essi avesse provato prima.
«Si muove molto. È un buon segno» ammette Henry, incapace di non farsene coinvolgere.
«Non mi dà tregua» concorda l'altro allegro, rapidamente, senza riuscire ad impedire che l'amarezza dei ricordi più freschi sopraggiunga.
«Finora sta andando tutto bene. Non ci sono mai stati indizi che rivelassero che qualcosa nel trapianto è andato storto, ti sei ingrossato pressapoco come qualsiasi donna al tuo stesso mese, e il battito cardiaco è regolare. Se rovinassi tutto io, poi l'unica cosa da fare sarebbe uccidermi.»
«Cosa dovremmo fare secondo te?» rimbecca Victor.
«Io dovrei trasferirmi nel tuo laboratorio» dice Henry, seppur non del tutto certo, «convivere costituisce un rischio. Così avrei gli strumenti per cercare una soluzione, ma non ci sarebbe la possibilità di aggredirti.»
«Ma non l'hai fatto!» esclama Victor, incalzante. «E non lo farai. Tu pensi che lui non possa ragionare, ma lo fa». Sa riconoscere le due facce della medaglia della persona che ama, quando è in compagnia di una o dell'altra; e ha intuito di avere squarciato il velo tra esse, di averlo condotto in uno stato di transizione, a metà tra la coscienza e il sonno della ragione.
«È la parte più bestiale di me, Victor!» sbraita Henry, snervato. «Non essere sdolcinato! È autocontraddittorio affermare che possa provare compassione!»
«Significa che io sono l'unico in grado di gestire la parte peggiore di te. E che quindi è meglio per tutti se non mi allontano.»
«È-troppo-pericoloso» si spazienta Henry.
«Solo io posso aiutarti» si ostina Victor, più calmo, più metodico. «Somministrarti l'antidoto in dose maggiore e fare analisi per fermare questo processo nel tuo sistema. Se starai solo la situazione degenererà.»
«È già degenerata!»
«Può farlo ancora di più!» Ogni forza è prosciugata, ormai lo prega come pregava costretto al muro il suo alter ego. «Dividerci non è la soluzione giusta. Se tu te ne vai, chi provvederà a noi? Chi mi assisterà durante il parto? Chi parlerà a nostro figlio per farlo addormentare?» Non si tratta di dignità, di dipendere più o meno da qualcuno, di mostrarsi piegati, si tratta di salvare la vita a tutti. «Non ci lasciare, Henry.»
Il quale, tenendo gli occhi sulla sua pancia, ridacchia fra sè.
«Siamo l'uno l'esperimento dell'altro, non è vero? L'uno il mostro dell'altro.» C'è una sorta di malinconia nebulosa nel modo in cui lo dice.
«Ancor prima che il tuo seme attecchisse nel mio corpo e lo invadesse fino ad assoggettarlo» garantisce Victor, facendo aderire la propria mano sopra alla sua. «È la nostra maledizione.»
«È la nostra salvezza.» Henry incunea il mento nella fossetta tra le ossa della sua spalla, circondandogli il torso con il braccio libero. «Non me lo perdonerei mai, se nostro figlio fosse come me.»
«E qual è l'alternativa, che sia come me?» sogghigna Victor tristemente.
Henry muove delicatamente le dita in senso orario, travolto dalla mestizia di una premonizione, o almeno di un dubbio che lo seguirà lontano. «Che non sia ostacolato nell'essere se stesso da noi.»

***

«Ah, signor Hyde» sorride Dorian Gray, comparso con sorprendente prontezza di fianco al loro tavolo. «Anche voi qui. Una bella sorpresa vedervi. Dottor Frankenstein.»
«Salve, signor Gray» rimanda Henry, smettendo di girare il tè nella propria tazza per rivolgergli un saluto cortese. «Sempre un piacere per noi.»
«Vedo che ha portato la sua bambina...» Il ragazzo socchiude gli occhi in un enfatico tentativo di concentrazione. «Temo che il nome mi sia scappato di mente, ma è piuttosto insolito.»
«Cordelia. Bisogna sempre avere Shakespeare sottomano» s'intromette Victor, impegnato nel condurre il suo cucchiaino, carico di un pezzettino di dolce alle noci, alle labbra di una bambina minuta, di non più di quattro anni, con un cappottino color carta da zucchero, coricata su un divano della sala da tè. «Il nome di una figlia amorevole e coraggiosa.»
«Ma condannata a un triste destino, se ben ricordo» sottilizza Dorian, elusivo. Guarda la piccola, una nota d'interesse inesplicabilmente accesa. Lei ricambia intimidita, con immensi occhi mogano -in cui è difficile distinguere la pupilla dall'iride- dagli angoli leggermente all'ingiù. Sotto la frangetta dritta di capelli neri, la carnagione è un drasico contrasto niveo.
«Il più triste destino che le si possa prospettare è che il suo tè si raffreddi, ora come ora» gli fa notare Victor, causticamente, secondo le forme della buona educazione.
«Oh, naturalmente. È una delizia vedere quant'è la sua dedizione per la figlia di un suo amico» osserva Dorian, malizioso e pronto per una machiavellica uscita di scena. «Non vi disturbo oltre. Avremo tutto il tempo del mondo per conoscerci meglio in futuro.» E lo intende molto meno metaforicamente di quanto faccia di solito chi lo dice.



























Note dell'autrice: L'occasione era troppo ghiotta. Self indulgent del tutto. Scientificamente discutibile ma figurativamente meraviglioso. Cordelia è la figlia di re Lear. Il titolo è una citazione. Grazie di aver letto. -scrittura telegrafica causa stato di shock ancora in corso-
Lucy
  
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