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Autore: CaptainKonny    20/03/2017    2 recensioni
"Quando hai accettato la tua vita e sei pronta ad affrontare il tuo futuro.
Quando ti senti abbastanza forte, credendo che il passato non potrà mai tornare a farti del male.
...E poi arriva uno psicopatico a smontare il tutto."
***
Mi chiamo Serena Brooks e Aaron Hotchner è mio padre...e si è appena fatto rapire dal mio prossimo S.I.
Il vero problema è che io non voglio avere niente a che fare con mio padre.
***
[Dal testo della canzone "Daddy's little girl": Daddy, daddy, don't leave/I'll do anything to keep you right here with me/I'll clean my room, try hard in school/I'll be good, I promise you/Father, Father, I pray to you]
***
Un ringraziamento speciale ad una persona molto importante che ha contribuito alla revisione della storia una volta ultimata.
Genere: Azione, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aaron Hotchner, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Missing Moments, Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 16

 
“Amo te,
niente di più semplice.
Amo te,
niente in più da chiedere.
Amo te,
niente di più semplice.
Amo te,
niente in più da aggiungere”
 
POV SERENA

Venni ributtata al suolo come un fantoccio, la stanza girava attorno a me. Mi ritrovai a fissare il soffitto grigio, mentre il dolore dapprima sordo diveniva via via sempre più forte. Mi portai una mano al braccio ferito, subito una fitta mi risalì lungo la spalla, le dita che andavano a stringere la manica, sporcandosi di sangue. Cercai di riprendermi, non sapevo se avevo colpito o no l’S.I., perciò potevamo essere ancora in pericolo. Facendo fatica ad alzarmi, ancora stordita dallo sparo ravvicinato e l’impatto con il proiettile, cercai per lo meno di rotolare su un fianco. Non avevo una chiara visuale, ma il corpo di McGrant era sdraiato supino sul pavimento e non accennava a muoversi. Uno schianto, seguito da una luce improvvisa, segnò l’arrivo dei miei colleghi e dei rinforzi. La musica era cessata, ma sentivo le pale dell’elicottero girare sopra di noi. Persone ci passarono accanto con mosse studiate, le armi puntate davanti a sé pronte a far fuoco. Qualcuno si fermò accanto a mio padre, ma non me ne preoccupai, loro lo avrebbero aiutato.
Poi notai qualcosa di diverso: la testa di mio padre ciondolava!

-Pa…pà- tossii, sputando un grumo di sangue formatomisi in gola. –Papà.- ci riprovai.

Nessuno parve sentirmi o prestarmi retta. Fu allora che qualcuno si piantò davanti a me, prendendomi per le spalle. Un’altra fitta mi fece stringere gli occhi.

-Serena! Serena…stai bene?- probabilmente notando la mia espressione, l’agente Rossi mi prestò più attenzione, individuando così la mano che mi stringeva il braccio. –Serve un medico! C’è un agente ferito!- gridò alla fiumana di persone.

-Papà…- ci riprovai; dovevo sapere come stava mio padre, lo avevo visto con gli occhi chiusi. No, non poteva essere morto.

-Sta tranquilla, è tutto finito. È morto Serena.- alzai gli occhi su di lui, non capendo se stesse rispondendo o meno alla mia domanda mentale. Speravo di no. In quel momento fu come se mi avessero sparato una seconda volta. –L’S.I…è morto. Il pugnale lo ha colpito al petto.- sospirai di sollievo. Girai la testa verso sinistra, osservando i paramedici che disponevano mio padre su una barella, dopo avergli tolto la camicia e bloccato la fuoriuscita del sangue dalla ferita. Rossi dovette intuire la muta domanda sul mio viso –E’ svenuto. I paramedici hanno detto che la ferita non è grave…- tornai a guardarlo, non mi era piaciuto il modo in cui l’aveva detto -…ma ha perso molto sangue.- per l’appunto.

Non ci rimaneva che pregare e aspettare, sperando che andasse tutto bene.

 
BAU TEAM

L’urlo vittorioso di Garcia proruppe in un boato di gioia, dopo il “Adesso vedi che bella sorpresina ti mando, brutto bastardo!” nel momento in cui aveva dato l’ordine di far decollare l’elicottero e aveva dato il via libera alla squadra di soccorso per intervenire. Praticamente ballava sulla sedia battendo le mani. JJ, con ancora la mano di Reid appoggiata sulla spalla, nel momento in cui la SWATT era entrata nel capannone aveva tirato un sospiro di sollievo, slanciandosi in un abbraccio fraterno con il suo Spence, poi aveva abbracciato da dietro Penelope, dandole un sonoro bacio sulla guancia. Spencer aveva abbracciato JJ, sentendo il cuore nel petto galoppare a ruota libera, finalmente libero dall’ansia accumulata in tutte quelle ore. Aveva la sensazione che il sorriso che gli si era formato sulle labbra niente al mondo avrebbe potuto cancellarlo. Era tutto finito, stavano tutti bene e presto sarebbero tornati tutti a casa, l’S.I. ormai era solo un ricordo. Poi, gli venne in mente una cosa…

-Aspettate!- le due donne si voltarono a guardarlo.

-Bel giovanotto, spero tu abbia un buon motivo per interrompere le nostre urla di giubilo.- disse Garcia, con finto tono minaccioso, quello che usava quando non c’era nulla che a lei non fosse sconosciuto.

-Ehm, credo…di sì…- Spencer non c’avrebbe mai fatto l’abitudine ad essere chiamato in quel modo, lui non era come Derek –L’S.I. è stato fermato, ma non sappiamo ancora chi ci sia dietro tutta questa faccenda.-

Anche JJ questa volta era stata presa in contropiede visto che se n’era quasi scordata, troppo contenta che il piano avesse funzionato. Garcia si girò sulla sua poltroncina girevole, l’espressione furbesca di chi sa di avere la vittoria in pugno.

-Mio caro genietto, sottomettiti al potere della tecnologia. Mentre voi eravate troppo preoccupati per la sorte dei nostri due colleghi e…beh, sì…anche io…comunque, il mio super sistema informatico ha fatto un controllo incrociato alla velocità della luce.-

-Hai scoperto qualcosa?- JJ era troppo stupefatta per riuscire a contenersi.

-Ho fatto molto di più dolcezza. Quando ho dato il via libera al decollo dell’elicottero avevo già un nome e, prima dell’intervento della SWATT, l’avevo già anche fatto arrestare. In questo momento sarà in una stanza per gli interrogatori ad aspettare che uno di noi vada da lui.-

-Garcia sei grande!- esclamò Spencer.

-Quindi di chi si tratta? Perché ce l’aveva con Hotch?- domandò invece JJ.

-Il nome del nostro genio “ma non abbastanza” criminale è Jonas Miller. È stato lui a mettere nella stessa cella Gilgun e McGrant, lo ha scritto espressamente dopo la spedizione di McGrant al penitenziario. A quanto pare Hotch lo aveva messo in cattiva luce riguardo ad un caso a cui avevano lavorato insieme in passato. Una volta che Hotch è stato promosso ad agente speciale supervisore non c’ha visto più. Ho controllato il suo computer, ha tenuto Hotch sotto controllo, o per meglio dire i casi a cui ha lavorato, per tutti questi anni.-

-Aspettando il caso giusto per metterlo fuori gioco.- concluse JJ.

-Beh, adesso di sicuro non nuocerà più a nessuno.- commentò Reid, il volto puntato sullo schermo del pc: il capannone adesso era vuoto.
 

POV HOTCH

Era successo tutto così in fretta. Troppo.

Serena aveva appoggiato quelle due coroncine sulle mie ginocchia. Non avrei mai pensato che un giorno sarei riuscito ancora a vederle insieme. La guardai, dritto negli occhi. Dopo tutto quello che era successo non sapevo più di cosa e di chi fidarmi. Lei parve capirlo, era come se stesse aspettando qualcosa. Poi lo avevo sentito: un elicottero. L’S.I. era andato in escandescenze sin da subito, ma io ero troppo concentrato su quell’altro suono. Una canzone pareva. E non una qualsiasi. La nostra.

-Te lo ricordi? Ce lo siamo promesso.- erano bastate quelle parole e tutto mi fu chiaro. Avrei voluto dirle qualcosa, ma l’S.I. si mise in mezzo.

Poi, fu tutto uno susseguirsi di eventi, a cui io assistei come spettatore impotente.

Vidi l’S.I. e mia figlia lottare. La vidi cadere. Provai paura, ma non riuscii a fare nulla, era come se pian piano mi stessi addormentando. Persino il dolore era diventato un ricordo lontano. Qualcosa dentro di me ancora lottava per liberarsi, ma la debolezza, fisica e psicologica, mischiata alla quantità di sangue perso, mi inchiodavano al mio posto. Quando sentii lo sparo, i miei occhi si stavano già chiudendo.

Era tutto un miscuglio di buio e colori sotto le palpebre, qualcosa mi trascinava via, facendomi scivolare come se fossi semplice acqua, senza consistenza, senza appigli a cui aggrapparmi. Ogni tanto, in quel colorato vortice, rispuntavano l’immagine di quelle coroncine e le parole di quella canzone. Cercai di afferrarle, di metterle sempre più a fuoco. Sapevo…che se ci fossi riuscito sarei potuto tornare indietro. Usai tutte le energie che mi rimanevano, concentrandole sui miei occhi: dovevo aprirli. Una luce intensa me li ferì, ma andava bene, il fastidio non poteva indicare altro se non che ero ancora vivo. Li aprii ancora, le luci andavano e venivano in fila, come i vagoni di un treno. C’erano delle persone ai margini del mio campo visivo, ma tanto che mi sforzassi non capivo di chi si trattasse. Di sicuro non mi trovavo più in quel capannone. Quasi senza accorgermene, le palpebre tornarono ad abbassarsi: ero così stanco. Nemmeno quando Jack e Serena erano appena nati mi ero sentito così spossato, sebbene avessi passato diverse notti sveglio con loro, cullandoli, sperando si addormentassero alla svelta.

A proposito di Jack: ad alcuni metri da me c’era un bambino, aveva gli occhi scuri. Sorrideva. Pareva proprio il mio Jack. Oh, piccolo quanto mi manchi! Una donna gli si avvicinò, probabilmente la madre. Un momento! Ma quella è Haley! Quindi questo significa che quel bambino era davvero Jack! Sentii lacrime calde di commozione e felicità rigarmi il viso. Per tutti quegli anni avevo temuto che non li avrei mai più rivisti. Ed ora, eccoli lì, insieme, felici. D’ora in avanti saremmo rimasti sempre insieme, una vera famiglia felice: io, Haley, Jack e Serena. Un attimo: dov’era Serena?

Uno strano e familiare senso di angoscia e preoccupazione si impadronì di me. Guardai da tutte le parti, Jack e Haley sempre di fronte a me sorridevano, ma di Serena nessuna traccia. Perché Haley non si preoccupava? Non vedeva che mancava la nostra bambina? L’eco di uno sparo riecheggiò in quel silenzio, distruggendone impercettibilmente la pace per sempre. Ricordai la scena vista nel mio stato di dormiveglia. Avevo visto Serena cadere, colpita dal proiettile. La mia bambina era ferita e aveva bisogno di me. Dovevo trovare un modo per raggiungerla ed aiutarla, subito. Ma non sapevo come fare per andarmene. Non c’erano strade o porte, era un’infinita parete bianca in cui c’eravamo solo io, Haley e Jack. Loro continuavano a sorridermi, come se non comprendessero la gravità della situazione. A quel punto acquisii la certezza che c’era un tassello fuori posto in tuto ciò che mi circondava.

Io ero con metà della mia famiglia. Quella metà che mi era mancata da morire e di cui avrei sempre sentito la mancanza. Ma se c’era un motivo per cui Serena non era ancora con loro, forse era perché era ancora viva. Era ferita e aveva bisogno di me. La sola idea che stesse soffrendo, o peggio, che stesse per morire, mi fece male, lacerandomi l’anima. Già, perché adesso ero cosciente di non essere sveglio, ero svenuto e, sebbene in un altro modo, stavo lottando per sopravvivere. Eppure, anche in una situazione così tragica, il mio primo pensiero andò a mia figlia. Forza piccola, non mollare! Pregai mentalmente. Non posso sopportare di perdere anche te!  Non poteva veramente finire così.

Altri rumori, non derivanti dal posto in cui mi trovavo ma dall’esterno, riempirono quel luminoso silenzio. Improvvisamente mi sentii più forte. I soccorsi dovevano essere arrivati in tempo; almeno per me. Guardai la mia famiglia, quella parte che solo per il momento, nella vita reale, avevo perso. Sorridevano ancora, ma in modo diverso. Gli occhi di Haley mi dicevano che aveva capito, che sapeva che avrei fatto la scelta giusta, non ne aveva dubbi. E Jack sorrideva, con quel modo tutto suo di salutare le persone senza il bisogno di usare la manina. Lo stesso che usava con me quando andavo al lavoro, era un “arrivederci”. Capii che arrivato a quel punto potevo scegliere. Scegliere di rimanere, con mia moglie e mio figlio, o scegliere di risvegliarmi, di tornare alla cruda vita reale, al duro lavoro, ma soprattutto di tornare da Serena. Sapevo già cosa avrei scelto, lo sapevamo tutti. Haley prese in braccio Jack, un po’ pareva dispiaciuta.

-Questo non è un addio. Ci rivedremo presto.-

Non sentii la mia voce uscire, non ero nemmeno sicuro d’aver parlato. Sperai che avessero capito. Non ero riuscito a dirgli addio in passato, ma adesso potevo perlomeno dirgli arrivederci. Haley si portò una mano alle labbra, in un bacio volante, mentre Jack mi faceva “ciao” con la manina. Poco a poco sbiadirono. Vederli scomparire fece male quasi quanto perderli la prima volta.

La luce divenne sempre più bianca, sempre più intensa, accecandomi. Tentai di ripararmi con le mani e le braccia, ma non servì a nulla. Finchè la luce non mi ricoprì interamente, inghiottendomi. Avrei urlato, ma ormai ero consapevole che nessuno avrebbe potuto sentirmi perché in realtà non stavo emettendo alcun suono. Poi, nella mia luminosa cecità, iniziai a sentire un suono, sempre più forte, ritmico, come se stesse contando i secondi.

…bip…bip…

Il bianco smise di essere così brillante, diventando sopportabile.

…bip…bip…

Il suono divenne chiaro e nitido a confermarmi che ero tornato indietro.

…bip…bip…

Il bianco che stavo guardando era il soffitto dell’ospedale in cui mi trovavo e il suono era quello della macchina collegata al mio cuore.

…bip…bip…

Mi sembrava di essere stato via un’eternità. Questa volta, il silenzio che mi circondava era calmo e rassicurante. Dopo tutto quello che ci era successo, apprezzai quella calma come mai avevo fatto prima d’allora.

-Si è svegliato!- esclamò in un sussurro qualcuno seduto accanto a me –Hotch!-

JJ mi sorrideva mentre si alzava, chiaramente sollevata di vedermi sveglio. Il suo interlocutore doveva essere David, poiché si avvicinò di qualche passo dalla sua postazione alla finestra. Sul suo viso era dipinto un sorriso sincero.

-Buongiorno, amico mio. Ci hai fatto preoccupare parecchio, sai!- tentai di sorridere a mia volta, eppure mi risultò difficilissimo. Quando tornai a guardarli, capirono al volo la mia domanda inespressa.

-Non devi preoccuparti, è tutto a posto.- disse la mia collega.

-L’S.I. è morto e Garcia è stata talmente in gamba che prima del nostro arrivo aveva già fatto arrestare la mente criminale di tuto questo casino.- aggiunse Rossi.

-Di chi si trattava?- la mia voce era bassa e roca, tanto dovetti tossire per schiarirmela.

-Indovina un po’? Miller.- rispose David facendo inarcare le sopracciglia.

-Chissà perché la cosa non mi meraviglia affatto! È sempre stato invidioso di Hotch! Dal momento che sei finito a capo dell’unità ha sempre fatto in modo di crearci problemi: una volta l’ho trovato a trafficare nel mio ufficio tra i casi che ci erano stati proposti. L’ho minacciato di denunciarlo alla sicurezza interna.- disse tutto d’un fiato JJ. Era difficile far arrabbiare la più nana della squadra, ma se avesse dato segni di irrequietezza non avrei mai voluto essere nei paraggi. Era in gamba. Tutti loro lo erano. In quanto a Miller mi diedi dello stupido per non averlo notato. Non ci eravamo mai sopportati, nemmeno prima di entrare nel BAU. Arrogante figlio di papà, (non che io non lo fossi, ero un giovane figlio di avvocato) pretendeva ogni volta d’aver fatto meglio, arrivando a distruggere una scena del crimine. Da allora era stato allontanato dalla sezione. Poi io ero passato al BAU, perdendolo definitivamente di vista, lasciandomi sommergere dal lavoro, restando all’oscuro del suo cambiamento. Rossi sembrò vedere il mio turbamento.

-Aaron, non avresti potuto farci niente. Non possiamo tenere sotto controllo tutte le persone che ci circondano. Guarda quante vite abbiamo salvato nel frattempo, ed è stato anche merito tuo.- aveva ragione.

In quel momento Morgan, Prentiss e Garcia fecero il loro ingresso ridendo e chiacchierando, tutti con un bicchiere di caffè in mano.

-Ehi, ce l’hai fatta a svegliarti!- esclamò Morgan, piazzandosi in fondo al letto.

Lo guardai con cipiglio severo, ma sorridendo. Incredibile alle volte come da serio agente federale si trasformasse in un ragazzino senza freni.

-Oh, cielo! Meno male! Non che io pensassi che saresti morto, ma beh…ecco…eri ferito…e poi chissà cosa ti aveva fatto quel maniaco pazzoide…- non riuscii a trattenere una risata divertita. Ecco un’altra eterna bambinona, fondamentale per la nostra squadra. Sperai che col tempo non cambiasse mai, non come avevo fatto io, diventando sempre più serio e taciturno.

Vedendomi ridere si bloccò di colpo, aveva tante cose da dire, tante emozioni da esprimere, ma a lei ne bastarono due –Sono contenta.-

Mi sentii il cuore riempire di gioia, tutti loro mi stavano dicendo in modi diversi che mi volevano bene. Poi, c’ero io che in ogni frase non riuscivo a non parlare di lavoro.

-Anche io. Ti devo fare i complimenti. Ho saputo che se il caso è stato risolto è stato anche merito tuo.- in men che non si dica, le sue guance divennero di un bel rosso fragola.

-Oh, beh…grazie, ma il merito è stato di tutti. Come sempre. Sì, insomma…ce lo hai insegnato tu, no?- gli occhi le si erano riempiti di lacrime per la commozione. Sorrisi, erano miei colleghi, ma in realtà erano molto di più, mi conoscevano forse persino meglio di quanto io conoscessi me stesso.

-Oh, vieni qui bambolina!- disse Morgan, circondando la bionda riccioluta per le spalle, stringendola al suo fianco in un poderoso abbraccio. Garcia continuò a sorridermi, asciugandosi gli occhi con una mano, badando bene a non rovinare il trucco.

Guardai Prentiss in piedi alla mia sinistra, assistendo alla scena senza dire nulla. Sentendosi il mio sguardo addosso decise di dire qualcosa. Anche lei non era il tipo da carinerie, perciò in situazioni del genere tendeva a restarsene in disparte.

-Buongiorno capo.-

-Tutto a posto?- le domandai.

-Perfettamente.- pausa di silenzio, sapevo che aveva ancora qualcosa da esternare, Emily era fatta così –Ci hai fatto prendere un bello spavento, sai!- si morse il labbro.

-Sapevo avreste fatto un ottimo lavoro.-

-Come ha detto Garcia, è anche merito tuo.- non riuscimmo a parlare oltre, poiché le voci dei colleghi reclamavano l’attenzione per qualcosa d’altro. Ci guardammo ancora per un lungo momento, come se fosse sufficiente per colmare tutte le cose non dette. Provai a tirarmi su un poco, non senza qualche difficoltà. David arrivò subito in mio soccorso, aiutandomi a mettermi seduto.

-Vecchio mio, temo che per un po’ dovrai fare attenzione e muoverti con cautela. I medici sono stai molto chiari: l’S.I. sapeva cosa stava facendo, perciò la ferita non era mortale. Tuttavia era una ferita molto profonda, ci vorrà del tempo perché si rimargini.-

-Ehi, Reid! Ma dove ti eri cacciato?- domandò Morgan al più giovane del gruppo, appena entrato nella stanza. Il ragazzino si fece avanti, imbarazzatissimo, con quella sua tipica aria da eterno quattordicenne.

-Scusatemi, mi sono perso.- rispose timidamente.

Subito i nostri sguardi si incontrarono; mi era mancato quel ragazzino. Malgrado tutte le battute sul suo conto, Reid era in gamba, e non solo per la sua memoria eidetica. Molte volte i ragazzi lo prendevano in giro, ma erano anche i primi che in caso di pericolo sarebbero accorsi in suo aiuto. In fin dei conti è questo che si fa in una famiglia, giusto? Ne avevamo passate tante, belle e brutte, Reid era diventato il fratellino per i più tanti, per me era come un figlio. Beh, l’età c’era.

-Come ti senti?- fu la sua domanda innocente.

-Abbastanza bene. E tu? Permetti ancora a Morgan di prendersi gioco di te?- lo guardai come guardavo Jack quando faceva una marachella. Lui incassò la testa nelle spalle come un gufo.

-Si vede che è più forte di lui, comportarsi da bambino.- rispose candidamente, con quel sorriso che sapeva di vittoria contro il collega. Sorrisi a mia volta.

-Ehi, ragazzino! Che fai, alzi la cresta?- scherzò Morgan, scompigliandogli i capelli. Ridemmo ancora, tutti quanti. Non ricordavo quando era stata l’ultima volta che avevo riso così tanto. Di sicuro era passato molto tempo. Ma non m’importava, in quel momento volevo solo godermi quella giornata.

-Ehi! Che fai sulla porta? Coraggio, vieni! Si è svegliato e credo abbia voglia di vederti.- esclamò ad un tratto JJ.

Quelle parole ebbero un effetto calmante su tutti i presenti. Tranne su di me. Allungai il collo, o almeno ci provai, nella speranza di vedere di chi si trattasse, sebbene ne avessi già un’idea. Serena avanzò a testa bassa, impacciata, come un’adolescente che l’ha appena combinata grossa, con due occhi da cane bastonato in viso. Potevo facilmente immaginarne il motivo, in fin dei conti ero ancora suo padre e potevo ancora vantarmi di conoscerla piuttosto bene. Nel frattempo il mio battito cardiaco era accelerato. Ero emozionato, finalmente, dopo molto tempo, avremmo avuto modo di parlare un po’.

-Ragazzi! Che ne dite se li lasciamo un po’ da soli? Credo abbiano un po’ di cose da dirsi.- disse Morgan, sciogliendo tutti da quell’imbarazzo generale. Lui e Garcia, ancora stretta sotto al suo braccio, furono i primi ad uscire. Seguiti da Reid, Prentiss, JJ ed infine Rossi, il quale non mancò di farmi un gesto d’incoraggiamento prima di richiudersi la porta alle spalle. In effetti questa sarebbe stata una grande prova per entrambi noi Hotchner.

Serena si fermò sul lato destro del letto, le mani nei pantaloni, visibilmente a disagio. Dello scontro avvenuto con l’S.I. erano rimasti solo pochi graffi sul viso, più che altro dovuti alle cadute. Avevo insistito perché da piccola frequentasse diversi corsi di autodifesa. Ero stato scettico invece quando avevo saputo sarebbe entrata a far parte dell’FBI. Non le avevo dato risposta, non avevo gioito e non avevo protestato. Avevo semplicemente calcolato quanto poco avrei potuto proteggerla una volta diventata un’agente effettivo. Mi sbagliavo! Se eravamo entrambi qui era soprattutto merito suo.

-Allora, come stai?- disse tutto d’un fiato, tentando di essere il più naturale possibile, persino accennando un timido sorriso.

-Piuttosto bene, considerando che stavo per lasciarci la pelle.- tentai di rispondere in modo ironico, ma a quanto pareva lei non la pensò allo stesso modo. Si morse l’interno guancia. L’ultima cosa che volevo era fare il profilo a mia figlia, ma date le circostanze dovevo capire quella sua reazione, pensare come lei. Non ci impiegai molto a rispondermi.

Dato che la ferita non era grave, se avevo rischiato di morire era colpa sua: ecco cosa pensava.

-Non è stata colpa tua.- precisai. I suoi occhi saettarono nei miei.

-Mi stai facendo il profilo?- l’ombra di un sorriso divertito fece capolino sulle sue labbra.

-Certo che non ti si può nascondere niente.- ridacchiammo entrambi.

-I medici l’avevano detto che non eri grave.- io annuii.

-Tu invece come stai?- domandai, riferendomi al colpo di pistola.

-Oh, è una sciocchezza. Il proiettile mi ha preso di striscio. Il problema è che fa un male cane.-

-Sì, è il problema delle ferite superficiali.-

Serena decise di sedersi sul letto, in parte a me. Esattamente come facevo con sua madre, allungai una mano verso un corto ciuffo di capelli scuri, portandoglielo dietro l’orecchio. Trattenne il respiro. Non eravamo più abituati a stare così vicini. Fu allora che notai i suo occhi arrossati. –Hai pianto.-

Lei sorrise, ironicamente o quanto meno ci provò. Fallendo miseramente. Deglutì.

-Sai…ho avuto paura.- mi guardò, seria in volto –Per un attimo ho temuto che ti avrei perso.-…-Ho avuto paura di essere arrivata tardi.- mi spiazzò completamente.

Sapevo che avremmo parlato, che ci saremmo chiariti, ma non avevo messo in conto le parole che sarebbero state dette, le emozioni che avrei provato. Era come se riuscissi ad immedesimarmi in lei alla perfezione. Deglutii a mia volta. Dopo tutta la rabbia e il rancore che avevo visto nei suoi occhi, quelle parole furono come un balsamo per le mie ferite interiori.

-Credo tu abbia ragione. Anche io ho avuto la stessa impressione ad un certo punto.- ammisi tornando a guardarla, dalla sua espressione era come se qualcosa continuasse a sfuggirle.

-Mentre ero incosciente ho visto la mamma e Jack.- la mia affermazione parve turbarla e anche io mi stupii di averglielo detto, ma avevo bisogno che sapesse. Avevamo avuto una seconda chance e questo poteva essere un segno come il frutto di una precoce pazzia, per questo avevo bisogno di un suo parere. Tutto sommato parve riprendersi alla svelta.

-E cosa ti hanno detto?- questa volta fui io a rimanere sorpreso, non avevamo mai intrapreso un discorso sul mistico.

-Nulla. Erano lì, come se mi stessero aspettando.-

-Ma tu non sei andato.- constatò seria.

-No. Mi è stata data la possibilità di scegliere e non potevo di certo andarmene senza aver sistemato le cose con te. Non so se sarà possibile, ma voglio recuperare il tempo perso.- soppesò le mie parole.

-Mamma non sarà stata contenta di vederti andar via di nuovo.- la situazione non era facile anche per lei.

-No, ma tua madre ha sempre capito perché lo facevo. Sa che alla fine tornerò a casa, come sempre.-

-A quanto pare arrivare tardi è un male di famiglia.- ridemmo entrambi. Parole sante!

Ci fu un attimo di silenzio, carico di suspance. Non sapevo cosa pensare e non mi veniva in mente nemmeno niente di geniale da dire. Al che Serena prese un profondo respiro prima di divenire un vero fiume di parole.

-Senti, ti devo delle scuse anche se non è molto visto tutti gli anni che sono passati. Ma credimi, non ho la più pallida idea di come dirtelo, di se sto facendo una cavolata o se è meglio non dirti nulla. Ma non ce la faccio, non dopo quello che abbiamo appena passato e mi sono resa conto di aver aspettato troppo a lungo. Tanto per cominciare mi dispiace per come devo averti fatto sentire in quella prigione, per quello che hai dovuto sentire, per come ti sarai sentito tu. Lo confesso all’inizio ho incanalato la rabbia nei tuoi confronti utilizzandola per assecondare l’S.I., ma credimi se adesso ti dico che mi dispiace da morire. Non gli avrei mai permesso di farti del male, davvero. E ho dovuto toccare il fondo per capire che non volevo perderti, al costo di odiarti tutta la vita.-

Aveva le guance arrossate dall’agitazione e gli occhi lucidi. La mia bambina. Questa volta fui io a prendere un bel respiro e allungai nuovamente la mano per accarezzarle una guancia. Fu come premere un interruttore e delle lacrime le rigarono il viso. Gliele asciugai.

-So perché l’hai fatto. E non sono arrabbiato con te. Al tuo posto avrei fatto la stessa cosa. Hai fatto un ottimo lavoro e sono orgoglioso di te. Sarai un ottimo profiler.-

-Ma come…?-

-Zia Jessica mi ha detto tutto quando iniziasti l’accademia.- avevo immaginato del perché Serena non m’avesse detto nulla sul profiling. Di certo il mio mutismo quando era entrata in polizia non l’aveva incentivata.

-Oh, papà…- da quanto tempo nessuno mi chiamava più così. Sospirai, ora era il mio turno.

-E comunque, me lo meritavo.- Serena mi guardò con sguardo interrogativo.

-Ma…- alzai una mano perentorio, interrompendola.

-Ho esagerato.- il momento in cui ci guardammo sembrò non finisse mai –Con la scusa di proteggerti ho varcato un limite che non avrei mai dovuto superare. Ogni volta che non venivo a trovarti o che non ti scrivevo, per colpa del lavoro o altro, avevo sempre la scusa pronta. Ma così facendo mi sono allontanato da te. Ti ho fatta soffrire. Ed era l’unica cosa che mi ero ripromesso di non fare. Avevi bisogno di me ed io non c’ero. Ti ho deluso.-

-Non mi hai deluso. Io ero…sono orgogliosa di te, sei sempre stato il mio eroe. Ma ti ho visto andartene così tante volte.-

-Mi dispiace tesoro.- adesso anche i miei occhi avevano preso a pizzicare.

-Sai, siamo proprio padre e figlia. Sarebbe ingiusto dire che è stata solo colpa tua, quando avrei potuto essere io di tanto in tanto a fare il primo passo. Invece, quando arrivava il momento, mi tiravo indietro, preferendo nascondermi dietro una scusa; che eri tu mio padre e che essendo stato tu ad andartene dovevi essere tu a fare il primo passo. Quindi, mi dispiace.-…-Papà?- la guardai negli occhi –Ti voglio bene.- Se il mio cuore avesse potuto esplodere di gioia, in quel momento lo avrebbe fatto. L’attirai a me di slancio, dimentico della ferita.

-Anche io ti voglio bene piccola.- sentii le sue braccia circondarmi il torace, il viso nascosto tra il collo e la spalla. Due lacrime sfuggirono ai miei occhi, mentre io non riuscivo a smettere di ringraziare per quel momento. Fino a pochi giorni fa temevo non avrei più rivisto mia figlia, ora la stringevo tra le mie braccia esattamente come una volta.

 
POV SERENA

Non riuscivo a crederci, ma era tutto vero. Se avessi potuto sarei rimasta in quella posizione per sempre. Sentivo le sue braccia sulla schiena, attirarmi ancora più a sé. Presi un lungo respiro, aspirando quel profumo che lo caratterizzava, quello che avevo sentito nel suo ufficio, quello che da piccola mi aveva fatto innamorare. Beh, si sa, il primo amore di una figlia è sempre il suo papà. Lo avrei abbracciato ancora più forte se non avessi temuto di fargli male. Oh, papà quanto mi sei mancato! Avevo così tanta paura che non lo avrei mai più rivisto, che adesso faticavo a capacitarmene. Pregai che non fosse un sogno, troppo bello per essere vero.

Mi ero sentita così stupida prima, in piedi sulla porta, con tutti i suoi colleghi che lo accerchiavano facendogli festa, mentre io ero completamente fuori posto. Se non fosse stato per JJ non era escluso che me la sarei data a gambe; sparendo come quel fantasma che negli anni ero diventata. Beh, perché in quel momento non potevo ancora immaginare cosa mi sarei persa. E adesso, eccomi qui, tornata quella bambina che per Halloween si era travestita da fatina e come regalo il suo papà era tornato a casa. Una volta ancora ebbi quattro anni e mi andava bene così: non volevo più essere grande, non volevo più tornare alla realtà…ma lo feci.

Ci guardammo per alcuni istanti in silenzio, impacciati; di norma non eravamo dei sentimentali, preferivamo tenerci tutto dentro. Poi, mi ricordai di una cosa. Mi misi la mano in tasca, estraendone le due coroncine intrecciate nel palmo della mia mano. Mio padre sorrise, afferrandole e rigirandosele tra le dita.

-Per tutti questi anni ho sempre pensato mi avessi lasciato in disparte. Invece mi hai sempre portato con te.- dissi. Lui sospirò prima di rispondere, serio.

-Non sono stato un ottimo padre. Non c’ero quando avevi bisogno di me. Ma non avrei mai potuto dimenticarti. Non avrei mai permesso che qualcuno potesse farti del male. Sei tutto quello che ho. Tu sei la mia famiglia.- mi impegnai per non rimettermi a piangere.

-E tu la mia.-

-Sai, credo ci sia stata data un’altra occasione e, non so tu, ma io non voglio sprecarla.- sulle sue labbra c’era un velo di quel sorriso che mi piaceva tanto e non ci provai nemmeno a trattenere il mio, a trentadue denti.

-No, nemmeno io.- eccola la nostra sintonia, quella connessione che avevamo sempre avuto e che la mamma per scherzo ci rinfacciava sempre –Ah, papà! Spero non ti arrabbierai, ma ho deciso di riprendere il mio cognome. Sono orgogliosa di essere tua figlia.- i suoi occhi erano lucidi di felicità, quasi brillavano. Quello sarebbe stato un memorabile giorno da ricordare.

-D’ora in avanti le cose andranno per il verso giusto.- gli presi una mano con le mie.

-Sì, lo credo anch’io.-

E una volta ancora gli Hotchner si esibirono nei loro rari sorrisi.

 
“Vivere, vivere a colori e
Vivere, vivere a colori e
Vivere, vivere a colori e
Vivere, vivere…”
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