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Autore: AintAfraidToDie    10/03/2017    3 recensioni
Lui non c’è.
Non ha perdonato la mia finta dipartita di tre anni fa. Non ha perdonato il fatto che al mio ritorno mi sia presentato davanti a lui come se nulla fosse successo, intrufolandomi di soppiatto nel suo nuovo monolocale a Brixton. Adesso è fin troppo facile rimirare e constatare la sua assenza da questa poltrona usurata in cui mi ostino a lasciarmi sprofondare. Paradossalmente credo che spesso in passato sia stato molto più difficile notare la sua presenza, da me erroneamente valutata in maniera scontata. Ma l’ho capito, sì. (Tardi. Troppo tardi.)
Sei tu il più grande errore di calcolo e deduzione della mia carriera investigativa e non, John Watson.
[PostReichenbach] [Johnlock] [Sherlock!Centric] [DrugAbuse]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes, Sig.ra Hudson
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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 “Sonata al chiaro di luna.”

 

 

Notte inoltrata. Rumore di pioggia che si infrange con insolita delicatezza contro i vetri delle finestre del soggiorno del 221b di Baker Street. Respiro accelerato. Polso sui 120 battiti al minuto. Iperventilazione in atto. (Formicolio agli arti. Riduzione di anidride carbonica nel sangue?)

Sono steso sul pavimento, completamento immerso nell’ascolto di una melodia dolce, quasi soave. Mi coglie di sorpresa, ma dopo due secondi circa la riconosco: un adagio sostenuto iniziale, un allegretto intermedio e un presto agitato finale. Muovo le dita in maniera impercettibile, suonando un pianoforte immaginario nell’aria: Sonata N°14 in Do diesis minore, “Quasi una Fantasia” di Ludwig Van Beethoven. Sicuramente ai più conosciuta con il nome di “Sonata al chiaro di luna”. (Estremamente banale, se vogliamo. Incredibilmente all’avanguardia nel 1801.)

Chiudo gli occhi. Un tema quieto ma deciso. La prima linea melodica mi passa da orecchio a orecchio. Una serie ininterrotta di terzine di crome, gli accordi armonici del basso quasi sempre in ottave. (Cosa mi vuoi dire, mio caro Ludwig? Anzi, cosa hai voluto dire a tutti noi profani amanti moderni della musica classica?)

La melodia ha un delicato andamento che si innalza e ridiscende, innalza e ridiscende, innalza e ridiscende. Mi trasporta su montagne russe mentali, per poi concludersi con una mesta atmosfera meditativa, rievocando forse il ricordo di un’amara dolcezza, la coerenza di un destino segnato che deve per forza essere accettato. (Vero, Lud-caro?)

Apro gli occhi. La musica continua ad espandersi senza limiti di tempo o di spazio. Davanti a me però non c’è più il mio salotto ma un’ambientazione nuova, facilmente catalogabile con il termine ‘fiabesca’. C’è un lago, ampio e scuro. Flora rigogliosa e tipicamente lagunare si estende sia alla mia destra che alla mia sinistra. Poi il buio. La luna. Le stelle. (Un sogno? Una visione? Delirium tremens?)

Un pianoforte, nel bel mezzo dello specchio di acqua scura. Qualcuno che suona Beethoven meglio di lui stesso. (Senza offesa, Lud.) “Quasi una fantasia.” mi ritrovo a mormorare. Paradosso o ironia? Non lo so e per questo mi avvicino a tale figura, rischiarata solo dalla luce del manto di questo cielo troppo splendente per essere vero. Ma l’acqua non mi bagna. L’acqua non esiste. (Niente di tutto ciò esiste davvero.)

“Quasi una fantasia, John.” sussurro, ormai alle spalle del non più misterioso suonatore. Ma John Watson non sa suonare il piano. John Watson non sa suonare niente. John Watson non è qui. (Sogno? Magia? Overdose?) Mi guarda. I suoi occhi incredibilmente scuri sono l’unica cosa non illuminata da questa innaturale luce notturna. “È solo una fantasia, Sherlock.” mi dice, togliendo le mani dai tasti del pianoforte. La melodia continua il suo corso. (È in loop. È in loop nella mia testa.)

Si alza. Lo fisso. Mi fissa. Le sue mani mi si posano lentamente sulle guance. Non sono fredde, non sono calde. Non sono niente. Mi bacia: un tocco leggero, casto. Non scientificamente e letteralmente catalogabile,  forse. Siamo occhi negli occhi. Apre la bocca a rallentatore: “Svegliati, Sherlock!”. Ma la voce non è quella di John. La sua voce è quella della signora Hudson. (Follia. Delirio. Incubo.)

“Svegliati. Adesso!

***

 

Apro gli occhi di scatto e la prima visione che mi si prospetta davanti è quella di un viso anziano, deformato da un accenno di isteria e da vistosa preoccupazione. La signora Hudson mi guarda dall’alto, con gli occhi sgranati e la bocca ben serrata. Non il migliore risveglio di sempre, penso. “Oh, caro. Pensavo fossi morto stecchito!” dice con quella sua materna voce in falsetto, trapanando i timpani di entrambi i miei canali uditori. (Fastidio. Confusione. Luce. Mattino?)

“Sherlock! Non mi vorrai forse dire che hai passato tutta la notte steso sul pavimento?”

Non lo so. La fitta di dolore alla schiena che mi trapassa in due appena tento di alzarmi mi fa dedurre di sì, ma non voglio confermare ad alta voce la sua ipotesi. “Signora Hudson.” mi guarda, finalmente in silenzio. “Mi potrebbe preparare un tè, per favore?” la mia voce suona terribilmente roca e impastata ma tale mia richiesta evidentemente le basta per tranquillizzarsi. 

“Ma certo, mio caro. Ti farò un tè che ti rimetterà al mondo, dopo questa nottataccia!” la guardo incamminarsi verso le scale. “Un ultima cosa, signora.” si gira. “Che ore sono?”

“Le undici di mattina, Sherlock.” e con un sorriso che mette ben in mostra tutta la sua datata protesi dentale si congeda dalla stanza. Mantenendomi ancora in posizione supina mi ricollego gradualmente alla realtà che mi circonda e mi sorprendo di come tutto sembri rilegato nella propria staticità perenne.  Aria viziata mi entra nei polmoni ad ogni mio respiro: da troppo tempo le finestre non vengono aperte. (Ipotetica concentrazione di Co2 nell’aria sui 1400 ppm. Calo di concentrazione inevitabile.)

Rimiro me stesso. La manica sinistra della camicia nera che indosso ormai da tre giorni e cinque ore se ne sta tirata su, abilmente incastrata tra la fine del braccio e l’inizio dell’avambraccio. Varie eruzioni cutanee e abrasioni infiammate troneggiano sulla mia pelle candida, rendendola un po’ simile ad un campo minato. Una siringa usata e un laccio emostatico sono invece scivolati sotto il tavolino accanto alla poltrona di John. Ricordi: serata precedente, Lestrade che se ne andava dopo una fugace visita più di controllo che di piacere. Un leggero fastidio che mi aveva colto derivante dalle sue occhiate inquisitorie tese a capire se fossi sobrio o no. In effetti non lo ero, non lo ero affatto ormai da giorni. O settimane? O mesi? Non ricordo. (Non importa.)

Ecco, mi vedo: prendo una fialetta di quelle da me precedentemente preparate nel mio pseudo laboratorio di droghe artigianali in cucina. Sono euforico. Emozionato. Ho sintetizzato in pochi giorni una nuova sostanza ibrida mai conosciuta prima. Morfina e mescalina di prima qualità, unite in un nuovo alcaloide psichedelico ma rilassante allo stesso tempo. (C17H19NO3 + C11H17NO3 = ?) L’obbiettivo è quello di riuscire a raggiungere uno status simile a una fase REM del sonno autoindotta. Senza alcuna esitazione mi posiziono per terra e mi appresto a compiere una serie di azioni trite e ritrite. (Prendo un sospiro. Alzo la manica. Trovo la vena. Appoggio un dito su di essa e premo delicatamente su e giù per trenta secondi circa. Preparo la siringa. Mi assicuro che tutta l'aria sia fuori. Avvolgo un laccio emostatico intorno al braccio, poco più su del bicipite. Inserisco l'ago con un'angolazione di quarantacinque gradi. Tiro indietro lo stantuffo. Rimuovo il laccio emostatico. Spingo lentamente lo stantuffo. Estraggo l’ago. Faccio pressione. Crollo a terra nel giro di tre minuti.) Conclusioni: stato di coscienza non mantenuto, trance non avvenuta, meditazione minima. Sogno o allucinazione?

Sogno; dal latino somnium: sonno.

Allucinazione; dal latino alucinàri: ingannarsi, o dal latino lux: luce. La luce della luna? Il dolce inganno della melodia? Quest’ultima definizione sembra quindi essere quella che più fa al caso mio, rifletto in maniera blanda.  (È un esperimento, Sherlock. Un semplice esperimento riuscito.) Il ritorno in scena della signora Hudson armata di vassoio con tè e biscotti arresta per un attimo il flusso dei miei pensieri. 

“Grazie, signora Hudson.” è un mormorio roco quello che mi esce dalle labbra, mentre finalmente cerco di farmi forza quel tanto che basta per rizzarmi dal pavimento e darmi una minima parvenza di contegno. Disidratazione. Scarse capacità motorie. La signora mi dedica un sorriso mesto. La guardo: pena? Preoccupazione? Mi isso giusto un po’, per poi abbandonare le mie membra sulla poltrona di John.

John. Dov’è John? (Nel mio sogno. Nella mia allucinazione psico-indotta.)

“Oh caro. Il signor Watson non abita più qui, non te lo ricordi?”

Devo aver parlato ad alta voce. Appuntare fra le controindicazioni: rallentamento delle capacità cognitive. Confusione mentale. Vertigini, forse. “Sì, certo, grazie. Me lo ricordo. Ora può andare, signora Hudson.” la congedo con fin troppo garbo. Lei sorride appena e poi se ne va. Sorseggio il tè appurando un leggero cambiamento anche nei miei ricettori del gusto: il tè della signora Hudson non mi ha mai fatto così tanto schifo. Mi costringo comunque a berlo e a mangiucchiare distrattamente qualche biscotto al burro con l’intento di stabilizzare i sicuramente sballati livelli di glicemia del mio sangue. Non che in realtà m’importi. Non che possa fare chissà quale differenza. (L’esperimento continuerà.)

*** 
 

Ore tre di un pomeriggio noioso. Estremamente noioso. Mi trovo ancora nel mio appartamento, immerso in un pesante silenzio cristallizzabile in particelle di polvere densa dal diametro di 60 micrometri circa. Qualche cliente (Uno? Due? Tre? Non ricordo.) ha varcato la soglia della porta ma nessuno è riuscito nell’intento di scatenare la mia curiosità o la mia attrattiva. Una moglie tradita. Un criceto scomparso. (Due clienti, dunque.) Noioso. Tuttotroppoestremamentemaledettamentenoioso.

Ma quel sogno. Quell’esperienza chimicamente indotta ma razionalmente quasi non capibile mi elettrizza le membra e le sinapsi allo stesso tempo. John. In qualche modo riguarda sempre John.

Lui non c’è. Non ha perdonato la mia finta dipartita di tre anni fa. Non ha perdonato il fatto che al mio ritorno mi sia presentato davanti a lui come se nulla fosse successo, intrufolandomi di soppiatto nel suo nuovo monolocale a Brixton. (Ingenuo? Egoista? O forse semplicemente illuso?)

Adesso è fin troppo facile rimirare e constatare la sua assenza da questa poltrona usurata in cui mi ostino a lasciarmi sprofondare. Paradossalmente credo che spesso in passato sia stato molto più difficile notare la sua presenza, da me erroneamente valutata in maniera scontata. Ma l’ho capito, sì. (Tardi. Troppo tardi)

Sei tu il più grande errore di calcolo e deduzione della mia carriera investigativa e non, John Watson.

Mi hai picchiato. Oh, Dio, come mi hai picchiato. (Sorprendente. Come sempre.) Una furia cieca che ha preso il sopravvento su tutta la tua piccola ma potente figura. Una rabbia che ti ha deformato il viso, la voce, gli occhi. Quegli occhi blu, che ad un tratto erano neri. (Come nel sogno.) Difficile comprendere i processi emozionali e sinaptici che ti hanno trasformato in una tale belva inferocita. Quello che so per certo è che la rabbia è caratterizzata da alterazioni della mimica, dell'eloquio, del sistema motorio e del sistema neurovegetativo. In quanto strategia di sopravvivenza, la rabbia è quindi paragonabile al dolore. Di fatto, il termine inglese anger deriva da una radice denotante turbamento, afflizione o sofferenza. Ma la realtà è che non esiste spiegazione scientifica o etimologica che valga qualcosa quando si tratta di te.

Quindi ti ho lasciato fare. Ti ho lasciato appoggiare per terra la tua cartella da lavoro e il bastone da passeggio. (Zoppichi di nuovo, John?) Ti ho lasciato guardarmi. Ti ho lasciato tremare. Ti ho lasciato insultarmi. Ti ho lasciato pestarmi.

Avrei dovuto chiederti scusa. Avrei dovuto dirti “mi dispiace”. Avrei invece voluto che il mio naso sanguinante, il mio zigomo contuso e i calci nello stomaco potessero essere abbastanza. Ma evidentemente, oggettivamente, non lo erano. Non lo sono. Perché tu, semplicemente, banalmente.. tu non sei qui.

 

***

 

“Sherlock.”

La luna. Le stelle. Non ci sono mai state così tante stelle, nel cielo che troneggia sopra Londra. Non c’è mai stata quest’assurda quiete in tutta Londra. (Ma forse in questo luogo è solo il silenzio che esiste davvero.)

(Musica. Dov’è la musica?)

I miei sogni sono fatti di melodie classiche, ostiche e ai più sconosciuti. Eppure non mi sorprendo quando nelle mie orecchie risuona all’improvviso l’inconfondibile attacco iniziale della Sonata di Beethoven. Ancora. Di nuovo. (È uno schema. Noioso. Banale. Bellissimo.)

Bellissimo come John. Che non suona. Non parla. Guarda, guarda soltanto. Guarda me in silenzio.

“Sherlock.” (Sì. Dillo ancora.)

“John. Mi perdoni?” è un mormorio incredibilmente baritonale quello che mi esce dalle labbra mentre mi avvicino a lui. E non c’è un lago da attraversare per raggiungerlo, stavolta. Non c’è flora. Non c’è cielo. Solo luna, stelle e buio intorno a noi. (A me.)

“John. Mi ami?”

Amore; dal latino amorem o dal protoindoeuropeo  h3mh3 : prendere, tenere. Interessanti implicazioni etimologiche. Ma che strana domanda da porti, John. Il tuo silenzio suona sempre più che eloquente.

Ed allora mi avvicino e mi scordo che tutto questo è un sogno, un allucinazione, un delirio mentale derivante dalla mia composizione chimica maniacalmente studiata e sintetizzata al 7%  che mi sono iniettato in vena direttamente nell’avambraccio prima di lasciarmi andare sul pavimento del mio (Nostro.) salotto, nel bel mezzo dello spazio intercorrente tra le nostre due poltrone, quasi come se quei pochi metri quadrati potessero essere il mio feretro eterno. Sai, sono il solito melodrammatico perfezionista sociopatico. Non cambierò mai. Potresti cambiarmi solo tu. (Mi hai cambiato solo tu.)

Ed allora ti tocco, finalmente. Stringo le mani intorno ai tuoi polsi e ti dico: “Vuoi ballare, John?”

Balliamo questa musica soave. Questa lenta ballata triste, malinconica, immortale. Da qui un susseguirsi di movimenti quasi impercettibili:  il tuo busto eretto, il gomito destro alto, la tua mano destra sotto la mia scapola sinistra, il braccio sinistro con il gomito verso il basso con la mano aperta pronta ad accogliere la mia. Reclino la schiena e la testa all’indietro in modo quasi meccanico, metto la mia mano sinistra sulla tua spalla e unisco la destra con la tua in un groviglio di falangi e falangette sudate. I nostri bacini si accostano e inizi a guidarmi in movimenti concentrici in senso antiorario, lungo una linea circolare tracciata nel nulla. (Un ballo in ritmo ternario. Un Valzer inglese. Un classico intramontabile.) 

Ma non c’è fretta in questi passi, non c’è fretta nei nostri respiri. Non vi sono rimpianti in questo spazio vuoto, in questo oblio perenne, escluso e salvato dalle feroci (Crudeli.) dinamiche del tempo, del passato, del presente e del futuro. Ora siamo vuoto nel vuoto. Nulla nel nulla. Ora non esistono temperature, né odori, né luce, né ombra, né fame, né sete, né fatica, né dolore, né colpa, né pentimento. Ora siamo una casella vuota. Come un desiderio, un attimo prima di essere desiderato.

Ed allora mi avvicino al tuo orecchio e te lo dico, credendoci davvero.

“Balliamo, John. Balliamo per sempre.”

 

***

 

È in un metaforico lago di sudore che riapro gli occhi, steso ancora in una posizione quasi pietrificata sul pavimento di parquet, vestito di tutto punto dai miei soliti e ormai stropicciati vestiti. Riapro gli occhi, sì. (Luce. Fotosensibilità. Fastidio.) Gli richiudo. Sospiro. Otto ore di buio. Otto ore di ballo. Otto ore di John.

Mi stupisco nel pensare a quanto tutto sia stato tanto irreale quanto talmente veritiero: il suo terribile golfino verde muschio. I suoi jeans di terza mano visibilmente usurati. La consistenza delle sue braccia muscolose e tese. Le vivide rughe del suo viso invecchiato precocemente. La pelle comunque morbida al tatto e leggermente profumata dall’economica schiuma da barba di Tesco. La cadenza del suo respiro regolare. I capelli d’argento, tirati all’indietro in quel suo banale e abitudinario taglio. Ma poi..

Ma poi quegli occhi neri. Ancora pregni d’odio e di rancore. (Non li sopporto.)

Impreco contro me stesso mentre faccio forza sugli avambracci e mi costringo ad ignorare l’acuto frizzare che in pochi secondi si manifesta in corrispondenza di ogni buco impresso sulla mia carne. Mi osservo: ematomi. Infiammazione. (Cancrena? Improbabile. Ma non importa.)

Oh, John. Com’è possibile che ballare con te tutta la notte dentro un sogno possa essere stato così bello?

Era come volteggiare nell’oblio, un oblio dolce e rassicurante, un oblio che sembrava non dover finire mai. Ma quegli occhi, John. Quelle iridi così terribilmente scure. (Quelle iridi che sembrano dirmi: “Sei morto. Anche se sei vivo, per me sei morto.”)

Quegli occhi. Gli occhi che avevi l’ultima volta che ci siamo visti. Il mio subconscio si ostina a presentarti a me in questa maniera.  “Il mio subconscio vuole uccidermi.” rifletto, inconsapevolmente ad alta voce. Teoria interessante. Livelli di autolesionismo mai raggiunti prima. (Possibile che pure il mio cervello sia dalla tua parte, John?)

Potrei dimenticare quegli avvenimenti. Potrei dimenticare tutto, di te. Basterebbe chiudere gli occhi, concentrarsi un po’. Entrare nel mio Palazzo Mentale, aprire qualche porta, visionare il contenuto di una o due  stanze. Premere i simbolici tasti rewind-stop-delete e poi puff!, addio John. Sayonara. Adios. Goodbye.

Ma la verità è che non voglio.

Ingurgito velocemente qualcosa: pane, marmellata e un bicchiere di tè freddo, molto probabilmente un residuo di quello che la signora Hudson mi ha portato ieri mattina. Sono le sei e dieci di una grigia mattinata londinese e un vivido pensiero (Bisogno.) si fa strada dentro la mia mente.

No, io non voglio dimenticare. Io voglio sostituire.

 

***

 

“Cosa ci fai qui, Sherlock?”

Ore sette. Ho preso  al volo un taxi da Baker Street e contando persino i secondi che passavano ho raggiunto Brixton in trentasette minuti netti. Mi sono appostato davanti alla casa di John in maniera composta aspettando, con la flebile ma fastidiosa consapevolezza di non aver mai aspettato qualcosa o qualcuno così tanto in tutta la mia vita. Noioso. Banale. Scontato. (Ma adesso.)

Adesso aspettarti sembra essere l’unica opzione possibile, John. Aspettare che tu esca da quella porta in legno massello chiudendotela alle spalle in maniera frettolosa, già in ritardo per la tua noiosa mattinata in ambulatorio. Aspettare di udire i tuoi passi zoppicanti incamminarsi verso la strada, attraversando il corto vialetto di ciottoli e erbacce  che delimita la tua proprietà. Aspettare che tu arrivi lì, proprio sul ciglio del marciapiede accanto alla fermata degli autobus, controllando di sfuggita il cellulare, magari aspettando un messaggio che credi non arriverà mai. Ma eccolo qui, il tuo messaggio, John.

Sto aspettando che tu ti volti. Che il tuo sguardo si posi finalmente su di me. (Il tuo sguardo blu. Mai più nero.) E mordendoti lievemente il labbro inferiore, sto aspettando che tu me lo dica.

“Cosa ci fai qui, Sherlock?”

Sono flebili parole, quelle che escono dalla tua bocca. È passato un mese da quando mi hai quasi pestato a sangue e tremi in maniera impercettibile davanti alla vista dei lividi ancora presenti sul mio volto. Scommetto mentalmente la frequenza dei tuoi battiti: 130? 180? 200? (Spero la prima opzione.)

Ti vedo ricercare aria a gran boccate. (Dispnea. Vertigini. Palpitazioni.) Non sorrido.

“Volevo vederti, John.” dico a voce ferma, mentre un autobus (Il tuo.) ci sfreccia accanto senza far rumore. Inspiegabilmente non c’è nessun altro suono nell’aria intorno a noi. Non c’è Beethoven a fare da colonna sonora di questo nostro incontro. (Un po’ me ne dispiaccio.) Di nuovo, inevitabilmente, soltanto silenzio. Ci ritroviamo in questa camera anecoica immaginaria che ci isola dal resto del mondo, al cui interno  risulta essere davvero impossibile percepire qualsiasi suono esterno. Ma ti sento, sì. Sei fatto di battiti, respiri, deglutizione. In questo istante tu per me diventi musica.

“Perché? Dopo tutto quello che..” abbassi lo sguardo di sfuggita sulla tua mano sinistra, stringente la tua cartella da lavoro in finta pelle marrone. (Terribile.) “Dopo tutto quello che ci siamo fatti.” riesci ad articolare alla fine. (Ed il tuo cuore batte forte, John. Tum, tum, tum.)

Oh, John. Il tuo sempre vitale bisogno di cercare le parole giuste. La tua ossessione per i sentimenti, per la poesia. Quanto hai amato romanzare tutte le nostre assurde avventure, tramutandole in narrazione fantastica, ai limiti di una biografia cavalleresca? Avevi idealizzato in me un eroe che mai in realtà è esistito. L’hai compreso troppo tardi, John. (Quanto ti ho deluso? )

“Che rumore ha fatto il tuo cuore quando si è spezzato?” vorrei chiedertelo, nella ferma convinzione che apprezzeresti questa mia insolita vena poetica e sentimentale. Ma non lo faccio.

So che sei deluso forse più da te stesso che da me. So che tu sei fatto di parole, in particolare di tre: Amore, Orgoglio e Rimpianto. È facile leggerti, John. Sei come uno di quei romanzi che tanto ti piace toccare, sfogliare, divorare. Ma quello che ho sempre voluto dirti è che spesso le parole, per quanto belle e toccanti, non bastano. (Non servono.)

A volte le parole sono solo accozzaglie di morfemi e fonemi senza senso logico o analitico. A volte, John, ciò che davvero e soltanto conta è la Musica. Musica che spezza silenzi più eloquenti di tanti discorsi. Musica che ci accoglie, ci coccola e ci nutre. Musica di corpi che si tengono dolorosamente a distanza, ma che vorrebbero solo unirsi in un Valzer eterno.

“Perché mi manchi.” è questa l’unica frase che riesco a dirti, a dispetto dei milioni collegamenti sinaptici che il mio cervello ha messo in funzione in questi pochi minuti in tua presenza. Ti fisso. Mi fissi. I tuoi occhi continuano ad essere blu. (Questo già mi basta.) Ti piacciono le mie parole, John?

“Manchi anche a me, Sherlock.” dici con fare disinvolto, ma iniziando a serrare duramente la mandibola in un movimento apparentemente inconsapevole. Una scossa di dolore ti fa chiudere gli occhi per qualche secondo. Bruxismo. Insonnia. (Hai di nuovo gli incubi, John?)

Allora torna. Torna a casa tua. Con me. (Tutum, tutum, Tutum. Ma questo è il mio, di cuore.)

Sembri leggermi nel pensiero quando, toccandoti appena la spalla sinistra, aggiungi con un tono leggermente sommesso: “Ma non posso tornare. Non ancora, perlomeno.”

Lo so. Lo sapevo. “Ok.” mi limito a dire. Ed è a questo punto che ti vedo esitare, quasi sorpreso da questo mia risposta, forse colpito dalla mia poca loquacità. Ma te l’ho già detto, John Watson. A me, per oggi, bastava vederti. (Domani? Chi lo sa.)

“Ok. Bene. Perfetto.” abbassi lo sguardo, le tue lunghe ciglia che si inclinano appena formando un arco perfetto. “Ora.. ora devo andare a lavoro.” concludi poi, nel medesimo attimo in cui l’autobus n°14 si ferma all’improvviso davanti a noi.

 “Certo, John.”sussurro con fermezza e  allora ti concedi di studiarmi per un secondo, prima che le porte del mezzo si aprano e tu ci salga sopra velocemente. Deglutisci vistosamente. (Amarezza. Groppo in gola. Peso psicosomatico idealmente posizionato proprio sulla bocca dello stomaco.)  

“Allora ci vediamo, Sherlock.” è l’unica frase che riesci evidentemente a dire, alzando la mano libera da impicci in un cenno quasi imbarazzato. Sorrido appena, ricambiando il tuo sghembo saluto. (Tum, tum, tum. Poi il vuoto. Di nuovo.)

“A stanotte, John.” un mio ultimo sussurro alle porte chiuse del mezzo e alla tua figura che si allontana da me in questa grigia e mesta mattinata londinese che all’improvviso, come per magia, si rianima di tutti i suoi quotidiani rumori.

 

***

 

“Non ho mai dormito così tanto in tutta la mia vita.” è questo ciò che penso intorno alle otto e mezzo di sera mentre mi posiziono nel mio personale talamo per terra, sfilando l’ago della siringa dal braccio intorpidito e sentendo già nelle mie orecchie l’arrivo di quella particolare melodia ormai stampata con inchiostro indelebile nella mia memoria. Chiudo gli occhi sprofondando in questa mia inusuale tomba di legno tarlato e rabbrividisco appena. Ma il freddo che mi intirizzisce gli arti dura poco: il mio abitudinario mondo onirico prende il sopravvento su tutto nel giro di tre secondi. (È quello che voglio. Sprofondare.)

Ed eccoci di nuovo qui, John. In questo buio così denso, quasi asfissiante per i miei polmoni incatramati. (È tutto così reale. Sempre più reale.) Ma la luna splende e le stelle brillando quasi quanto i tuoi occhi finalmente veri, vividi, blu. Blu come il mare in cui vorrei affogare la tua assenza per sempre, così da non dovermene più dolere. Così da non dovermene più preoccupare. Così da poter stare insieme al di là di sogni, parole e sentimenti inespressi. (Romantico. Un po’ troppo.)

Ma da quando tu mi hai reso così, John? Da quando il mio rinomato cuore di pietra si è tramutato in carne fragile e pulsante? Forse perderti mi ha trasformato più di ogni altro accadimento della mia vita. Forse perderti.. mi ha fatto conoscere l’amore. Sì, l’amore inteso in quell’accezione arcaica, quasi mistica: ti voglio riprendere, John. Ti voglio riavere e tenere accanto a me per sempre.

“E questa volta sarò pronto, Amore.” ti dico, mentre continui a fissarmi. Poi mi tendi la mano sinistra e cominci ad avvicinarti con movimenti lenti. Arrivi di fronte a me, ponendo le mani sopra le mie spalle. Tremo appena mentre con leggera forza mi spingi ad abbassarmi verso il tuo viso, verso la tua bocca incredibilmente rosa. (Labbra. Lingua. Denti.)

Un bacio. Un bacio che esplode nel crescendo di questa melodia triste che tanto mi ricorda noi. Perché è vero, noi siamo due uomini incredibilmente tristi e mesti nella loro solitudine che si sono trovati forse solo grazie ad un caso estremamente fortuito, un bizzarro gioco del fato. Logica, scienza, probabilità: con te tutto questo non funziona. Con te l’empirismo non conta. Con te la mia oggettività se ne va spesso e poco gentilmente a puttane.

“Sei tu il mio esperimento più grande, John.” (Sei tu, sì. E questa mia fantasia così maledettamente reale. Con queste dolorose parole mai dette.)

L’esperimento della vita, John. Che a dispetto di quanto io abbia sempre potuto credere non è un problema o un enigma da risolvere. È un mistero, un mistero semplicemente da vivere. Perché per quanto l’entropia possa far sì che tutto si risolva sempre in morte, caos e distruzione, tu per me sarai sempre come questa musica immortale, poesia e rifugio per gli orecchi e per il cuore. Tu, unico uomo capace di sfuggire alle leggi della scienza e della logica: baciami ancora ed io sarò tuo. Per sempre. (Un’utopia. Un sogno.)

“Ma che c’è di male nel sognare, John?”

Io che non ho mai sognato. Io che non mi sono mai illuso. (Ma adesso.)

Adesso penso. Penso che non mi sono mai sentito così vivo, così perdutamente amante della vita e di tutte le sue fastidiose dicotomie intrinseche, impossibili da razionalizzare anche da parte di un cervello dal quoziente intellettivo altissimo come il mio. Ed allora ti stringo più forte, incapace di parlare, incapace di far altro se non stringerti e piangere, stringerti e piangere, stringerti e piangere ancora.

Piangere: complesso fenomeno secromotore caratterizzato dall’effusione di lacrime, derivante da un collegamento neuronale tra le ghiandole lacrimali e specifiche aree del cervello. Un tempo avrei sicuramente spiegato così  quel che mi sta accadendo. (Non ti scappa da ridere, John?)

Ma adesso. Adesso ti dono tutte le lacrime che non ho mai versato. Ti dono singhiozzi che nessun altro ha mai udito. E mi chiedo cosa penseresti davvero vedendomi qui, in questo patetico stato.

Credo che sorrideresti. Credo che mi abbracceresti più forte. E lo fai, sì. In questo oblio perenne. In questa realtà di tenebre. Di luna, di stelle e di musica. Mi abbracci e penso che per ora va bene così, John.

(Ti aspetto qui.)

 

Cosa c’è
Cuore di tenebra
Parecchio piangere
Cazzotti e guai
Ma c’è una luce che
Cancella il buio
E non è il fulmine
E non è il sole
E neanche il bene del Signore
Sei tu, Amore

Tempo fa
Ragazzo tenebra
Morsi di vipera
Le storie tue
Ma c’è una salvezza che
Adesso stringi
E non è l’angelo
E non è un miracolo
E non è la mano del Signore
Sei tu, Amore

E così
Per sempre vivere.

 

 

The End

 

Note:

 

Salve a chiunque abbia letto. Eccomi con la mia prima FF nel fandom di Sherlock. Non avevo mai visto questa serie TV ma in poche settimane mi sono praticamente divorata tutte le quattro stagioni. L’ultima puntata mi ha lasciata completamente svuotata, con un senso di nostalgia e di malinconia non indifferente. Allora ho deciso di sfogarmi scrivendo ed ecco qua il risultato di tutte queste mie sensazioni negative. Il mio obbiettivo primario era quello di cercare di caratterizzare uno Sherlock il più IC possibile, ma il sentimentalismo ha chiaramente preso il sopravvento riga dopo riga. Spero comunque che questo mio immaginario post Reichenbach vi abbia trasmesso emozioni. Il finale è un po’ in sospeso poiché le alternative possibili  nella mia mente erano tante, ma quella che più premeva per uscire era anche la più tragica. Sherlock si sarà svegliato da questo suo ultimo sogno struggente? Chissà, vedetela a vostro piacimento. :) Ovviamente vi invito ad ascoltare sia la Sonata di Beethoven (che mi ha praticamente ispirata sin dalla prima parola) sia la canzone finale, “Cuore di tenebra” dei Baustelle.

Beh, penso di essermi dilungata molto anche se le cose da dire sarebbero forse infinite. Fatemi sapere cosa ne pensate, mi farebbe molto piacere! Un saluto a tutti,

 

 

 

AintAfraidToDie

  
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