Film > La Bella e la Bestia
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Autore: SusanTheGentle    19/03/2017    11 recensioni
Aveva perso ogni speranza di mutare la propria sorte, lo sconforto si era impadronito di lui e il suo carattere era peggiorato ulteriormente. Non riusciva a sperare, tantomeno a credere, che da un giorno all’altro sarebbe potuto cambiare qualcosa. Non credeva neppure di poter cambiare sé stesso, non riusciva ad essere diverso da quello che era. Il suo destino ero ormai segnato, benché in molti cercassero di dargli coraggio.
Doveva essere onesto con sé stesso per una volta, guardarsi dentro e accettare la dura realtà.
Chi avrebbe mai potuto amare una bestia?
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La mia personale versione di uno dei classici Disney più amati di sempre, con protagonista, ovviamente, il mio adorato Ben Barnes nei panni della Bestia
(NOTA: ispirato al film del 1992, NON al live acton 2017)
Genere: Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Belle, Gaston, Lumière, Quasi tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Beauty and the Beast





Prologo
 
 
C’era una volta, tanto tempo fa in un paese lontano, un giovane principe che viveva in un castello splendente. Era l’unico figlio di un bravo re e una buona regina, i quali governavano su un piccolo, pacifico regno dove nessun conflitto aveva mai disturbato i sonni dei suoi abitanti. Il re e la regina erano sempre molto impegnati e non potevano occuparsi di lui, ma non per questo si sentiva solo. Aveva infatti intorno una numerosa schiera di servitori pronti ad esaudire ogni suo desiderio.
Crescendo, Benjamin – questo il nome del principe – divenne un ragazzo molto attraente, alto, con capelli color dell’ebano e occhi ancor più scuri. Aveva modi eleganti, era colto, sapeva conversare in maniera adeguata come si conveniva al suo rango, e conosceva i passi di danza delle ballate d’epoca (al palazzo si davano spesso sontuosi ricevimenti, ai quali prendevano parte tutte le persone in vista dell’alta società del regno). Insomma, tutte cose che un principe deve saper fare.
Quando Benjamin compì ventun anni, il re gli regalò un magnifico castello in aperta campagna, per usarlo come riserva di cacciagione. Il castello sorgeva in una bella valle circondata da un bosco, che per tutto l’anno spargeva nell’aria il fresco odore dei pini. Quando il vento soffiava sui prati portava con sé il profumo dei frutti e dei fiori che crescevano là, tra le fronde degli altissimi alberi. C’erano pendii e collinette erbose, un crepaccio profondo che riecheggiava dei suoni tutt’intorno, un fiume cristallino dove il principe passava pomeriggi interi, seduto sul greto con il suo cavallo e il suo fedele cane da caccia. Il giovane preferiva di gran lunga trascorrere il suo tempo qui piuttosto che all’austero palazzo reale, nella capitale. Così, il nuovo castello in campagna divenne la sua dimora fissa, sua e del suo seguito: maggiordomi, valletti, camerieri in abbondanza, cuochi, chef, stallieri, una governante, e perfino una cantante lirica, amica della regina, che aveva accettato di far visita al giovane, di tanto in tanto, per deliziare lui e gli abitanti del castello con la sua musica. Tutti lo assecondavano e non gli si veniva mai detto di no, in quanto si pensava che il re e la regina non avessero approvato di negar qualcosa al loro amato figlio.
Se solo Benjamin avesse avuto un po’ di amore per il prossimo quanti erano gli agi da cui era attorniato…
Purtroppo, dimostrò di non possedere un buon carattere, era viziato, egoista e cattivo. Credeva che ogni cosa gli fosse dovuta. Se dava un ordine, si aspettava che venisse eseguito. Se incrociava un povero mendicante nel bosco si affrettava a cambiare strada, o semplicemente lo ignorava; e se mai bussavano al suo castello, egli cacciava via chiunque osasse disturbarne la quiete, a meno che non fosse stato invitato. Benjamin sceglieva di ignorare le disgrazie altrui piuttosto che provarne compassione. Non concepiva la miseria, poiché era sempre vissuto nella ricchezza; non gli piaceva nemmeno che se ne parlasse. Quando i servitori accennavano a quel che avrebbe potuto fare di buono il loro giovane signore per i meno fortunati e gli abbietti, egli lanciava sguardi di rimprovero intorno a sé, gridando di non voler ascoltare quei discorsi. Lui era un principe, che cosa aveva da spartire con la povertà e le sfortune altrui? Non aveva un problema al mondo, quindi, perché doveva esser costretto a sobbarcarsi le angosce  appartenenti a persone di cui ignorava l’esistenza? E poi, di questo si occupavano già i suoi genitori.
Il re e la regina, da canto loro, pensavano che il mondo di là fuori fosse troppo spietato e difficile per il loro giovane rampollo. Era preferibile che vivesse a quella maniera invece di esser turbato dalla malvagità. Ignoravano, o volevano ignorare, che loro figlio era esattamente tutte quelle cose che avevano cercato di tener lontane da lui.
Benjamin, nel suo cuore superbo, si disinteressava di tutto ciò che non gl’importava, pensando unicamente a sé stesso. Voleva solo starsene in pace nel suo castello, godere degli agi e dei divertimenti che il sangue blu gli riconosceva. Sapeva bene di poter fare tutto ciò che desiderava, poiché cosi era sempre stato: nessuno gli aveva mai negato niente, lo aveva contraddetto, o aveva obbiettato un suo parere.
Ma tutti dobbiamo estinguere le nostre mancanze, prima o poi.
Accadde una notte d’inverno, quando la neve era ancora soffice sui sentieri di campagna e il fiume non ancora completamente ghiacciato. Una vecchina arrancava sulla strada maestra, avvolta in un mantello logoro e sporco, un nodoso bastone tra le mani. Tremava di freddo la poverina, e le erano rimaste ben poche forze nel momento in cui si trovò di fronte al grande cancello di ferro del castello.
   «Aprite, miei signori. Aprite a una povera mendicante che non ha un posto dove andare in una notte tanto buia e fredda».
Un cameriere, mosso a compassione, andò ad aprirle il cancello, conducendola attraverso il cortile fino al portone principale. Fece accomodare la vecchina nell’atrio illuminato e caldo, poi andò a chiamare il capo maggiordomo, un uomo dall’aria severa ma di buon cuore. Quand’egli arrivò, si fermò un momento ad osservare la veccha, in piedi al centro dell’atrio. Il maggiordomo sbuffò una volta dal naso, non perché fosse in collera, ma perché era impensierito. Tirò fuori dalla tasca del panciotto una catenina dorata, alla cui estremità era agganciato un bell’orologio da taschino in oro finissimo; controllò l’ora, poi lo rimise via.
   «Il padrone dorme?» sussurrò al cameriere che aveva fatto entrare la donnina.
   «Si è ritirato mezz’ora fa» rispose questi.
   «Molto bene. Puoi andare, adesso, qui ci penso io».
Il cameriere sgattaiolò su per le scale, non prima di essersi guardato alle spalle con curiosità.
Il maggiordomo si rivolse dunque alla mendicante, accennando un sorriso cordiale.
«Venite, brava donna, seguitemi giù in cucina. Sono sicuro che il cuoco non ha ancora sparecchiato la cena della servitù. Mentre aspettiamo che la riscaldi, Mrs. Bric, la nostra governante, potrà offrirvi una tazza di buon tè bollente».
La vecchia fece una riverenza. La cosa colpì non poco il maggiordomo, perché era una riverenza davvero ben fatta.
   «Siete molto gentile, signore, e vorrei ringraziare per tanta ospitalità anche il vostro padrone».
Il maggiordomo si mosse nervosamente, controllando di nuovo l’orologio.
   «Mi rincresce, ma non sarà possibile».
La mendicante si appoggiò al suo bastone, osservando dritto negli occhi l’altro uomo.
   «In ogni caso, sarà ben felice di aver offerto il suo cibo ad una bisognosa».
La frase parve al maggiordomo una sorta di domanda inespressa, e la vecchia lo guardava come se si aspettasse una qualche risposta.
   «Uhm... certo, lui… sì, sarà molto…».
   «Un nobile signore che possiede un sì grande maniero, deve possedere anche un grande cuore» aggiunse la mendicante.
Il maggiordomo guardò per la terza volta il suo orologio con fare imbarazzato. A dire il vero, sapeva che il principe non sarebbe stato affatto contento se avesse saputo che una mendicante aveva varcato la soglia del suo castello. Tuttavia, il maggiordomo non avrebbe avuto il cuore di lasciare quella povera vecchietta in mezzo alla neve in quella gelida notte. Se facevano piano, il principe non si sarebbe svegliato e non avrebbe mai saputo niente di tutto ciò.
Infine, fece un cenno con il braccio verso la porta dalla quale era arrivato.
   «Prego, se volete seguirmi…».
Un rumore di altre porte sbattute provenne dai corridoi dei pani superiori, seguito da passi affrettati per le scale. Poi, una voce tuonò: «Tockins!».
Un bel giovane uomo avvolto in una vestaglia blu notte si stagliò contro la luce delle candele dell’ingresso, le cui fiammelle tremarono al suo arrivo improvviso, forse per lo spostamento d’aria da lui provocato o forse terrorizzate dal suo tono di voce. Era furente. Il cameriere che aveva accolto la vecchietta stava alle sue spalle.
Nel breve silenzio che seguì, gli occhi del principe vagarono pericolosamente dalla vecchia mendicante al maggiordomo per diverse volte.
   «Cosa succede qui, Tockins? Chi è questa persona?».
Tockins si torse le mani, cercando di riassumere il giusto contegno senza mostrare la preoccupazione. Era di sicuro in arrivo un putiferio.
   «Perdonatemi per non avervi avvisto, altezza, ma vi eravate già ritirato e non volevo…».
   «Quante volte ho ripetuto che non voglio estranei in casa mia?» lo interruppe bruscamente il principe, scoccando un’occhiata seccata alla mendicante. Ella se ne stava tranquilla, sempre immobile, con il suo mantello logoro e il suo bastone. Tutto di lei lo ripugnava: era sporca, gobba, alcuni ciuffi di capelli bianchi e stopposi sfuggivano da sotto il cappuccio, le mani nodose avevano unghie spezzate e troppo lunghe. Somigliava a un ramo rinsecchito dal sole.
   «Perché l’avete fatta entrare?» domandò nuovamente, sempre con quel tono brusco.
   «Fa molto freddo fuori stanotte, e la poverina chiedeva soltanto un riparo e un po’ di cibo», rispose Tockins.
Benjamin storse il viso in una chiara smorfia di riprovazione e disgusto per quella donna dal misero aspetto.
   «Potrà trovare cibo e riparo in una delle locande giù al villaggio» tagliò corto, voltandosi per tornare di sopra.
Tockins cercò di dire ancora qualcosa in difesa della poveretta, ma conosceva troppo bene il principe per illudersi che, per una volta, potesse comportarsi in modo diverso. La conversazione era chiusa e non avrebbe ammesso repliche. Si apprestò così a riaccompagnare la mendicante al cancello, riservandole un cenno di scuse.
   «Mio buon signore, prego, se voleste ascoltarmi» disse d’un tratto la vecchia. Il suo bastone produsse un sommesso clunk sul tappeto dell’ingresso quando si mosse in direzione del principe.
Benjamin si fermò, voltandosi verso di lei con espressione corrucciata e un po’ stupita.
«Siate buono, mio signore. Ho una cosa importante da dire solo a voi».
Normalmente, egli l’avrebbe spedita fuori senza tanti complimenti, ma c’era qualcosa di assolutamente strano in quella donnetta tutta rughe: lui la fissò e lei lo guardò di rimando senza sbattere mai le palpebre.
   «Tockins, ti puoi ritirare» disse allora, congedando il maggiordomo.
   «Ma… padrone…» balbettò quest’ultimo, facendo tintinnare la catenina del suo orologio.
   «Non ti preoccupare, penserò io a chiamare qualcuno perché conduca fuori questa donna tra un minuto. Và pure».
   «Come desiderate, signore. Buonanotte».
Perplesso e forse un po’ impensierito, Tockins fece un cenno al cameriere rimasto a spiare la scena da dietro le spalle del principe. Lo spedì giù in cucina, poi tornò di sotto a sua volta, diretto alle stanze della servitù, augurandosi con tutti il cuore che il suo padrone non decidesse di condurre personalmente fuori dal castello quella povera donnina, magari a calci.
   «Parla, dunque» la invitò con impazienza Benjamin quando furono soli. Iniziava a sentir freddo con indosso solo la veste da camera, non vedeva l’ora di tornarsene al caldo delle coperte e del fuoco scoppiettante del camino.
La mendicante infilò una delle mani rugose dentro le pieghe del mantello lacero, estraendone una splendida rosa rossa, tenendola alta sopra la testa così che la luce delle candele la illuminasse per bene.
   «Voi avete tutto ciò che ogni uomo possa desiderare, giovane signore, ma ditemi: di tutte le vostre ricchezze, avete mai posseduto qualcosa di tanto bello da essere paragonato a questa?».
Benjamin osservò la rosa con vaga curiosità. Sembrava che la mendicante si aspettasse che potesse travarla anche solo minimamente interessante, ma lui ne aveva a centinaia di rose nel suo giardino, in primavera erano un tripudio di sfumature.
   «Tutto qui quello che volevi dirmi?» domandò sprezzante.
   «Non è una rosa come tutte le altre. E’ una rosa incantata!» precisò lei con enfasi.
Benjamin fece un sorriso beffardo, chiaramente incredulo.
   «Non ho tempo di ascoltare le tue ciance, vecchia».
   «Non burlatevi di me, mio giovane principe» lo avvertì la mendicante , alzando un dito nodoso in segno di avvertimento. «Badate a non farvi ingannare dalle apparenze. Ciò che si vede non sempre è quel che è. Voi pensate che io sia brutta e povera, ma la vera bellezza si trova nel cuore. Se sarete gentile e mi ospiterete nel vostro castello solo per questa notte, vi farò dono di questa rosa: il bene più prezioso che possiedo. La pianterete nel vostro giardino ed essa vi donerà qualcosa che mai nessun altro potrà darvi, viveste cent’anni».
   «Non ho bisogno di nulla, possiedo già tutto quello che desidero» ribatté Benjamin con fare altezzoso, il sorriso beffardo ancora sulle labbra. «E adesso torna da dove sei venuta, mi stai annoiando con queste tue fandonie».
A quelle parole, gli occhi della mendicante mandarono uno strano bagliore, che a lui non sfuggì. D’un tratto, ella gli apparve meno logora, meno stanca e forse meno vecchia.
   «E’ vero, voi possedete tutto ciò» riprese la mendicante con voce chiara e forte. «Siete giovane, ricco e potente. La bellezza non vi manca, l’intelligenza nemmeno. Possedete molte altre virtù, ma non avete cuore».
   «Come osate dire questo?» s’indignò il principe, scosso dalla verità. Gli era stata sbattuta in faccia da una miserabile, quando mai nessuno aveva osato farlo prima.
   «Lo vedo scritto proprio qui, nel vostro stesso cuore». La mendicante si avvicinò di più al giovane, puntandogli un dito raggrinzito sul petto.
Benjamin l’allontanò bruscamente, tenendola a distanza con un ampio gesto del braccio.
   «Non toccarmi!».
   «Arrogante. Tronfio. Egoista» scandì con forza la vecchia, ogni parola era un passo verso di lui. La rosa che ella teneva stretta nel pugno vibrò e i petali emanarono una strana luce iridescente. «Non t’importa di niente se non di te stesso».
   «Basta!» tuonò il giovane. Strappò il fiore di mano alla vecchia e lo gettò via. «Sparisci immediatamente dalla mia vista, strega!».
   «Se non ti correggi, un giorno sarà troppo tardi per farlo» lo ammonì lei severamente, incurante delle sue grida. «Sei ancora in tempo. Accetta la mia richiesta: solo poche ore di ospitalità, e ti donerò ciò che non hai».
Per tutta risposta, Benjamin alzò il braccio, puntando il dito verso il portone in un gesto inequivocabile.
   «Non so che farmene dei tuoi avvertimenti!» esclamò furente. «Vattene da questo castello e non tornare mai più!».
   «Allora non ho scelta» disse gravemente la mendicante chinando il capo, nascondendo tra le ombre del cappuccio il volto rugoso.
Quando lo rialzò, Benjamin rimase sconcertato da ciò che vide. Al posto del viso di vecchia c’era quello di una donna giovane e bellissima, con due occhi più azzurri di uno zaffiro. Non era più ingobbita, era alta, sottile. Abbassò il cappuccio, liberando lunghissimi capelli biondo chiaro che emanavano un luccichio simile a quello delle stelle. Sul capo portava un diadema, il quale andava ad appoggiarsi appena sulla fronte in complicati intrecci di cristallo. Slacciò il mantello logoro e quello scomparve come per magia, sostituito da una ricca veste verde e oro. Il bastone era diventato una lunga bacchetta magica dorata che venne agitata nell’aria. Sotto lo sguardo sempre più sbalordito del principe, la rosa si sollevò dal pavimento, come sospinta da un alito di vento, per andare a posarsi nella mano tesa della giovane donna che era stata la vecchia mendicante.
Benjamin aveva sentito parlare di certi prodigi ma non vi aveva mai creduto. Solo adesso capiva di aver commesso un tragico errore a deridere quella stracciona. Per la prima volta in vita sua si sentì debole di fronte a qualcuno, perché sapeva (anche se non capiva come lo sapesse) che quella donna ricopriva un ruolo di sommo rilievo, molto più alto del suo.
   «Chi sei?», domandò con voce incerta.
La bella dama parlò con voce vellutata ma sicura.
   «Io sono la Fata della Rosa, colei che veglia da sempre sul regno e i suoi abitanti. E’ da molto che ti osservo, ormai era tempo che venissi qui per incontrarti».
Per quanto una parte di lui continuasse ad essere incredula, l’altra intuiva cosa sarebbe potuto accadere. Le fate erano solite mostrarsi quando dovevano avvertire gli uomini di lieti o spiacevoli avvenimenti, e Benjamin aveva ragione di sospettare che lei non fosse venuta per dargli una buona notizia.
   «Non fatemi del male, signora, vi supplico» implorò. «Io non immaginavo che…».
Cercò di scusarsi ma le parole gli morirono in gola.
   «Speravo avessi dimostrato almeno un po’ di misericordia e accettato il dono di una povera vecchia mendicante, per quanto misero» proseguì la Fata. Nella sua voce si alternavano severità e rammarico. «Non ti ho chiesto molto, solo una piccolissima parte di tutte le belle cose che possiedi: un letto e un po’ di cibo che cosa sono per te? Eppure, tu mi hai cacciata».
   «Voi mi avete ingannato» replicò debolmente Benjamin. «Come potevo sapere chi eravate davvero?».
La liscia fronte della Fata si corrugò per un istante. «Se avessi saputo chi ero mi avresti ospitata?».
   «Certamente!» affermò lui con calore. «Vi avrei dato tutto ciò che desideravate, sareste stata la benvenuta».
Negli occhi della Fata comparve l’ombra della pietà. «Ma se fossi stata davvero una povera mendicante, mi avresti dunque lasciato morire di freddo e di fame».
Benjamin non seppe che dire. Aprì la bocca  una volta e la richiuse. Lo sguardo della Fata era insopportabile, perciò distolse in fetta lo sguardo. Ancora una volta gli gettava addosso la nuda verità. Sì, se lei fosse stata una vecchia, l’avrebbe rimandata per strada senza curarsi del suo avvenire, dimenticandosene in poco tempo. Se invece si fosse presentata al castello adorna della sua bella veste verde e oro, e la corona di cristallo, l’avrebbe accolta con tutti gli oneri.
La Fata puntò un dito contro di lui, come aveva fatto prima quando ancora vestiva i panni della vecchia mendicante.
   «Ti avevo avvertito: non dovevi farti ingannare dalle apparenze, giovane principe. Ora conosci il mio vero aspetto e sai che ti sbagliavi».
Benjamin provò un tremito in tutto il corpo, il cuore gli batteva all’impazzata per la paura.
   «Chiedo perdono, mia signora. Se potessi tornare indietro…».
   «Adesso è tardi», lo interruppe lei, che aveva scorto l’approssimarsi del pentimento nel cuore del bel giovane. Purtroppo però, la decisione era presa.
Benjamin si guardò attorno smarrito. Era tardi per cosa? Che sarebbe successo ora? Avvertiva uno strano fruscio nell’aria silenziosa, come l’avvicinarsi di uno sciame di uccellini in volo, senza però capire da dove provenisse il suono. Era solo nella sua testa? Era la paura a giocargli brutti scherzi? O era il suo animo, il senso di colpa che per la prima volta si affacciava alla sua mente, dove la voce della coscienza sussurrava inesorabile, rinfacciandogli le tante azioni sbagliate commesse nel tempo?
   «Non sei un malvagio, principe» disse infine la Fata, «ma non conosci l’amore e non sai cosa sia la bontà d’animo. Ed io ho il dovere di insegnartelo».
Il tremito che si era impadronito di lui crebbe a dismisura quando la vide levare la bacchetta magica sopra la testa.
Benjamin cadde in ginocchio di fronte al lei, implorando ancora e ancora, ma oramai l’incantesimo era stato pronunciato. Una forte luce esplose davanti ai suoi occhi e fu costretto a serrarli con forza. Sollevò un braccio, proteggendosi il viso dal forte vento che si levò con una forza inaudita, spalancando le porte e le finestre del castello, spegnendo le fiamme delle candele. L’atrio piombò nell’oscurità, la neve vorticò all’interno, il gelo irruppe pungente attorno a lui, dentro di lui. Avvertì stilettate di ghiaccio penetrargli nella pelle, che d’un tratto parve squarciarsi. Gridò, di dolore e disperazione, non riuscendo a capire cosa stesse accadendo al suo corpo, se era la realtà o soltanto un terribile incubo. Pregò che i pugnali di ghiaccio invisibili cessassero di lacerare ogni punto del suo essere. Miste alle sue grida, udì anche quelle di molte persone attorno a lui. Passi e urla in tutto il castello: le porte sbattevano, le finestre stridevano sui cardini, qualche vetro si ruppe, qualcosa cadde poco distante da lui e si infranse. Doveva per forza essere un incubo…
Non voleva che i suoi servitori lo vedessero così. Non voleva eppure voleva, desiderava che accorressero, che lo aiutassero. Perché non venivano? Le voci le aveva sentite. Dov’erano, allora?
Perché nessuno rispondeva? Lui gridava e soffriva, e loro non facevano niente.
Poi, il gelo svanì rapido così come lo aveva aggredito, il vento si placò, le candele si riaccesero.
   «Alzati, principe».
La Fata troneggiava su di lui, la sua voce forte, limpida, ma sempre con un vago sentore di gentilezza, severità e pietà.
Di nuovo, attorno a sé udì voci mormorare, non più urlare. Alcuni trattennero il fiato.
Benjamin aprì gli occhi scuri, l’unica parte di lui ancora rassomigliante al bel giovane che era stato. In ginocchio suo tappeto, alzò il capo per guardare la Fata, poi si volse intorno per osservare la bizzarria di una scena che lì per lì non riuscì a comprendere. Nessuno ci sarebbe riuscito. Nel salone d’ingresso parevano essere stati stipati tutti gli oggetti del castello. Uno più di tutti attirò la sua attenzione, non perché avesse qualcosa di speciale, ma per ciò che era riflesso sulla sua superficie. Un grosso specchio non lontano da lui gli rimandava un’immagine spaventosa. L’urlo di terrore non gli uscì dalla gola solo perché una parte remota della sua mente sapeva già che cosa stava osservando: un’orrenda creatura era apparsa da chissà dove, forse richiamata dall’incantesimo della Fata, e adesso lo avrebbe ucciso, il suo aspetto feroce non dava modo di pensare altrimenti.
Benjamin si mosse e la creatura si mosse con lui: indietreggiò quando lo fece lui, si aggrappò al bordo di un tavolino nello stesso momento in cui lo fece lui, rovesciò la stessa sedia che rovinò a terra quando le andò contro.
Non poteva essere vero...
Alzò una mano per tastarsi la faccia, scoprendo con orrore che le sue mani erano quelle della creatura. Non più mani vere, ma zampe pelose dotate di cinque lunghi artigli, esattamente come lo erano i piedi. Le braccia, come le gambe e tutto il resto del corpo, possente come quello di un enorme orso, erano ricoperte di una spessa pelliccia bruna. Una lunga coda strisciava sul pavimento. Una criniera leonina ricopriva la testa e il collo, zanne lupesche erano cresciute nella sua bocca, due paia di corna lunghe e appuntite spuntavano dai lati del capo, minacciose, come quelle di un demone.
Era diventato… che cosa? Non lo sapeva, non avrebbe potuto spiegarlo. Era un mostro, un demonio. Una bestia.
   «Che cosa mi hai fatto?!» gridò con quanto fiato aveva in gola. Per un infinitesimo istante ringraziò il cielo di saper parlare ancora.
La Fata gli si avvicinò senza timore.
   «Questa è la punizione per ciò che sei. Era mio dovere».
   «Tuo dovere?!» ringhiò il principe, avanzando sulle zampe posteriori. Sentì che non riuscivano a reggere tutto il suo peso ora che era diventato enorme, perciò si abbandonò su tutte e quattro. Le voci attorno a lui mormorarono spaventate.
   «Tu non hai il diritto di farmi questo!».
   «Avevo il diritto di darti la possibilità di rimediare» disse la Fata, la voce molto più severa di quanto non fosse stata finora. «Non hai mai dimostrato affetto per nessuno, neanche per le persone che ti sono state vicine e ti hanno accettato nonostante i tuoi numerosi difetti. Non hai mai tenuto conto del bene di nessuno. Ho sperato per molto tempo che potessi cambiare, ma non è accaduto. E  ho sperato fino all’ultimo istante, questa notte, di non dover fare ciò che ho fatto. Non mi hai dato scelta. Per questo, adesso, hai l’aspetto di una bestia. La magia che ho gettato su di te rispecchia quello che sei».
La rabbia e la disperazione di Benjamin esplosero come fiamme ardenti. La bestia che era ringhiò così forte che le pareti del castello tremarono. Ebbe l’impulso di gettarsi addosso alla Fata ma non lo fece, non sarebbe servito a niente. Lei diceva il vero: lui non era una bella persona, eppure aveva preferito essere ipocrita piuttosto che dare ragione a qualcuno che non fosse sé stesso.
Gridò ancora, la voce di bestia simile a un tuono nella notte innevata.
   «La rabbia non ti porterà a nulla» proseguì imperturbabile la Fata, levando ancora la bacchetta. «Adesso ascoltami bene, principe Benjamin: finché non cambierai la disposizione del tuo cuore, non tornerai mai come eri prima. Ma hai una possibilità. Bada, una soltanto, se la sprecherai non ci sarà redenzione che possa spezzare l’incantesimo».
Benjamin le rivolse uno sguardo traboccante di risentimento.
   «Che cosa vuoi ancora da me?».
   «Che impari ad amare». La Fata alzò la mano sinistra, nella quale teneva la rosa rossa; eseguì un fluido movimento con la mano destra, quella con cui teneva la bacchetta, e una polverina scintillante scaturì dalla punta dorata, roteando attorno alla rosa per andare a posarsi sui suoi petali. Il fiore scarlatto sembrava ricoperto di rugiada. I granelli di polvere scintillante emanarono un altro lampo di luce, simile a quello che aveva colpito Benjamin, anche se meno luminoso. Quando si dissolse, la rosa era tornata ad essere un piccolo bocciolo, illuminato da puntini di luce rosata. Sopra di essa si era chiusa una campana di puro cristallo. La Fata la tenne in equilibrio nel palmo di una sola mano per mostrarla al principe.
   «La crescita di questa rosa scandirà il tempo del sortilegio. Inizierà a sbocciare lentamente, e rimarrà intatta e in fiore fino al giorno del tuo trentesimo compleanno. Se per allora avrai imparato ad amare, e sarai riuscito a farti amare a tua volta, l’incantesimo che ho lanciato su di te e su tutto il castello si spezzerà, e tu tornerai com’eri prima. Ma se ciò non avvenisse, se non riuscirai a sciogliere il gelo nel tuo cuore prima che sia caduto l’ultimo petalo, rimarrai una bestia per sempre».
Quelle ultime due parole penetrarono nel cuore di Benjamin, pesanti come macigni.
   «Tu chiedi l’impossibile. Guardami!» esclamò, in preda alla disperazione più cieca.
Quella donna aveva insinuato che lui non aveva cuore, e forse aveva ragione, ma lei non era da meno. Che cosa avrebbero detto tutti quanti vedendolo così? E i suoi genitori? Non lo avrebbero riconosciuto, era condannato a rifuggire il mondo intero. Non credeva che l’incantesimo si sarebbe spezzato, era impossibile che accadesse.
   «Ancora una volta dai importanza solo alle apparenze» disse la Fata, che aveva percepito le  angosce del giovane. Il suo viso candido era diventato davvero molto triste. Spesso, adempiere il proprio dovere non era affatto facile, ma ella confidava nella forza del cuore e per questo aveva fiducia nel principe, che un cuore l’aveva ma non sapeva di possederlo.
La Fata posò la campana di cristallo con dentro il bocciolo di rosa sul tavolino al quale il ragazzo si era aggrappato qualche istante prima. Poi, per la terza volta in quella notte, agitò la sua bacchetta dorata.
   «Prendi questo» disse, facendo apparire uno specchio ovale dal manico argentato, decorato di intagli eleganti. «Sarà la tua finestra sul mondo esterno. Lancerò un incantesimo anche sul palazzo reale dove vivono i tuoi genitori. Non verranno mai a sapere quello che è successo qui. Nessuno lo saprà mai. Spero che un giorno imparerai ciò che ho provato a insegnarti stanotte, principe Benjamin. Fino a quel giorno, addio».
In un vortice di vento e petali, la Fata della Rosa scomparve nel nulla, lasciando l’atrio del castello molto più buio di come era sembrato finché era stata lì.
Il portone e le finestre si erano richiuse. La luce delle candele illuminava l’atrio. Tutto era tornato come prima dell’arrivo della mendicante, tranne che per tutti gli oggetti che ingombravano una parte della stanza.
Infine, tre voci si levarono da quel gruppo composto di sedie, soprammobili, lampade, stoviglie e quant’altro.
   «Padrone! Altezza! Signore!».
Solo allora Benjamin capì che cosa – o chi – erano tutti gli oggetti in quella sala, e che cosa facevano lì.
   «Tockins… Mrs. Bric… Lumiere».
Tre figure, un orologio, una teiera e un candelabro si erano staccate dal gruppo, e venivano verso di lui. Dovette piegare le quattro zampe per poter parlare con loro. La Fata gli aveva detto che il sortilegio avrebbe colpito anche il resto del castello, non lui soltanto, di conseguenza anche tutti i suoi abitanti erano stati trasformati.
   «Che cosa dobbiamo fare, adesso, padrone?» chiese Tockins il maggiordomo, o l’orologio che una volta era Tockins.
Il principe si riebbe. Alzandosi sulle zampe posteriori che erano stato le sue gambe, si rivolse a tutti gli oggetti, cioè tutta la servitù.
   «Sbarrate il cancello, che nessuno entri. Tirate le tende, non mettete luci accanto alle finestre. Nessuno dovrà sapere che siamo qui. Ci nasconderemo dal mondo». Il suo sguardo cadde sullo specchio donatogli dalla Fata. Lo afferrò malamente in una zampa, ma non riuscì a tenerlo bene e lo fece cadere. Tockins, Mrs. Bric e Lumiere lo afferrarono tutti e tre insieme, al volo, facendo in modo che non si rompesse.
Il principe lo riprese in mano, serrando meglio gli artigli attorno alla superficie levigata.
   «Portate nelle mie stanze questo specchio e la rosa. Dovremo imparare a convivere con questa maledizione».
Uno sgabello e un attaccapanni si mossero per eseguire gli ordini.
   «Altezza, voi credete che sarà possibile…» iniziò Tockins, ma il principe lo interruppe subito.
   «Io non credo più in niente». E detto ciò, si rinchiuse nella sue stanze, rimanendovi per molti giorni.
Ci sarebbe voluto del tempo perché la gente del castello imparasse davvero ad accettare la sua nuova condizione, e ancor più ad eseguire le solite faccende disponendo di parti del corpo fatte di metallo o ceramica. Ma ci riuscirono.
Il tempo passò, trascorsero anni. La gente dei villaggi e delle città vicine non sospettava né dell’esistenza di un castello incantato, né che là dentro ci vivesse una bestia che era stata il loro principe. Nessuno aveva mai saputo che il giovane possedesse un palazzo proprio in quel bosco, il re aveva scelto un luogo piuttosto isolato proprio perché sapeva che a suo figlio piaceva la solitudine.
Sporadiche storie si raccontavano nelle locande, durante buie notti d’inverno. I più fantasiosi parlavano di una creatura così grande e spaventosa da sembrare uscita dalle fiamme dell’inferno. Ma, ovviamente, quasi nessuno ci credeva.
Dieci anni passarono lunghi e tetri. Il castello, da splendido quale era stato, divenne sempre più lugubre e silenzioso.
Vergognandosi del suo aspetto, Benjamin non tentò mai di uscire da quelle stanze. Di tanto in tanto dava un’occhiata nello specchio magico per vedere cosa accadeva nelle campagne, nelle foreste o nei villaggi, ma era troppo doloroso e così smise di osservare il mondo. Niente gli diceva che presto sarebbe giunto qualcuno a spezzare il sortilegio. I suoi servitori cercavano di sollevargli il morale, comportandosi come se nulla fosse, e sarebbe sembrato così se ogni specchio del castello non gli avesse restituito lo sguardo di un mostro abominevole. Ordinò che fossero tutti distrutti, o comunque nascosti alla sua vista, e quei servitori che si erano tramutati in specchi dovevano rimanere a debita distanza da lui.
Benjamin era così disgustato dal suo aspetto che un giorno distrusse il proprio ritratto appeso alla parete della sua camera, trasferendosi in un’altra ala del castello, per non essere costretto a vedere ogni giorno quello che rimaneva del suo volto umano. Tornava solo di tanto in tanto nella sua vecchia stanza, per controllare che la rosa non stesse appassendo. Ormai stava sbocciando, ma appariva ancora in tutto il suo splendore. I pulviscoli lucenti di cui scintillavano i suoi petali sembravano muoversi allo stesso ritmo della lancetta di un orologio, scandendo i secondi del tempo che passava inesorabile.
Benjamin se ne stava sempre solo, si comportava sempre più come una bestia vera e propria, rinchiudendosi in un ombroso silenzio. Non parlava quasi con nessuno se poteva evitarlo. Aveva perso ogni speranza di mutare la propria sorte, lo sconforto si era impadronito di lui e il suo carattere era peggiorato ulteriormente. Non riusciva a sperare, tantomeno a credere, che da un giorno all’altro sarebbe potuto cambiare qualcosa. Non credeva neppure di poter cambiare sé stesso, non riusciva ad essere diverso da quello che era. Il suo destino ero ormai segnato, benché in molti cercassero di dargli coraggio.
Doveva essere onesto con sé stesso per una volta, guardarsi dentro e accettare la dura realtà.
Chi avrebbe mai potuto amare una bestia?

 
 



 
 -L'angolino di Susan-

Salve a tutti cari lettori, vecchi e nuovi!
Questa è la mia personale versione della fiaba de La Bella e la Bestia, e ovviamente il principe non poteva che essere il mio adorato Ben Barnes! Sì, lo so, ho avuto una fantasia sfrenata per il nome del suddetto principe, ahah, che volete farci? O vi va bene o niente xD
Stavolta ho pubblicato in una sezione nuova, visto che la ff ha sí Ben Barnes come protagonista, ma in un contesto differente dal solito. Insomma, non è un attore ma un principe. Speriamo mi vada bene (ansia!).
Sono contenta di avere iniziato una nuova storia, anche se ho ancora in corso due long, una di queste proprio su Ben. Il fatto è che sono stata un sacco di tempo senza scrivere quasi nulla, e non riesco ancora a sbloccarmi con le altre due, per cui ho pensato che potevo provare a rompere il ghiaccio per il mio ritorno su Efp buttando giù qualcosa di nuovo. Ammetto che il genere fantasy/fiaba è quello in cui riesco meglio, e recentemente ho avuto questa idea di una fanfic su questa fiaba. Sarà che sono stata influenzata dall’arrivo al cinema del live action, anche se io preferisco ispirarmi al film Disney a cartoni animati.
QUI potete trovare il cast come l’ho pensato io. La prossima volta, se ho tempo, faccio anche un banner per la storia.
Che dire? Vi aspetto alle recensioni, se volete.
E’ bello essere di nuovo qui!
Un bacio a tutti,
la vostra
Susan <3
   
 
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