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Autore: Love Girl    11/03/2017    1 recensioni
La vita di una ragazzina sta per cambiare, se ne accorge da quando per la prima volta le sue iridi color terriccio incontrano gli oceani blu di Demon. Si troverà in poche ora in una vita stravolta che non sentirà più sua e con una scelta da fare, andare avanti e rischiare o restare alla vita di sempre che, forse, non tornerà mai alla normalità.
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Triangolo
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Lo ricordo bene quel giorno in cui il mio mondo mi è crollato addosso, come se fosse ieri.
Era il giorno in cui dovevo fare l’esame all’accademia di recitazione, la più prestigiosa della città, La Royal Play Accademy.
Avevo provato venti volte al giorno per un mese ma, man mano che la data si avvicinava ho aumentato le volte.
Quella mattina mi alzai presto e preparai la colazione a mia madre e a mia sorella gemella, per poi andare a fare una doccia per rilassarmi.
Entrai nella mia stanza con un accappatoio addosso e spalancai le ante dell’armadio, in cerca di qualcosa di carino da poter indossare, ma nulla mi soddisfò, tra quegli abiti troppo larghi, troppo colorati, troppo gialli, rosa, blu e bianchi.
Attraverso la porta comunicante che portava alla stanza di mia sorella, andai a cercare qualcosa nel suo armadio.
Lei vestiva molto meglio, era appassionata di moda ed infatti era stata presa in un'accademia per le giovani reclute del mondo della moda.
Voleva diventare stilista da quando avevamo circa dodici anni, era la sua fissa, come per me la recitazione.
Il suo armadio era un misto di nero, bianco e, ogni tanto qualche macchia colorata e, soprattutto, era sistemato in un ordine impeccabile, mentre il mio era un ammasso di abiti che tempo fa erano stati stirati.
Quelli ancora in bell'ordine erano quelli che non usavo più dai miei tredici anni, ovvero abiti accollati e a pois che sembravano usciti dall'armadio di mia madre quando era adolescente.
O forse quando lo era la sua, di madre.
Cominciai a sbirciare cosa potessi rubarle, di sicuro non gonne, non erano da me.
Guardai incuriosita un abito di pelle, ma subito di ripensai: più ero scoperta e più ero a disagio.
Alla fine le rubai un leggins di pelle e una giacca del medesimo materiale.
Maglia e scarpe le avrei prese nel mio guardaroba.
-Diana Abrow, cosa pensi di fare con il mio chiodo nuova?- mi rimproverò Nadia, mia sorella, con la voce roca dal sonno e gli occhi verde acqua tendenti all'azzurro piccoli per il sonno, seduta e con le braccia incrociate.
Anche così mia sorella era bellissima, nonostante avesse i capelli arruffati e fosse struccata.
Sospirai afflitta.
E io che speravo dormisse.
Mi sedetti sul letto, guardandola con un sorrisino timido di chi è stato colto in flagrante –Ti prego, Neid, devo sembrare più sicura di me e il più carina che posso per fare una buona impressione.-
-Puoi farlo con i tuoi abiti-
-Laverò i piatti durante la settimana in cui tocca a te..-
-Continua, la proposta sembra allettante, ti ascolto- sorrise toccandosi il mento come quando pensava a qualcosa o prestava particolare attenzione.
Sospirai.
-E farò anche il bucato....-
-Stiratura compresa?-
Anuii e lei mi sorrise –Prendi ciò che vuoi, quel che è mio è tuo, sorellina mia cara- sorrise soddisfatta di non avere lavori domestici da svolgere nella settimana a venire.
Sorrisi divertita di quanto fosse facile corromperla –Arpia- risi, mentre tornavo in camera felice con il mio bottino.
Mi vestii, aggiungendo una t-shirt bianca con delle finte macchi di vernice colorata e le converse bianche.
Tornai in cucina per bere il mio tè, ci trovai mia madre lì, bella con i suoi occhi verdi, come mia sorella, ben truccati e i capelli castani con i riflessi ramati pettinati in una piega riccia. Sembrava mia sorella, se Nadia non avesse i capelli biondi potrebbero sembrare loro, le gemelle.
Io non so a chi somiglio, mio padre non l’ho mai conosciuto, non so com’era fatto.
Io ho i capelli castano ramato come la mamma, unica somiglianza, e gli occhi castani. Mi trucco raramente, sono disordinata e caotica e vesto come un uomo, in jeans, maglie larghe e colori vivaci come i bambini.
Sono il contrario delle due donne della mia vita, così perfette e con manie di perfezionismo.
-Buongiorno, Butterfly-
-Buongiorno mamma, dormito bene?-
-Si, amore, grazie- dice porgendomi la mia tazza da cui sorseggio il tè, le bacio la guancia –io vado-.
Mi avvicino alla porta, quando Nadia mi urla di non fare un altro passo –Perché?- mi giro terrorizzata pensando di avere un insetto addosso come altre volte è capitato.
-Pensi che ti prenderanno solo perché sei spettacolare ed indossi i miei vestiti?-
-Si?-
-No! Tu non esci da qua finchè non ti sarai truccata in modo decente e ti sarai aggiustata un po’ quei capelli perché, davvero, la coda di cavallo non si può vedere-
Sbuffai e corsi in camera sua, uscendo cinque minuti dopo con i capelli sciolti, il rossetto bordeaux, una sottile linea di eyeliner con la coda accostato a varie sfumature di beige e marrone –contenta?- le dissi irritata, dovevo ora prendere lo scooter per non fare tardi ed addio al mio proposito di andare a piedi e ripassare e, magari, di non inquinare un po’.
-Vedi, però, quanto stai bene truccata? Hai il dono di una mano ferma e precisa, per quanto tu sia disordinata, usufruiscine, diamine! E ringraziami, se verrai presa sarà anche per questo- ma io ero già fuori, casco in testa e chiavi in mano.
La vidi sporgersi dalla finestra della cucina -Didì!-
-Che vuoi?-
-Fa vedere a quei damerini di cos'è capace mia sorella!- sorrisi grata del complimento e rianimata di allegria e buonumore annui decisa, salendo sul mio scooter.
Mentre guidavo verso il teatro per le audizioni ripassai mentalmente il mio monologo, forse stavo ripassando troppo, quando ripassavo troppo e mi sforzavo troppo mi si annebbiava la mente e la memoria e non ricordavo più assolutamente nulla.
Attesi il mio turno pazientemente, anche se stavo avendo un’attacco d’ansia.
-Diana Abrow- mi sentii morire, avevo un senso di vomito, di schifo appiccicato addosso, una forte inaddeguatezza che mi premeva sull'intero corpo come un macigno, rendendo pesante anche respirare. Il cuore batteva forte e io iniziavo a sudare.
Respirai a fondo per dominare l’attacco di panico in corso e tremando camminai sulle scale e salii, mi trascinai verso il centro, mi abbassai a raccogliere il microfono e per poco un capogiro non mi fece cadere, ma lo dominai e dominai anche la voce tremante. –Buongiorno, mi chiamo Diana Abrow e…-
-Si questo lo sapevamo, vada avanti- disse un uomo. Bene, qualcuno già mi stava antipatico.
-Si, beh, ho preparato un piccolo monologo che vorrei recitarvi-
-E cosa aspetti?- fece ancora lui, odioso.
-L’hai scritto tu?- chiese più cordialmente la signorina accanto a lui.
-Si- la vidi sorridere –bene, ci faccia sentire-
-Tu, che attraversi in silenzio il giardino segreto del mio cuore, chi sei? Tu che mi fai cadere e… e….- e avevo dimenticato.
“Maledizione!” imprecai mentalmente.
Sentii gli occhi pizzicare e l’attacco di panico prendermi più di prima, avevo l’affanno, dannazione.
–Io…. Potrei ricominciare, per favore?- chiesi, sapendo tuttavia quanta altra gente dovessero ascoltare e che non potevano perdere tempo con me.
L’uomo stava per obbiettare, quando la donna lo ammonì con un gesto della mano –Certo, mia cara-
Annuii grata e sospirai, evitando la voce tremolante -T..Tu che attraversi in silenzio il giardino segreto del mio cuore, chi sei? Tu che mi fai cadere e… mentire freddo…. No cioè, volevo dire…. Pentire…-
-Sentire, forse?- chiese lei dolcemente.
Annuii, ormai in lacrime –Smith, dia alla signorina Abrow un fazzolettino e l’accompagni. Le faremo sapere-
-Sarebbe no- disse l’uomo.
–Jack!- lo ammonì lei.
–Tu e il tuo inutile buonismo, Ilary, le illudi solo. E comunque sa già di essere andata male, è inutile farla sperare e stare male dopo.-
Abbassai lo sguardo quando un uomo mi porse una scatola di klinex  e mi mise una mano sulla spalla, avrà avuto 50 anni e un viso buono, poteva essere un padre, vista l'età, e probabilmente lo era, visto il comportamento gentile.
Alzai un attimo lo sguardo alla tribuna, fortunatamente vuota se non per i due giudici.
Ad alcune file di distanza notai un ombra, guardando meglio vidi che era un ragazzo, la pelle chiara, gli occhi due pozzi blu e i capelli biondi.
Buio.
Ero dietro le quinte.
Scesi mentre mi pulivo con i fazzolettini e tentavo di calmarmi, ma la vista del ragazzo mi aveva turbato il doppio.
La consapevolezza che oltre ai giudici altri avevano visto la mia debolezza.
Salii in sella al mio scooter appena sembravo essermi calmata.
Sarei tornata a casa, avrei sorriso e detto che stavo bene, avrei bevuto un sorso d’acqua e mi sarei chiusa in camera mia a piangere.
Partii ma appena uscii dal parcheggio e tentavo di infilarmi nel traffico un cane randagio mi morse la caviglia.
Caddi a terra con la moto addosso.
Era decisamente una giornata no.
Una donna vestita di verde scuro, elegante, troppo per una città, con i capelli neri e gli occhi del medesimo colore mi si avvicinò preoccupata –Ti sei fatta male, cara? Aspetta ti aiuto!- sorrise, un sorriso largo, sembrava quasi felice, ma l’espressione delle sopracciglia e la voce esprimevano solo preoccupazione.
All’improvviso si sentirono dei passi veloci. La donna, sbiancando, si gettè addosso, spalancò la bocca, mi morse la mano forte.
Un urlo.
La sentii sollevarsi e mi arrivò un calcio al gomito.
Aprii gli occhi, non mi ero nemmeno accorta di averli chiusi e di star lacrimando per lo spavento.
La donna stava scalciando ed era sospesa a mezz’aria.
Aveva un aspetto diverso, il volto era ora pallidissimo.
A tenerla dalla gola è il ragazzo di prima, che non si accorse di come io lo guardavo sconvolta.
Tirò fuori un pugnale e le da una pugnalata allo stomaco mentre stringe la gola.
La donna si dissolse ed io urlai.
Qualcuno si girò verso di me, ma presto andarono via.
Lui mi fissò sbigottito –Riesci a vedermi?- sussurrò come se gli avessi detto di saper volare.
Io lo fissai a mia volta negli occhi inorridita, aveva ancora il pugnale sporco di un liquido nero in mano, simile all'inchiostro, orripilante e fetido.
Serrò la mascella annuendo, come se avesse capito qualcosa che a me sfuggiva, e lo pulì, rimettendolo in tasca, dov’era prima che lo estraesse.
Il ragazzo, come se nulla fosse successo alzò la mia moto mentre io soffocai un gemito di dolore quando, così facendo, mi toccò la caviglia con la ruota.
–Va via da me! Vattene!- gli urlai provando a indietreggiare o ad alzarmi, ma niente.
-Zitta, o penseranno che tu sia pazza. Loro non possono vedermi.- mi spiega calmo e gelido.
Mi prese in braccio mentre io gli urlavo di mettermi giù e in pochi secondi fummo in un vicolo. Tremai appena al contatto con l'asfalto freddo.
–Cosa pensi di farmi?- dico il più minacciosa che riesco dopo una mattinata simile.
–Stupida. Devo medicarti. Cosa mi tocca sentirmi dire.- disse scocciato lasciandomi a terra ed accucciandosi per poter guardarmi da vicino le ferite –Dobbiamo sbrigarci, a momenti saranno qui- continuò preoccupato mentre si tolse un amuleto dal collo e due bustine dalla tasca con qualcosa di bianco dentro. Pensai fosse droga e sgranai gli occhi.
Lui si guardò attorno nervoso e con una vaga fretta, mi avvicinò l’amuleto alla mia caviglia, una pietra azzurra grande a forma di goccia trasparente, la ferita poco profonda smise di sanguinare, rimase solo un grande graffio e un livido enorme.
Da una bustina toglie una carta, tipo garza.
Iniziai a guardalo sbigottito, perché aveva della garza in tasca? Mi fasciò la caviglia piuttosto stretta, forse per la fretta. Il tessuto era fresco e sembra umido, tuttavia le garze solitamente non lo sono, il che mi lasciò perplessa.
Mi prese il polso destro e lo tirò a sé.
Era un movimento all'apparenza brusco, tuttavia fu delicato e non sentii alcun dolore.
Avevo tutto il braccio dolorante. Mi tolse la giacca, sperai di non averla rotta, Nadia avrebbe, di conseguenza, rotto me.
Il gomito aveva solo un livido per il calcio e un graffietto dovuto alla caduta. Mi porse l’amuleto –Tienilo premuto sul gomito- mi ordinò, mentre mi prendeva la mano destra, dove ero stata morsa.
Lo sento imprecare, prende la polverina e ne mette un po’ sulla ferita, più profonda di quella sulla caviglia.
Bruciava e un lieve urlo soffocato mi sfuggì dalle labbra.
Si alzò di scatto estraendo il pugnale e uccidendo un uomo che si era lanciato verso me. –Dimmi se ne vedi altri, specie dietro di me- mi urla mentre, guardingo, si affretta a curarmi la mano. –Biondo, dietro di te!- urlo vedendo un anziano correre a carponi come una bestia.
Ero sconvolta.
O forse ero solo pazza.
Probabilmente, pensai, ero entrambe le cose.
L'uomo si lanciò sul biondo, mente l’altro tentava di opporre resistenza. In preda al panico lanciai un sasso sulla testa del vecchio che si girò attaccandomi e mostrandomi il viso sfigurato.
Il ragazzo lo prese dalle spalle e trascinò via da me. Non potevo scappare con questa caviglia, ma giuro che lo avrei voluto con tutto il cuore, o almeno avrei voluto essere più utile.
Un bambino si avvicinò in lacrime silenziose, aveva meno di 5 anni e stringe un peluche in mano, indossa una sola maglia che gli andava lunga fino al ginocchio e, in singhiozzi, strofinava la mano libera sugli occhi.
Lo guardai, per un attimo dimentica del vecchio, del biondo, di tutto, esisteva solo il bambino a cui stavo tendendo le braccia. Mi guardò, con gli occhi lucidi e grandi come solo i bambini li hanno.
Aveva un viso così simile al mio.
"Ricky..." pensai.
–Mamma…- sussurrò e corse piano, lasciando cadere il peluche, correndomi incontro.
Mi abbracciò e diede un bacio sulla guancia.
Un attimo dopo la guancia bruciava e lui sorrideva, la faccia piena di sangue. Mi toccai, gli occhi spalancati, e nel momento in cui tentai di urlare lo vidi mettermi un pugno in bocca e mordere forte la spalla.
D’un tratto i denti del bambino non premettero più sulla mia carne e il bambino era sparito. Il ragazzo, sporco di nero rimise a posto il suo pugnale.
–Perché non mi hai chiamato?- la rimprovera seccato –perché era un bambino… non pensavo… Era così simile a..-
-Dovresti, invece, imparare a pensare, ora mi toccherà di nuovo medicarti.- sbuffò mentre mi abbassava la maglia sulla spalla e mi medicava meglio che poteva con quella polverina e le garze.
-Se ti da fastidio non farlo, non te l'ho chiesto io e non ti obbliga nessuno, grazie di tutto quel che hai fatto, biondo, ma ora puoi anche andare se ti scoccia-
-Non sopravvivresti un istante senza me in queste condizioni e poi ne sono obbligato, ma te lo spiegherò poi, per ora non fare domande. Ah, per la cronaca, mora, mi chiamo Demon, non "biondo", perciò, ora che sai il mio nome, smettila di chiamarmi biondo, è irritante sentirsi chiamare con un nome che non è il proprio e tu dovresti saperlo.- e detto ciò mi sollevò e riporta alla moto, facendomi accomodare dietro, mentre lui sedette avanti a guidare.
Mette un amuleto simile a quello che ha dato a me prima, e che ancora stringo in mano, alla moto e questa sembra scolorire, ma non faccio domande, non ancora.
Tornammo a casa assieme, io che gonfiavo le guance, insomma, chi dava a questo biondo ossigenato tutta questa libertà nei miei confronti? Chi gli dava una confidenza simile?
Ero scioccata.
Scese e mise il cavalletto alla moto, lasciandomi come un ebete lì
–Non muoverti, Disastro ambulante- disse con un mezzo sorriso di scherno
–Cosa? Come mi hai chiamato?- domandai sbigottita, ma come si permetteva, si era ossigenato anche il cervello, oltre ai capelli?
–Preferivi forse ‘calamità naturale per i disagi e i denti’?- inarcò un sopracciglio divertito dalla mia irritazione, cosa che non accadde per me, io ero nervosa ed avevo i nervi a fior di pelle.
Ero tesa come una corda di chitarra e se tirava ancora, quel biondo, mi sarei spezzata.
Non attese molto la mia risposta che non sarebbe mai arrivata, presto si avvicinò alla porta e suonò al mio piano, senza che io glielo avessi detto. –Tu come…- iniziai confusa.
-Non fare domande. Ti spiegherò tutto dopo- ripetè, guardandomi con la coda dell'occhio.
-Si? Chi è?- rispose la voce di mia madre.
-Signora Sia?- Sia? Mia madre si chiamava Anne, Anne Abrow, non Sia.
–Chi la cerca?- chiese, dopo molta esitazione, mia madre
–Sono Demon Eisley, mi hanno...- fu interrotto dalla voce femminile –mi spiace, hai sbagliato persona, qui non c’è nessuna Sia-
-Capisco. Allora vostra figlia si è sbagliata a indicare questa come casa sua..- che stava facendo?
-..ci vediamo fra un ora dove sapete..-chiuse mia madre bruscamente in un sussurro dopo aver esitato ancora.
Il biondo annui soddisfatto e con lieve autocompiacimento.
No ora era troppo, scesi dallo scooter, peccato che mi cedette la caviglia. Mi immaginai lui che mi prendeva al volo, giusto per delimitare la sua bella scenetta da superman che aveva messo in atto durante l’intera mattina.
Invece mi trovai a terra.
Lui mi guardò alzando un sopracciglio –Che ci fai a terra?-
-Sai, avevo voglia di sciogliermi un dubbio. Volevo vedere se era duro, l’asfalto- risposi sarcasticamente.
-Vedi che avevo ragione a dirti che se me ne andassi ora saresti spacciata?- chiese quasi seccato, mentre si abbassava per guardarmi in volto e, dopo, si presume dovesse aiutarmi ad alzarmi.
Lo guardai negli occhi, erano un celeste né troppo scuro come l’azzurro né color ghiaccio, tuttavia al teatro sembravano molto più scuri.
Aveva la mascella ben pronunciata e gli zigomi piuttosto scavati, i capelli biondissimi e corti su un lato, il suo lato destro, mentre dall’altro aveva un ciuffo spettinato di capelli che gli coprivano l’orecchio e una parte di zigomo, arrivando all’altezza del mento.
Era vestito di nero: jeans neri strappati, e qualcosa mi diceva che non era per moda, una canotta bianca e un gilet di pelle nero pieno di catene e tasche, come i jeans. Non volevo neanche sapere cosa avesse in quelle tasche. Aveva due orecchini all’orecchio scoperto e un anello al labbro inferiore, al lato destro. Aveva anche dei tatuaggi, sulle braccia, ma non li guardai attentamente.
-Chi sei tu?- gli chiesi.
-La vera domanda, bambina, è chi sei tu- rispose lui scandendo bene le ultime tre parole. Nadia ne sarebbe stata affascinata da un ragazzo come lui. Io volevo solo che si togliesse dai piedi e mi lasciasse in pace.
-Tu sembri sapere bene io chi sono-
-In effetti è così, lo so meglio di quanto lo sai tu, Bambina-
-allora dovresti sapere che non sono più una bambina da almeno 7 anni- e, facendo leva sulle braccia mi alzai e rimasi in equilibrio su un piede, quello buono, sperando di guarire entro un’ora per non dover saltellare né affaticare l’altro piede.
Altrimenti potevo definirmi sfortunata.
E già mi ci identificavo abbastanza con questo appellativo.
-Sai, queste battute io le eviterei, so più cose io su di te che tu su te stessa. Tipo so che sei entrata nella pubertà il giorno del tuo dodicesimo compleanno, con la tua gonna preferita bianca a pieghe, in un ristorante con i tuoi compagni di classe e uno sfigato, come li chiamate voi, di nome James Buword. Vuoi che ti dica altro?-
Stavo per rispondergli quando mi diede le spalle. Strinsi le labbra e tirai il gomito all’indietro con la mano chiusa a pugno ed il pollice all’interno, facendo il gesto di volerlo picchiare.
-sta ferma e zitta, anche perché l’hai fatto male ed anche alle spalle, vergogna- disse lui girando di un quarto la testa e guardandomi con la coda dell’occhio.
Sgamata, pensai.
Il ragazzo fissava, i pollici nelle tasche, l’uscita di un vicolo fra due case del mio quartiere, a pochi isolati dal mio condominio.
Guardai anche io.
Il sole non arrivava ed era buio, ma guardando bene si notava una figura.
-Si chiama Dellilah e io, al tuo posto, con lei starei buona, lei non è come me, se le parli in modo sgarbato ti può anche uccidere e si disinteressa degli ordini. Io ti ho avvisato- sussurrò, lo sentii appena.
Aveva le spalle contratte, era rigido. Feci un passo avanti. -Stai dietro, non puoi avvicinarti a noi. Noi a te si.-
-perché?- chiesi in un lievissimo sussurro -ti ho già detto che ti spiegherò a tempo debito, ora stai zitta- sibillò.
Aveva il pollice piegato, nelle tasche, come se fosse sul punto di chiudere la mano a pugno.
Era tutto così confuso.
Il sole illuminò la figura.
Una ragazza dai capelli neri che sfumavano in un viola scuro acconciati in un semi raccolto pieno di boccoli, tutti poggiati su una sola spalla.
Aveva gli occhi piccoli e verdi, gli zigomi alti e le labbri sottili, era truccata e pettinata in modo quasi elegante, nonostante indossasse gli stessi abiti del biondino. Probabilmente addosso aveva anche la stessa quantità di ferro e non.
-Lei? Tu mi fai venire in tutta fretta per una mocciosa, Demon?-
-Non è una mocciosa, Dellilah, non una qualunque almeno, è Lei. È la figlia di Sia. Capisci cosa significa questo?- chiese lui con ovvietà che non comprendevo.
Lei sembrava piano prendere coscienza della notizia, sgranò piano gli occhi a mandorla, spostando lo sguardo da me al biondo. –Sia? Sei sicuro?-
-Era Lei al citofono. Ne sono certo. Si vedeva dal tono di voce.-
-E chi ti assicura che la mocciosa sia davvero sua figlia?- mi stavo scaldando a sentirmi chiamare in quel modo, se non la smetteva le avrei risposto eccome.
-Guardala bene.-
-La sto guardando, Demon, e non assomiglia minimamente a Sia.-
-Perché non eri con me fin’ora. Ha la stessa voce, lo stesso portamento fiero, lo stesso tono, gli stessi atteggiamenti di Sia alla sua età.-
-Magari sono coincidenze, non puoi essere certo-
-Ho ragione, tu non conosci quella famiglia come me, è identica a suo padre- A sentir parlare di mio padre mi si strinsero le viscere. Come lo conoscevano? Cosa volevano da lui? –E poi è imbranata come Edward. Inoltre si è fatta male e ha attirato tutti i Falls. Ho dovuto difenderla da almeno tre caduti in mezz’ora. Vuoi ancora non credermi?-
La ragazza annuiva a sguardo basso, pensierosa, ogni tanto lo alzava per guardarmi, o meglio squadrarmi. –E ora?-
-Sia ha detto di vederci Lì tra quarantacinque minuti-
-Ha detto “Lì”?-
-Ha detto “dove sai” e l’unico posto presumibile è “Lì”-
-Capito, andiamo, lascia la moto- disse guardando l’ammuleto sulla moto, capendo che eravamo venuti con quella.
-Camminiamo?-
-No, guarda, Demon, voliamo. Oggi sei irritante.-
-Non avevo abbastanza polvere, non è guarita del tutto- Dellilah sbuffò sonoramente. –Spero tanto per te che sia davvero lei.- e detto ciò si abbassò –alza la gamba, ragazzina-
-Dovrei?- risposi irritata.
-Cosa?- chiese lei, quasi l’avessi offesa, mentre Demon teneva una mano sulla fronte.
-Perché dovrei? Non era rivolto a me, era rivolto ad una ragazzina, ed io ho 19 anni, ragazzina non lo sono più-
Il viso delicato della ragazza si deformò in un ghigno, mentre si alzava –Bene. Allora Cammina zoppicando, veditela tu.- Demon mi guardò serio, ma lo era quasi sempre nel breve tempo che lo aveva visto.
Senti qualcosa di freddo e poi un lieve dolore.
Mi toccai la guancia. Sanguinava appena, Dellilah si leccava l’unghia lunga e sporca di sangue, poi girandosi verso Demon –Se ci tieni fa qualcosa, altrimenti io dirò che semplicemente non ne sappiamo nulla- e camminò via a passo lento e ancheggiante, sinuoso, elegante, una sirena, una tigre.
Un serpente velenoso, come quello tatuato sulla spalla e cui testa si intravedeva appena sotto la nuca sbucare dal colletto alzato del gilet e che scendeva fino a un paio di centimetri del gomito. -E certo che l’aiuto, non posso certo lasciarla morire, irresponsabile che non sei altro- disse lui venendomi al lato, e per un attimo Dellilah sembrò esitare a fare il passo, aveva rallentato un attimo ed alzato le spalle, ma si riprese subito, era stato un attimo.
Un cerotto gelido sulla guancia.
 
Bruciava, sembrava intriso di Alcool e chissà che non lo fosse davvero.
Occhiblu notò la mia espressione dolorante –Così capisci che quando ti dico di tacere è meglio se mi presti ascolto invece di sfoggiare il tuo caratterino che in un’ora mi hai già fin troppo mostrato.- disse duro.
Dopo questo rimprovero, riprese la moto –Sali, ma non accendere.- Eseguii, muta, l’ordine. Lui si mise al lato e prese il manubrio, spingendo.
Una scena mi passò avanti agli occhi, ma era confusa e non la capii, anche perché era stata molto veloce. Mi fece solo venire una fitta alla testa, ma non lo mostrai, mi morsi solo l’interno guancia.
-Che stai facendo, ma vuoi proprio essere attaccata?-
-No, ho solo mal di testa.-
-È normale, sono successe tante cose che non immaginavi nemmeno possibili e non sono ancora finite.-
 Eravamo sulla cima di una collina.
C’era una bella vista, il cielo limpido ed azzurro senza nuvole, la città ai nostri piedi, il vento leggero che scuoteva i miei capelli, solleticandomi il collo, alcuni cespugni e vari fiori. Sulla cima, dove eravamo noi, c’era un unico albero, grande, forse una quercia.
Io sulla moto, seduta, Dallilah a terra a gambe incrociate e Demon di spalle, in piedi, le mani ai fianchi mentre guardava la città, ci beavamo dell’ombra dell’albero.
Nel tragitto Dellilah non mi aveva minimamente guardato in volto e io credo di starle fin troppo antipatica. Demon al contrario mi teneva la bici dal manubrio e spingeva, ogni tanto mi chiedeva del mio mal di testa.
Eravamo lì da molto, aspettando mia madre, che loro si ostinavano a chiamare Sia.
-È in ritardo- sbuffò la ragazza asiatica.
-Verrà.- ringhiò in risposta il biondo.
-Magari non è lei-
-Lo è.-
-Scusate, mentre voi litigate potrei tornare a casa?- Sospirai io, quei due erano piuttosto stancanti.
Mi ignorarono.
-Jasper dov’è?- chiese OcchiBlu alla moretta.
-dovrebbe arrivare a momenti.
-Anche lui sta facendo ritardo eppure non gli dici nulla-
Non ce la feci più a trattenermi ed esplosi, irritata –Ma perché non la finite di litigare come i bambini? Ho mal di testa e grazie a voi due non sta di certo migliorando. Vi piacete, baciatevi e finitela, io intanto chiamo mia madre per farvi capire che si chiama Anne e non Sia! E voi chiamate questo “Jasper”!- Sbuffai alzandomi.
Detto ciò scesi dalla mia moto, sicura di poter reggermi in piedi e andai dall’altra parte dell’albero. Presi il telefono e composi il numero a memoria di mia madre, mentre quei due ancora parlavano, ma a tono meno alto.
Uno squillo.
Due squilli.
Tre squilli.
-ciao, Sono Anne Abrow…-
Chiusi la chiamata, maledicendo l’inventore della segreteria telefonica.
Composi il secondo numero che conoscevo: Nadia.
Al secondo squillo rispose.
-Diana, dove sei?!- chiese, un lieve affanno nella voce.
-Sono con…- sbirciai dietro l’albero –due tizi strani, sto bene comunque… dove sei? Perché hai l’affanno?-
-Ascoltami bene. Mamma sta bene, davvero…- la interruppi –Che è successo a mamma?!-
-Stammi a sentire, ho detto. Io me la caverò, tu aspetta qualche ora prima di tornare, qualsiasi cosa accada non perdere mai, e ripeto, mai, il tuo ciondolo, e non lasciare qui la Scatole dell’allegro chirurgo.-
-Cosa accidenti mi serve l’allegro chirurgo ora?!-
-Poi lo capirai, è dove mamma lo mise quattordici anni fa, quando ce lo sequestrò-
-Non mi ricordo… che sta succedendo, Nadia?!- chiesi nel panico.
-Sforzati, io devo andare… Ti vogliamo bene, Butterfly.-
-Nadia, no, accidenti, aspetta!- inutile, aveva chiuso.
Tornai dai due.
-Beh? Perché una simile espressione, mocciosa?-
-Mia sorella… il ciondollo… chirurgo…- farfugliai confusa, mentre varie fitte mi trafiggevano il cervello come spade-
Demon era al telefono, ma mi guardava.
La ragazza si alzò venendomi accanto e poggiandomi una mano sulla spalla –Hey, calma… Spiega piano cosa sta succedendo, dov’è Sia?-
-Non lo so, non so nulla, ho chiamato Nadia ma lei mi ha detto di aspettare per tornare a casa e che devo trovare l’allegro chirurgo che mia madre ci tolse secoli fa perché litigavamo, ma io non ricordo quasi nulla di quell’episodio, nemmeno dove lo mise, ed era affannata, mamma non ha risposto… Dobbiamo andare a casa!- sputai fuori tutto d’un fiato.
-Demon, i caduti, le hanno trovate!-
-Jasper, raggiungici in Time Street al palazzo numero 10, quarto pieno, se puoi, precedici anche.- Demon sembrava agitato quanto Dellilah, nonostante non avesse sentito nulla della conversazione. Si avvicinò a me e mise entrambe le mani sulle mie braccia –Le aiuteremo, te lo prometto.-
Annuii, gli occhi mi pizzicavano, stavo per piangere al pensiero della mia famiglia in pericolo, mi scese una sola lacrima che, prontamente, asciugai con il dorso della mano, non era il momento giusto per piangere.
-Andiamo- dissi convinta.
-tu usa la moto, noi sappiamo correre più veloce- disse Dellilah, così strappai via l’amuleto e lo tirai verso Demon che lo prese al volo e partii più veloce che potei, giù dalla collina, che in seguito avrei visto tante altre volte.
   
 
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