Serie TV > Battlestar Galactica
Segui la storia  |       
Autore: r_clarisse    07/03/2017    1 recensioni
Africa, 148.000 aC.
Due ragazzi innamorati, David e Steven, contemplano la bellezza del loro nuovo mondo dopo quattro anni di esodo nella Flotta Coloniale.
Il loro viaggio è terminato e ricominceranno da capo, a partire da quel momento, insieme.
David racconta in prima persona la loro storia, la loro vita insieme nelle Dodici Colonie e la corsa disperata per la sopravvivenza dopo la loro distruzione per mano dei Cyloni.
Non ha la pretesa di essere un grande racconto, ne un'opera di fantascienza, ma spero possa far trasparire in qualche modo quella che è la semplicità dell'amore che può unire due persone, attraverso lo spazio e il tempo.
"Eravamo finalmente a casa, la nostra nuova casa, e non dovevamo più scappare.
Certo, avremmo dovuto ricominciare da zero in un nuovo mondo, ma questo non mi spaventava; non mi spaventava la mancanza di cibo, il doverci arrangiare, il costruire tutto da capo.
Dopo quello che avevamo passato sarebbe stato sciocco preoccuparsi per il futuro.
Sapevo che ce l’avremmo fatta."
Genere: Drammatico, Science-fiction, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Quasi Tutti
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Capitolo 11: Rivelazioni

11.1 –“Preoccupazioni e fogli volanti.”
E’ da diverse settimane che non scrivo; l’altro ieri mi sono trovato a cercare disperatamente dove avessi riposto i miei fogli nella capanna che ospita la nostra scuola: mi sono reso conto con orrore che le risme a mia disposizione non sono infinite e che prima o poi tutte le penne esauriranno l’inchiostro; a quel punto, spero di essere già riuscito a terminare questo racconto, o dovrò lasciare ai posteri una sorta di autobiografia incompleta.
Che poi, autobiografia.
Credo sia un parolone, un’esagerazione; non sono di certo un bravo scrittore, anzi non sono proprio per niente uno scrittore dato che ho studiato per fare ben altro ( tra l’altro non ho nemmeno fatto in tempo a portare a termine gli studi) e sono certo che questa accozzaglia di parole messe insieme alla rinfusa sia piena di orrori grammaticali da far cadere i capelli a chiunque di scrittura ci capisca veramente qualcosa…
Comunque si, per diverso tempo ho evitato di scrivere perché è come se inconsciamente volessi ritardare il momento in cui tutto questo finirà. Perché un po’ mi spaventa la consapevolezza che prima o poi terminerò di raccontare quello che ho vissuto: è come se questo libro –librettino se proprio vogliamo fare i gradassi- sia l’unico collegamento che ho con la mia vecchia vita, che se devo essere sincero, a volte mi manca.
Quando trovammo questo pianeta, stremati da tutto quello che avevamo dovuto affrontare, il governo decise di rinunciare ai comfort dati dalla tecnologia che ci era rimasta, temendo che un giorno, i disastri avvenuti sulle Dodici Colonie, sulla vecchia Terra e su Kobol prima di essi, ricapitassero ancora una volta. Come disse Pithya “Tutto ciò è già accaduto ed accadrà ancora.”
Niente telefoni, niente lavatrici, niente astronavi, niente automobili, niente asciugacapelli. Niente.
Solo trentamila persone, una manciata di Cyloni pentiti e qualche sogno per il futuro.
Ammetto che non fossi esattamente entusiasta come molti altri quando i militari ci proposero questa via. Ma del resto, ero parte di una minoranza. Chissà se il nostro popolo sopravviverà nei millenni a venire, senza difese, senza mezzi.
I dottori dicono che il nostro DNA è compatibile con quello degli indigeni primitivi di questo mondo verde e azzurro; c’è chi auspica che un giorno i nostri discendenti potrebbero unirsi a loro, e perpetrare i geni di una nuova specie. Una specie che popolerà queste sconfinate praterie, e gli altri continenti.
In realtà, c’è anche chi si chiede se non finiremo per unirci con i Cyloni: è già avvenuto, e i Cyloni  dicono sia stato un miracolo di Dio, che avrebbe secondo loro instillato la vita in un essere concepito dall’atto d’amore di un uomo umano ed una donna Cylone, circa cinque anni fa.
La piccola Hera, figlia di Karl Agathon e del Cylone noto come Sharon Valerii.
La piccola per cui tutte le nostre forze civili e militari, unite a quelle dei Cyloni, si erano mobilitate al fine di salvarne la vita, ritenuta la chiave per la salvezza dei nostri due popoli. Chissà se davvero accadrà.
Forse, un giorno, tra migliaia e migliaia di anni, forse è probabile che quanto avvenuto in passato venga dimenticato: le nostre origini, Kobol, le Colonie, le nostre antiche conoscenze sul viaggio spaziale, la guerra con i Cyloni, tutto.
Magari i nostri posteri non avranno nemmeno idea di chi fossero i Cyloni: saranno essi stessi in parte Cyloni, senza saperlo mai, se davvero si dovessero avverare le previsioni di alcuni tra noi.
Ma queste sono solo fantasie che partorisco quando mi annoio, quando non so che cosa fare tra un’attività e l’altra.
A volte mi offro perfino volontario per aiutare ad arare il campo; chi l’avrebbe mai detto, io che faccio l’agricoltore: un bel salto di qualità per il maestro biondino che ero ai tempi delle Colonie.
Beh, dicevo che i fogli a mia disposizione non sono infiniti e prima o poi mi mancherà la carta per scrivere e che spero di aver già terminato la mia opera per allora.
Non so sinceramente che cosa ne farò a quel punto, dove la metterò, a chi la lascerò.
Sta di fatto che mi servono le graffette per rilegarla, spero di averne ancora qualcuna nella mia scrivania.



11.2 –“Saluti e presenze inquietanti”
La luce del sole filtrava tra le tende blu della finestra proiettando nell’ambiente un confortevole e azzurrognolo candore, il quale investiva molto dolcemente i mobili che abitavano la nostra camera da letto che si svegliava ora insieme al piccolo angolo di mondo in cui si trovava.
Era davvero inusuale che dormissimo con le ante della finestre anche solamente socchiuse: a meno che non fosse per via del caldo estivo in cui era praticamente un obbligo, non mi era mai piaciuta l’idea che vi fosse un apertura senza filtri sulla stanza in cui dormivo, e questa sensazione era stata mia fin dai primissimi anni di vita; Steven non si è mai preoccupato di questi dettagli poco significativi –almeno per lui- e quindi, finestre aperte o chiuse, a lui non importava molto, così non era stato un problema accettare quella mia abitudine una volta iniziata la convivenza.
Come dicevo, non mi era mai piaciuto dormire con la finestra aperta, ma la sera prima di quella mattina, non so davvero per quale motivo, ne lasciammo le ante appena accostate, senza nemmeno abbassare le tapparelle.
Fu il riflesso del sole sullo specchio della cassettiera a svegliarmi, credo; aprì gli occhi e li agitai per qualche istante a destra e sinistra, in alto e in basso, analizzando bene l’ambiente in cui mi trovavo, come ogni mattina del resto.
Coperte azzurre, lenzuola indaco, pareti di un verde acqua quasi bianco: i Virgani amavano alla follia il blu, in tutte le sue tonalità, ritenuto insieme al viola, il colore rappresentativo del loro pianeta –nonostante la bandiera di Virgon fosse gialla e verde-; io stesso adoravo quei colori, ed ero ben felice di abitare in un appartamento che li incarnasse tutti nelle loro sfumature più tenui e gradevoli.
Avevamo preparato i bagagli a mano la sera prima e vidi che –ovviamente- si trovavano ancora dove li avevamo riposti, ovvero accanto alla porta del bagno.
Era finalmente arrivato l’attesissimo giorno della partenza, il nostro viaggio verso Caprica era ormai alle porte. Indossata una forcina per tenere indietro il mio spettinato ciuffo di capelli decolorati, mi alzai e corsi in cucina a preparare il caffè per entrambi, dato che Steven ancora dormiva; sapevo che probabilmente non avrei mangiato nulla per l’ansia, dato che come mi accadeva sempre prima di vivere una bella esperienza –o comunque qualcosa di nuovo- avevo lo stomaco chiuso. In televisione si parlava dell’imminente cerimonia di disarmo della base stellare Galactica, la quale dopo più di cinquant’anni di onorato servizio se ne stava per andare in pensione, accingendosi a diventare un museo per i turisti.
Curioso pensare che un’astronave sulla quale durante la guerra erano morte così tante brave persone per mano dei Cyloni sarebbe divenuta una meta turistica e sarebbe stata trattata con la solita leggerezza inconsapevole della gente.

Indossato il cappotto –faceva freschino in quei giorni, nonostante fossimo in piena primavera-, feci per prendere i bagagli e portarli di sotto in auto.
“Porto la roba in auto!” Dissi ad alta voce, non sapendo dove fosse Steven.
“Aspetta! Devo darti una cosa!” Rispose con foga dal bagno.
“Oh dei, che ho dimenticato di mettere in valigia?” Brontolai con una smorfia di finto dolore molto teatrale; corse fuori a piedi scalzi e con la camicia mezza sbottonata.
“Questo!” E mi tese la mano. Lo guardai piegando la testa, non capendo che intendesse.
“Questo cosa?” Chiesi. Come risposta mi tirò il naso e rise, per poi tornare in bagno lasciandomi sotto la porta con una faccia da scemo. Rido ancora un po’ anche adesso a pensarci, più che altro perché in quel momento mi aspettavo davvero di aver scordato di mettere qualcosa in valigia.
Scuotendo la testa attraversai l’uscio, pensando di entrare nell’ascensore, quando fui fermato –nuovamente- dalla nostra vicina che stava uscendo per andare al supermercato dell’isolato dove vivevamo.
“Il tuo uomo mi ha detto che partite, dove state andando di bello?”
“Si, partiamo… per Caprica!” Risposi mentre mi chinavo a raccogliere il mio portafogli, cadutomi dalla tasca.
Caprica!?! Santi dei che bello! Andate in vacanza?” Chiese con un entusiasmo che quasi quasi mi sorprese, ma del resto chiunque al tempo sarebbe stato entusiasta di partire per Caprica.
“Diciamo che è un viaggio finanziato dall’accademia di Steven, c’entra con la sua formazione artistica e musicale… e in più è una bella occasione per farsi un viaggetto niente male!” Sorrisi.
“Altro che viaggetto, è il viaggio della tua vita!” Esclamò. Non sapevo quanto avesse ragione in quel momento.
“I miei figli si sono trasferiti tutti su Caprica, è il cuore delle Colonie! Non troverai nulla tanto pieno di vita!”
Duemila anni di storia avevano inculcato in tutti i cittadini delle Colonie la supremazia di Caprica, quasi come se fosse una nazione idilliaca e privilegiata; non a caso, in molti nei secoli si trasferirono sul pianeta in cerca del famoso sogno capricano.
“Adesso porto le nostre valige in auto e poi scappiamo! Il nostro volo parte fra due ore e mezza!”
Lei si avvicinò per salutarmi con i classici baci sulle guance.
“Buon viaggio David, divertitevi e godetevi questi momenti bellissimi! Com’è bello essere giovani!!” Mi disse sorridendo in modo spropositato.
“Grazie signora Hatcher, lo faremo!”
Melanie!” Mi sgridò.
“Chiamami Melanie, sarò anche vecchia ma non sono decrepita!” Ridacchiò. Del resto è sempre stato il mio cruccio, quello del dare sempre del lei alle persone più grandi, anche una volta entrati in confidenza. Certe volte mi capitava di farlo anche con il padre di Steven, ed altre con Emily durante le lezioni in classe.
Era una bellissima giornata, fredda ma bella; nemmeno l’ombra di una singola nuvola. Nonostante facesse freddo, Helios Beta splendeva con una discreta intensità nel cielo terso delle 8.17, illuminando abbondantemente la nostra amata campagna azzurrognola.
“Adesso chiudo tutto e scendo!” Gridò Steve dal balcone.
“Hai preso tutto o hai lasciato su qualcosa?” Una vecchietta che passeggiava con il cane si voltò in alto a spiarlo.
“Eh… no ho preso tutto…si tutto!” Chiusi il bagagliaio della nostra berlina elettrica; respirai l’aria frizzantina e pungente dal freddo per poi aprire la portiera ed aspettare Steve.
“Non ti pare che faccia un po’ troppo freddo oggi?” Gli chiesi mentre apriva la sua ed io gli passavo le chiavi da sopra il tettuccio.
“Dici?” Guardò in alto.
“Siamo quasi ad Aprilis, guarda che cappotti abbiamo addosso!” Risposi mentre lui saliva.
Mi voltai verso il nostro condominio; la nostra bellissima palazzina, con i bordi stondati, le vetrate luccicanti e i balconi color panna. Sorrisi e poi salì a mia volta in auto, non sapendo che quella vista sulla nostra casa sarebbe stata l’ultima.
“Dobbiamo passare solo un momento dalla banca, devo prelevare.” Girò la chiave nell’alloggiamento dietro al volante.
“Non hai già riempito la carta ieri?” Chiesi allacciandomi la cintura.
“Si ma mio padre ci ha fatto un altro bonifico ieri notte e ha detto di prelevare assolutamente, non gli ho chiesto perché.” Io annuì; Steve mise in moto la macchina e premette gradatamente sull’acceleratore, portandoci fuori dalla nostra via in direzione del centro.
La nostra banca si trovava esattamente di fronte al parco centrale della cittadina, dall’altro lato della strada del municipio.
“Ci metto un minuto, aspettami!” Disse Steve scendendo dall’auto.
Slacciai la cintura e rimasi in silenzio per un attimo.
Fuori dal finestrino le persone passavano, avanti e indietro, dirette al parco, agli autobus, al municipio, alla stazione dei treni a levitazione magnetica, ovunque.
Io le guardavo distrattamente e poi mi venne in mente di non aver ancora chiamato Jennifer per avvertirla che fossimo quasi pronti per partire; presi il cellulare incurante del fatto che una chiamata interplanetaria senza abbonamento mi sarebbe costata un occhio della testa.
Premetti il tasto verde e portai il telefonino all’orecchio destro.
Poi vidi qualcosa che mi fece rabbrividire.
Fuori dal finestrino.
Mi guardava.
Chiusi il cellulare e scesi dall’auto senza nemmeno rendermene conto.
Mi avvicinai a lei, che se ne stava seduta su una panchina, circondata da piccioni e vestita in modo decisamente bislacco; una tunica bianca leggermente sgualcita, un foulard rosa scuro sistemato in testa a mò di turbante e dei sandali che lasciavano trasparire un paio di calze grigie da ginnastica.
Mi avvicinai a lei e rimasi in silenzio per un momento, cercando di capire perché il suo sguardo mi avesse fatto raggelare.
“Sei arrivato da me, finalmente.” Disse guardandomi e sorridendo.
“Siedi!” Mi fece cenno di accomodarmi accanto a lei sulla panchina di marmo. I piccioni grugavano attorno a noi in cerca di briciole a terra. Lei glie ne lanciava una manciata ogni tanto.
“Chi sei?” Lei chiesi d’impulso. Interessante notare come le diedi del tu senza accorgermene.  “Non è ovvio? Sono un oracolo.” Disse ridendo, nascondendo un brutto colpo di tosse.
“Mi chiamo Dodona. Dodona Selloi.” Si presentò, poi lanciò un’altra manciata di briciole a terra come regalino ai piccioni.
Io la guardavo e non sapevo spiegare nemmeno a me stesso perché mi fossi sentito attratto dal suo sguardo tanto da scendere dall’auto ed avvicinarmi. A proposito del suo sguardo, perché diamine mi stava guardando, tra l’altro?
“Io…” Provai, lei mi guardò.
“Io non so perché sono qui.” Dissi.
“Beh, perché ti ho invitato a sederti, no?” Rise guardando il cielo. Non mi sembrava messa molto bene in quanto a salute, ma potevo anche sbagliarmi. Reggeva un tubetto di plastica trasparente dal quale estraeva delle foglioline blu che si ficcava in bocca all’improvviso.
“Perché mi fissavi? Prima, mentre ero in macchina, mi stavi guardando, perché?” Chiesi, incerto se volessi realmente conoscere la risposta alla mia domanda; in qualche modo immaginavo che quello che avrebbe detto non mi sarebbe piaciuto troppo.
“E’ chiaro, no?” Disse “Perché ti conosco!” Piegai il capo a destra.
“Mi conosci?”
“Conosco il tuo sguardo. So cosa provi.” Si infilò in bocca ancora un frammento di quella fogliolina bluastra.
“Sai cosa provo?” Lei assunse una strana espressione, quasi come se stesse entrando in uno stato di trance; l’occhio mi cadde sul tubetto di plastica che reggeva, quello dal quale estraeva le foglioline blu: senza il desiderio di essere invadente lessi per caso la scritta fatta a penna sull’etichetta bianca appiccicata al bordo del contenitore. Sgranai gli occhi.
“Tu prendi il chamalla??!?” Le chiesi avventatamente senza rendermi conto di quanto non fossi appena stato fuori luogo. Lei non rispose e continuò a fare smorfie strane.
Capì che lo stato di evanescenza in cui si trovava era appunto dovuto alla sostanza che stava ingerendo: il chamalla era un estratto di dubbia natura, reperibile dalle piante sia sotto forma di radici che di foglie secche lavorate in un certo modo che non mi è chiaro; sebbene non vi fossero reali studi che ne testimoniassero l’ efficacia, alcuni erano convinti che la sostanza potesse essere utilizzata come panacea per i motivi più disparati, tra cui la cura del cancro.
Ovviamente si trattava di teorie non comprovate, da sempre poste allo scherno della comunità scientifica.
Ma c’era anche un altro fatto riguardante il chamalla; l’utilizzo della sostanza comportava per sua natura un effetto collaterale non indifferente: allucinazioni.
Molti oracoli lo utilizzavano, infatti, a scopo predittivo: tramite le allucinazioni che il farmaco procurava loro, essi dicevano di essere in grado di sentire la voce degli dei –o di Dio, in determinate minoranze- e di riuscire perfino ad interpretarla; non era un fatto raro che alcune persone particolarmente devote, un po’ ovunque nelle Dodici Colonie, si recassero da queste figure per avere risposte alle loro domande esistenziali, per sapere cosa fare delle proprie vite, o semplicemente per sentirsi cantilenare strani indovinelli incomprensibili che a detta degli oracoli fossero la volontà divina.
“Io so cosa stai passando.” Riprese a parlare, tenendo gli occhi chiusi. Io stetti zitto.
“Colui che loro venerano ti parla attraverso me, come ti parla attraverso i tuoi sogni e i suoi angeli.”
Boom. Cuore a mille.
Stavano capitando troppe cose strane nella mia vita, troppe. Più di quanto non fossi disposto a tollerare. Vedevo persone che non esistevano, sognavo cose terribili e sentivo voci che mi sussurravano frasi allegoriche, ed ora una tizia sconosciuta vestita da santona e per giunta drogata mi guardava e diceva di sapere cosa provavo. Ero giusto un po’ stanco.
“No. No no no no, no basta!!!” Esclamai alzandomi dalla panchina. Lei aprì gli occhi.
“Tu non sai. Tu non sai niente di me, e non c’è niente da sapere!!!!” Dissi raggiungendo il limite massimo che mi separava dalla scortesia.
“Non temere David, non sono una persona cattiva.” Esordì spaventandomi.
“Come frak fai a sapere il mio nome?!” Ecco. Ero stato scortese, avevo imprecato. Ma quella donna sapeva il mio nome e sapeva cosa sognavo. Com’era possibile? E chi erano loro?
Mi prese la mano e dolcemente mi fece sedere di nuovo; rimase in silenzio per dieci secondi perché due navette mediche stavano attraversando il cielo appena cinquanta metri sopra di noi, assordandoci.
“Io so che tu lo avverti. Lo percepisci, percepisci che sta per accadere qualcosa. So che lo senti da tempo, da anni, forse da sempre. Sei felice, ma stai vivendo in attesa di qualcosa di bellissimo e spaventoso che sta arrivando. Ormai è alle porte David, devi essere pronto. Non sarà facile. All’inizio non sarà per niente facile.”
 Io non sapevo nemmeno che cosa dire. Rimasi in silenzio, ancora una volta, mentre i piccioni grugavano e la gente si faceva gli affari propri.
“Non temere. Noi ci rivedremo, me lo sento.” Disse pensando di confortarmi. Io ero come catatonico.
“David??” Sentì la voce di Steven chiamarmi dall’automobile: era appena tornato dalla banca e non mi aveva trovato, anche se non aveva dovuto faticare molto per scoprire dove fossi, dato che io e la strana donna profetica eravamo ad appena una ventina di metri da lì, nella piazzetta alberata di fronte al municipio.
Io lo guardai ed esitai per una manciata di secondi, scorgendo la sua espressione leggermente perplessa mentre aspettava che mi alzassi.
Rimasi fermo per un attimo, finchè l’oracolo non mi invitò ad andare da lui.
“Va, David. Va e vivi.” Mi diede una leggera pacca sulla spalla e mi sorrise; io continuavo a non sapere cosa dire.
Mi alzai dirigendomi verso l’auto, ma mi voltai a metà strada, senza fermarmi; camminai all’indietro per un paio di secondi perché non riuscivo –o forse non volevo- smettere di guardare quella strana donna. Lei continuava a sorridermi, dolcemente, distrattamente.
“Chi è quella?” Mi domandò Steve mentre aprivo il portello dell’auto; io scossi la testa e risposi che non avessi idea. Stavo per dirgli che sapeva il mio nome, ma mentre quelle parole mi stavano per uscire dalla bocca, qualcosa me le fece dimenticare, come se una volontà superiore volesse che non ci pensassi. Così come mi era accaduto tante volte, troppe volte.
Perciò, scossi nuovamente la testa e salì in auto.
“Beh… adesso possiamo andare, che ne dici?” Esordì sorridendo il ragazzo da Leonis mentre entrambi ci allacciavamo le cinture di sicurezza; mi strinse la mano per un attimo, poi girò le chiavi nell’interruttore. Il motore elettrico si avviò con un rapido e leggero suono elettronico, e così tutti i piccoli indicatori luminosi sul cruscotto si accesero.
Partimmo, questa volta diretti verso l’aperta campagna, dove avremmo poi imboccato la superstrada che ci avrebbe portato a Boskirk, capitale del pianeta, nella quale avremmo raggiunto lo spazioporto e preso il volo.
La gente era tranquilla, sorrideva, camminava per le strade immersa nelle proprie responsabilità; non avevano davvero idea di cosa li aspettasse dietro l’angolo, di che cosa tanto terribile ed indicibile gli si sarebbe scagliata addosso da lì a pochissimi giorni.
E’ incredibile pensare che la maggior parte di tutte quelle persone sarebbe morta nell’arco di settantadue ore. Incredibile e doloroso.
Mentre osservavo scorrere fuori dal finestrino le piccole palazzine, le villette e le aiuole fiorite che popolavano la piccola cittadina che avevo chiamato casa per un anno, sorrisi dando a Clairview l’arrivederci, con la consapevolezza che vi sarei presto tornato.
Non sapevo che quell’arrivederci fosse in realtà un addio, poiché molto presto, tutti i luoghi che avevo visto ed in cui avevo vissuto non sarebbero stati altro che una landa desolata e radioattiva. Compreso quello.

11.3 –“Partenze e ricordi.”
Ricordo che mentre attraversavamo la hall dello spazioporto di Boskirk, la mia attenzione venne catturata da una bambina bionda alta si e no un metro; avrà avuto sei anni, due occhi azzurri enormi e un sorriso teneramente sdentato, tipico per una piccola di quell’età.
Camminava dando la mano sinistra alla madre, mentre nella destra reggeva un fiore, una rosa di plastica, praticamente identica a quella che mi aveva regalato Steve, molto tempo prima.
Mentre camminava, la piccola fingeva di odorare il suo fiore e sorrideva, come se fosse una principessa a cui fosse appena stato fatto un grande dono.
“E’ inutile che la annusi, Zoe!” la canzonò la madre “E’ fatta di plastica, non ha profumo!” La sua voce riecheggiò nel corridoio vetrato e luminoso, nel quale rimasi immobile per un attimo osservando le sagome della madre e della figlia confondersi tra le tante altre in movimento; aggrottai le sopracciglia e guardai verso l’alto, domandando a me stesso dove avessi già sentito prima quel nome.
“Zoe…Zoe… Dove l’ho…Dove…”
“David?” Steven interruppe la mia improvvisata ricerca anagrafica interiore; mi voltai.
“Dai vieni, la nostra nave decolla fra mezz’ora!” Disse controllando l’ora sullo schermo monocromatico del suo cellulare; tornai in me e lo seguì, mentre lui ancora leggeva i piccoli numerini analogici in modo decisamente elegante. Quanto era bello quel ragazzo, quello con cui condividevo la mia vita, la mia mente, il mio corpo e la mia anima. Era davvero bellissimo, ed io lo amavo, silenziosamente, un po’ di più ogni momento.
Zoe Graystone!” Dissi.
“Cosa?” Chiese Steve non capendo cosa intendessi.
“Io… niente, mi chiedevo dove…dove avessi già sentito quel nome, Zoe…” Risposi incerto mentre il mio sguardo era fisso sulle astronavi di linea per il trasporto passeggeri, le quali stavano ‘parcheggiate’ sulle grandi piste asfaltate sul retro del terminal dello spazio porto che potevo vedere dalla vetrata; gli autobus per l’imbarco e lo sbarco attraversavano le piste portando  gruppi di  diverse decine di persone alla volta dal terminal alle singole navi e viceversa.
Infondo alla pista, Diverse astronavi erano già in fase di decollo verticale, altre si accingevano ad atterrare.
Alla destra del corridoio vi erano una decina di bar e negozi dove i viaggiatori si fermavano per qualche minuto a spendere una manciata dei loro sudati cubiti; uno schermo televisivo proprio accanto al fish and chips all’angolo della sala trasmetteva uno spot di una famosa agenzia di viaggi, la Eva Trek: una voce femminile presentava un meraviglioso centro sciistico sulle montagne di Aquaria, il gioiello di ghiaccio delle Dodici Colonie.
Il pianeta orbitava attorno ad Helios Delta, condividendo il sistema con Aerelon e Canceron, dov’ero cresciuto, e diversi altri pianeti sterili come Phoebe e il gigante gassoso Hestia.
Aquaria era noto per essere il mondo più freddo delle Colonie, data la sua posizione in un orbita particolarmente esterna ed ellittica attorno alla propria stella; a causa della sua estrema inclinazione, i raggi solari riuscivano a scaldarne la superficie in maniera veramente blanda, lasciando quel piccolo mondo, quasi completamente ricoperto da vasti oceani –come Picon, che però era al contrario un pianeta caldo ed accogliente- nella morsa del gelo e delle temperature glaciali. L’estate, se così si poteva chiamare, durava poche settimane e si registrava in quel periodo dell’anno solare in cui il pianeta al perielio rispetto al suo sole.
Vi era un solo continente che emergeva dalle gelide acque del pianeta, una massiccia formazione isolare e leggermente frastagliata sulle coste, puntellate di vulcani attivi, i quali in contrasto con il candore del frigido panorama, donavano all’ambiente un tono veramente suggestivo.
Vulcani gorgoglianti emergevano qua e là anche dagli oceani, facendo ribollire quelle poche regioni acquose che non si ghiacciavano durante l’inverno.
Pochi milioni di persone abitavano Aquaria, la maggior parte concentrate nella piana nevosa che ospitava la città più importante, Heim; la capitale –in realtà Aquaria non aveva una capitale, ma spesso ci si riferiva ad Heim con quel nominativo per comodità lessicale- si trovava in una delle zone più “calde” del continente, dove le temperature non scendevano, in genere, sotto i meno cinque gradi centigradi. Questo clima favorì nei secoli precedenti la nascita di moltissimi insediamenti turistici nella zona, dove cittadini da ogni angolo delle Dodici Colonie, giungevano per sciare e fare una vacanza sulla neve; negli anni precedenti alla prima guerra con i Cyloni, il pianeta trovava un concorrente in quanto a turismo su ghiaccio nel piccolo mondo di Djerba, un pianetucolo congelato utilizzato come resort scistico, localizzato in un sistema solare a pochi anni luce dalle Colonie. Djerba era poi divenuto una roccaforte dei Cyloni durante la guerra, ed anche al termine di essa, non venne più ricolonizzato, dato il basso valore che cominciò ad avere l’espansionismo in favore dell’isolazionismo.
“Il volo coloniale 5198 diretto a Caprica delle ore 10:23 partirà fra venticinque minuti; chiediamo ai gentili signori passeggeri di recarsi al check in per l’imbarco.”
Balenò nella grande sala già attraversata da migliaia di voci diverse.
La nostra nave era visibile dalla grande vetrata alla mia destra: lunga e stretta, ricordava vagamente un dirigibile, se non fosse per gli alettoni laterali posteriori; era il modello di trasporto civile più comune nelle Colonie, lo stesso modello della nave che ci aveva portati da Canceron a Virgon.
Sul suo scafo bianco, attraversato da linee e paratie blu, era inciso il logo della compagnia di volo, Gemon Liners, una delle agenzie più gettonate dopo la Intersun.
Ricorderò per sempre il viso della ragazza che controllò il mio passaporto: aveva gli occhi verdi, anzi verdissimi, sembravano fatti di vetro. E i capelli. Erano rosso fuoco, raccolti in una crocchia molto elegante che cedeva il posto sopra di lei al berretto della compagnia per cui lavorava.
Lei mi sorrise con una tale gentilezza che mi venne voglia di ringraziarla.
Aprirono il gate e ci fecero entrare nel connettore mobile; entrammo nell’astronave insieme al resto dei passeggeri e ci sedemmo ai nostri posti.
Non ricordo moltissimo dei secondi precedenti al decollo; in genere ricordo tutto di ogni momento della mia vita, ma quegli istanti… credo di non averli vissuti veramente.
E’ quasi come se la mia testa abbia deciso di censurarli dal mio subconscio facendomene ricordare pochi frammenti, non perché sia accaduto qualcosa di eclatante o sconvolgente, ma forse perché, inconsciamente, dato che teoricamente non potevo saperlo, mi rendevo conto di star dicendo addio alla mia amata casa.
Ricordo che Steven mi stava parlando di qualcosa che c’entrava con i mulini a vento su Leonis, che avevano qualcosa di diverso rispetto a quelli sugli altri pianeti, ma francamente non ricordo davvero i dettagli. Ricordo il suo sorriso, lui mi che mi tiene la mano, e subito dopo ricordo la spinta dei motori verticali per il decollo che si accendevano all’improvviso, e il panorama rimpicciolirsi sempre più fuori dal finestrino. Le nubi che ci circondano.

Virgon era sotto di noi adesso.
Sorvolammo tutto l’emisfero occidentale prima di lasciare l’orbita, per poter sfruttare l’effetto “fionda” della gravità ed utilizzare una potenza minore nei propulsori posteriori ma giungere a destinazione velocemente: nello spazio non c’è attrito, quindi se un’astronave viene lanciata ad una certa velocità, essa manterrà tale velocità fino alla fine del percorso –a meno che non si intervenga, si intende.
Guardando fuori dal finestrino potevo distinguere chiaramente i rilievi e le catene montuose sui continenti, i corsi d’acqua, le nubi, le luci delle città intensificarsi sempre più man mano che ci avvicinavamo all’emisfero immerso nella notte. Infine ci sollevammo definitivamente per lasciarle l’orbita.
Passammo accanto alla luna Hibernia: anche su di essa riuscì a scorgere le luci degli insediamenti e i tratti morfologici, come il grande fiume Erakle, che potevo vedere anche dal balcone di casa nostra durante le belle giornate. Più avanti mi sarei pentito di non aver mai visitato la nostra luna quando potevo; in determinati momenti dell’anno i biglietti costavano anche poco.
“E’ davvero bellissimo.” Dissi mentre osservavo fuori con la testa poggiata sul sedile; il pianeta e la sua luna si allontanavano a vista d’occhio.
“Si, lo è.” Rispose Steven.
“Sembra ancora più bello di quando ci siamo arrivati, non credi?” Disse una cosa a cui non avevo pensato; in effetti era così: quella sfera azzurra e rosata, in qualche modo, pareva ancora più affascinante e sicura del giorno in cui la vedemmo per la prima volta.
Quasi come se volesse dirci qualcosa; quasi come se quel pianeta, il nostro pianeta, volesse avvisarci che quella fosse l’ultima vista che avremmo mai preso su di lui.
Non potevamo saperlo, o almeno non potevamo essere certi che fosse così, nonostante da molto tempo io avessi degli stranissimi presentimenti dovuti ai miei sogni; ma si, non avremmo mai più visto Virgon.
Mai più.
Le Dodici Colonie avevano ormai i giorni contati, così come le nostre vite tranquille che stavano per essere irrimediabilmente cambiate e sconvolte da qualcosa di enorme.
Ma non potevamo saperlo in quell’istante, mentre ce ne stavamo seduti su due sedili in una cabina piena di passeggeri petulanti.




 
11.4 –“Distanze e orbite.”
Il viaggio fu molto più breve del precedente, solo cinque ore di volo rispetto alle quattordici che separavano Canceron da Virgon nel nostro precedente viaggio; le Dodici Colonie erano situate in quattro sistemi solari molto ravvicinati tra loro, un piccolo ammasso stellare soprannominato con il nome di Sistema Cyrannus, ammasso al quale per motivi di comodità lessicale ci si riferiva spesso come se fosse un unico grande sistema solare. Le quattro stelle che formavano il sistema  erano raggruppate in due coppie, le quali, alle estremità dell’orbita comune, ruotavano a loro volta le attorno a due orbite più ristrette larghe 140 unità astronomiche (diverse riviste scentifiche identificavano a volte l’ammasso stellare come formato da due piccoli sistemi solari binari, ma non è necessariamente vero, dato  che le distanze e le dimensioni degli oggetti bastavano a considerarli come sistemi solari a se stanti).
Le due “coppie” erano formate da Helios Alpha ed Helios Beta ad un’estremità dell’orbita, ed Helios Delta ed Helios Gamma all’altra: la distanza che separava i due sistemi binari era di circa un quarto di anno luce, o 10,091 unità astronomiche; trovandosi Virgon nel sistema Beta e Caprica nel sistema Alpha, il viaggio sarebbe stato molto più breve del precedente –che ci aveva visti attraversare tutto lo spazio vuoto tra Helios Delta ed Helios Beta.
Mi scuso per la pochezza che dimostro in materia e per la difficoltà a spiegare il concetto –probabilmente non si sarà capito nulla-, ma come ho ben imparato ai tempi del liceo, le discipline scientifiche non sono mai state il mio forte. Però devo dire che amavo l’astronomia, anche se con i calcoli non ci azzeccassi mai.
Così come per il decollo, non ricordo molto del viaggio, se non pochi momenti qua e là; ciò che non ho scordato è un discorso apparentemente privo di senso che ebbi con Steven a circa tre ore dalla partenza; ne mancavano altre due, ed entrambi eravamo ormai in preda alla noia. Ogni tanto mi voltavo verso il finestrino, ma fuori non c’era –ovviamente- nulla di interessante; solo oscurità e stelle lontanissime.
Ricordo che me ne uscì senza cognizione di causa con una domanda:
“Sai con cosa lavano l’insalata confezionata?” Dissi voltandomi verso di lui, prendendolo alla sprovvista.
“Eh?” Scosse la testa non capendo.
“L’insalata, l’insalata in busta. Sai come la lavano?” Ripetei sorridendo.
“Perché me lo chiedi?”
“Sai come?” Insistetti. Lui scosse la testa e inarcò le sopracciglia.
“Con il cloro! Non sono sicuro che faccia molto bene, sai?” Lo redarguì sull’argomento. In realtà non era stato affatto un caso il fatto di pensare all’insalata. Collegavo inconsciamente l’insalata in busta a Jennifer, la quale avevo sempre visto lavare freneticamente più e più volte prima di servire in tavola per il timore di rimanere avvelenata. Mentre ci annoiavamo per il viaggio mi resi conto di non averle telefonato prima di partire, poiché ero stato sorpreso da quella strana Dodona Selloi e dai suoi discorsi metafisici. Così, mi era venuta in mente l’insalata.
“Cloro, eh?” Annuì lui. Sorrise a sua volta e mi accarezzò i capelli.
“Beh, credo che nemmeno quella pappetta blu piena di ammoniaca che ti metti in testa per sbiancarti i capelli faccia molto bene.” Ridacchiò continuando ad accarezzarmi il folto ciuffo che mi arrivava fin dietro le orecchie.
“La pappetta blu che uso io è senza ammoniaca caro mio, ci tengo ai capelli!” Sorrisi e chiusi gli occhi. Rimase un momento in silenzio per poi riprendere:
“Va tutto bene?”
“Certo.”
“Sta accadendo qualcosa che non so? Sai, non ho ben capito chi fosse quella donna con cui parlavi oggi.” Effettivamente non aveva torto a chiederemi se fosse tutto ok. Non era per niente ok.
Scossi la testa e sprofondai nel sedile fissando il vuoto tra i sedili.
“A volte credo di impazzire. Cioè, te ne ho già parlato, ricordi? Mi sembra di vedere sempre qualcosa di strano in giro.” Sospirai.
“Si, ricordo, dicevi di temere di essere pazzo. Non credo tu lo sia.” Disse grattandosi la testa.
“Non so chi fosse quella. So che a causa sua mi sono distratto e non ho chiamato Jennifer prima di partire.” Ero leggermente seccato da quella situazione; odiavo –e odio- trascurare le persone, specialmente quelle più vicine a me.
“La chiamerai appena atterriamo dai.” Mi confortò. Sembrava non capire. Non si trattava solamente di quella chiamata; io non la vedevo praticamente da un anno. Avevo mancato alla mia promessa di tornare per l’estate, passata da ormai otto mesi, ora andavo fuori pianeta per una vacanza e nemmeno l’avvisavo.
“E’ mia madre, Steven. O almeno ciò che più ci si avvicina. Tu dimenticheresti così tua madre? Non credo…” Risposi turbato, e lui se ne rese conto. Mi prese la mano e rimase in silenzio.
I passeggeri attorno a noi stavano ancora parlando tra di loro del più e del meno, inconsapevoli, come lo eravamo noi, ma forse un po’ di più.



11.5 –“Contraccolpi e felicità.”
Fu l’urto con il finestrino a svegliarmi dal sonno profondissimo che mi aveva avvolto negli ultimi settantatré minuti di volo; pochi minuti prima di raggiungere l’anello esterno dell’orbita di Caprica, accadde qualcosa di inaspettato: il radar del pilota non captò la presenza di un frammento di metallo appartenente allo scafo di una vecchia nave da battaglia di classe Valkirye risalente alla prima guerra cylone; la nave, andata distrutta durante una delle battaglie finali della guerra, era stata ridotta ad un cumulo di detriti che galleggiavano a pezzi qua e là attorno alla stella, come se formassero una piccola cintura asteroidale.
Probabilmente fu per un malfunzionamento del dradis della nostra nave che ignorò la presenza di quell’ammasso di paratie mangiucchiate dalle antiche esplosioni e dalle pallottole che si erano beccate; il capitano se ne accorse proprio a pochi istanti dalla collisione, trovandosi costretto ad effettuare una brusca manovra evasiva che non evitò nemmeno del tutto il contatto con i rottami: nessuno di noi indossava le cinture di sicurezza, tant’è che fummo sbalzati dai nostri sedili andando a sbattere, io con la testa contro il finestrino, lui con tutto il peso del corpo contro il retro del sedile di fronte.
Mi svegliai di soprassalto e per un istante pensai a qualcosa che solo qualche giorno dopo sarei riuscito a spiegarmi:
“E’ già il momento? Ti prego, no!”
Poi tornai in me, mi guardai attorno agitando la testa in tutte le direzioni, vedendo gli altri passeggeri agitati quanto me: qualche bagaglio a mano era caduto dagli alloggiamenti sopra i sedili; le assistenti di volo cercavano di richiamare all’ordine ed alla calma.
“Signore e signori, per cortesia! Mantenete la calma! Non c’è motivo di temere!”
Steven era sveglio durante l’urto, ed aveva sentito lo sfregamento dei rottami sullo scafo della nostra nave, un rumore che avrebbe poi descritto come quello di un gesso su una lavagna.
“Stai bene?” Mi chiese aiutandomi a sedermi di nuovo al mio posto.
“Hai preso una bella botta in testa, fa vedere?” Chiese preoccupato.
“Non mi sono fatto niente, non preoccuparti!” Risposi toccandomi la testa per assicurarmi che fosse ancora lì e fosse tutta intera.
“Che diamine è successo?” Sentì balenare questa domanda qua e là nella cabina da una moltitudine di voci diverse.
Signore e signori passeggeri, per cortesia! Si è trattato di un piccolo incidente, non è nulla che il personale non possa gestire. Tornate a sedervi e preparatevi per l’atterraggio: saremo nell’orbita di Caprica tra meno di cinque minuti.”
Ridemmo dell’accaduto mentre ci ricomponevamo dopo il piccolo inconveniente che avevamo vissuto; ne colsi l’aspetto positivo: una cosa curiosa da raccontare a Jennifer quando l’avrei chiamata, e da narrare ai miei alunni quando sarei tornato su Virgon.

“Ci siamo finalmente”
Mi sfuggì l’esclamazione alla vista di ciò che si mostrava fuori dal mio lunotto: i due mondi gemelli, Caprica e Gemenon, che di simile non avevano proprio nulla; ne la geologia, ne il clima, ne l’aspetto, ne la popolazione, ne le usanze, ne il tipo di società; il primo, il gioiello dell’umanità, la capitale delle Dodici Colonie, il simbolo dell’avanguardia, del progresso, dell’imperialismo, coperto da acque limpide ed azzurre e da una florida vita vegetale; il secondo, un piccolo mondo arido e stepposo, povero ed arretrato, casa delle più antiche tradizioni e forme di culto della nostra società.

I due pianeti, che si scambiavano di posizione ogni ventotto giorni circa, condividevano la terza orbita nel loro sistema stellare e ruotavano insieme attorno a un baricentro comune, separati da una distanza di quattrocento novantatré mila chilometri; vi erano alcuni periodi dell’anno in cui i due mondi si trovavano più vicini tra loro, mentre altri in cui erano più lontani: la loro stretta relazione portava spesso, nei momenti di massima vicinanza, ad alcune spettacolari apparizioni nei cieli dei due pianeti, dalle cui superfici, sia di giorno che di notte, era possibile osservare l’altro (eventi che, data la rifrazione dei raggi solari sui due globi, tendevano ad illuminare con incredibile potenza le notti su entrambi i mondi, rendendole tutt’altro che oscure).
Sorvolammo Gemenon da una distanza più o meno ravvicinata, e guardando in basso da dove mi trovavo ne notai la conformazione arida e per lo più montagnosa: non c’era una grande vastità di vita vegetale sul pianeta, prevalentemente freddo e desertico, dall’aspetto rossastro ed argilloso.
Un vasto agglomerato di luci scintillanti si abbarbicava nei pressi di un’imponente catena montuosa innevata: capì che si trattava di Oranu, la capitale del pianeta; se fossimo atterrati lì avrei potuto osservarne il pittoresco skyline: in un mondo prevalentemente povero e popolato di case diroccate e templi infrattati sulle cime dei monti più alti, una città piena di alti grattacieli di cilindrici ed imponenti piramidi di vetro non poteva certamente passare inosservata!
Avevo visto delle foto di Oranu ovviamente, sia in rete che su qualche cartolina, ed il contrasto creato da uno sfondo impervio come quello delle montagne innevate e dei deserti stepposi posti di fronte ad un centro urbano splendente come quello, era un’immagine gradevole agli occhi, o almeno per me.
Ci avvicinavamo ora a Caprica. Penso che la maggior parte degli altri passeggeri non stesse vivendo quel momento allo stesso modo: per noi due era un evento, probabilmente per molti altri era solo un pezzetto di routine.
“Siete pregati di allacciare le cinture ed assicurarvi che il tavolinetto sia chiuso; inizieremo a breve la procedura di atterraggio e sbarcheremo nello spazioporto di Caprica City.”
Non tardarono ad arrivare i lievi scossoni dovuti alle manovre di discesa nell’atmosfera: mentre il nero dello spazio lasciava il posto al biancore delle prime nubi dell’esosfera, i contorni delle coste, le luci delle città e i rilievi montuosi sulla superficie apparivano gradualmente sempre più chiari e distinti. Gli scossoni si facevano sempre più forti.
Ad un tratto eravamo nuovamente circondati da nubi, ma stavolta molto più fitte e bianche, che ci impedivano di vedere all’esterno: ed ecco che ne uscimmo e fu chiaro che da lì a pochissimi minuti avremmo raggiunto la nostra destinazione.
La terra sotto di noi pareva virare, le città, ridotte a delle linee tracciate sui territori, scorrere una dopo l’altra; gli scossoni erano cessati, il volo era adesso dolce e fluido.
Ci avvicinavamo rapidamente ad un golfo semichiuso vicino alla costa, sulla quale sembrava esserci una grande città, i cui grattacieli erano visibili da chilometri di altezza.
Era lei.
Caprica City era di fronte –o meglio, sotto- a noi.
Una moltitudine di astronavi attraversavano il cielo sopra la città in tutte le direzioni, alcune in fase di decollo, altre in procinto di atterrare.
La manovra di discesa finale fu molto secca: potei notare all’esterno del finestrino, non molto più in basso rispetto alla mia posizione, degli sbuffi di scarico prodotti dai razzi di manovra sullo scafo, i quali posizionarono il velivolo nel giusto assetto mentre i motori sullo scafo inferiore producevano una nube di vapore sulla piattaforma di atterraggio.
E poi quel rumore tipicamente meccanico delle sospensioni che toccavano terra: “Clank”

Ed eravamo finalmente atterrati.
“Dei… ci siamo, grazie agli dei.” Disse Steven slanciando le braccia verso l’alto per stiracchiare il corpo indolenzito dalle ore di inattività su una poltrona che non gli sembrava più tanto comoda.
“Finalmente.” Risposi nel culmine della stanchezza. Ero davvero a pezzi; nonostante il viaggio non fosse stato troppo lungo, mi ritrovavo in una condizione di totale mancanza di energie; avrei scoperto che c’era un motivo.
I portelli vennero aperti ed i passeggeri cominciarono a sbarcare seguendo le direttive del personale: udivo il chiacchiericcio delle persone attorno a noi, il rumore meccanico dei montacarichi già in azione sotto la stiva della nave e il ronzio delle turbine che si spegnevano gradualmente nel retro del veicolo spaziale.
Erano le undici del mattino in quell’angolo del pianeta, e la luce entrava prepotente nella cabina da ognuno dei finestrini sulla paratia di destra.
Ci mettemmo in coda per scendere insieme agli altri.
La luce del sole era quasi accecante. Ricordo che non appena misi la testa fuori dal portello e mi ritrovai a tutti gli effetti sotto il reale cielo di Caprica chiesi a me stesso come i suoi abitanti facessero a sopportare quel candore così intenso.
Ad eccezione di Helios Delta –la stella di Canceron- che presentava uno spettro rossastro e di conseguenza più freddo, le altre tre stelle delle Colonie si trovavano, a livello di temperatura ed intensità spettrale, tutte nella fascia di vita principale, classificandosi come nane gialle; la stella di Caprica non era diversa, tuttavia, una particolare composizione gassosa all’interno dell’atmosfera del pianeta faceva si che i raggi del sole donassero all’ambiente un’illuminazione amplificata e dall’aspetto leggermente giallognolo –così come per Virgon il blu dato dai rispettivi componenti atmosferici.
“Non avrei dovuto mettere gli occhiali da sole nel bagaglio a mano, accidenti!” Imprecai mentre scendevamo i gradini della scala mobile; Steve rise vedendomi strabuzzare gli occhi in un’espressione assai buffa.
Salimmo a bordo dell’autobus automatizzato che ci avrebbe condotto presso al terminal del porto spaziale in cui avremmo effettuato il check-out per poter circolare liberamente nel pianeta.
Una cosa che avvertì nei primi attimi dopo aver messo piede su Caprica, fu la differenza dell’aria che stavo respirando rispetto a quella di Virgon a cui mi ero abituato: per quanto fosse un mondo con un tasso di inquinamento piuttosto basso, Caprica era sicuramente leggermente avvelenato dalla piaga dei combustibili fossili che ancora il governo non si era deciso ad abbandonare; moltissime auto con motore a scoppio circolavano ancora sul pianeta, che sebbene non fosse assolutamente al livello di Canceron per quanto riguarda lo smog, era meno puro di Virgon.
La hall del terminal dello spazioporto era la più affollata che avessi mai visto prima: avevo passato vent’anni della mia vita su Canceron, che con i suoi sei miliardi e mezzo di abitanti si aggiudicava la posizione di colonia pià popolosa, eppure non avevo mai visto così tanta gente tutta insieme nello stesso edificio. Ed era ben il terzo porto spaziale per il quale passavo.
Ovunque nella luminosissima sala vi erano lampade, vasi con arbusti, schermi digitali e tabelloni elettronici raffiguranti i diversi voli; ricordo che il mio occhio cadde su un grande teleschermo sulla parete leggermente curva nel quale, a caratteri neri su sfondo giallo vi era scritto “Welcome to Caprica, Capitol of the Twelve Colonies”; dietro al messaggio era raffigurato lo stendardo arancione ed azzurro delle Dodici Colonie, una forma che mi era sempre piaciuto disegnare fin da piccolo.
“Ci sei?” Mi chiese Steve voltandosi verso di me che, come al solito, ero indietro, perso ad osservare i dettagli attorno a me; è una cosa che ho sempre fatto e non solo quando arrivo in un posto nuovo, praticamente in qualsiasi situazione. A volte però può risultare sconveniente.
“Dobbiamo esibire il visto prima di uscire altrimenti ci sbattono sulla prima nave diretta fuori pianeta e tanti saluti alla vacanza!” Disse mentre si chinava per aprire il suo bagaglio a mano e recuperare i documenti.
La ragazza che esaminò le nostre credenziali ci sorrise e molto garbatamente ci pose le solite domande di protocollo che doveva farci.
“Siamo su Caprica per una breve vacanza di studio, è tutto scritto qui, nel contratto.”
Disse Steve toccando con l’indice la riga sul fascicolo che la sua accademia gli aveva fornito, spiegando brevemente a parole all’hostess cosa ci portasse alla capitale.
“Benvenuti su Caprica, vi auguro una piacevole permanenza nel nostro mondo!” Sorrise ancora una volta, e noi anche. Nessuno di noi si accorse che Steve lasciò inavvertitamente cadere la tessera magnetica della patente, la quale rimase inerme sul pavimento. Sarebbe stata la stessa hostess ad accorgersene più tardi, e quel dettaglio ci avrebbe salvato la vita ventiquattro ore più tardi.

A sinistra, collocata tra una serie di vetrate e di intercapedini in marmo, la porta di ingresso della struttura; oltre la porta, una piazzola alberata dove diversi passeggeri attendevano l’arrivo del taxi o di un parente che venisse a prenderli.
Lo spazio porto si trovava poco lontano dal centro; gli imponenti grattacieli di vetro e dal design ultra moderno erano a poche centinaia di metri da noi e li guardavo con la testa rivolta verso l’alto e l’espressione sbalordita, mentre diversi velivoli sorvolavano la zona passando in mezzo alle grandi strutture urbane, considerate da sempre l’apice dell’ingegno e della magnificenza umana. Credo che noi umani ci sopravvalutassimo un poco e peccassimo di superbia al tempo, ma l’abbiamo pagata tutta, poi.
Taxi!” Gridai alzando la mano per farmi vedere. Steve stava ingegnandosi per capire sulla cartina della città in che luogo si trovasse l’albergo dove avevamo pernottato per i due giorni seguenti.
“Dovremmo metterci non più di venti minuti in auto, anzi forse meno!” Disse riponendo la sua cartina nella valigia. L’aria era fresca, non fredda da necessitare un cappotto, ma non calda abbastanza da poter girare senza almeno un maglioncino leggero. Era curioso che Caprica City si trovasse in una regione del pianeta in cui in quel momento era primavera, esattamente come lo era a Boskirk, su Virgon. I due pianeti sembravano sincronizzati, ma era solamente un’illusione, poichè nell’emisfero opposto di Caprica fosse pieno inverno.
Dato che il taxi non arrivava, Steve si avvicinò a me e mi abbracciò guardandomi negli occhi, sorridendo, e di riflesso avvolsi le mie braccia sopra le sue spalle ed attorno al suo collo; le sue scesero sulla mia vita.
“Sei felice di essere qui?” Chiese, mentre i clacson delle auto si facevano sentire non poco sulla strada.
“Assolutamente si.” Mi guardai attorno “Siamo sulla capitale, frak!!”
La capitale delle Dodici Colonie di Kobol.
Caprica era da sempre stata la sede di ogni aspetto della cultura e dei costumi della società umana; il centro, il cervello, il punto nevralgico, il nesso centrale. La capitale.
Non fu il primo pianeta del sistema ad essere colonizzato dai nostri antenati esuli da Kobol; studi archeologici del secolo scorso hanno rivelato che il primo sbarco di coloni umani nei Dodici Mondi avvenne su Gemenon, gemello di Caprica e chiamato da allora “la colonia antica”.
Da Gemenon, le dodici tribù si sarebbero sparpagliate nel corso degli anni seguenti nei quattro sistemi, scegliendo in ognuno di essi il pianeta su cui stabilirsi.
Per secoli le Dodici Tribù si erano combattute aspramente per la supremazia, il denaro e il potere; per tempi lunghissimi le colonie più ricche, come la stessa Caprica, avevano sfruttato le più povere, Sagittarian e Gemenon. Le ostilità sarebbero cessate con l’avvento dell’era contemporanea e, dopo la guerra dei Cyloni, le Dodici Colonie si sarebbero unite in un unico governo giurando di non combattersi mai più per motivi futili, fino ad arrivare al periodo di relativa pace che stavamo vivendo in quegli anni. Quel periodo che sarebbe finito nell’arco di meno di quarantotto ore, portandosi via tutto ciò che per duemila anni aveva costituito la nostra storia.
“Eccolo!” Esclamai notando che un taxi si era fermato per noi. Finalmente, cominciavamo a muoverci.

Fu un sollievo distendermi sul letto matrimoniale avvolto da un leggero copriletto bianco che celava una trapunta piuttosto sottile; i cuscini gonfi e ricurvi riportavano dei ricami color panna che si diramavano dal centro verso l’esterno.
Le due porte vetrate si affacciavano sul balcone dal quale, trovandocisi al quarto piano, era possibile osservare un pizzico di dettagli in più del panorama urbano, a partire dai neon sulle strade trafficate, fino alle cime dei grattacieli che si perdevano quasi tra le nuvole, anch’esse trafficate.
La luce inondava la stanza tinta di bianco, e si rifletteva sul televisore, i cui due schermi verticali erano incastonati nella parete di fronte al letto, e separati da circa venti centimetri di distanza l’uno dall’altro.
Mentre Steve riponeva i bagagli accanto all’armadio (che tra l’altro era più grande di quello che avevamo nella nostra casa), accesi la televisione e feci scorrere distrattamente i vari programmi: su Cap News, un uomo pallidissimo e con i capelli grigi annunciava che la cerimonia per il disarmo della Battlestar Galactica, che si trovava in quel momento in orbita di stazionamento nello spazio vuoto tra Helios Alpha ed Helios Beta, si sarebbe svolta nelle ore seguenti, e che una delegazione di giornalisti, turisti, sacerdoti e perfino politici, tra cui Laura Roslin, fosse appena decollata da Caprica per recarsi sulla famosa astronave, per assistere al congedo dell’ultima nave da battaglia che aveva servito durante la guerra dei Cyloni.
Nel canale successivo la trasmissione riempì i due schermi con immagini diverse: sullo schermo di destra, una donna di colore con i capelli a caschetto neri, un tailleur rosa con un doppio petto a bottoni grandi, degli orecchini di perla ed un sorriso molto rassicurante, presentava la settimanale intervista ad uno dei personaggi di spicco della società.
Alle sue spalle, erano riposte su di una parete blu la bandiera nazionale di Caprica ed un vaso di fiori dai toni rossastri. La musica iniziale accompagnò le sue parole:
“Buongiorno signore e signori, sono Kellan Brody. Per tutti coloro che partecipano al gioco della Piramide su Gemenon, benvenuti su Spotlight, il nostro programma settimanale di interviste dedicato a persone che fanno notizia a Caprica.”
Sullo schermo di sinistra, l’intervistato fingeva di non guardare nella telecamera, mostrandosi perso ad osservare il panorama all’esterno della sua finestra –si trovava in collegamento dalla sua abitazione.
“Oggi noi parleremo con il dottor Gaius Baltar” proseguì Kellan, mentre lui faceva un cenno con la testa guardando lo spettatore dritto negli occhi; sorseggiò poi un goccio d’acqua.
“vincitore di tre Premi Magnet nel corso della sua carriera. Figura di culto per i media e amico personale del presidente Adar, sta attualmente lavorando come consulente sui problemi informatici per il Ministero della Difesa, ma forse più conosciuto per il suo controverso punto di vista riguardo al futuro impiego della tecnologia.”
In quel momento, sul viso di Gaius Baltar era perfettamente riconoscibile il senso di compiacenza provocatogli dagli elogi della conduttrice; la sua posa aristocratica ed altolocata sulla poltrona ne evidenziava l’appartenenza all’elite della società, un qualcosa di falso che sarebbe durato ancora molto poco.
La camicia rosa accostata ad una giacca grigia a righe recuperata da una delle migliori linee primaverili di Caprica e Virgon; i capelli castani leggermente mossi ed un sorriso beffardo.
“Non se la tira un po’ troppo? Guarda che faccia che ha! Sembra che ce l’abbia solo lui!” Rise Steve dall’angolo della stanza, facendo ridere anche me. Aveva ragione in effetti.
Avremmo scoperto tempo dopo quanto Gaius Baltar potesse essere un pallone gonfiato.
“Dottor Baltar, le do di nuovo il benvenuto.”
“Grazie Kellan”
Esordì Baltar con un tono smielato e corrugando ulteriormente la fronte al punto da sembrare quasi finto.
“Prima di tutto vorrei dirle che lei è molto affascinante e secondo che è un grande piacere partecipare al vostro show.” L’espressione sul suo viso si fece ammiccante.
Kellan rise prima di continuare.
“Siamo lieti di averla con noi. Le dispiacerebbe riassumere il suo punto di vista per il nostro pubblico?” Chiese la donna con tono cordiale.
“Lo farò con piacere! La mia posizione è molto semplice: il divieto di ricerche di sviluppo riguardo all’Intelligenza Artificiale è come sappiamo tutti un retaggio della guerra dei Cyloni. Molto francamente trovo che questo sia un concetto antiquato, non serve a nessuno scopo utile…”
“Hey!” Sbottai quando Steven spense la televisione per farmi uno scherzo.
“Non lo starai seriamente ascoltando?” Rise sdraiandosi accanto a me sorridente.
Sorrisi anche io, e poi risi. E poi passò un po’ di tempo.

11.6 –“Esplorazioni e domande.”
L’attesissima prima di “Glastone Bourg Flowers” si sarebbe tenuta la sera seguente, perciò avevamo tutto il pomeriggio, la sera e il giorno seguente a disposizione per esplorare Caprica City, la città che chiunque, a prescindere da quale mondo venisse, avrebbe dovuto visitare almeno una volta nella vita.
Dopo aver riposto i nostri leggeri bagagli a mano nella stanza del nostro albergo ed esserci presi qualche momento per noi , decidemmo di uscire e fare un piccolo tour armati di cartina.
Il nostro albergo, un grazioso alberghetto sulla Swinton Street, parallela ad una delle vie centrali della città, era un piccolo edificio rettangolare di sette piani, alla cui infrastruttura di cemento armato bianco si sovrapponevano ampie vetrate che donavano alle camere un’illuminazione davvero eccellente. Dal terrazzo sull’ultimo piano, provvisto di bar e tavolini per la colazione o il break pomeridiano, era possibile osservare in lontananza il famoso Pantheon Bridge, uno dei ponti che attraversava la Caprican Bay, unendo il centro urbano di Caprica City alla zona suburbana situata sull’altra sponda del fiume. Il Pantheon Bridge era stato costruito esattamente novantotto anni prima ed era stato considerato per quasi un secolo il ponte più grande del pianeta, per un centimetro. Perse il primato con la costruzione del Nausicaa Overpass, un mastodontico ponte autostradale posto sullo stretto che separava i continenti di Lamos e Metis, per una lunghezza di centotrentadue chilometri sulle acque dell’Enipeus Sea, nelle regioni centro occidentali. Il ponte venne costruito subito dopo la guerra dei Cyloni e, come tanti altri monumenti sorti in quegli anni un po’ ovunque nelle Colonie, doveva simboleggiare la rinascita dopo il buio decennio che l’umanità aveva appena trascorso.
Steve teneva sempre con se la cartina ed analizzava con lo sguardo, come del resto facevo anche io, ogni singolo monumento che incontravamo nelle varie piazzole a fianco della strada.
“Questa città è fantastica, non riesco a credere di essere qui!” Disse Steve sorridendo come un bambino mentre i suoi occhi impazzivano per la moltitudine di bellezze a cui erano sottoposti.
Un tratto dominante del suo carattere era senza dubbio la spontaneità, che lo portava a gioire per ogni nuova esperienza, specialmente una tanto attesa come questa.
Era trasparente, schietto, senza troppi fronzoli e se doveva dirti una cosa lo faceva, senza star troppo a pensare se potesse essere carina o meno. Ammetto che questo dettaglio alle volte ci abbia fatto litigare un po’, ma nulla di che. Quel momento era per lui un tripudio di emozioni, emozioni che apparivano chiare sul suo volto, felice e contento come quello di un bambino che riceve un regalo.
Passammo di fronte a diversi edifici importanti del centro della città, diversi luoghi storici ed iconici; non lontano dal molo principale ci imbattemmo nella cosidetta “Little Tauron”, un quartierino malfamato pieno di piccoli bazar dove i Tauroniani commerciavano secondo i loro costumi; in passato sarebbe stato veramente molto pericoloso trovarsi in una zona simile della città, ma per fortuna le cose stavano andando meglio.
L’Atlas Arena era l’edificio sportivo più importante della città, e la sua imponente struttura biancastra e ondeggiante emergeva dal livello della strada, tra i parchetti inverditi e i moderni grattacieli in vetro ed acciaio: nell’arena venivano disputati gli incontri delle più prestigiose squadre di Pyramid delle Dodici Colonie, e migliaia di tifosi gremivano gli spalti del palazzetto facendolo tremare con le loro grida, sventolando bandierine dei colori dei loro favoriti.
Fu interessante il momento in cui ci trovammo di fronte ad un piccolo edificio dismesso e chiuso da delle transenne arrugginite; faceva un certo contrasto vedere una bettola tanto malmessa in una città così apparentemente perfetta ed impeccabile.
“Quello è il GDD” disse Steven indicando i vetri rotti del secondo piano “Era il dipartimento della difesa globale, fino a quarant’anni fa.” Aggiunse.
Ricordai di aver letto a proposito di quell’organo di polizia durante le mie ricerche su Virgon; il GDD era stato sciolto dopo la fine della guerra Cylone, per via dell’unificazione sotto un unico governo per tutte le Dodici Colonie; venne rimpiazzato da un nuova gerarchia poliziesca che dipendeva direttamente dal gabinetto presidenziale.
Lo stupore mi pervase nello scoprire che a pochi –anzi, pochissimi- passi dalle rovine del GDD si trovasse l’isolato che ospitava la Wilson Elementary School, la scuola elementare riaperta di recente che avevo visto in televisione durante quel notiziario in cui era apparso il ministro dell’educazione Laura Roslin. Mi avvicinai ed entrai nella piazzetta: era così bello trovarmi di fronte all’atrio di una scuola, pensando a quello che sarebbe stato il mio futuro professionale. I grattacieli svettavano oltre il tetto della piccola e graziosa scuoletta, mentre il sole inondava di giallo tutto attorno a me.
Ricordo che mi colpì molto la statua di Icaro all’ingresso di Orpheus Park, una delle distese verdi più grandi della città, poiché era identica a quella che per anni avevo osservato vicino alla stazione rosa dei treni Lev di Lewdan, su Canceron. Il luogo dove per altro io e Steven ci eravamo conosciuti. Entrammo quindi nella riserva che portava il nome del dio Orfeo e ne percorremmo il marciapiede  che disegnava il perimetro, senza addentrarci troppo nelle zone boscose.
Era bellissimo, tutte quelle piante verdi e rigogliose che ospitavano uccellini cinguettanti, i lampioni ancora spenti e le panchine in ferro battuto nero.
Il marciapiede andava in salita e si arrampicava su una collinetta verde, dalla quale era possibile osservare un po’ meglio la struttura di Caprica City e del meraviglioso ambiente naturale che la circondava: innanzi tutto va detto che il centro urbano che brulicava di grattacieli ultramoderni e slanciati si trovava su una penisola situata in un golfo chiuso da uno stretto che lo separava dall’oceano di Tethys, la cui influenza sul clima si faceva sentire rendendolo tra i più miti del pianeta. Diversi ponti, tra cui il sopra citato Pantheon Bridge, collegavano la penisola sia con la zona suburbana che la circondava oltre le acque dei due fiumi, sia con l’isola verde di Hermes distante appena ottantasette metri.
Attorno alla baia che ospitava la penisola immersa nelle acque fiumane che conducevano all’oceano, si ergevano importanti montagne innevate sulla cima e tappezzate di abeti verdissimi su tutto il pendio; dalla collinetta su cui ci trovavamo mi sembrava di poterli quasi contare, da quanto riuscivo a distinguerli mentre si arrampicavano immobili sui crinali rocciosi.
L’erba era verdissima, probabilmente la più verde che avessi mai visto, e sulla cima della collinetta abitava un’altra panchina, accompagnata da un lampione e una manciata di alberi dalle fronde esuberanti.
“Sediamoci qui un attimo!” Mi invitò Steve ad accomodarmi accanto a lui; alle nostre spalle i grattacieli di vetro scintillavano sotto il sole giallastro del primo pomeriggio. I velivoli sfrecciavano facendo non poco rumore nei cieli della capitale delle Colonie.
“Non pensavo che avrei visto così tante cose in vita mia…” Sospirai sorridendo mentre mi appoggiavo allo schienale con il gomito. Lui mi ascoltò.
“Sono cresciuto su Canceron e per vent’anni non ho avuto molte pretese dalla vita, non che là non fossi felice, anzi…” Uno shuttle volò non molto lontano da noi spaventando gli uccellini.
“Poi sei arrivato e … hai cambiato tutto.” Gli sorrisi scuotendo leggermente la testa.
“Non sapevo di avere questi super poteri!” Rise Steve, scostandomi i capelli biondi dal viso, in netto contrasto con i suoi scuri.
“O forse sei strano!” Ribattei scherzosamente alla sua affermazione poco modesta. Lui rispose con un sorriso silenzioso, perdendosi con lo sguardo tra le montagne verdi e innevate di fronte a noi.
“Sai” esitai un momento “Ho una strana impressione.” Mi guardai attorno per poi sistemarmi con la mano i capelli spettinati dal vento, riordinandoli con la riga sul lato destro.
“Un’impressione?” Chiese Steve raddrizzandosi ed osservandomi chinando la testa.
“Si è come se… come se sentissi che su questa panchina si fosse seduto qualcuno di molto importante, una volta.” Qualcosa nell’aria che ci accarezzava il viso spettinando il mio caschetto e il suo ciuffetto, sembrava sussurrarmi strane parole.
“Non so, è come se avvertissi che in questo parco sia accaduto qualcosa di terribile, molti anni fa… ma non so spiegarmelo.”
“…e sarei io quello strano?” Rise, lasciandomi per un attimo perplesso. E che avrebbe dovuto dire? In effetti era una cosa strana, ed io ero una persona strana e non poco. Una risata era più che appropriata.
Perciò, nel dubbio, risi anche io.
“Comunque c’è una cosa che ancora devi vedere, biondino.” Mi toccò il naso con l’indice e sorrise.
“Ovvero?”
Leonis!” Sorrise compiaciuto. Non era la prima volta che mi prometteva di mostrarmi il suo mondo natale, in un futuro che lo permettesse economicamente; data la nostra crescente esperienza nel viaggio intercoloniale, non avevo motivo di dubitare che un giorno avrei messo piede sul pianeta più caldo ed orgoglioso delle Colonie. E pensare che in primavera era possibile vederlo sotto forma di un puntino rosso durante i primi vespri dal nostro emisfero di Virgon, trovandosi nello stesso sistema solare. Non potevo immaginare che non sarebbe mai stato così.



11.07 –“Tramonti e proposte.”
Il sole incominciava ormai a calare, ed est si faceva sempre più vivido il globo di Gemenon, investito dai raggi del sole giallo attorno al quale i due pianeti orbitavano. Il cielo si tingeva di  un arancione famigliare che mi ricordava molto il luogo in cui ero cresciuto. Il sibilo dei propulsori dei velivoli che solcavano i cieli della capitale era sempre presente, a tratti gentile a tratti prepotente, ma non smetteva mai di risuonare sopra di noi.
Ci trovavamo in un parco molto famoso nella zona suburbana di Caprica City, un luogo di ritrovo per le famiglie che si riunivano a giocare con l’acqua insieme ai figli usciti da scuola, un posto che aveva assunto nel corso degli anni il nome non ufficiale “The Riverwalk Market”.
Il parco era di forma rettangolare ed ospitava al suo centro una piscina nella quale era ovviamente vietato entrare, e dalla cui superficie emergevano delle fontane intermittenti; era inoltre circondato da un edificio in cemento armato grigio alto si e no dieci metri che formava una sorta di foro attorno alla zolla verde: l’edificio ospitava un piccolo campus, uffici turistici, negozi di abbigliamento e qualche bar, e la sua particolarità stava nella sua struttura, in quanto era sorretto da una serie di robusti piloni di circa tre metri d’altezza. Da ovunque nel parco, si poteva quindi osservare l’ambiente che circondava l’edificio, dalle montagne innevate ad est, i grattacieli della città a nord e la baia che la racchiudeva. Il luogo era disseminato di piccoli chioschetti che in alcuni giorni della settimana ospitavano mercatini di antiquariato, vestiario ed artigianato, tavolini dove sorseggiare un drink all’aria aperta e spettegolare con gli amici e numerosi cespugli verdi e squadrati.
Una miriade di bambini scorrazzava sui gradini cementati che precedevano l’erba gridando e sghignazzando, presi dai loro divertimenti. Notai che alcuni di loro indossassavano delle maschere che riprendevano la forma degli elmetti dei centurioni Cyloni che avevano messo a ferro e fuoco i nostri mondi quarant’anni prima. Sebbene potesse far sorridere il fatto che si divertissero così tanto, trovai leggermente di cattivo gusto quel genere di giocattoli; quei bambini non sapevano quale tipo di terrore avevano rappresentato per i nostri genitori quegli elmetti monocolari. Nemmeno io in realtà lo sapevo.
Non lo sapevamo.
Non ancora.
Steve osservava soddisfatto le bandiere delle Dodici Colonie infisse alle pareti esterne del campus, ma la mia attenzione fu catturata da quella che sembrava essere la figura di una donna… una donna biondissima, dai capelli mossi e perlacei.
Sgranai gli occhi, non essendo certo di averla vista davvero; era lontana, all’altro estremo del parco, ed era di spalle; indossava un cappotto violaceo e stava a braccetto con un uomo dai capelli leggermente mossi e castani, un po’ più basso di lei.
“David!”
Mi voltai verso Steve perdendo immediatamente il ricordo della presunta immagine che avevo visto.
“Vieni, da qui si vede tutto!” Attraversammo il perimetro del campus e ci trovammo su un marciapiede che correva lungo la riva del fiume che separava la terra ferma dalla penisola su cui si trovava il centro della città. Era bellissimo.
Ci appoggiammo entrambi al corrimano del marciapiede. Gli imponenti grattacieli di fronte a noi si riflettevano sull’acqua del fiume, mentre le prime luci venivano accese al loro interno. Il sole tramontava e con lui, la città, la vita, le Colonie stesse, in tutti i sensi. Un astro molto luminoso cominciava a splendere: era in realtà un pianeta, il piccolo mondo oceanico di Picon che stazionava nella seconda orbita attorno alla stella, particolarmente visibile in primavera.
Mi voltai verso di lui, nel suo maglione rosso, bello impettito…eppure, c’era qualcosa di strano nei suoi occhi. Evitava il mio sguardo, come se qualcosa non andasse. Mi preoccupai per un attimo e dopo averlo guardato di nuovo mi feci avanti.
“E’ tutto ok?”
Annuì in silenzio per qualche secondo prima di rispondere a voce. Non ne ebbi la certezza ma mi parve di sentire che deglutì in modo piuttosto rumoroso.
“Si… è tutto ok!” E scoppiò a ridere. Nervosamente. Arrossendo.
Lo guardai con un’aria leggermente stranita scuotendo la testa in segno di disappunto.
“Sei sicuro?” Chiesi.
Annuì nuovamente, trattenendo un’altra risata tra i denti.
La torre degli uffici amministrativi della città svettava imperiosamente su tutti gli altri edifici, con la sua forma a pinnacolo slanciata verso il cielo, per un’altezza di quasi ottocento metri.
Qualcosa mi suggerì che forse Steven volesse dirmi qualcosa ma non era certo di riuscirci: avevo avuto questa sensazione già diverse volte nelle settimane precedenti. Bella o brutta che fosse, forse era il momento migliore per dirmi quella cosa, di qualsiasi fosse la sua natura.
I rumori della città erano la colonna sonora di quei freschi e piacevoli istanti. Il globo di Gemenon dominava prepotentemente il cielo rosato di Caprica City, e l’aria era carica di promesse e di una sottaciuta felicità. Non parlarne in quel momento avrebbe significato sprecare un’occasione unica, ma sappiamo quanto il nostro intelletto sia fallace in certi momenti.
Mi persi nel seguire con lo sguardo una navetta che sfrecciò verso le cime dei grattacieli per perdersi fra di essi.
“David” Mi voltai.
“Lo sai che ti amo, vero?” Disse Steve assumendo un tono serissimo. La sua mano sfiorò la mia.
“Certo” risposi.
Allora sposami

Sbam.

Ricordo che ebbi la sensazione che tutto attorno a me fosse come ovattato, racchiuso nel cellophane o qualcosa di simile. Ebbi un flash di me, alle elementari, su Canceron, mentre Jennifer mi aspettava fuori da scuola al pomeriggio. Vidi me stesso correrle incontro ridendo e udì la mia risata riecheggiare nell’aria attorno a noi. Non capì il motivo di quel flash, ne lo capisco adesso onestamente. Le parole di Steve dovevano proprio avermi scioccato.
Ed in un attimo fui di nuovo lì, nel mio corpo, di fronte a lui che mi sorrideva serioso ma sembrava essere leggermente in ansia. Piuttosto in ansia anzi. Del resto non è mai una domanda facile, spesso molti si spaventano quando viene loro fatta, nonostante la chiarezza dei loro sentimenti.
Le barche erano ancora ormeggiate al molo vicino a noi, i grattacieli ancora in piedi, i bambini ridevano ancora nel parco.
Con uno sforzo immane, richiamai tutta l’aria che avevo in petto per pronunciare un affaticato e tremolante sì.
Mi sembrò di toccare il cielo, anche se le mie membra sconvolte non riuscivano a dimostrarlo.
E per un attimo parve che una dolce musica danzasse nel mondo che ci circondava, celebrando la gioia di quel momento per qualcosa che stava per accadere. Era proprio vero che l’aria fosse carica di promesse.
Ricordo che quella notte, prima di addormentarmi avvinghiato al suo corpo, sorrisi pensando a quanto fosse meraviglioso il futuro che ci attendeva, e credetti di vivere in una sorta di favola nel mondo reale.
Presto, qualcuno mi avrebbe però ricordato che le favole sono solo storie.

11.8 –“Preoccupazioni e bagliori.”
Se non si crede a nulla di trascendentale e di spirituale, si potrebbe pensare che certe cose siano solo dei casi; la così detta “ironia della sorte” che sembra pervadere la nostra esistenza, distribuendo gioie e dolori per mano di Zeus che con le sue saette colpisce uomini senza motivo.
Fortunatamente (o purtroppo?) io non sono così, e sono quasi del tutto certo che lassù qualcuno vegli su di noi, così come sono certo che le cose avvengano per una ragione.
Se non fosse così, avrei compreso solo a metà l’incredibile dettaglio che ci salvò la vita quel giorno, il giorno in cui le Dodici Colonie vennero distrutte; se non fosse stato per quel piccolissimo contrattempo, io Steven saremmo probabilmente morti come tutti gli altri e non saremmo stati diversi dalle altre decine di miliardi di vittime.
Fu il cellulare che suonava a svegliarmi dal sonno; era il telefono di Steve che per qualche ragione si trovava accanto a me.
Sgranai gli occhi e vidi che erano solo le 5 e quarantacinque del mattino, ed il numero che stava chiamando era sconosciuto. Provai a svegliare Steve che emise un mugugno infastidito, così mi auto concessi il diritto di rispondere personalmente alla chiamata.
“Pronto?” Cercai di parlare nel modo più chiaro possibile nonostante il sonno.
“Signor Sanchez?” Disse una voce femminile.
“Si ehm, no mi scusi, sono il compagno… chi parla?”
“Sono un’assistente di volo della compagnia con la quale avete volato, devo avvertirvi di un contrattempo che si è causato.”
“Un contrattempo?” Avevo ancora gli occhi chiusi.
“Purtroppo il signor Sanchez ha erroneamente lasciato qui il suo documento di circolazione, la sua patente. Ce ne siamo accorti solo ieri sera e vi abbiamo chiamato quanto prima! E’ importante che venga a recuperarlo immediatamente per evitare problemi per il re imbarco!”
Trattenni un’imprecazione “… Grazie signorina arriviamo subito.”
Sbuffai, guardai Steve che dormiva e sospirai di nuovo.
“Steve… alzati.”



Ci trovavamo di nuovo in uno spazio porto, cosa che ormai mi sembrava di fare continuamente.
La mia vita, la nostra vita, sembrava così piena delle medesime esperienze, come se fossimo destinati a quel tipo di routine; me ne stavo seduto sul divanetto accanto al rivenditore di caramelle per bambini, quelle rotonde e colorate con quel sapore dolce e stantio che personalmente ho sempre trovato nauseante; la signora seduta a un metro da me leggeva una rivista, credo fosse The Caprican, e ne sfogliava le pagine con molta calma, una calma quasi innaturale: aveva le gambe accavallate, e leggeva un articolo su un particolarissimo tipo di orchidea che cresceva soltanto nelle valli delle regioni nord occidentali di Scorpia, solo lì e in nessun altro posto nelle Colonie.
Che cosa meravigliosa, i fiori.
Che artificio di pazzesca conformazione ha creato la natura.
E pensare che non ne crescono su Tauron.
Su Tauron non esistono fiori, non crescono, non ne nasce nemmeno uno. Non esiste una vera spiegazione scientifica a riguardo, ma su quel pianeta non esistono fiori.
In effetti sarebbero state così le nostre vite, pensavo in quel momento; se Steve fosse riuscito nel suo intento e fosse diventato una star… che cosa ne sarebbe stato di noi due?
Se fosse realmente arrivato a quella meta probabilmente la nostra vita di coppia ne sarebbe stata fortemente condizionata, se non del tutto. Un cantante famoso si trova continuamente impegnato in tournè, interviste, tabloid, registrazioni, esibizioni… non ha mai un secondo per se, figuriamoci per la persona amata.
Non è certo un caso che la maggior parte delle star divorzi dopo pochissimi anni di matrimonio.
Ammetto che quei pensieri mi preoccupassero e che di tanto in tanto si facessero vedere nella mia mente che, normalmente, li rifuggiva per via della loro astrattezza: mi sembravano lontani e impalpabili e del resto non potevo essere certo di come sarebbe stato il futuro, per quanto ne potevo sapere un autobus avrebbe potuto investirmi da lì a pochi giorni e a quel punto tutto il resto non sarebbe più significato nulla, no?
In un certo senso era così, ma non lo sapevo ancora; lo avrei scoperto circa dieci minuti più tardi.
La luce penetrava generosamente dalle vetrate sulla parete curva del terminal, puntellata di lampade dalla luce soffusa che donavano alle ore serali un’atmosfera quasi piacevole.
Sulla parete dietro di me era infisso il tabellone elettronico che informava i passeggeri sui prossimi voli, sulle destinazioni e sui loro orari, ed accanto ad esso erano posti una moltitudine di teleschermi elettronici che raffiguravano diverse località turistiche nelle Dodici Colonie; alla sinistra del divanetto grigio su cui sedevo vi era un vaso con un alberello alto circa un metro e ottanta centimetri; piante similari erano disseminate un po’ ovunque nel terminal.
“Eccomi, c’era un po’ di coda al bancone.” Disse Steve porgendomi un bicchiere di plastica contenente un cappuccino acquistato alla caffetteria  nella hall, dato che eravamo corsi a prendere i suoi documenti al terminal senza aver fatto colazione.
“Prego, signor Sanchez!” Ridacchiò.
Si sedette al mio fianco e distese le gambe poggiandole sulla poltrona di fronte.
“Abbiamo già deciso che sarò io a prendere il tuo cognome?” Chiesi ridendo in modo sarcastico ed appoggiando la testa alla mano destra.
“Ma certo! Sanchez è un nome da duri!”  sorrideva mentre fissava le cime dei grattacieli di Caprica City perdersi nella foschia fuori dalle finestre dello spazioporto.
“Oh beh, io ho proprio l’aspetto di un duro, vero?” Risi ancora.
“Già, non proprio, infatti. Con questi capelli poi!” Disse accarezzandomi la testa.
Guardai di fronte a me: era una visione piuttosto suggestiva effettivamente: quegli imponenti grattacieli dal design modernissimo e slanciato, protesi verso l’alto in una serie di pinnacoli e tetti appuntiti e stondati, apparivano quasi evanescenti nella sottile nebbia che quella mattina abbracciava la baia in cui era situata la città. Quell’ultima mattina.
Nel biancore era possibile distinguere le luci fluorescenti e violacee degli ologrammi e dei teleschermi pubblicitari che tappezzavano le strade in cui migliaia di persone circolavano ogni giorno; sembravano tanti piccoli evidenziatori luminosi nella foschia. In cielo, si vedeva a malapena il contorno dell’emisfero nord di Gemenon, coperto dalla nebbia.
Ero tentato di allungare le gambe anche io ora. Steven mi prese la mano e la baciò chiudendo gli occhi mentre le sue labbra premevano sulle mie nocche, e dopo aver atteso un istante mi chiese se fossi felice; come mi aveva chiesto molto tempo prima, ai piedi di un grattacielo alto settecento metri, su Canceron.
“Certo! Certo che lo sono!”
Certo che lo ero. E dovevo dirlo a Jennifer. Dovevo dirle che adesso avevo un anello di argento finto al dito e che in un futuro molto prossimo sarebbe divenuto vero, e non sarebbe stato solo simbolico.
Miei dei, pensai, Steve mi aveva chiesto di sposarlo. Sposarlo! Sposarci per davvero, come gli altri, come le persone nei film, come nelle storie. Ma ero pronto? Sarei stato all’altezza di una tale impresa? In realtà, forse ero più terrorizzato che felice, ma sapevo di non dovermi preoccupare di ciò in quel momento, perché di certo quando sarebbe stata l’ora, le mie paure avrebbero lasciato spazio alla cosa più bella della mia vita.
E diamine se dovevo dire tutte queste cose a Jennifer; già me la immaginavo dare di matto al telefono, quella povera donna ansiosa, terrorizzata dalla sua stessa ombra.
Immaginai come si sarebbe vestita in quel giorno, e pensai che molto probabilmente avrebbe pianto molto, come del resto avrei sicuramente fatto anche io.
Risi, pensando di avere ancora tempo per avvertirla. Steve sorrise, poi la sua attenzione fu attirata da qualcos’altro.
“Guarda!” Mi disse picchiettando sulla mia spalla con la mano ed indicando con l’altra in alto nel cielo.
“Guarda Gemenon! Cosa sono quei cosi?”
Strabuzzai gli occhi: per quanto poco si riuscisse a vedere tra la nebbia e le nuvole grigiastre, riuscii a notare dei bizzarri puntini luminosi comparire rapidamente sulla superficie del pianeta gemello di Caprica; sembravano quasi stelle ai primi vespri, eppure erano sopra un pianeta! E noi li stavamo vedendo da sotto l’atmosfera di un altro, a centinaia di migliaia di chilometri di distanza! Cos’erano?
Comparivano progressivamente su tutta la superficie.
“Guarda !!!” Esclamai notando che dal cielo stavano cadendo una manciata di puntini neri, in lontananza, ma nemmeno così tanto lontani in realtà; li seguì con lo sguardo per meno di tre secondi finchè non li persi di vista.
“Che frak…”
Quello che udimmo in quell’attimo… veramente credo ci sia solamente un modo per tradurlo in parole, e ossia utilizzando una forma onomatopeica molto spesso citata, ma che da quel momento non sono più riuscito ad associare a nient’altro se non a quello.

Boom.
Boom.



Boom.


Sono sicuro che non dimenticherò mai quei secondi.
I secondi trascorsi dal primo “boom” fino all’istante in cui i miei sensi mi abbandonarono momentaneamente.
Mi tremano le mani ancora adesso a pensarci, mi trema tutto. E’ stato stata l’esperienza più traumatica della mia vita; non la più spaventosa, ma la più tempestiva, la più sconvolgente.
Ora proverò a descriverlo qui, ma dubito fortemente di essere bravo abbastanza da saper scegliere le giuste parole per esprimere quello che provammo; in tal caso spero che chi leggerà riesca a fare uno sforzo di immaginazione –anche se non credo riuscirà nemmeno lontanamente a farsi un’idea realistica.
 
Un accecante bagliore si accese dietro ai grattacieli di Caprica City e in una frazione di secondo illuminò le nostre finestre in un modo così intenso e repentino da non darci nemmeno il tempo di rendercene conto; gridai per il dolore che i miei occhi provarono e vi schiaffai letteralmente sopra le mani, e in quel momento il primo “boom” si palesò, ma non fu un semplice rumore, fu qualcosa di diverso: fu un boato; fu il suono più potente e fragoroso che avessi mai sentito. Il boom arrivò circa un secondo dopo il bagliore: si sa, la luce viaggia più velocemente del suono.
La sala del terminal era pervasa dalle urla di centinaia di persone terrorizzate.
Immediatamente tutte le finestre e le vetrate esplosero e l’intero edificio fu colpito da una tremenda onda d’urto: io e Steven fummo sbalzati via dal divanetto grigio su cui sedevamo e volammo letteralmente contro la parete in fondo alla sala; io persi i sensi quasi subito, ma ricordo di aver visto il tabellone elettronico crollarci addosso: questi non ci schiacciò solamente perché un grosso frammento di granito “emerso” dal pavimento per via dell’onda d’urto lo bloccò all’altezza di un metro e dieci centimetri da terra.
Mentre i miei occhi si chiudevano continuai ad udire per una manciata di secondi il terribile rumore di edifici che crollavano su se stessi, di vetri che si frantumavano, di cemento che si sbriciolava, di detriti che sbattevano ovunque, e ad intervalli regolari, quei terrificanti e fragorosi boom.
Ricordo che mentre svenivo chiesi a me stesso con la mente cosa stesse accadendo, perché non riuscivo a farlo parlando, ma non potei darmi una risposta.
Poi il buio.



11.8 –“”
Mentre il mondo crollava attorno a me privo di sensi, io sognavo.
Mi trovavo in un prato verde sconfinato, dolci colline, un cielo azzurro terso e tantissimi fiori.
La donna bionda vestiva un completo rosso aderente e che lasciava scoperte le spalle: i suoi bellissimi capelli biondi perlacei, quasi bianchi, venivano gentilmente gonfiati dalla brezza che accarezzava anche me.
Mi stava venendo incontro con un’espressione compiaciuta e pareva che avesse qualcosa da dirmi; stavo sognando, si, ma il mio io cosciente era consapevole di sognare, sapevo che non stesse accadendo realmente.
Anzi, mi trovavo in un certo stato di angoscia, perché sebbene l’immagine di fronte a me fosse così soave e rassicurante, sapevo di essere svenuto per un qualche genere di esplosione.
Sapevo che fuori dalla mia testa ci fosse il finimondo.
“Sei arrivato fin qui, finalmente!” Disse sorridendo di gioia e accarezzandomi la spalla.
“Io… io ho paura!” Le risposi sul procinto di piangere; agitavo la testa e mi guardavo attorno in quella strana e silenziosa pace.
“Shhh…” Sibilò “non devi! Tutto andrà bene! Questo è il volere di Dio! E Dio ti ama.” Afferrò entrambe le mie spalle guardandomi dritto negli occhi, mentre la brezza continuava a scompigliarle i capelli.
“Io… io non capisco! Tu, tu lo sapevi? Sapevi che sarebbe accaduto?” Le chiesi disperato, non sapendo realmente nemmeno io cosa fosse successo.
“Si.” Sembrò quasi dispiaciuta nel rispondere.
Udì qualcosa di strano aleggiare nel fruscio del vento, un suono particolare; sembrava quasi… una musica! Assomigliava ad un ticchettio, una sequenza di lievissime percussioni elettroniche accompagnate da degli archi…
“Ma… la senti?” Chiesi “Che cos’è?”
“E’ Dio che ti parla. Noi ci rivedremo, un giorno… ma tu non ti ricorderai di me. Non subito.”
“Che cosa?”
Lei mi fece cenno con la mano invitandomi a guardare a sinistra; ciò che vidi mi sconvolse.
La nostra cucina: Jennifer stava seduta al tavolo della cucina nella quale avevo mangiato per vent’anni. Era triste, ma sorrideva.
“Jennifer!” La chiamai, ma non mi sentiva; capì che stavo vedendo la vera lei, probabilmente in tempo reale, ma la vedevo solo io.
“Lei sa.” Disse la bionda.
Jennifer chiuse gli occhi. Un bagliore accecante, simile a quello che avevo visto da sveglio, illuminò la cucina filtrando dalle tende bianche fino a far scomparire la stanza: riuscivo a vedere la sagoma di Jennifer, ferma dov’era prima, immobile, zitta. Boom.
“Ora devi svegliarti.” Disse, la bionda, e poì mi tirò uno schiaffo così forte da farmi barcollare.
“Scusa.” Disse.

“Scusa…” La voce rieccheggiò nella mia mente.

Aprì gli occhi e scoprì Steven di fronte a me, coperto di polvere e cenere, con la fronte insanguinata e mezza manica sinistra del maglione strappata.
“Scusa ho dovuto schiaffeggiarti.” Mi disse mentre si sbrigava ad afferrare e levarmi i cocci che avevo addosso; la mia testa stava come esplodendo, e i suoni che mi arrivavano da fuori, come la voce di Steven o i rumori degli oggetti che cadevano attorno a noi, giungevano alle mie orecchie incredibilmente ovattati. A stento riuscivo a tenere gli occhi fissi su di lui.
“Ti prego, non smettere di guardarmi!” Levò gli ultimi e mi trascinò fuori dalla catasta di detriti dalla quale mi trovavo, emettendo un flebile mugugno per lo sforzo; non appena provai a tirarmi su ed accovacciarmi avvertì una tremenda fitta alla schiena, dovuta alla botta che avevo preso “volando” contro la parete. Per fortuna non era niente di grave e, tolto qualche altro livido marcato e qualche graffio, non mi ero fatto nulla, così come Steven. Fummo davvero fortunati.
Mi guardai attorno e non riuscì a credere a ciò che vidi.
Il soffitto era crollato, così come gran parte delle pareti attorno a noi; il piano su cui ci trovavamo era, adesso, il più alto dell’edificio dato che tutti quelli sopra di noi non c’erano letteralmente più, poiché erano stati spazzati via da quella tremenda onda d’urto che ci aveva investiti.
E non era finita.
Colonne di fumo gigantesche salivano vorticosamente dal panorama circostante, disegnando uno scenario davvero terribile alla vista sconvolta di chi guardava. L’intera città aveva sembrava aver subito il nostro stesso fato; moltissimi dei grattacieli che fino a pochi istanti prima svettavano nel cielo per centinaia di metri, ora erano un cumulo di macerie, come se fossero implosi su se stessi.
Le fiamme si alzavano prepotenti per le strade, che ora potevo vedere chiaramente non essere più illuminate da neon e ologrammi, ma da scoppiettanti incendi, la cui ingordigia di terreno cresceva a vista d’occhio.
“Dei…Fr..Frak! Che ??” Gridai in preda al panico.
L’aria era ricolma di cenere, la quale iniziava a posarsi sopra di noi come neve leggera e grigia.
“Guarda laggiù, miei dei…” Disse Steve terrorizzato, indicando con la mano oltre le rovine dei grattacieli.
le sagome di tre funghi atomici si innalzavano nel cielo, annerendolo e rendendoci chiaro cosa fosse appena accaduto. O per lo meno in parte.
Intuì  che in qualche modo i miei strani presentimenti degli ultimi anni si fossero appena palesati e che il destino mi avesse trovato. Ora non avrei avuto più nulla dietro a cui nascondermi per sfuggirvi.

Continua… ________________________________________________________________________________________________________________________ Note dell'autore: Mi sembra giusto scrivere due righe a fine capitolo, cosa che non ho mai fatto prima, ma che questa volta mi pare necessaria: sono passati più di sei mesi dall'ultimo capitolo e il motivo per cui ho impiegato così tanto ad approntare questo sono stati i molteplici cambiamenti che sono avvenuti in questo periodo nella mia vita. Ho iniziato ad affrontare situazioni totalmente nuove, un nuovo lavoro, nuove responsabilità, nuove conoscenze... inoltre nell'ultimo mese ho perso, probabilmente per sempre, quella che per tantissimo tempo era stata la persona che costituiva il centro della mia vita, e la sua dipartita ha spezzato non solo il mio cuore ma ogni mio ossicino (il capitolo infatti era quasi pronto già un mese fa, ma dato che è accaduto questo fattaccio ho impiegato molto tempo per rileggerlo e correggerlo e magari qualcosa mi è pure sfuggita). Quando l'ho caricato oggi mi sono sentito sollevato perchè davvero mi mancava il fatto di aggiornare la storia che ormai scrivo da un anno e mezzo. Spero di stare bene molto presto e di riuscire a proseguire il racconto con una certa velocità, dato che questo è il capitolo che segna il punto di svolta e di connessione tra la storia di David e Steve e la trama della serie tv. Grazie ancora a tutti voi per il vostro tempo, per avermi letto e magari per aver dato un parere. Un abbraccio a tutti! Ciao!

 
   
 
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Battlestar Galactica / Vai alla pagina dell'autore: r_clarisse